Gaia van der Esch

ARTICOLO n. 56 / 2021

C’È ANCORA SPAZIO PER LE NOSTRE OPINIONI?

Quando non ci sono le opinioni, non c’è dibattito, e quando non c’è dibattito o c’è conformità o c’è indifferenza. Secondo me, in Italia, siamo in questa situazione: un misto di conformità e indifferenza. È proprio per questo che oggi voglio parlare di opinioni, della scrittura e dell’esprimersi più generalmente come un gesto di dialogo collettivo e quindi di impegno socio-politico.

Per arrivare a parlare di opinioni parto però da tre premesse, da esperienze personali che ho vissuto negli ultimi mesi, che mi hanno dato spunti di riflessione e mi portano oggi a scrivere un pezzo proprio su questo tema.

Pochi mesi fa ho pubblicato il mio primo libro, Volti d’Italia, un saggio di attualità basato su un viaggio che ho fatto nel 2019 attraverso la nostra penisola intervistando gli italiani più disparati alla ricerca della nostra italianità, dei problemi e soluzioni, di una direzione comune come Paese. Insomma, è un un libro che cerca di far parlare la collettività e di rispolverare la voglia di partecipazione per cambiare il nostro Paese. Un approccio che va in controtendenza all’individualismo che domina sempre più la nostra società. Un individualismo che condanniamo a parole ma in fondo ci sta comodo, visto che richiede meno coraggio e messa in discussione che un’implicazione vera nella società in cui viviamo. Ed infatti una prima premessa è questa: l’affermazione sempre più forte dell’individualismo come chiave predominante di scrittura, lettura e confronto nel nostro Paese.

Nella vita ho fatto tutt’altro finora, sono una manager, un’esperta di relazioni e politiche internazionali. Sono quindi nuova al mondo dell’editoria. Per capirci penso ancora che si stia parlando di qualcun altro quando le persone mi presentano come una scrittrice. Ho anche pubblicato negli ultimi anni alcuni articoli nelle testate dei gruppi GEDI e del Corriere della Sera, ma sono nuova anche al mondo del giornalismo: chiaramente non sono una giornalista, scrivo su temi a cui tengo e di cui sono esperta per creare un dibattito, una riflessione, un confronto e – nel mio piccolo – influenzare l’opinione pubblica e dei politici. E, oltre che al mondo dell’editoria e del giornalismo, mi posso dire anche nuova rispetto alla cultura lavorativa italiana in senso più largo. Ho fatto la maggior parte dell’università all’estero, mi sono formata nelle scuole di politica francesi e americane – Sciences Po e Harvard – e soprattutto ho lavorato fino a un anno fa, quando sono tornata in Italia per un ruolo all’interno della Presidenza italiana del G20, esclusivamente all’estero – tra Africa, Medio Oriente, gli Stati Uniti e vari Paesi europei.

Faccio questa seconda premessa perché aiuta a spiegare la mia confusione quando sono diventata parte del mondo del lavoro italiano, tra cui quello dei giornali e dell’editoria, e ho trovato un Paese fatto a scatole. «Sei giovane, quindi non sei una manager», «sei un’analista, quindi va bene la parte dei dati ma cancella la tua opinione», «sei un’intellettuale, quindi non dare opinioni politiche o partitiche sennò diventi di parte», «non sei una giornalista, quindi non puoi…» e così via. Insomma, da quando sono tornata percepisco un bisogno delle persone di «classificarmi» in qualche etichetta, con un ruolo e soprattutto dei limiti precisi: devi essere o carne o pesce e comportarti come si comportano gli altri della tua categoria. Sicuramente influenzata dalla mentalità americana e nordica dove ognuno può essere e diventare quello che desidera, tramite il lavoro duro, il merito e la competenza, ho imparato a essere quello che mi pare, senza dover scegliere tra carne e pesce. E sento che la mia forza sta proprio nel mio profilo ibrido, eclettico, non lineare – caratteristiche che invece disorientano molti in Italia perché non rientro nel rigido sistema settoriale. Ecco, da questo ne evinco un secondo concetto: la nostra cultura lavorativa è dominata da scatole, da settori rigidi e un po’ vecchio stampo, con poca ibridazione e dialogo tra di loro, il che impatta la nostra capacità di confronto e quindi di innovazione, di creatività, come italiani e come Paese.

La terza e ultima premessa ha invece a che fare con le opinioni e gli opinionisti. Mentre scoprivo confusa questo processo di inscatolamento mi sono accorta che – in qualsiasi scatola venissi messa – esprimere il mio impegno e la mia opinione su temi di cui sono esperta (nel senso di conoscenza o esperienza) o a cui tengo era una cosa da evitare due volte su tre: i giornalisti riportano e analizzano le notizie, gli analisti danno i dati ma non le policies, gli intellettuali danno idee alte e teoriche – rigorosamente pure per non cadere nei giochetti politici, i manager tendono a non esprimersi per non compromettere le loro aziende o posizioni, e i politici – loro sì – danno la propria opinione, ma grazie alla sfiducia accumulata negli anni si assume in genere che venga da chissà quale interesse egoistico e quindi non gli si dà una legittimità intrinseca. A parte qualche eccezione – di cui vi parlo tra pochissimo – ho l’impressione che in pochi danno (che si declina in: siano autorizzati a dare, gli sia dato lo spazio di dare, abbiano il coraggio di dare) la propria opinione o parlano del proprio impegno. Da questa terza premessa traggo un terzo concetto, il lusso o la rarità delle opinioni, o almeno di opinioni nel senso in cui le intendo io.

