Andrea Gentile

ARTICOLO n. 47 / 2023

ESISTE ANCORA L’ITALIANO LETTERARIO?

Questo intervento è stato letto dall’autore alla Camera dei Deputati, in occasione del Forum della lingua italiana, tenutosi il 23 maggio 2023.

“Seguono il navigatore e finiscono con la macchina nell’Oceano Pacifico”. 

Qualche anno fa, tre persone in vacanza hanno seguito con una tale fiducia le indicazioni del navigatore che, pur a un passo dal cadere nell’oceano, sono andate avanti, perché il navigatore ne era certo: la strada giusta era quella. Poco importa che quella non fosse una strada, ma il modo migliore per finire, appunto, nell’oceano.

Leggendo questa notizia su un importante quotidiano nazionale – nella fittissima mole di informazioni e dati prodotti in ogni istante e destinati all’oblio in ogni istante – potremmo chiederci come è successo? E quando è successo? Come è successo, quando è successo, che la nostra specie, la specie cui apparteniamo, ha iniziato a lasciarsi condizionare così tanto dalla realtà esterna? Quando ha iniziato a essere invasa da una così intensa assenza mentale?

Il nostro cervello è esploso a dismisura per milioni di anni. Quasi da sempre, ci è stato possibile, davanti a un cielo stellato, sentire la presenza di milioni di galassie. Sentire l’immensità. Sentire l’infinito. 

Uso la parola sentire e non capire, perché comprendere di essere felici, per esempio, è ben diverso che sentire di essere felici, così come comprendere di provare dolore è molto diverso dal sentire il dolore. Quando qualcosa si sente, la si vive. Se la si capisce, non sempre c’è la conversione: non sempre la stiamo vivendo sulla nostra pelle. 

Si potrebbe dire che i tre turisti, prima ancora che capire il pericolo di finire nell’oceano, non l’abbiano sentito. Non erano affatto nel presente. Con la mente, erano da un’altra parte, come capita in vario modo, a noi tutti, ogni giorno. Per questo appaltavano le decisioni al navigatore. 

La loro caduta nell’oceano, scenografica ma non così drammatica, può suggerire un sorriso, ed è giusto così: sorridere è un atto molto umano, se possiamo. Non deve però farci dimenticare che quei turisti siamo noi. E che noi tutti, ogni giorno, mettiamo sempre più da parte questo sentire, questo vivere nel presente, questo vivere nell’istante.

Si trattava di tre giapponesi in Australia ma, per quanto nel mondo sembra che ci siano ancora persone che non ne siano convinte, ogni essere umano è uguale a un altro: ha sangue rosso e lacrime salate, prova molto amore, prova molto dolore. Ognuno è responsabile della sua vita, certo, ma ognuno di noi è nell’universo, e quindi ogni essere umano (così come ogni essere vivente) siamo noi. Noi non siamo nella natura ma siamo la natura. Non ci siamo noi da una parte e il mondo dall’altra: noi siamo il mondo. 

Naturalmente il punto interrogativo che chiude il titolo di questo intervento – esiste ancora l’italiano letterario? – si configura come un piccolo muro di Berlino, che tiene fuori un’altra parte della domanda: esiste ancora l’italiano letterario, nell’era della distrazione, della disattenzione, o nell’epoca algoritmica che ha messo al centro, come forse mai prima d’ora, le istanze dell’ego? Ego che come una scheggia impazzita invade il mondo, esplode nei mille rivoli del personal branding, fino al confine, spesso superato, dell’autocelebrazione?

E poi: esiste ancora l’italiano letterario, in un contesto in cui il dibattito (letterario e non) si contrae, si spettacolarizza, si infantilizza e in cui è sempre più esasperata la sovrapposizione – tutta del nostro Ventunesimo secolo – tra prestigio e numeri, talento e consenso, in cui in sostanza è molto più facile confondere il successo con l’opera artistica?

E infine: esiste ancora l’italiano letterario in un tempo in cui il nostro sentire è a rischio?

Non si può che chiedere scusa alle grandi domande per le piccole risposte. 

La risposta è sì. 

È innegabile che sono tempi ostici per la lingua letteraria, ma finché esisterà la nostra specie, ne sono convinto, esisterà questa scintilla, questo incantesimo.

Prima di addentrarci, però, è necessario specificare che cosa si intende, qui, per “letterario”. Naturalmente la prospettiva non è qui quella di un linguista, o di un sociologo della lingua, ma di uno scrittore o al massimo di un lettore.

Se prendiamo una ciotola d’argilla piena d’acqua e la svuotiamo, la ciotola ora è vuota. Così sembra. Eppure la ciotola è piena d’aria. Eppure il vasaio, per impastare l’argilla, ha avuto bisogno di acqua. Eppure il vasaio, per cuocere l’argilla, ha dovuto usare il fuoco. E senza l’aria, il fuoco non avrebbe divampato e il vasaio non avrebbe respirato. E poi: il fuoco non sarebbe stato possibile senza legna. E poi: senza la pioggia, senza il sole, senza la terra, non sarebbero cresciuti gli alberi. Quella ciotola, allora, ai nostri occhi può essere vuota, ma è evidentemente piena: di acqua, di aria, di fuoco, di terra, per esempio. 

Lavorare con l’italiano letterario – usare la lingua dentro uno spazio letterario – significa proprio questo: guardare ciò che non si vede. Indossare lenti speciali che permettono di andare oltre l’apparenza, oltre la forma. Reinventare il mondo, ma non a tavolino. Abbattere le pareti del linguaggio. Andare incontro all’ignoto.

L’ignoto non è un fatto vago. È qualcosa di concreto. È lo spazio non previsto, non immaginato. È lo spazio dove non siamo mai stati, il tempo che non pensavamo di poter vivere. Tuffarsi, con le parole, in questo ignoto, significa creare un fatto nuovo: qualcosa di impensato.

In questo senso, lavorare con l’italiano letterario è un atto politico.

La letteratura è fatta di materia, di presente, di virgole, di spazi, di punti e a capo. Ma è viva solo se sa fare questo tuffo nell’ignoto. Così la politica. È fatta di emergenze – come quella molto drammatica di questi giorni -, è fatta di piccole decisioni della vita quotidiana, ed è fatta di presente: ma non è viva se non sa guardare ciò che non si vede. Andare incontro all’ignoto, creare un fatto nuovo, passare dall’arte del possibile all’arte dell’impossibile. Permettere, quindi, ai significati, di proliferare.

Posso scrivere: Maria spegne la luce. Oppure posso scrivere: la luce spegne Maria. 

Se deve esserci una frase giusta e una sbagliata, per la letteratura quella giusta è la seconda. La prima è una frase didascalica, narrativa. È tutto chiaro. La seconda genera infiniti significati. Come può una luce spegnere Maria? E che significa spegnere? È tale l’intensità del fascio di luce da accecarla? O solo da addormentarla? O da immalinconirla? E che tipo di luce è? Da dove arriva? E chi è questa Maria? Una bambina? Di che tempo? O è Maria di Nazareth? Che cosa è successo?

Nel 1980, il poeta Andrea Zanzotto incontra gli studenti di una scuola di Parma. Uno studente gli chiede: «Come mai la poesia contemporanea è spesso difficile da capire?» Il poeta risponde: «C’è una comprensibilità che si realizza in modo immediato, ma è quella che può avere un articolo di giornale, anzi che è indispensabile in un articolo di giornale. Nella poesia non è così […]. Pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce, il messaggio luminoso, proprio grazie alla resistenza del mezzo. Se devo trasmettere corrente a lunga distanza, mi servo di fili molto grossi e la corrente passa e arriva senza perdite a destinazione. Se metto, invece, fili di diametro piccolissimo, la corrente passa a fatica, si sforza e genera un fatto nuovo, la luce o il colore. Così accade nella comunicazione poetica, nella quale il mezzo è costituito dalla lingua. L’eccessivo addensarsi dei significati, dei motivi, il sovraccarico di informazioni, può però provocare un ‘cortocircuito’, una oscurità da eccesso, non da difetto».

Questa definizione è sicuramente da estendere alla letteratura tutta, e non solo alla poesia. 

L’atto letterario – come l’atto politico – equivale al cammino di un pellegrino. Se ogni viaggio separa la partenza da un arrivo, rischiamo di considerare gli spazi intermedi come un tempo inutile, da dimenticare, o da vivere il più velocemente possibile.L’atto letterario – come, credo, quello politico – invece deve abbattere l’idea di percorso. Tutto ciò che c’è in mezzo tra la partenza e l’arrivo non è più intermedio: è una transizione, una catena di momenti da vivere il più intensamente possibile. Non bisogna accelerare per superarli e per arrivare alla meta – ci sono percorsi lunghi, e non esistono scorciatoie. Bisogna viverli. Appunto: sentirli. In questo modo, tutto diventa reale. Lo spazio in cui viviamo è reale. Il tempo che viviamo è reale. 

L’evento di oggi – leggo – nasce allo scopo di “valorizzare la lingua italiana in una prospettiva legata allo sviluppo culturale del paese”.

Non ho gli strumenti o, come si dice, le ricette, per immaginare come sia possibile valorizzarla. Spero tuttavia che sia possibile, un giorno, quantomeno suggerire che la nostra lingua – la nostra “materna locutio”, quella che, scrisse Dante, “riceviamo senza alcuna regola imitando chi ci nutre” – possa essere valorizzata nella sua complessità, e non bistrattata, trattata solo come uno strumento. Che possa servire a perforare le nostre certezze, i nostri tic, i nostri dualismi. Che possa essere utile a chi scrive, a chi legge, a chi fa politica, a chi vive nelle nostre città e nei nostri paesi, a ricordarci che qualunque sia la nostra attività bisogna essere come specchi. Lo specchio non può fare niente per riflettere un’immagine: può soltanto mantenersi pulito. Che possa, infine, essere il veicolo che ci spinga, come i tre turisti giapponesi, a tuffarci nell’oceano – nell’“oscurità da eccesso”, nell’ignoto, nella vita, nel futuro – ma questa volta senza GPS. E così, nuotare verso nuovi significati che non conosciamo.

ARTICOLO n. 77 / 2022

STUDIO AZZURRO: SENZA REGOLE STABILITE

INTERVISTA A LEONARDO SANGIORGI

Nel 1982 irrompe nel mondo dell’arte “una bottega d’arte contemporanea” senza “regole stabilite”: Studio Azzurro. Oggi, quarant’anni dopo, incontriamo uno dei fondatori, Leonardo Sangiorgi, che, insieme a Fabio Cirifino e Paolo Rosa concepì questa grande opera in divenire che diverte, perturba, sconvolge gli esseri umani che la incontrano sulla propria via. 

Andrea Gentile: Leonardo, la ricerca di Studio Azzurro è sempre stata indirizzata verso il continuo cambiamento. Negli anni, Studio Azzurro è stato promotore di opere universali e molto partecipate dal pubblico. Se dovesse trovare delle differenze tra le attività del primo Studio Azzurro e quelle del più recente, quali sarebbero? 

Leonardo Sangiorgi: Nei primi quindici anni di attività penso che l’occasione di creare opere complete, a sé stanti, sia stata più facile, abbia avuto maggiori possibilità. Gli ultimi quindici anni invece hanno avuto un interesse soprattutto nell’ambito museale, e, grazie alla loro natura fortemente didattica e divulgativa, ci hanno permesso di sperimentare le opere d’arte a contatto con il pubblico. Ripenso alla nostra retrospettiva fatta a Palazzo Reale, che aveva come sottotitolo Immagini Sensibili (2016), e si proponeva l’obiettivo di creare un luogo di narrazione e partecipazione. Volevamo evitare che fosse soltanto un consuntivo del nostro lavoro, non doveva essere una sorta di «mausoleo». Doveva permetterci di mostrare il segno che il nostro lavoro ha impresso nell’indagare l’universo dell’immagine elettronica nel quale ci siamo avventurati. 

