ARTICOLO n. 61 / 2022

L’ESTATE È UNA DROGA BUONISSIMA CHE FA DAVVERO MALE

Dove sarò questa estate?

A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che succedesse qualcosa, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline…
Cesare Pavese, La bella estate

Ricordo con precisione un periodo della mia vita compreso tra il 2005 e il 2015 in cui noi milanesi di adozione continuavamo a ripeterci, assuefatti dall’ottica della FOMO (Fear Of Missing Out, la maledizione di noi Millennial che ti porta ad aver paura di non essere sempre al centro della scena, facendoti perdere il luogo, la festa, il tema o la situazione del giorno, ndr), che l’estate fosse soltanto una stupida parentesi per i poco fantasiosi e per le cosiddette masse.

La maggior parte delle persone della mia età e dei miei conoscenti affermava con ferocia che rimanere in città fosse decisamente meglio: pensavano che le persone sopravvalutassero la stagione estiva e ripetevano come un mantra la leggenda per la quale la metropoli nella calura di agosto diventasse quasi romantica. Bugia. Milano, in estate, nella prima decade dei 2000 faceva paura e la città deserta era letteralmente in mano alla piccola criminalità. Ma a noi sparuti spatriati non sembravano interessare i furti, gli scippi, l’aumento incontrollabile degli stupri, e ci ripetevamo allo specchio come un mantra, mentre i nostri contratti in nero non ci concedevano ferie, che Milano fosse meravigliosa in agosto: dopotutto, morire di caldo in una stanza doppia a Famagosta fa meno male quando sposi le bugie a cui sei costretto a credere per sopravvivere senza impazzire.

L’estate dunque non andava particolarmente di moda e moltissime persone si convincevano di quanto questo disgusto fosse anche il loro: nessuno prendeva il sole, c’era tra alcuni quasi una tacita gara – dal sapore preoccupantemente razzista e classista – a chi rimaneva con la pelle più chiara degli altri: evidente dimostrazione di non aver mai abbandonato la città o indossato il costume per tutta la stagione estiva, quasi fosse una medaglia al valore.

Vestivamo tutti di nero, ci ostinavamo a passeggiare sulla Darsena nelle ore di punta ricoperti di crema solare e lasciavamo il mare per lavori mal retribuiti e senza garanzie, con la promessa di una birra all’idroscalo o una serata estiva di clubbing all’aperto.

Dopo la Fashion Week del mese di giugno, la città iniziava lentamente e inesorabilmente a svuotarsi dei più ricchi e dei più anziani. Me ne rendevo conto subito perché al bar dove ho lavorato per otto anni prima come cameriera e poi come bartender si presentavano sempre le stesse facce. Le facce degli irriducibili, di chi l’estate, addosso, non l’avrebbe avuta. Di chi non poteva cambiare la routine e quindi si convinceva, con incredibile sforzo di auto ipnosi, di non volerla cambiare.

Era una grande bugia quella sulla bruttezza dell’estate e la vedo nitidamente solo adesso, quasi 20 anni dopo quel mio primo periodo di sudore meneghino.

Per capire meglio la triste verità che ho intuito dietro a quel rifiuto verso le vacanze estive e comprendere la derapata che il senso di estate ha preso per la mia generazione devo fare un passo indietro.

C’è stato infatti un momento preciso in cui l’estate ha smesso di rilassarci, a noi Millennial.

Già, perché, quando ero bambina, trent’anni fa, l’estate era il momento di stacco per eccellenza, di sospensione della routine, di respiro dall’inverno.

Ho sempre avuto l’impressione che l’estate fosse magica, che sapesse di vita più di ogni altra stagione.

Sarà perché vivo gran parte dell’anno in un posto di mare, che per sua natura si apre stagionalmente ai turisti ma che in inverno cessa di esistere. Sarà perché non soffro affatto il calore ma patisco con incredibile dolore il freddo dei mesi invernali. O sarà forse perché credo che tutti i corpi, seminudi e sudati, siano più onesti e incredibilmente teneri che in ogni altra dimensione pensata per noi esseri umani.