Insomma faccio queste premesse per arrivare quindi all’opinione in sé. Se si guarda ai pochi che hanno la legittimità, lo spazio e quindi una voce da dare alle proprie opinioni, ci sono vari aspetti che con la mia prospettiva forse un po’ da «esterna trovo problematici.

Il primo riguarda la mancanza di diversità. Questi pochi, chiamiamoli «i guru» dell’opinionismo che girano tra TV, radio e giornali, si contano sulle dita di due mani e sono – guarda caso – quasi tutti uomini, ultracinquantenni, etero e bianchi. Ne ammiro alcuni e altri meno, ma questo non toglie che sono un gruppo ristretto e omogeneo che detiene il potere dell’opinionismo: non sono rappresentativi della nostra società e tutt’oggi lo spazio in TV, sui giornali, o alla radio, non viene dato sufficientemente a donne, giovani, persone LGBTQ+, italiani di seconda generazione, migranti e cosi via. Precisiamo, non parlo di show di intrattenimento, ma di dibattiti sociali e politici di livello. Le donne (in parte io inclusa) sembrano relegate ai magazine femminili dove, nonostante il grande lavoro che stanno facendo varie direttrici di questi settimanali, rimane comunque un dibattito prezioso ma tra donne, e i giovani si sono costruiti un mondo dell’informazione parallelo sui social. E così il confronto tra generazioni, generi, gruppi di maggioranza e minoranza viene a mancare. E su questo ho un’opinione molto netta: senza questa diversità si ascolta metà della storia, si perdono prospettive e visioni fondamentali per discutere o risolvere qualsiasi tema che si affronta.

Il secondo aspetto problematico ha a che fare proprio con il concetto di opinione. Quando questi guru condividono le loro opinioni nei vari talkshow o sui giornali o quando gli influencer lo fanno sui social, ho l’impressione di trovarmi davanti ad un confronto il cui scopo non è dibattere, entrare in una dialettica per far avanzare la riflessione collettiva e sviluppare il senso critico, ma piuttosto dare spazio a un susseguirsi di affermazioni, ognuna rigorosamente distaccata dall’altra, che hanno l’obiettivo di dimostrare che si ha ragione e l’altro ha torto o semplicemente di mettersi in mostra.

E, non ultimo, vedo un terzo problema, una sorta di accanimento terapeutico: a poche personalità, quelle che spiccano, gli si chiede opinioni su tutto, dal governo che cade alla guerra in Afghanistan, dal rapimento di un bimbo all’ennesimo femminicidio, dal cambiamento climatico all’ultima partita di calcio. Ai miei occhi c’è un preoccupante distacco tra il mondo dell’opinione e quello della competenza.

Insomma, torniamo quindi al punto di inizio. Con delle opinioni nella maggior parte dei casi non rappresentative della nostra società, elargite non per dialogare ma per asserire l’individualità, e troppo spesso distaccate dalla competenza o dall’esperienza di chi le dà, ci ritroviamo in un Paese che ha un vuoto di opinionismo nel senso vero. Un Paese che ha troppa poca capacità di confronto e dialogo tra generazioni, tra generi, tra settori. Dove un gruppo ristretto e omologato detiene e mantiene il potere di influenzare l’opinione pubblica – spesso tramite scontri più che confronti, restituendo un modello e un ragionamento a cui manca la forza della dialettica intrinseco alla diversità. E il risultato è che una persona come me, come cittadina, come «giovane» (a 34 anni lo sono solo per gli standard italiani), come donna, come esperta di certe tematiche, come scrittrice, trova spazi per spiccare (e già questa è un’eccezione visto la situazione dei giovani in Italia) ma non trova facilmente occasioni per confrontarsi con altri e contribuire al dibattito intellettuale e politico.

Questo spazio rimane ostaggio di vecchi schemi e paradigmi. Tornando in Italia ho trovato infatti una cultura lavorativa, una cultura del pensiero e un sistema Paese disfunzionale, rotto. Ci sono tante eccezioni, tante persone che cercano di cambiare lo status quo, ma di fatto siamo ancora in un grande cortocircuito dove non si riesce a costruire ed evolvere insieme, dove non viene dato lo spazio che si meritano la competenza, i giovani, le donne, insomma gli esperti non-omologati per generare un confronto diverso, vero. Senza questo spazio di ibridazione, di riflessione collettiva e non individuale, di confronto tra gruppi diversi e non omologati, uno spazio che parte e passa dai libri, dai giornali, dai social, dalla TV, dai podcast e dalla radio, dalle scuole, dalle case e dai bar, rimarremo in questo grande corto circuito di immobilità ed indifferenza, di conformità e frustrazioni.

Lasciare il potere (è un potere grande quello di poter influenzare l’opinione pubblica e politica) per chi lo detiene, e pretendere di averlo per chi invece non lo ha mai avuto e non sa di meritarlo, è la dinamica più difficile da cambiare. Ma bisogna cambiare paradigma partendo proprio da questo punto: rispolverare il senso vero delle opinioni, dando spazio e legittimità a chi ha le competenze, la voglia di contribuire e dialogare, per immaginare insieme il futuro e costruire un Paese diverso.