A.G. E di certo non lo è stato, un mausoleo. Era una mostra perturbante. Potevi contemplarla per ore: sembrava infinita. Ma come nasce un’opera di Studio Azzurro? 

L.S. Se ripenso a quei giorni, durante l’esposizione, ci siamo domandati quali sarebbero state le nuove direzioni, a partire da quella mostra, da intraprendere. Sono nate proprio delle proposte di indagine, tradotte poi in nuovi progetti. Penso che nel progetto di un’opera ci sia una dimensione metafisica del parlato che può permettere una visione oltre la dimensione fisica. Ogni progetto realizzato cristallizza la dimensione ideale del progetto che è molto più liquida dell’opera stessa. 

A.G. Immagino che a volte lo scarto tra il progetto e la messa in atto possa anche essere abissale nelle sue sfumature: quando un’opera non è ancora presente ma esiste in una dimensione progettuale multiforme e incerta.

L.S. Capita, è vero. Devo dire che, con nostra grande sorpresa, ogni volta che rivediamo i disegni dei progetti, non c’è un lavoro di Studio Azzurro che non sia nato attraverso un testo, un disegno o uno schizzo. Non ci sono stati molti progetti che sono poi cambiati rispetto al disegno progettuale.

A.G. La mia percezione è che il motore propulsivo del vostro lavoro, ciò da cui tutto nasce, ci sia il poetico. Il poetico come spazio aperto, che accoglie gli universali: il corpo, l’animale, il politico, anche.

L.S. Sì, certo, non può non essere così. Il poetico è anche politico, verissimo. Lavorare con i musei è inevitabile, ed è un politico non partitico, ma si immerge in una dimensione che permette di osservarci e di osservare. Il tema dell’elemento poetico nella nostra capacità espressiva è stato uno dei primi che abbiamo evoluto: Studio Azzurro nasce principalmente da un legame di amicizia, c’era un’energia strana, eravamo affascinati dalle immagini, dalle immagini in movimento. Quando facevo l’accademia, andavamo spesso alla cineteca in San Marco vicino a Brera. A quel tempo l’unica fonte di immagini in continuo movimento a cui noi attingevamo. Mi ricordo un giorno con Paolo Rosa e Fabio Cirifino, stavamo spiegando a qualcuno cosa intendevamo come «elemento poetico». E tirando fuori una penna dal taschino: «Ecco vedi: questa è una penna. Ma è anche un dirigibile, uno Zeppelin». Quello è stato il gioco con cui abbiamo letto e interpretato l’idea di trovare, di attivare, aprire l’interruttore dell’elemento poetico. La sfida è stata poi fortissima a partire dal mondo analogico in cui vivevamo: avevamo un forte bisogno di immagini elettroniche. 

A.G. Come siete riusciti ad intersecare questo vostro bisogno con quegli anni: era un tempo analogico e voi cercavate l’elettronico, se non il digitale.

L.S. Gli anni Novanta. C’è stato il salto, il big bang dell’universo digitale e noi abbiamo cominciato a lavorare con strumenti e con macchine che erano state originate per tutt’altri scopi. La sfida è stata grande, avevamo una domanda in mente: dove era l’elemento poetico in macchine create per fare operazioni ripetitive e somme di operazioni banali? Il nostro lavoro è nato di pancia, non di testa, mettendo insieme delle cose e vedendo che effetto facevano.

A.G. Una parola che mi è spesso tornata in mente osservando i vostri lavori è contemplazione. Contemplazione del tempo e dello spazio: al centro c’è sempre il presente, che è come un’anguilla. Appena lo afferri scivola via.

L.S. Una prospettiva interessante. La contemplazione è il contrario dell’indifferenza. Tante volte ci siamo sentiti chiedere «ma come reagiva il pubblico?». E la risposta è che è sempre stato polarizzato: o grande attrazione o grande repulsione; abbiamo incontrato pochissime volte l’indifferenza. I progetti teatrali con Giorgio Barberio Corsetti, nel quale l’elemento dell’immagine elettronica era preponderante, non sono stati certamente apprezzati dalla critica, che era del tutto impreparata. Invece, per esempio, l’intuizione di usare i monitor per poter vedere una figura intera, la scala uno a uno, quella non è stata progettata, avevamo solo voglia di vederla! Senza barriere dentro il nostro quotidiano. 

A.G. Da fruitore mi chiedo quanti abissi ci sono nell’immagine che spezzetta Il Nuotatore (1984), che viene frammentata dal tubo catodico, dai tanti tubi catodici, perché ci sono significati altri che si insediano in quegli spazi vuoti. Che cosa c’è tra uno schermo e l’altro?

L.S. Ti restituisco una visione tecnica: il Nuotatore è composto da monitor Grunding, perché era l’unica ditta che aveva messo il sintonizzatore nella parte sottostante per cui potevamo impilare lateralmente i televisori. Con gli altri monitor non si sarebbe potuto fare in quanto erano tutti un po’ asimmetrici e il sintonizzatore era laterale, mentre i Grunding potevano essere accostati con la minor distanza possibile. Anche nello spettacolo con Giorgio Barberio Corsetti, Prologo a Dario segreto contraffatto (1985), gli attori sembrano uscire dal terreno e arrampicarsi sulle colonne di televisori e sembrano risalire da un monitor all’altro; in realtà, salivano su una struttura di tubi Dalmine che era esattamente allineata fra gli spessori dei bordi dei televisori e in scena si aveva l’impressione che si appoggiassero, piano per piano, sui monitor. 

A.G. Questa è una modalità che c’è spesso nei vostri lavori, la sensazione di vivere nello spazio artistico: ti senti pubblico e ovviamente non sei soltanto pubblico, interagisci. C’è uno spazio che viene colmato dalla tua immaginazione.

L.S. Sì, molto spesso. Il rapporto con lo spazio per noi è un elemento importante che, ad esempio, ci ha portati ai video ambienti. Fino a quel momento quando guardavi qualcosa a casa alla televisione o al cinema eri seduto davanti e avevi un unico punto di vista. Tutto era immobile, eri uno spettatore amputato perché la tua interfaccia totale del mondo erano gli occhi e le orecchie. Tutti gli altri sensi venivano letteralmente spenti e chiusi.  Quando abbiamo lavorato a Luci di inganni (1982) abbiamo messo l’osservatore, l’utente, in una posizione attiva perché doveva accendere dei monitor per vedere i mobili, che erano nello spazio, come immagini: è nato automaticamente questo dialogo tra spazio e immagini elettroniche. Quello ha spostato immediatamente tutto il racconto, perché il fatto di potersi spostare in uno spazio usando le gambe, il tuo peso e la tua dimensione corporea ha completamente slittato il rapporto dell’utente con le immagini e il rapporto dell’autore con il fruitore stesso. Tu osservatore che ti muovi in uno spazio compi la tua regia: tagli, monti, ti sposti, cambi inquadratura e così via, fai una tua regia e quindi la dimensione autoriale cambia molto. In questo senso la dimensione poetica si è agganciata e ha fatto come una sorta di dinamo tra l’opera e il fruitore-osservatore. 

A.G. Genera una proliferazione di significati: sono infiniti, potenzialmente. 

L.S. Infiniti, sì. L’illimitatezza data dall’opera stava proprio nell’esperienza personale: vivere un’esperienza. Quando, qualche giorno dopo aver inaugurato Coro (1995)abbiamo incontrato delle persone che avevano visto l’opera e ci siamo sentiti dire «ho avuto l’impressione di camminare su dei corpi», quello per noi è stato il raggiungimento. Vivere finalmente l’esperienza. 

A.G. Coro (1995) per quel che mi riguarda ci dice anche un’altra cosa: l’arte prolifera di significati, come la mente. È potenzialmente infinita. Le persone che vediamo forse dormono. Ma forse soffrono. Forse sono a un passo dal morire. Forse stanno per rinascere. Forse sono al risveglio o forse all’addormentamento. Nell’unicità dell’istante: un testo infinito. Una cosa che non finisce mai di essere scritta.

L.S. D’altronde, pensiamo al linguaggio: l’alfabeto è fatto di ventiquattro lettere e guarda cosa sono riuscite fare! 

A.G. In questo metamorfismo digitale come respirano le idee di Studio Azzurro?

L.S. Nell’ultimo periodo ci siamo domandati se queste tecnologie, che noi usiamo e che sono diventate così pervasive e presenti, capaci di restituirci grandi poteri – sempre più veloci; collegati al punto da diventare ubiqui -, potessero essere usate per esplorare un mondo interiore. Vorremmo verificare se il mondo digitale fortemente proiettato fuori da noi, possa essere rivolto invece dentro di noi. Mettere a fuoco un mondo interiore e rappresentarlo. 

A.G. In un meccanismo come quello contemporaneo il rischio è anche essere in ogni luogo e non esserci mai. Non viviamo mai l’esperienza veramente, non stiamo mai dentro l’esperienza perché stiamo pensando ad altro. E allora tutto diventa l’opposto della parola che usavamo prima, contemplazione.

L.S. Sì, quella parola deve essere una delle componenti per una percezione dell’elemento poetico. 

A.G. Insisto sulla contemplazione. Produciamo migliaia di pensieri al giorno. La mente prolifera e ci trascina da tutt’altra parte. Magari sto guardando Coro, la sto vivendo, e però penso alle melanzane di mia madre, al fatto che domani ho un colloquio di lavoro o al fatto che ho un piccolo dolore allo stomaco che mi preoccupa moltissimo. Sono presente solo in parte. Sono lì col corpo, ma in realtà sono complice di quel cavallo imbizzarrito che è la mente. Sono il suo fantino. Non sto vivendo l’opera. Il mio multitasking inferiore mi porta fuori dalla contemplazione. Il vostro capolavoro, per me, è che siete riusciti a fare opere contemplative e multitasking al tempo stesso.

L.S. Sul nostro cammino, nel domandarci dell’introspezione attraverso le tecnologie, abbiamo trovato come delle tracce molto precise. Siamo umani, sempre umani. Fin quando possederemo questa capacità di guardarci a vicenda, di esplorarci, non potremo mai fare a meno di stare insieme attorno a un tavolo a parlare di cose immateriali. Farci credere che possiamo escludere questo, è un grande errore, non potremmo mai farlo. Ed è per questo scambio, per questo riconoscersi nelle emozioni, nelle esperienze di altri e condividerle, che deve esserci immancabilmente la nostra presenza. Sia corporea che emozionale. Attraverso un incontro nel quale ci possiamo sbagliare, arrabbiare, litigare, ritrovarci. Si pensa che le macchine artificiali non abbiano capacità di errore. Studio Azzurro invece si interessa proprio agli errori: a ciò che chiamiamo «frattaglie digitali», scarti dell’universo software digitale, i cosiddetti bug. Tutto ciò che viene scartato nella ricerca dell’intelligenza artificiale, quindi la demenza artificiale, a noi interessa e ci diverte, così che possiamo parlare non di realtà aumentata, ma di ragione diminuita. E pensando sempre all’ubiquità e alle emozioni ogni tanto mi diverto a immaginare se si spegnesse la rete per più giorni, in che stato d’animo una persona potrebbe trovarsi. In mancanza di queste protesi che ci danno la possibilità di avere una estensione planetaria del nostro carattere. 

A.G. Certo, è l’altra faccia delle protesi. 

L.S. Tutto sta un po’ nell’interfaccia che abbiamo verso tali protesi. Per esempio, con l’avvento del mondo digitale Studio Azzurro ha provato a praticare attività di tipo collettivo con Tavoli (1995)In cui l’interfaccia invece di essere joystick, keyboard o mouse erano superfici sensibili che si contrapponevano al fatto di essere soli davanti al computer, andando a indagare il rapporto uno a uno tra utente macchina. 