Fatto sta che il mio pensiero sull’estate è stato quasi sempre ricolmo di infinito amore.

Ho scritto per anni di memorie familiari e personali che mi legano all’alta stagione. Piccoli racconti, un memoir, alcuni articoli che rendono romantica la calura e i luoghi in cui solitamente la vivo. Ma crescendo ho iniziato a capire, anche grazie a quegli anni di agosto in città, che a me l’estate piace perché sotto sotto è più umana degli esseri umani.

E negli ultimi due anni di Coronacene il mio sentimento di affetto e di incredibile curiosità per la stagione estiva è aumentato esponenzialmente.

Pavese, con cui ho aperto questa mia riflessione, aveva descritto molto bene, nella sua trilogia La bella estate del 1949, il sentimento prevalente nei giorni estivi: la stagione della calura è un climax di aspettative che si risolve in una prevedibile quanto opposta disillusione.

Se per secoli l’estate era stata prerogativa dei ricchi (si chiamavano infatti vacanze, non ferie: non è un dettaglio da poco), con il boom economico le ferie – che per Costituzione spettano a ogni lavoratore –, divennero un rituale nazionale ben più diffuso.

Le carovane di auto stracariche e i treni speciali con tratte rafforzate, le città deserte, gli abbonamenti speciali ai giornali da far recapitare all’indirizzo di villeggiatura, la riunione di nuclei familiari, il ritorno nei luoghi d’origine erano un momento di incredibile socialità e respiro per sempre più persone.

I primi stabilimenti balneari divennero agglomerati di famiglie che interrompevano la routine. Tra il 1968 e il 1970 gli alberghi delle località di villeggiatura contavano un milione e mezzo di posti letto in più rispetto alla decade precedente. Insomma, le ferie erano diventate una questione nazionale piuttosto comune che escludeva chi non aveva lavoro, chi era nella soglia di povertà che come sempre veniva – e viene ancora – ignorato dallo Stato, e i lavoratori in nero.

L’aspettativa che da sempre abbiamo accostato alla vacanza (Ci innamoreremo? Ci succederanno avventure meravigliose? Avremo qualcosa da raccontare agli amici al nostro ritorno? Avremo il famoso “corpo da spiaggia” che le riviste ci hanno fatto credere di dover avere per scendere a mare?) aumenta negli Anni ‘80 e poi nei ruggenti e vuoti ‘90. Dalle leggende sulle turiste tedesche, ai corpi sempre più performanti; dal luccichio del lusso cafone della Costa Smeralda e dei suoi nuovi inquilini alla sempre più disperata necessità di ostentare ricchezza anche senza averla, la vacanza diventa assoluta performance.

E questa performance è diventata ancor più incontrollabile con l’avvento dei telefonini con videocamera, che hanno preso il posto delle diapositive – per chi è molto giovane: vi siete evitati una bella tortura post vacanziera, e un po’ vi invidio – e poi dei social, che ci fanno vedere stili di vita irraggiungibili e assurdamente iper-celebrati alternandoli a video di gattini, insalate di riso e ombrelloni in quinta fila (le file degli stabilimenti balneari sono una deliziosa, crudele e ironica rappresentazione della gerarchia sociale, un giorno ne riparleremo, promesso).

Negli anni milanesi di cui sopra, quelli dei miei venti – ben poco ruggenti –, inizia però a cambiare qualcosa nel modo in cui noi Millennial vivevamo l’estate.

Infatti, se da bambini ci crogiolavamo sul sedile posteriore della macchina dei nostri genitori ascoltando musicassette comprate con i giornali in edicola, da quasi adulti impreparati alla vita ci troviamo in mano un mondo del lavoro che non solo non ci vuole, ma che se per caso ci fa il favore di assumerci lo fa in nero, o con contratti Co.Co.Co o con i voucher INPS. Se sei stagista – modo carino per indicare una forma di schiavitù – spesso non ti pagano neanche.

Quindi le vacanze diventano il nemico.