A.G. Un autentico spazio sensoriale. E quando si percepisce, vince il presente. 

L.S. Il tema della sensorialità qui era preponderante, rispetto alla convenienza e alla comodità delle industrie digitali che hanno ridotto tutto ad una superficie liscia, monosensoriale. Tavoli (1995) ti invitava a sentire le venature di un legno, la ruvidità di una pietra o la pelle di un tamburo. Noi continueremo a spingere perché gli ambienti sensibili siano habitat, come diceva anche Paolo Rosa, nel quale tu ti muovi e hai esperienze plurisensoriali non solo multimediali ma multimodali, proprio. E quando tu cominci a usare l’interattività «in modo poetico» è come sbattere contro una parete, ci fa riflettere, vuole dire che c’è ancora un gran margine di lavoro poetico. 

A.G. C’è una cosa che mi viene subito in mente, parlando di ambienti sensibili: il percorso al buio, il “Dialogo nel Buio”, dell’Istituto dei Ciechi. Nel quale entri e vivi un’esperienza di cecità per un’ora. Togliere un senso per far esplodere gli altri sensi.

L.S. In quel caso si arriva a togliere la capacità di utilizzare gli altri sensi e devi sviluppare una nuova consapevolezza, in modo da aderire all’esperienza che fai. Devi imparare, prestare attenzione, metterti in gioco: esserci. Così come appunto era, forzando un po’ la cosa, Il Nuotatore: non c’era solo una persona che nuotava avanti e indietro per un’ora. Nelle dodici cassette abbiamo montato cento piccoli insert per cui, ogni tanto, nel passaggio del nuotatore, su un singolo schermo, c’è un piccolo accadimento della durata utile per non farlo intercettare dal nuotatore che passa, spezzando così la continuità che avrebbe potuto portare a una sorta di consuetudine.

A.G. La violenza dell’istante.

L.S. Invece questi elementi sparsi casualmente, questi cento elementi, non solo attirano l’attenzione, ma ti permettono, ancora una volta come dicevamo prima, di sviluppare un tuo personale racconto, spostandoti di volta in volta e avendo differenti punti di vista in differenti momenti. 

A.G. Per chiudere, Leonardo. Come affrontate il “quarantesimo anno”? E il futuro?

L.S. La realtà complessa e complicata nella quale viviamo sollecita e richiede una strategia di pensiero e azione articolata e diversificata. Anche se apparentemente in contrapposizione con quello appena esposto, una parte delle nostre intenzioni o direzioni di interesse e di ricerca per il futuro, riguardano quello che abbiamo sempre fatto, lo Studio Azzurro continua a interessarsi al rapporto tra le persone e le tecnologie, utilizzando in senso più aperto il linguaggio della poesia per sviluppare e/o attivare gli “anticorpi” necessari alla complessa convivenza con questi strumenti, a volte estremamente potenti, che ormai non possono essere disgiunti e ignorati dalla nostra vita quotidiana. Un altro tema che riguarda le nostre attività future è strettamente legato a quello appena detto, non esistono tecnologie buone o cattive, discrete o invasive, efficaci o inutili, dipende tutto dal modo in cui vengono usate e chi le usa sono le persone stesse., siamo noi. Quindi se vogliamo migliorare il nostro rapporto con questi strumenti, rendere il loro uso più utile per noi, dobbiamo adoperarci per cambiare anche noi stessi. Guardiamoci attorno, siamo circondati da grandi innovazioni tecnologiche ma a distanza di millenni, l’uomo uccide e opprime ancora i suoi simili per ragioni a volte difficili da capire. Per questo e per il fatto che un creativo, un artista è chiamato ad essere un testimone del suo tempo e ha un ruolo sociale e politico molto forte, nella società in cui vive, deve attraverso le sue capacità visionarie, immaginare e suggerire nuove direzioni da tentare e perseguire. L’azione di ricerca dello Studio Azzurro si sta orientando, quindi, non più verso la realtà esterna che ci circonda o quella virtuale, che più sottilmente ci rispecchia ma si domanda se non è giunto il momento di orientare questi strumenti tecnologici così potenti e la propria azione di ricerca verso quell’universo che non sta fuori di noi ma che, invece, è profondamente immerso e radicato dentro di noi.

ARTICOLO n. 67 / 2022

CONVERSAZIONE CON ANIOL RAFEL

Che cosa significa essere un editore?

Nel pensare all’editoria internazionale, oggi, sorgono parecchi interrogativi: come sta cambiando il lavoro culturale nel mondo? L’editoria riuscirà a rispondere alla molteplicità di stimoli da cui è sommersa ogni giorno? Che ruolo ricopriranno gli editori in futuro? Queste e molte altre domande danno vita a una serie di conversazioni con i protagonisti del mondo editoriale odierno. Aniol Rafel è un editore catalano. Ha fondato Edicions del periscopi nel 2012.

Andrea Gentile: Che cosa significa essere un editore? Giangiacomo Feltrinelli sosteneva che un editore è una carriola, un mezzo di trasporto tramite cui i libri passano dalle mani dell’autore a quelle dei lettori. Il defunto Roberto Calasso, invece, vedeva l’editore più come un artista, che concepisce la creazione del proprio catalogo come uno scrittore fa con il suo romanzo, con un’impostazione artistica e creativa. Quale di questi due approcci consideri più affine al tuo?

Aniol Rafel: Entrambi mi sembrano corretti, a modo loro. Quando penso al lavoro dell’editore, spesso mi viene in mente l’immagine di una levatrice che aiuta a far nascere un neonato, verificando che la madre sia sana e che il bambino ne esca al meglio. In editoria facciamo la stessa cosa, trasformando i manoscritti nella versione migliore di sé. Il nostro lavoro, però, è affine anche a quello dei cercatori d’oro: tra i ruoli più importanti che svolgiamo nel creare un catalogo, infatti, c’è quello di filtrarne i contenuti. Tale filtraggio avviene attraverso la lettura, ovviamente, ma anche tramite recensioni, consigli, premi e suggerimenti da parte di persone fidate. Con tutti questi indizi alla mano, ci mettiamo in cerca del nostro tesoro, i libri che andranno a costituire il nostro catalogo. Quando troviamo i primi pezzi, però, la ricerca cambia, perché dobbiamo costruire un catalogo fatto di libri capaci di essere complementari, di raggiungere un mutuo equilibrio, di instaurare un dialogo con gli altri libri e con i lettori. Per me, quindi, l’editore non è tanto un artista quanto un architetto o un carpentiere, intento a costruire una casa in grado di accogliere il miracolo che è il rapporto tra i libri e chi li legge.

A.G. Prima ancora di essere editori siamo lettori, lettori che però affrontano ogni libro in maniera diversa da chiunque altro, arrivando a dissezionare il testo come dei chirurghi. Mi sembra quindi doveroso chiederti dei libri che hanno influito di più sul tuo lavoro di editore, quelli a cui torni quotidianamente. Quali pagine irrinunciabili animano le tue strategie editoriali?

A.R. Sono convinto che uno dei principali impulsi che fa di noi degli editori è la volontà di condividere la meraviglia che proviamo dopo aver terminato la lettura di qualcosa che ci ha commosso, che ci ha reso diversi da ciò che eravamo prima. È un momento di estasi talmente potente da volerlo condividere prima con i propri cari, poi, ben presto, con quante più persone possibile. Per me è stato così dopo aver letto sia La via della fame di Ben Okri sia Le cose crollano di Chinua Achebe, due libri che riescono a espandere i confini della realtà in un modo di cui vado sempre alla ricerca quando leggo qualcosa. Probabilmente è anche per questo che il nostro catalogo è così incentrato sulla letteratura africana e che ha incluso anche autori come Mia Couto o José Eduardo Agualusa. Un’altra epifania del genere l’ho avuta intorno ai vent’anni, rileggendo Peter Pan. Il bambino che non voleva crescere, di James M. Barrie, testo che mi ha affascinato per la sua ferocia, per il suo approccio al lato più selvaggio dell’animo umano e alla crudeltà mista a bellezza e ironia. Da allora, l’idea del male in tutte le sue rappresentazioni, come pure dei diversi approcci al passaggio alla maggiore età, è stato uno dei miei principali interessi, sia nelle mie letture sia nella costruzione del nostro catalogo.

A.G. Come sai, oggi i libri sono solo una parte di una delicata equazione di contenuti, talora elegante, spesso sorprendente. Dai film e i programmi televisivi disponibili in streaming in un clic a podcast, app e giochi per dispositivi mobili, siamo circondati da storie, parole e idee, una nube di contenuti che respiriamo costantemente fin da quando ci alziamo, andando al lavoro, parlando con i colleghi, durante una cena romantica al ristorante. È una nube a cui è impossibile sfuggire e che può rivelarsi soffocante, ma anche inebriante. Quali altri “oggetti culturali”, al di là dei libri, influiscono sulle tue strategie editoriali? Hai mai cercato di stabilire una qualche collaborazione tra libri e altri mezzi espressivi che potesse rivelarsi mutuamente vantaggiosa?

A.R. Ogni volta che pubblichiamo un libro instauriamo un dialogo con la comunità dei lettori che ci circonda, per cui la realtà attorno a noi è influenzata dalla presenza costante di tutti questi contenuti. Per comprendere la nostra società e la comunità in cui viviamo, quindi, dobbiamo capire come tutti questi elementi si combinano a dare nuova forma ai nostri comportamenti, al nostro modo di comunicare gli uni con gli altri e al modo in cui decidiamo di trascorrere il nostro tempo. Tutti questi cambiamenti, poi, si applicano sia alle nostre vite quotidiane, sia ai filoni narrativi che cercano di spiegare il mondo tramite la letteratura e il fantastico, oltre che al modo in cui leggiamo e interpretiamo sia la letteratura sia la realtà che ci circonda. Tutti questi cambiamenti danno adito a nuovi modi di comunicare, cosa che è importante tenere presente se vogliamo avvicinarci ai nostri lettori e alla nostra comunità. È importante capire che questi mezzi di comunicazione alternativi hanno un ruolo fondamentale anche nel determinare il ruolo sociale della lettura, dei libri e della letteratura, perciò dobbiamo avere un’ottima comprensione di ciò che può servirci e di ciò che ci troviamo di fronte.

A.G. Torniamo a parlare di libri nella loro forma più pura. I libri sono oggetti strani e mi capita spesso di chiedermi quale sia il loro ruolo nella società contemporanea, soprattutto a fronte della proliferazione dei mezzi espressivi di cui abbiamo parlato prima. Come pensi venga percepito comunemente l’oggetto libro? Viene considerato una semplice fonte di intrattenimento? O rappresenta ancora una nuova esperienza emotiva, un diverso modo di interrogarsi sulla nostra realtà? Franz Kafka diceva che abbiamo bisogno di libri capaci di rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma riescono ancora a farlo?

A.R. In certi segmenti della nostra società sì, ma è vero che gran parte della nostra comunità non mette i libri al centro della propria vita e non li ritiene strumenti importanti per il proprio sviluppo personale. C’è una parte della società che considera i libri e tutto ciò che li circonda qualcosa di sacro, qualcosa che conferisce un determinato status sociale e culturale. Sempre più persone, però, tendono a considerare i libri una semplice fonte di intrattenimento (peraltro decadente) e di nozioni, se non un semplice oggetto costoso che si riceve in regalo. È possibile che questo secondo gruppo diventi sempre più numeroso, ma ci sarà sempre una resistenza, costituita da quelle poche anime felici che hanno un rapporto speciale con i libri e con la lettura.

A.G. A questo punto non posso che chiederti dei lettori. Che caratteristiche ha il lettore ideale che hai in mente quando lavori, se ne hai uno? E, in quel caso, come lo definisci? Lo cerchi, tentando di elaborare l’esperienza di lettura migliore da offrirgli, o lo inventi, muovendoti nell’universo editoriale e creando esigenze e spazi che prima non esistevano?

A.R. Il defunto editore Jaume Villacorba diceva: «Non pubblico i libri che la gente vuole, pubblico libri che la gente ancora non sa di volere». Noi non seguiamo proprio lo stesso approccio, ma di tanto in tanto è bene ricordarsene, sapere che non dobbiamo necessariamente essere prigionieri dei desideri altrui. Inoltre, ci mettiamo nei panni dei potenziali lettori dei nostri volumi, per cui cerchiamo di pubblicare sì i libri che si rivelano una bella scoperta, ma anche quelli che sanno risvegliare la nostra curiosità, che ci fanno scoprire territori inesplorati e viaggiare in luoghi sconosciuti.

A.G. A prescindere dall’immagine che ogni editore può avere dei fruitori dei libri che pubblica, i libri sono spesso considerati dei ponti, soprattutto in epoche di grandi divisioni. È uno stereotipo, certo, che però (come tutti gli stereotipi) racchiude anche una briciola di verità, seppur messa continuamente in discussione da barriere linguistiche, politiche e sociali. Negli anni, molti hanno immaginato una casa editrice paneuropea, in grado di pubblicare libri in più lingue contemporaneamente per il lettori di tutto il continente. È semplice utopia o è un progetto che, con le nuove tecnologie e una rinnovata esigenza di cooperazione, potrebbe presto diventare realtà? Tu cosa ne pensi?

A.R. In un’Europa davvero unita avrebbe sicuramente senso, ma abbiamo ancora molta strada da fare per arrivare fin là. Per di più, ogni paese legge cose molto diverse, non solo per la lingua di pubblicazione, ma anche per un’ampia rete di differenze sociali e culturali. Una comunicazione più fluida e un aumento degli scambi culturali possono aiutare, ma riferimenti e interessi sono troppo diversi. Uno dei punti chiave del lavoro di editore, che fa sempre parte del suo impegno a far arrivare i libri al pubblico, è riuscire a stabilire una solida rete di complicità con i lettori e con i relativi prescrittori (librai, giornalisti, influencer…). Al giorno d’oggi, però, questa rete varia ancora troppo da un paese all’altro.

A.G. Nonostante l’esigenza di cooperazione a cui abbiamo accennato, tutti noi abbiamo le nostre differenze, che è importante tutelare anche nel trovare nuovi modi di collaborare e di coesistere, perché sono proprio le nostre differenze a renderci unici. Un altro stereotipo, forse, ma in editoria ne è lampante esempio il contrasto tra gli editori inglesi e americani da un lato e quelli europei dall’altro. In genere, infatti, nel Regno Unito e negli Stati Uniti ogni libro è un mondo a sé, e l’identità dell’editore passa più in secondo piano rispetto a quella del curatore che si occupa di una serie di pubblicazioni; in Europa, invece, ogni casa editrice tende ad avere un’identità riconoscibile fin dall’inizio, basti pensare alle blanche di Gallimard o ai colori pastello delle copertine Adelphi su uno scaffale. Quali vantaggi presentano secondo te questi due approcci e quale senti più tuo?

A.R. Il mercato è ricco di esempi di entrambi gli approcci: quello che si concentra sul singolo titolo o autore, per cui i libri sono talmente diversi l’uno dall’altro che l’identità dell’editore risulta quasi impercettibile, e quello che invece si concentra proprio sull’editore, anche a costo di rendere più difficile individuare e separare i titoli di un dato catalogo. Qui [in Spagna] gli editori con tendenze più commerciali tendono a seguire il primo approccio, mentre quelli con aspirazioni più letterarie in genere seguono il secondo. Noi propendiamo per il secondo, ma fin dall’inizio abbiamo incorporato degli elementi del primo approccio, per cercare di sfruttarne alcuni vantaggi. L’idea è di evitare che i lettori possano confondere titoli diversi di uno stesso catalogo e di dare a ogni libro una sua identità, anche in un contesto in cui è l’identità dell’editore a essere preponderante.

A.G. Come i nostri lettori avranno intuito da questa conversazione, l’editoria è un’attività molto idiosincratica. Come immagini il futuro del settore? Umberto Eco diceva che i libri sono “oggetti eterni”, cioè oggetti che, come una forchetta o un cucchiaio, sono talmente perfetti così come sono da non dover subire alcun cambiamento. Credi che valga anche per i libri? Pensi che nei prossimi anni i libri rimarranno immutati, dal punto di vista fisico e spirituale? Altrimenti, come pensi che cambieranno?

A.R. È molto difficile da prevedere. Certo, l’oggetto libro in sé è molto difficile da migliorare, ma è pur vero che stiamo vivendo una situazione di crisi sistemica, dove le materie prime saranno sempre più scarse e dove la carta si farà sempre più rara e costosa, per cui non possiamo sapere che cosa succederà. D’altro canto, se i libri sono oggetti meravigliosi, probabilmente destinati a durare ancora molti decenni, in definitiva ciò che viene venduto non è tanto l’oggetto in sé quanto quello che contiene, perciò, anche se il formato dovesse cambiare (cosa possibile), gli editori serviranno comunque. Se devo provare a immaginare un possibile futuro, credo che si produrranno e venderanno meno libri, che però esisteranno ancora e saranno ancora importanti per un buon numero di persone. Magari costeranno di più e saranno più correlati a contenuti d’altro genere. Probabilmente succederà in maniera del tutto inaspettata.

A.G. Per concludere la nostra conversazione, passiamo a qualcosa di più faceto. Abbiamo parlato del futuro dell’editoria, perciò ora vorrei saperne di più sul futuro della tua casa editrice. Che cosa avete in programma nei prossimi sei mesi? C’è qualche pubblicazione che ti sta particolarmente a cuore?

A.R. Considerato che pubblichiamo 10-12 libri l’anno, ognuno dei nostri titoli è speciale e viene selezionato con grande attenzione. Nei prossimi sei mesi pubblicheremo volumi provenienti da parti del mondo molto diverse, che siamo sicuri faranno felici i nostri lettori tanto quanto noi. Per fare un esempio, siamo molto orgogliosi di essere il principale editore catalano dell’autore mozambicano Mia Couto, di cui stiamo per pubblicare l’ultimo romanzo. Inoltre, di recente ci siamo avvicinati al genere della saggistica in stile narrativo, come per Hidden Valley Road di Robert Kolker, di cui ben presto pubblicheremo la traduzione in catalano. In un’intervista con The Italian Review, poi, non possiamo non menzionare la traduzione catalana del Libro delle case di Andrea Bajani.

A.G. Un’ultima domanda: se dovessi scegliere un classico del passato a cui, se arrivasse sulla tua scrivania oggi, non riusciresti a rinunciare, quale sarebbe?

A.R. So che dovrei dirne uno solo, ma me ne vengono in mente almeno tre: L’OdisseaLa Divina Commedia, e Le mille e una notte.

Traduzione di Camilla Pieretti.

ARTICOLO n. 66 / 2022

A CONVERSATION WITH ANIOL RAFEL

What does it mean to be a publisher?

When thinking about international publishing, there are many questions we should ask ourselves: how is cultural work changing in the world? Will the publishing world be able to respond to the multiplicity of stimuli from which it is overwhelmed every day? What will the role of the publisher be in the future? These, and many other questions, open up a series of conversations with the protagonists of today’s publishing industry.  Aniol Rafel is a catalan editor and publisher. He established Edicions del periscopi in 2012.

Andrea Gentile: What does it mean to be a publisher? Giangiacomo Feltrinelli used to say that a publisher is like a wheelbarrow, a mean of transportation, thanks to which books pass from an author’s hands to a reader’s. The late Roberto Calasso, on the other hand, thought of a publisher as an artist, who thinks about the construction of a catalogue as a writer thinks about his novel, with a creative, artistical mindset. Which of these two positions you feel closer to?

Aniol Rafel: Both of them are probably right, in their way. When I think about being a publisher, I often visualise the work midwives do when they are assisting in delivering newborn babies: make sure that the mother is healthy and that the baby comes in its best possible way. Translated into publishing, that would be to convert manuscripts into the better version of themselves. But our work is also to be gold seekers. I understand an important part of what we do when we are building a catalogue is to filter. We filter the manuscripts through our readings, of course, but also through reviews, advice, awards, suggestions from people we rely on. And with all these clues we seek our treasures, the books that are going to build our catalogue. And when we have the first pieces, the search changes, because we must build our catalogue of books that complement and balance themselves, that can dialogue with the rest of the books and with the readers. So maybe I do not think of a publisher exactly as an artist, but as an architect or a builder. Someone who must build the house that will accommodate the miracle that is the binding of books and readers.

A.G. Before being publishers, first of all we are readers, though readers who read books in a way no one else does, sometimes dissecting a text like a surgeon would. My question then would be about the books that influenced you the most in your work as publisher, the ones you keep returning to in your daily job. What are the most vital pages that give shape to your publishing strategies?

A.R. I’m convinced that one of the first impulses that turns us into publishers is the will to share the wonder we felt after finishing every one of these readings that deeply moved us, that made us become someone different than who we were before. This moment of ecstasy is so powerful that, first, you want to share it with your loved ones, and, soon enough, with as many people as possible. This moment occurred to me after finishing both The Famished Road, by Ben Okri and Things Fall Apart, by Chinua Achebe. The way they expanded the frame of reality was something I always try to find when I was reading, and probably that is one of the reasons why our catalogue has interests in African Literature and has incorporated authors such as Mia Couto or José Eduardo Agualusa. Another of these moments was when I reread, in my twenties, Peter Pan: Or The Boy Who Would Not Grow Up – A Fantasy in Five Acts, by James M. Barrie, and got captured by its ferocity, by its approach to the human wild soul and cruelty combined with its beauty and irony. Since then, the idea of evil and its representations, and also of coming of age with its different approaches, has been a matter of interest in my readings and in the construction of our catalogue. 

A.G. Of course, today books are only one part of a delicate, sometimes elegant, often surprising  equation of content. From movies and tv shows available for streaming at a click of our devices, to podcasts, mobile Apps and games, stories, words, ideas are all around us, a cloud of content that we breathe, constantly, as we do our morning routines, go to work, talk with a colleague, have a romantic dinner in a restaurant. It’s inescapable and can be suffocating, this cloud, but also exhilarating. What other “cultural objects” beside books are currently influencing your publishing strategies? Are you pursuing any type of cooperation between books and other media that might turn out to be mutually beneficial?  

A.R. When we publish books, we are also offering a dialogue to the community of readers that surrounds us, and of course reality around us is heavily influenced by the constant presence of all these contents. So, if we are to understand our society and our community, it is our obligation to try and understand how all this is reshaping the way we all behave and communicate with each other and decide to spend our time. Also, all these changes apply not only to our daily lives, but also to the narratives that are trying to explain the world through fiction and literature, and to the way we read and understand both literature and our reality too. This changes also offer new ways to communicate, and this is something that must be considered if we also want to be close to our readers and our community. We must also understand that these other ways to communicate can also play a role in determining the social importance of reading, of books and of literature, so we must understand all the possibilities that can help us, but which might also confront us. 

A.G. But let’s go back to books. Books are strange objects, and I often wonder what their role in our contemporary society is – especially given the proliferation of media we were talking about. What do you think the common perception of books is? Are they thought about as merely entertaining devices? Do they still represent a different kind of emotional experience, or a different way to interrogate our reality? Franz Kafka used to say that we need books that break the icy sea inside ourselves. Do books still manage to do this?