I nostri genitori scappavano al fresco, i nonni ancora vivi si godevano la campagna, i nostri fratelli piccoli erano con i parenti e noi cercavamo di capire come mai ci fosse toccata sta piaga fatta di contratti di merda e vomito biliare.

La fase dell’aspettativa e dell’emozione, ben descritta tramite il personaggio di Ginia in La bella estate di Pavese, non esisteva più. Eravamo già catapultati nella fase della disillusione.

Poche cose positive posso dire sulla mia generazione, ma una tra queste la reputo sublime: siamo stati talmente poco in grado di ribellarci anche quando avevamo ragione (spoiler: sempre), che siamo diventati campioni mondiali di rassegnazione. Quindi, piuttosto che imporci e denunciare chi ci faceva lavorare per quattro euro l’ora, abbiamo reso romantica l’estate in città.

La situazione di stallo di quella infelice decade si sblocca un po’ con l’avvento del digitale e dei posti di lavoro che incredibilmente abbiamo creato dal nulla. Apriamo una sequela infinita di partite iva perché comunque assumere non ci assumono, monopolizziamo uno spazio importante dell’industria creativa e digitale e riusciamo a sopravvivere nonostante gentrificazione, affitti fuori controllo, costo della vita da Emirati Arabi.

Ci riappropriamo giusto per un paio d’anni dell’estate, giusto il tempo di riassaporare quel sentore di idillio e aspettativa illusoria di poter fare cose incredibili sotto al solleone, che arriva il Coronavirus a ricordarci che forse non era proprio il nostro momento storico, cari colleghi Millennial.

Le vacanze durante il Coronacene sono diventate un fenomeno di semi-isteria collettiva totalmente giustificata. Dopo anni – due – di restrizioni, morti, licenziamenti, cambio del tenore di vita, soglie di povertà mai raggiunte, aumento della violenza, paura, incertezza, crisi climatica ormai irreversibile, nel momento in cui arriva l’estate non siamo più “vacanzieri”. Cambia perfino il lessico con cui ci approcciamo all’estate, con l’arrivo del virus: non andiamo “in vacanza”, bensì “ci aprono”.

E noi tutti, come animali in cattività, abbiamo respirato questa illusione di libertà con incredibile tumulto: dobbiamo approfittarne “prima che ci richiudano”. Dobbiamo fare quello che non abbiamo potuto fare mentre contribuivamo al mantenimento della salute collettiva. 

Ed eccoci qui, che progettiamo la fuga, imballiamo le mete turistiche, spendiamo il triplo rispetto agli anni precedenti e diamo tutto, tutto quanto ci rimane in termini di energia, come se ci scappasse la vita dalle mani, come se avessimo paura di non avere più tempo – lo abbiamo?

Abbiamo, negli ultimi decenni, smontato e rimontato il concetto d’estate come magia e illusione.

Ci siamo ritrovati a perdere l’adolescenza che questo periodo simboleggiava per tutti, trasformandola prima in rassegnazione e poi in bulimica urgenza di sistemare le cose perdute e pruriginosa ansia di non aver più tempo per farle in futuro.

L’estate, anno dopo anno, diventa sempre più umana, prende vita e annusa la società e le sue paure. L’estate ci rende quanto più simili alla nostra natura e alla nostra generazione di appartenenza di quanto si creda. L’estate ci lascia nudi e sudati, impauriti, come i corpi sul mare.

L’estate diventa più umana di noi e ci fa venire paura. Paura di non vederla più. Paura di non provare più quell’illusione adolescenziale. Paura di non avere più tempo, più soldi, più giorni liberi. L’estate, vista così, potrebbe essere un momento perfetto di rivoluzione, che ci ricorda da dove veniamo, come abbiamo dormicchiato per tutto l’inverno, e dove potremmo andare: di nuovo, la promessa di avventure incredibili incatenate in un inverno di disillusioni. L’estate è una droga buonissima che fa davvero male. Ecco perché, in definitiva, io la amo così tanto.

ARTICOLO n. 74 / 2024