A.R. Books still manage to do this in a certain segment of our society, but of course a big part of our community is neither putting books at the centre of their lives, nor are they seeing them as important tools to develop themselves. So, we have this one part of society in which books and everything around them is considered to be almost sacred, something that gives you some kind of social and cultural status. But more and more people just consider books to be another way to entertain yourself – and a decaying one –, to learn something, maybe, or simply an expensive object you sometimes receive as a gift. Even though the numbers of this second group are likely to grow, there will always be a resistance, the happy few that have this special connection, this special bond with books and reading.

A.G. A follow up question would have to do with the readers. What’s the ideal reader you have in mind while you work? And how does this ideal reader, if present at all, come to you: do you search for her, trying then to find the best possible reading experience for her; or do you invent her, meaning that you move about the publishing world creating needs and spaces that weren’t there before?

A.R. Late publisher Jaume Vallcorba stated that «I don’t publish books that people want, I publish books that people doesn’t know yet that they want». We don’t exactly follow this, but it’s good to return to it now and then, especially to remind ourselves that we mustn’t be prisoners of someone else’s desires. We also mirror ourselves as possible readers for our books, so we try to publish not only those books that we’d have loved to find, but also those that would awake our curiosity, those that would let us explore uncharted territories and make us move to uncertain places. 

A.G. However a publisher thinks of the readers whom the books she publishes are going to meet, books are often seen as bridges, especially in times of great division. It’s a platitude, of course, but one that holds – like all platitudes do – a morsel of truth, though one that is constantly challenged by political, societal, and linguistic barriers. Many have dreamt, over the decades, of a fully European publishing house, one that can make a book available in multiple languages at the same time, targeting readers across the Continent. Is this utopia, or is it perhaps something that new technology and a renewed need for cooperation are making more and more possible? How would you feel about such a project?

A.R. In a truly united Europe, it would certainly make sense. But, to get there, there is still a long way to go. Nowadays, what is read in every country in Europe is too different, not only due to the published language, but because of too wide social and cultural differences. A much more fluid communication and an increase in cultural exchanges can help, but references and interests are too separated. One of the keys to publishing, and to understand this as an effort to make books get to the public too, is to stablish a solid net of complicities with them and with their prescribers (booksellers, journalist, influencers…). And, as for today, these nets are way too different from country to country.

A.G. Despite the need for cooperation we were talking about, we do have our differences, of course, and differences must be treasured even as we find new ways to work together, to be together, because it’s our differences that make us unique. Another platitude, perhaps, but one that is often exemplified in publishing by the contrast between British and American publishers, on the one hand, and European publishers on the other hand. In fact, and generally speaking, every book is different in the UK and the US, and a publisher’s identity is less perceivable than the identity of the editor building a particular list. Whereas, in Europe, a publisher’s identity tends to be immediately recognizable from the get-go – think of a Gallimard blanche, or Adelphi’s pastel colors on a bookshelf. What do you think the respective merits of the two approaches are? And which one do you feel closer to?

A.R. In our market, there are examples of both lines, the one that prioritizes the individual title or the author, making every book so different and where the publisher’s identity is almost hidden, and the line that puts the publisher’s identity at the centre, even at the cost of making it harder to individualize and separate every title inside a given catalogue. And, at least here, the labels with more commercial aspirations tend to follow the first line, where the most literary labels usually follow the second one. We feel clearly closer to this second one, but since the beginning we incorporated some elements that you can usually find in the first line, in an attempt to get some of the advantages of this line, mainly to avoid the confusion between different titles of the same catalogue, and to provide an individual identity even in the context of the identity of a strong publisher. 

A.G. Publishing, as our readers may have gleaned from this conversation, is sometimes a very idiosyncratic business. How do you imagine the future of our industry? Umberto Eco used to say that books are “eternal objects”; objects that, like a fork or a spoon, are so perfect from the moment of inception that they don’t need changes. Do you think this is true? Do you believe that books will stay the same – physically and spiritually – through the years to come? And if you think they will change, how will they do it?

A.R. It’s very hard to predict. Indeed, and as objects, books are very difficult to improve. However, we find ourselves in a predicament of systemic crisis, where raw materials will be more and more scarce, the price of paper is skyrocketing while its availability has sunken, so we don’t know what will come. On the other hand, and since books are wonderful objects, possibly ones to last many more decades, what we sell is not the object but its content. Therefore, even when the format eventually changes, which is unclear, publishers will be needed. If are playing at imagining a possible future, it’ll be one where less books are produced and sold, but still exist and hold meaning for many people. Maybe they’ll be more expensive, and more related to other kinds of content. And, most probably, it will all happen in unexpected ways.

A.G. As we wind down our conversation, perhaps it’s time to move into more playful territory. We talked about the future of publishing, so perhaps now it’s time to talk about the future of your publishing house. Give us a sneak peek into your next six months. What are you most excited about?

A.R. As we publish 10-12 books per year, every title we publish is special and has been selected after a very conscientious process. For the next six months, we’re going to publish books from very different parts of the world that we are sure that will thrill our readers as much as ourselves. We are, for instance, very proud of being the long-standing Catalan publisher of Mozambican author Mia Couto, and we are going to publish his latest novel. We’ve recently putting some faith in narrative nonfiction books, and Robert Kolker’s Hidden Valley Road, whose Catalan translation will be published soon, is also a perfect example of this. And of course, as this conversation is for The Italian Review, we are happy to publish the Catalan translation of Il libro delle case, by Andrea Bajani.

A.G. Last question. If you were to choose a classical book from ages past that were to reach your desk today and that you wouldn’t be able to pass on, which book would that be?

A.R. I know I’m supposed to say only one, but I have to say at least three: The OdysseyThe Divine Comedy, and One Thousand and One Nights.

ARTICOLO n. 53 / 2022

CONVERSAZIONE CON MICHAEL Z. WISE

Che cosa significa essere un editore?

Nel pensare all’editoria internazionale, oggi, sorgono parecchi interrogativi: come sta cambiando il lavoro culturale nel mondo? L’editoria riuscirà a rispondere alla molteplicità di stimoli da cui è sommersa ogni giorno? Che ruolo ricopriranno gli editori in futuro? Queste e molte altre domande danno vita a una serie di conversazioni con i protagonisti del mondo editoriale odierno. Michael Z. Wise è il cofondatore di New Vessel Press, e ha lavorato come corrispondente a Vienna, Praga e  Londra per la Reuters e il Washington Post

A. GENTILE: Che cosa significa essere un editore? Giangiacomo Feltrinelli sosteneva che un editore è una carriola, un mezzo di trasporto tramite cui i libri passano dalle mani dell’autore a quelle dei lettori. Il defunto Roberto Calasso, invece, vedeva l’editore più come un artista, che concepisce la creazione del proprio catalogo come uno scrittore fa con il suo romanzo, con un’impostazione artistica e creativa. Quale di questi due approcci consideri più affine al tuo?

MICHAEL Z. WISE: L’idea della carriola sembra suggerire che ci limitiamo a riversare camionate di libri sulla pubblica piazza, mentre alla New Vessel Press selezioniamo con attenzione tutto ciò che pubblichiamo. Il nostro catalogo non potrà essere paragonato in tutto e per tutto a un romanzo, ma scegliamo sempre con cura i testi da tradurre: una mezza dozzina di libri l’anno, con l’obiettivo di portare testi di qualità dalle altre lingue in inglese. Di Calasso mi piace citare un’altra massima, secondo la quale il compito di un editore è faire plaisir a una tribù dispersa di persone alla ricerca di qualcosa «che sia oro e non tolla».

A.G. Prima ancora di essere editori siamo lettori, lettori che però affrontano ogni libro in maniera diversa da chiunque altro, arrivando a dissezionare il testo come dei chirurghi. Mi sembra quindi doveroso chiederti dei libri che hanno influito di più sul tuo lavoro di editore, quelli a cui torni quotidianamente. Quali pagine irrinunciabili animano le tue strategie editoriali?

M.W. Siamo molto orgogliosi di essere gli editori dell’autore russo Sergej Lebedev e di aver pubblicato tre dei suoi romanzi, oltre a un quarto che uscirà a breve nella splendida traduzione di Antonina W. Bouis. Lebedev, in particolare nel suo Oblivion, è tra i primi autori russi del XXI secolo a sondare l’eredità del sistema dei campi di prigionia sovietici e la sua scrittura densa e ponderosa ha la capacità di evocare alla perfezione gli orrori del passato e le loro ripercussioni sul presente. Tradurre Lebedev, uno dei migliori autori russi in circolazione, è una sfida davvero emozionante e rivedere il suo lavoro è estremamente gratificante.

A.G. Come sai, oggi i libri sono solo una parte di una delicata equazione di contenuti, talora elegante, spesso sorprendente. Dai film e i programmi televisivi disponibili in streaming in un clic a podcast, app e giochi per dispositivi mobili, siamo circondati da storie, parole e idee, una nube di contenuti che respiriamo costantemente fin da quando ci alziamo, andando al lavoro, parlando con i colleghi, durante una cena romantica al ristorante. È una nube a cui è impossibile sfuggire e che può rivelarsi soffocante, ma anche inebriante. Quali altri “oggetti culturali”, al di là dei libri, influiscono sulle tue strategie editoriali? Hai mai cercato di stabilire una qualche collaborazione tra libri e altri mezzi espressivi che potesse rivelarsi mutuamente vantaggiosa?

M.W. Di recente abbiamo concesso in licenza i diritti delle nostre traduzioni inglesi dei racconti di Anna Maria Ortese dall’antologia Il mare non bagna Napoli/Neapolitan Chronicles, ad opera di Ann Goldstein e Jenny McPhee, per delle produzioni teatrali della Columbia University di New York. Molti dei nostri libri, poi, hanno a che vedere con le arti visive vecchie e nuove, inclusi The Eye di Philippe Costamagna, sulla connoisseurship e sul profondo piacere di osservare i quadri dei vecchi Maestri, e A Few Collectors di Pierre Le-Tan, sull’eccentricità di chi tende ad acquistare opere d’arte d’ogni sorta. Naturalmente, si tratta di titoli orientati ai lettori che si interessano al mondo dell’arte e promossi da gallerie e librerie museali. Inoltre, abbiamo pubblicato un lavoro a stampa nato interamente tramite nuovi mezzi di comunicazione, in particolare da una serie di tweet e dalle foto che li accompagnavano. Il volume si intitola The Madeleine Project, di Clara Beaudoux, ed è un opera di saggistica davvero innovativa, in cui si racconta di una giovane donna che si trasferisce in un appartamento a Parigi e documenta la vita e gli effetti personali della precedente inquilina sul proprio feed di Twitter.

A.G. Torniamo a parlare di libri nella loro forma più pura. I libri sono oggetti strani e mi capita spesso di chiedermi quale sia il loro ruolo nella società contemporanea, soprattutto a fronte della proliferazione dei mezzi espressivi di cui abbiamo parlato prima. Come pensi venga percepito comunemente l’oggetto libro? Viene considerato una semplice fonte di intrattenimento? O rappresenta ancora una nuova esperienza emotiva, un diverso modo di interrogarsi sulla nostra realtà? Franz Kafka diceva che abbiamo bisogno di libri capaci di rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma riescono ancora a farlo?

M.W. Sebbene nei momenti più bui ci sia una tendenza a disperare per il ruolo ormai limitato dei libri nella società contemporanea, in mezzo a tante altre distrazioni, io sono convinto che i libri continuino ancora oggi a esercitare l’impatto fondamentale sul pensiero e sulla percezione che gli è proprio da secoli.

A.G. A questo punto non posso che chiederti dei lettori. Che caratteristiche ha il lettore ideale che hai in mente quando lavori, se ne hai uno? E, in quel caso, come lo definisci? Lo cerchi, tentando di elaborare l’esperienza di lettura migliore da offrirgli, o lo inventi, muovendoti nell’universo editoriale e creando esigenze e spazi che prima non esistevano?

M.W. In realtà, alla New Vessel Press non cerchiamo tanto il lettore ideale quanto il libro ideale, capace di solleticare l’interesse di menti curiose. Ci concentriamo su opere di narrativa e saggistica in lingue diverse dall’inglese, considerate di qualità letteraria eccezionale e in grado di offrire informazioni interessanti sulla vita e la società in altre parti del mondo.

A.G. A prescindere dall’immagine che ogni editore può avere dei fruitori dei libri che pubblica, i libri sono spesso considerati dei ponti, soprattutto in epoche di grandi divisioni. È uno stereotipo, certo, che però (come tutti gli stereotipi) racchiude anche una briciola di verità, seppur messa continuamente in discussione da barriere linguistiche, politiche e sociali. Negli anni, molti hanno immaginato una casa editrice paneuropea, in grado di pubblicare libri in più lingue contemporaneamente per il lettori di tutto il continente. È semplice utopia o è un progetto che, con le nuove tecnologie e una rinnovata esigenza di cooperazione, potrebbe presto diventare realtà? Tu cosa ne pensi?

M.W. I libri migliori, specialmente quelli che vantano particolari origini linguistiche e geografiche e sono in grado di rispecchiarle, contengono delle verità universali. È vero che non esiste una casa editrice interamente europea, ma per me è sempre un’emozione partecipare alla Fiera del libro di Francoforte, dove l’Europa risulta profondamente viva in un modo che non si riesce a percepire altrove. È vero, lo spirito di cooperazione tra gli Stati europei si è decisamente rinsaldato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ma a Francoforte l’utopia letteraria già esisteva, almeno in una certa misura, poiché ci si trovano sempre europei che parlano una grande varietà di lingue e che hanno un’ottima comprensione degli sviluppi culturali nei paesi vicini, oltre che in zone del continente più remote.

A.G. Nonostante l’esigenza di cooperazione a cui abbiamo accennato, tutti noi abbiamo le nostre differenze, differenze che è importante tutelare anche nel trovare nuovi modi di collaborare e di esistere insieme, perché sono proprio quelle a renderci unici. Un altro stereotipo, forse, ma in editoria ne è lampante esempio il contrasto tra gli editori inglesi e americani da un lato e quelli europei dall’altro. In genere, infatti, nel Regno Unito e negli Stati Uniti ogni libro è un mondo a sé, e l’identità dell’editore passa più in secondo piano rispetto a quella del curatore che si occupa di una serie di pubblicazioni; in Europa, invece, ogni casa editrice tende ad avere un’identità riconoscibile fin dal primo momento, basti pensare alle blanche di Gallimard o ai colori pastello delle copertine Adelphi su uno scaffale. Quali vantaggi presentano secondo te questi due approcci e quale senti più tuo?

M.W. Capisco il desiderio di adottare uno schema di copertine uniforme, esteticamente coerente e in grado di saltare all’occhio. Tuttavia, trovo che si rischi di ottenere un risultato scialbo e vuoto, senza potersi dedicare al piacere creativo di ideare una copertina eccezionale, in grado di rispecchiare il libro che si ha sotto mano. Impegnarsi a trovare un design che aiuti ad attirare l’attenzione dei lettori, perché non si limitino a comprare ma anche a leggere una particolare opera, è parte di ciò che distingue l’editoria dalla semplice stampa.

A.G. Come i nostri lettori avranno intuito da questa conversazione, l’editoria è un’attività molto idiosincratica. Come immagini il futuro del settore? Umberto Eco diceva che i libri sono “oggetti eterni”, cioè oggetti che, come una forchetta o un cucchiaio, sono talmente perfetti così come sono da non dover subire alcun cambiamento. Credi che valga anche per i libri? Pensi che nei prossimi anni i libri rimarranno immutati, dal punto di vista fisico e spirituale? Altrimenti, come pensi che cambieranno?

M.W. Noi di New Vessel Press abbiamo accolto con favore l’adattamento dei nostri classici libri cartacei in ebook e audiolibri. È possibile che nel prossimo futuro nasceranno altri formati innovativi, tramite tecnologie oggi sconosciute ma parimenti all’avanguardia. Sotto sotto, però, l’esperienza della parola scritta rimane quella che era ai tempi di Johannes Gutenberg, anche se oggi viviamo nell’era di Jeff Bezos.

A.G. Per concludere la nostra conversazione, passiamo a qualcosa di più faceto. Abbiamo parlato del futuro dell’editoria, perciò ora vorrei saperne di più sul futuro della tua casa editrice. Che cosa avete in programma nei prossimi sei mesi? C’è qualche pubblicazione che ti sta particolarmente a cuore?

M.W. Sì, la traduzione inglese del nostro secondo libro di Marina Jarre, Ritorno in Lettonia, ad opera di Ann Goldstein, dopo il successo della sua autobiografia I padri lontani, da noi pubblicato [con il titolo Distant Fathers] nel 2021. Ma anche la traduzione di un romanzo brasiliano ambientato nelle favelas, che parla di una relazione segreta e della potenza della parola scritta. Il volume si intitola The Words That Remain, di Stênio Gardel ed è stato tradotto dal portoghese da Bruna Dantas Lobato. Infine, citerei un romanzo israeliano molto profondo e divertente in cui si analizza quella che è la mentalità contemporanea su tematiche come la schiavitù e l’eredità del colonialismo. Il titolo è Professor Schiff’s Guilt, di Agur Schiff, tradotto dall’ebraico da Jessica Cohen.

A.G. Un’ultima domanda: se dovessi scegliere un classico del passato a cui, se arrivasse sulla tua scrivania oggi, non riusciresti a rinunciare, quale sarebbe?

M.W. Diario Londinese di Boswell, Alla ricerca del tempo perduto di Proust e Il mondo di ieri di Stephan Zweig. Sì, sono indubbiamente un cittadino, e pure un po’ nostalgico.

Traduzione di Camilla Pieretti

ARTICOLO n. 52 / 2022

A CONVERSATION WITH MICHAEL Z. WISE

What does it mean to be a publisher?

When thinking about international publishing, there are many questions we should ask ourselves: how is cultural work changing in the world? Will the publishing world be able to respond to the multiplicity of stimuli from which it is overwhelmed every day? What will the role of the publisher be in the future? These, and many other questions, open up a series of conversations with the protagonists of today’s publishing industry. Michael Z. Wise is co-founder of New Vessel Press. He has worked as a foreign correspondent in Vienna, Prague, and London, reporting for Reuters and The Washington Post.

Andrea Gentile: What does it mean to be a publisher? Giangiacomo Feltrinelli used to say that a publisher is like a wheelbarrow, a mean of transportation, thanks to which books pass from an author’s hands to a reader’s. The late Roberto Calasso, on the other hand, thought of a publisher as an artist, who thinks about the construction of a catalogue as a writer thinks about his novel, with a creative, artistical mindset. Which of these two positions you feel closer to?

Michael Z. Wise: The wheelbarrow approach sounds like one is simply shovelling books out into the public square, whereas at New Vessel Press we are highly selective about what to publish. Our catalogue may not be entirely comparable to a novel, but we carefully choose the books we translate – a half dozen titles each year that are aimed at bringing high quality writing from other languages into English. I like another maxim by Calasso that the publisher’s task is to faire plaisir to what he called a scattered tribe of people in search of something «that is gold and not tin».

A.G. Before being publishers, first of all we are readers, though readers who read books in a way no one else does, sometimes dissecting a text like a surgeon would. My question then would be about the books that influenced you the most in your work as publisher, the ones you keep returning to in your daily job. What are the most vital pages that give shape to your publishing strategies?

M.W. We are immensely proud to publish the Russian author Sergei Lebedev and have brought out three of his novels so far and have a fourth book forthcoming in Antonina W. Bouis’s superb translation. Lebedev’s writing, particularly his novel Oblivion, is among the first twentieth-century Russian books to probe the legacy of the Soviet prison camp system, and his rich and weighty writing has great power to evoke past terror and its ongoing reverberations today. Translating Lebedev, one of Russia’s finest, is an exciting challenge, and editing his work has been exceedingly rewarding. 

A.G. Of course, today books are only one part of a delicate, sometimes elegant, often surprising equation of content. From movies and TV shows available for streaming at a click of our devices, to podcasts, mobile Apps and games, stories, words, ideas are all around us, a cloud of content that we breathe, constantly, as we do our morning routines, go to work, talk with a colleague, have a romantic dinner in a restaurant. It’s inescapable and can be suffocating, this cloud, but also exhilarating. What other “cultural objects” beside books are currently influencing your publishing strategies? Are you pursuing any type of cooperation between books and other media that might turn out to be mutually beneficial?  

M.W. We have recently sublicensed the rights to use our translations by Ann Goldstein and Jenny McPhee of stories by Anna Maria Ortese from her anthology Il mare non bagna Napoli/Neapolitan Chronicles in stage productions at Columbia University in New York City. Many of our books are also concerned with the visual arts old and new, including The Eye by Philippe Costamagna about connoisseurship and the sheer delight of looking at Old Master paintings, and A Few Collectors by Pierre Le-Tan about the eccentricities of those driven to acquire artworks of all sorts. These titles are naturally targeted toward art-minded readers and promoted by gallery and museum bookshops. In addition, we have published a print work that arose entirely from new media, namely tweets and their accompanying photographs. This is The Madeleine Project by Clara Beaudoux, an innovative work of non-fiction about a young woman who moves into a Paris apartment and documents the belongings and life story of the previous tenant on her Twitter feed. 

A.G. But let’s go back to books. Books are strange objects, and I often wonder what their role in our contemporary society is – especially given the proliferation of media we were talking about. What do you think the common perception of books is? Are they thought of as merely entertaining devices? Do they still represent a different kind of emotional experience, or a different way to interrogate our reality? Franz Kafka used to say that we need books that break the icy sea inside ourselves. Do books still manage to do this? 

M.W. Although in dark moments, there’s a tendency to despair about the diminished role of books in contemporary society amid the din of so many other distractions, I believe that books continue to exert an essential, age-old impact on thinking and perception.

A.G. A follow-up question would have to do with readers. What’s the ideal reader you have in mind while you work? And how this ideal reader, if present at all, comes to you: do you search for her, trying then to find the best possible reading experience for her; or do you invent her, meaning that you move about the publishing world creating needs and spaces that weren’t there before?

M.W. We search less for the ideal reader than for ideal books that will appeal to inquiring minds. We look for works of both fiction and nonfiction in other languages that are extraordinary in terms of literary quality and offer new insights into life and society in other parts of the world.

A.G. However a publisher thinks about the readers the books she publishes are going to meet, books are often thought of as bridges, especially in times of great division. It’s a platitude, of course, but one that holds – like all platitudes do – a morsel of truth, though one that is constantly challenged by political, societal and linguistic barriers. Many have dreamt, over the decades, of a fully European publishing house, that can make a book available in multiple languages at the same time, for readers across the Continent. Utopia, or something that new technology and a renewed need for cooperation are making more and more possible? How would you feel about such a project?

M.W. The best books, especially those that arise from and reflect their particular linguistic and geographic origins, contain universal truths. There may not be one fully European publishing house, but I’m always thrilled to go to the Frankfurt Book Fair where Europe seems to me to be truly alive in a way one really doesn’t experience elsewhere. Yes, the spirit of European alliance has been significantly regenerated in the face of Russia’s invasion of Ukraine, but a degree of literary utopia has already been in existence at Frankfurt, where you can regularly find Europeans speaking multiple languages and who have a genuine understanding of cultural developments in their neighboring countries as well as farther-flung parts of the continent.

A.G. Despite the need for cooperation we were talking about, we do have our differences, of course, and differences must be treasured even as we find new ways of working together, of being together, because it’s our differences that make us unique. Another platitude, perhaps, but one that is often exemplified in publishing by the contrast between British and American publishers, and European ones. Generally speaking, in fact, in the UK and the US every book is different and a publisher’s identity is less perceivable that the identity of the editor building a particular list, whereas in Europe a publisher’s identity tends to be immediately recognizable from the get-go – think of a Gallimard blanche, or Adelphi’s pastel colors on a bookshelf. What do you think are the respective merits of the two approaches? And which one do you feel closer to?

M.W. I certainly understand the desire to adopt a uniform cover scheme that is aesthetically coherent and distinctive. But this can end up being just somewhat blank and empty, missing out on the pleasures of the true art to creating a striking cover that reflects the individual book at hand. Rising to this challenge of commissioning a cover design that helps attract readers to not only buy but also read a particular work is part of what distinguishes publishing from mere printing.

A.G. Publishing, as our readers may have gleaned from this conversation, is sometimes a very idiosyncratic business. How do you imagine the future of our industry? Umberto Eco used to say that books are “eternal objects”; objects that, like a fork or a spoon, are so perfect from the moment of inception that they don’t need changes. Do you think this is true for books? Do you believe that books will stay the same – physically and spiritually – a through the next years? And if you think they will change, how will they do it?

M.W. At New Vessel Press, we’ve fully embraced the adaptation of our traditional print books into e-books and audiobooks. Other innovative formats could well arise in the near future, employing similarly new, currently unknown forms of technology. But the core experience of engaging with the written word remains the same as it was in Johannes Gutenberg’s time, even if we live in the age of Jeff Bezos.

A.G. As we wind down our conversation, perhaps it’s time to move into more playful territory. We talked about the future of publishing, so perhaps now it’s time to talk about the future of your publishing house. Give us a sneak peek into the next six months. What are you most excited about publishing?

M.W. A translation from the Italian by Ann Goldstein of our second book by Marina Jarre, Return to Latvia, building upon her celebrated autobiography Distant Fathers that we published in 2021, and a novel from Brazil set in the impoverished hinterlands about a hidden romance and the power of written language called The Words The Remain by Stênio Gardel, translated from the Portuguese by Bruna Dantas Lobato. Also a translation from the Hebrew by Jessica Cohen of a profound and hilarious Israeli novel about contemporary attitudes toward slavery and the legacy of colonialism. It’s called Professor Schiff’s Guilt by Agur Schiff.

A.G. Last question. If you were to choose a classical book from ages past that were to reach your desk today and that you wouldn’t be able to pass on, which book would that be?

M.W. Boswell’s London Journal, Proust’s In Search of Lost Time, and Zweig’s The World of Yesterday. At heart, I’m definitely a nostalgic urbanite.

ARTICOLO n. 46 / 2022

CONVERSAZIONE CON ANDREA MORO

Che cosa può fare una lingua?

Sin da Breve storia del verbo essere leggo i libri di Andrea Moro. Professore ordinario di linguistica generale presso la Scuola Universitaria Superiore di Pavia. Sia linguista sia neuroscienziato, e anche romanziere, i suoi libri non sono mai solo tecnici: indagano in vario modo la natura di questa strana specie, quella umana, cui apparteniamo. Ho incontrato Andrea per la prima volta tempo fa in una lunga chiacchierata Zoom, nel pieno della pandemia. In quell’occasione abbiamo discusso di quel grande organismo vivente che è il linguaggio, e non solo. Questo dialogo scritto è la sintesi di quell’incontro. 

Andrea Gentile: Andrea, anche se continuiamo a credere che sia un problema, o addirittura a negarlo, ogni istante della nostra vita è fatto per sorgere e svanire. La valanga di informazioni e algoritmi del digitale sposa questa dimenticanza: anzi, ne è forse la più grande alleata, in tutta la storia umana. L’incanto dell’essere vivi, dunque presenti, è molto lontano da noi. Come percepisco una sensazione avendo di fronte lo scroll infinito dello smartphone?

Andrea Moro: Una volta commentai il linguaggio di papa Francesco e nell’analisi del suo discorso trovai, tra le dieci parole più frequenti, la parola «odore»: diceva che bisognava amare le persone di cui si riusciva a sentire l’odore. Qui e ora ci troviamo a parlare attraverso uno schermo in videochiamata: sentiamo le nostre voci, vediamo i nostri visi ma dobbiamo immaginarci il resto, primo tra questi l’odore che emaniamo. Ma ci siamo abituati a questa anestesia tecnologica dei sensi. Basta pensare a tutte le rubriche e le foto di cibo che ci circondano: anch’esse esprimono sensazioni monche. Fotografare il cibo è un ossimoro cognitivo, non appare nulla di ciò che vale la pena di rappresentare: né la consistenza né l’odore né il sapore. 

A.G. Sì, è pura narrazione. Penso al peso della parola, che è complementare al peso dell’empatia. Penso all’«altro», che è un territorio ignoto che continuamente deve essere scoperto, e per essere scoperto c’è bisogno innanzitutto di un dissolvimento di una parte di «io»; altrimenti l’altro nemmeno riesco a sentirlo. Come in questa conversazione, se continuo a pensare a me stesso, Andrea Moro non posso sentirlo. Ma se è vero che «sento dunque sono», mi chiedevo, che cosa c’è tra la nostra percezione del sentire e il modo in cui utilizziamo le parole? Come le parole restituiscono certe percezioni? Come la mia parola è in grado di restituire la percezione che io sto sentendo adesso? Adesso, per esempio, sono contento di avere questo dialogo con te. E allora, se guardo bene, se medito, questa emozione restituisce una sensazione all’altezza dello stomaco. Come traduco questa sensazione in parole?

A.M. Devi tenere conto che le parole non esistono isolate, sono sempre immerse in strutture sintattiche, però noi esseri umani le vediamo. Ora ammettendo come premessa che la parola da sola non c’è, posso comunque provare a restituire una mia impressione.

A.G. Sono curioso di ascoltarti.

A.M La questione dell’empatia secondo me è decisiva; hai fatto bene a sottolinearla. Ci sono delle parole sulle quali non c’è ambiguità e sono parole funzionali come i pronomi o la negazione, ad esempio. A te non è simpatica la parola «io», perché ti pare che il contenuto associato ad «io» offuschi l’altro. Ma dal punto di vista linguistico, i pronomi come io non possono far sparire l’altro, perché la definizione di io implica necessariamente un tu

A.G. Certo. 

A.M.  È come tentare di dare la definizione assoluta di un colore qualsiasi, come il bianco: il bianco non può essere definito in assoluto ma solo come opposto ad altri colori. Allo stesso modo non si può definire il soggetto se non si ha il predicato. Molte parole del linguaggio non sono ancorate a sensazioni o percezioni di proprietà fisiche o di relazioni tra oggetti o persone ma alla logica. I morfemi possono aiutarci a capire meglio. Sono quei mattoni che costruiscono le parole: in tavolo è presente il morfema lessicale tavol- e il morfema funzionale –o. In prima approssimazione, possiamo dire che i morfemi funzionali sono quelli che non appartengono alle sensazioni e percezioni. Per esempio, non non può essere una sensazione. Se dico «se piove o non piove»: in un caso si è bagnati e nell’altro no, però il ruolo logico della parola «non» in una frase non è legato direttamente a una sensazione: il suo ruolo è di capovolgere le condizioni nelle quali la frase è vera. 

A.G. Sono molto d’accordo. Questo è il fulcro centrale della letteratura e intendo proprio letteratura, non narrativa. Nella narrativa tutto è quello che viene detto. Nella letteratura tutto è quello che non viene detto.

A.M. Sì, hai ragione: pensa alla parola casa. Tra me e te potrebbe avere significati e connotazioni diversi. Io potrei aver «perso la mia casa» oppure dovermi «trasferire di casa» o aver «ereditato una casa» bellissima. Io casa lo pronuncio in modo diverso da te che per casa intendi aver pagato l’affitto stamattina. Come facciamo a stabilire che condividiamo entrambi lo stesso significato di casa? Non si sa, è un patto che facciamo io e te. Io credo nel famoso problema della vaghezza, il tipico esempio della vaghezza si fa con il termine calvo: immaginiamo una persona completamente pelata e domandiamoci «è calva?», «sì», aggiungiamo un capello e chiediamo «è ancora calva?». La risposta molto probabilmente sarà sì. Ancora ne aggiungeremo due, «è ancora calva?», e vedremo che non si capirà bene quanti capelli dovremo aggiungere ad un calvo per dire che non lo è. Ecco io credo che tutti i significati siano in qualche misura vaghi. Le parole indicano solo dei «limiti»: forse per questo un sinonimo di «parola» è proprio «termine».

A.G. Come facciamo ad aderire entrambi allo stesso significato della parola? 

A.M Nessuno può rispondere in modo completo ma ci sono molte osservazioni interessanti a propositoTi farà piacere sapere che esiste una tecnica linguistica con la quale cerchiamo di spurgare i significati aggiunti e scegliamo quello all’interno della polisemia più condiviso possibile: la re-duplicazione. Supponiamo che io abbia uno studente che risiede a Pavia e abbia una casa in questa stessa città, lo studente però è molisano e ha una casa anche in Molise. Viene da me e mi dice: «Professore, io torno a casa» e io gli dico «Ma casa-casa?» dicendogli casa-casa, cioè con la reduplicazione, io lo obbligo a scegliere tra i due significati quello che contiene meno informazioni accidentali, cioè la sua «vera» casa. È un trucco con cui facciamo precipitare, come se fosse una reazione chimica, il significato meno ambiguo di tutti: e vale con tutte le parole, praticamente, meno quelle funzionali. È chiaro che non si può trattare di una questione soltanto intuitiva o aneddotica; deve essere un fatto sistematico, linguistico: per poter parlare dobbiamo fare un patto con chi ci ascolta sulla condivisione minima di significato tra le parole, sapendo tutti e due, coscienti o meno, che è un patto fragile perché le parole sono quasi tutti polisemiche; tranne appunto quelle che abbiamo definito logiche. Infatti, è difficilissimo immaginare nelle parole logiche una re-duplicazione, perché quando diciamo «non piove» non diciamo «non-non». Funziona solo dove c’è una polisemia. La reduplicazione “stana” la polisemia.

A.G. Oltre alle parole logiche e a quelle polisemiche possiamo individuarne altre? 

A.M. Sì. Ci sono molte parole per così dire “astratte” e anche con esse è interessante chiedersi se passano attraverso le sensazioni. Io questo concetto l’ho dovuto affrontare sulla questione del verbo essere. Sostengo che avesse ragione Aristotele: il verbo essere è soltanto un verbo che esprime il tempo e tutte le proprietà delle frasi del verbo essere non derivano da una polisemia del verbo essere ma dalle diverse strutture sintattiche nelle quali si trova. 

A.G. Spesso mi chiedo fin dove arrivano le parole. Tu in qualche modo lo dici, «dove non arriva la parola arriva il cervello», che è un sistema talmente complesso che mi permette di elaborare delle metafore molto forti. Ma qual è il luogo in cui le parole non sono in grado di restituire le mie emozioni, le mie sensazioni, il mio essere? Le parole in alcuni luoghi, in alcuni momenti sembrano non arrivare a restituire la sensazione vera che io sto provando. Come il ti amo. Quante polisemie ci sono dietro a questa espressione? Può essere molto meccanico, persino kafkiano. Ti amo vuol dire tutto e nulla, proprio perché si sedimenta su un immaginario.

A.M. Ci sono, secondo me, due livelli. Tu ora stai trasferendo il percorso della comunicazione da quando la strategia di comunicazione è efficace a quando invece la strategia con sé stessi e con gli altri non funziona. Si può riconoscere in due modi: uno, che è più semplice, è rendersi conto che quello che si sta dicendo, come si dice in italiano, «non rende l’idea». Questa è un’espressione “magica” che più di altre fa esattamente capire quello che sta dietro. «Non rendere l’idea» vuol dire che si ha una netta percezione di qualcosa ma non si è capaci di trasmetterla, cioè le parole scelte non soddisfano la nostra intuizione. Ti faccio un esempio. Da ragazzo andavo a Brooklyn a veder calare il sole, e telefonavo a casa, alle persone a cui volevo bene per cercare di descriverlo e alla fine dicevo sempre «Non ce l’ho fatta, devi venire qui!». Perché c’è un livello della parola che sono consapevole non renda l’idea.

A.G. Mentre il secondo livello a cui accennavi?

A.M. Il livello di non-corrispondenza. Questo secondo livello l’ho riscoperto in modo prepotente perché è l’unica cosa buona che ha partorito in me il Covid. Non come malattia ma come condizione. Quando è iniziato mi sono promesso che avrei letto un canto a sera della Divina Commedia, e a fine quarantena l’avrei finalmente letta tutta intera. Sono rimasto folgorato e tra le tante scoperte quella dell’incapacità di dire. Dante capisce molto bene che c’è qualcosa che non si può dire ma noi esseri umani siamo anche fortunati perché, accanto a questa sensazione, abbiamo anche una parola precisa, o un termine almeno, per identificare proprio ciò che non si può dire, cioè l’ineffabile. Se ci pensi, questo è un “miracolo” lessicale: è una parola che esprime esattamente l’incapacità di esprimersi a parole; questo è stupefacente, perché significa che c’è un limite intrinseco nel linguaggio. Torna ancora la riflessione sulla parola termine. Perché se ci pensi in realtà è una derivazione della logica medievale, il termine esprime esattamente il confine ma non il contenuto. Qui entro in una terza accezione discussa anche con Chomsky: non accettare l’idea di una traduzione automatica da una lingua all’altra, salvo casi banali. Questa idea la condividiamo sia io che te! Una macchina non traduce: trasferisce automaticamente e approssima senza capire.

A.G. In quanto una macchina non ha sensazioni con cui elaborare le parole. 

A.M. Si, ma non solo. Ammettiamo che possano esserci delle sensazioni artificiali, che istruiamo la macchina per avere freddo, aver fame ecc… Il punto sostanziale è che la macchina non può avere la sensazione di non avere detto delle cose che invece provava: per la macchina il termine «ineffabile» non ha senso, perché non può avere la sensazione di non aver reso l’idea. Il luogo tutto umano della comunicazione è forse proprio lo scarto tra quello che vogliamo dire e quello che riusciamo a dire. 

A.G. Sì, la macchina è senza pelle. 

A.M. Questo vuol dire che nella visione del linguista c’è l’idea che il non-detto, quello che sfugge, esattamente come tu dici, è una parte integrante del nostro sistema. Non può essere escluso, non è un difetto. È una parte costitutiva, se no saremmo delle macchine! In questo difetto sta il proprium della questione. Infine, c’è un ultimo punto: quando il linguaggio viene usato come copertura. Noi diamo per scontato che il linguaggio serva per comunicare. Ci sono però dei problemi di efficacia ovvero quando il linguaggio copre. Lo possiamo facilmente riscontrare nella medicina contemporanea, è emerso in La razza e la lingua.  Fino agli anni Quaranta tutte le patologie venivano comunemente descritte dalla comunità scientifica prendendo delle radici greche, e formando dei neologismi come ad esempio «gastroenterologia», «emicrania» ecc; allo stesso modo le parole di altre discipline o della tecnologia, come altri termini scientifici per esempio «telefono», «bicicletta» ecc. Il linguaggio era fatto per comunicare il più possibile, formando sempre più spesso parole nuove: una persona di cultura anche non specialista sapeva intuire cosa volessero dire questi neologismi ed erano anche facili da memorizzare. Negli anni Cinquanta, la medicina soprattutto ma non solo ha cambiato comunità di riferimento spostandosi negli Stati Uniti dove la cultura classica era ed è molto meno frequentata. Le nuove patologie sono tipicamente espresse in acronimi: HIV/AIDS, GERD, DHD; e così anche i termini tecnici: modem, laser, ecc. Ma gli acronimi hanno un effetto preciso e valutabile sulla comunicazione e anche sulla comunità stessa: un acronimo per essere compreso deve avere qualcuno che lo sciolga, non basta la cultura: deve esserci, per così dire, un sacerdote depositario della verità che li scioglie, quindi tu che non ne sei a conoscenza diventi un suddito ignorante. 

A.G. Affascinante questo: la medicina genera sigle esoteriche. Il paziente è sempre più escluso. Ha di fronte sacerdoti, non medici.

A.M. L’acronimo è il linguaggio usato come copertura, qualcuno detiene la chiave per il significato: tipicamente, gli altri no. Quindi questo è il tentativo opposto a quello che sono invece la divulgazione e la condivisione. Anche questo secondo me è un fatto notevole del linguaggio: la copertura. 

A.G. Mi ha colpito molto un’immagine che segna i tuoi libri: vedere il pensiero.

A.M. Ecco: ancora una volta c’è la parola vedere nell’idea. Io penso che la storia dell’umanità, stia tutta nel passaggio tra Erodoto e Tucidide. Lui, Erodoto, inizia con le storie, e sappiamo che l’etimologia di storia deriva dal verbo «vedere». Erodoto per primo racconta quello che vede non il mito. Poi Tucidide non usa più la parola storia ma usa la parola autopsia che è un’altra radice del verbo «vedere»: è vero che vedo ma vedo io stesso, quindi sono io il protagonista della visione. Il punto più alto della metafora del vedere come conoscere sta per la mia sensibilità personale nel Vangelo di Giovanni dove a quel punto lì è tutto visibile anche quello che non dovresti vedere, quello che non c’è, la prova apparentium.  

A.G. Sì, perché oltre che vedere il pensiero c’è anche la constatazione, utilizzando un sintagma poetico, che dietro la parola si nascondono delle altre parole. Bisognerebbe vedere anche cosa c’è dietro una parola. Robert Walser in La passeggiata ad un certo punto scrive, «basta con la vita dei pensieri», che vuol dire anche basta con la vita delle parole. Quindi, anche: ciò che c’è dietro le parole. Ma c’è un altro stimolo che tu affronti nei tuoi lavori: la questione delle lingue impossibili. Cosa spinge un essere vivente a generare un sistema di questo tipo? Per quanto riguarda una persona che non ne fa una professione come me è veramente un grosso mistero. Qual è l’impulso neuroscientifico, sentimentale, umano per elaborare una lingua artificiale, per esempio? 

A.M. Sei il primo che mi fa questa domanda, ed è quella che mi sta più a cuore perché tocca un punto centrale: chiunque l’abbia fatto ha voglia di immaginare una cosa impossibile. Ci sono due risposte alla tua domanda. Una razionale e scientifica, che ho utilizzato negli esperimenti di neuroscienze: per capire quello che c’è si può anche capire come mai non c’è quello che non c’è. Questo però non esaurisce la risposta a quello che tu hai posto e si riconosce una risposta emotiva, forse generata dalla paura: quando si ha paura di qualcosa, spesso si desidera che quel qualcosa arrivi perché l’attesa è troppo lunga e spesso più dolorosa della realtà. La paura dell’invenzione di una lingua che ti domini è una delle mie paure, certo non solo mia. Questa paura è stata certamente una delle spinte che mi hanno “costretto” a scrivere un romanzo (Il segreto di Pietramala) che avesse come protagonista una lingua capace di uccidere: la paura e la consapevolezza della complessità di questo codice straordinario che abbiamo solo noi esseri umani inscritto nella carne. Quello che ci fa dire oggi che la carne si è fatta logos, capovolgendo una visione che dura da duemila anni.

A.G. È sempre quello, Andrea, è sempre per quello, viviamo sempre per quello. La paura è la più grande compagna della nostra specie, persino più della morte.

ARTICOLO n. 36 / 2022

CONVERSAZIONE CON ALESSANDRO GALLENZI

Che cosa significa essere un editore?

Nel pensare all’editoria internazionale, oggi, sorgono parecchi interrogativi: come sta cambiando il lavoro culturale nel mondo? L’editoria riuscirà a rispondere alla molteplicità di stimoli da cui è sommersa ogni giorno? Che ruolo ricopriranno gli editori in futuro? Queste e molte altre domande danno vita a una serie di conversazioni con i protagonisti del mondo editoriale odierno. 

A. GENTILE: Che cosa significa essere un editore? Giangiacomo Feltrinelli sosteneva che un editore è una carriola, un mezzo di trasporto tramite cui i libri passano dalle mani dell’autore a quelle dei lettori. Il defunto Roberto Calasso, invece, vedeva l’editore più come un artista, che concepisce la creazione del proprio catalogo come uno scrittore fa con il suo romanzo, con un’impostazione artistica e creativa. Quale di questi due approcci consideri più affine al tuo?

A. GALLENZI: Entrambi rientrano nella mia filosofia editoriale. Da un lato concordo con chi, come Giangiacomo Feltrinelli e il suo amico John Calder, di cui abbiamo ereditato le pubblicazioni, sostiene che l’editore sia un canale non solo tra autori ed editori, ma anche tra passato, presente e futuro. A volte un editore serve a mantenere viva un’eredità che altrimenti verrebbe dimenticata. Qualche tempo fa abbiamo pubblicato una traduzione inglese di Costantinopoli di Edmondo De Amicis, volume che era fuori catalogo da anni anche in Italia, ed Einaudi è rimasto talmente colpito dalla nostra idea da farlo ristampare anche in italiano. Questo genere di contaminazioni è fondamentale per l’editoria. D’altra parte, è anche vero che mi sento più vicino all’approccio di Roberto Calasso e mi piace pensare che il nostro catalogo, nel suo complesso (con qualche rara eccezione), sia in grado sia di rispecchiare i nostri gusti, sia di presentarsi come il tentativo di creare un’opera d’arte a sé. Un’immagine che mi piace utilizzare per descrivere un editore è quella del curatore di una galleria d’arte, che seleziona una serie di opere e trova un tema che le accomuni, comunicando con i visitatori in toni semplici e dimessi. Calasso era un maestro in questo, perché è molto importante che il messaggio non sia troppo appariscente o importuno e che gli editori sappiano fare un passo indietro e lasciar andare le proprie creazioni.

A. GENTILE: Prima ancora di essere editori siamo lettori, lettori che però affrontano ogni libro in maniera diversa da chiunque altro, arrivando a dissezionare il testo come dei chirurghi. Mi sembra quindi doveroso chiederti dei libri che hanno influito di più sul tuo lavoro di editore, quelli a cui torni quotidianamente. Quali pagine irrinunciabili animano le tue strategie editoriali?

A. GALLENZI: Credo di essere molto fortunato, per non dire privilegiato, perché la mia esperienza di traduttore e i miei interessi in campo linguistico mi hanno aiutato a vedere i testi in maniera diversa e a riconoscerne la bellezza e la complessità, con tutte le loro sfaccettature. Sono sempre stato un lettore lento, analitico, e ci sono una serie di libri su cui continuo a tornare come metro di misura del mio lavoro di editore. La Divina commedia, la Vita nuova e le Rime di Dante sono tra le opere più importanti del mio sviluppo sia come lettore sia come editore. Poi citerei le opere di Dostoevskij, Bulgakov, Gogol, le poesie di Keats, Dylan Thomas, W.B. Yeats. In più, ho una vera passione per Alexander Pope, Smollett, Fielding, Sterne, George Eliot, Charlotte Brontë, Louis-Ferdinand Céline. Ma potrei andare avanti a lungo, perché il problema è che, quando si scopre la bellezza della letteratura, ci si sente quasi obbligati a condividere la propria passione con gli altri.

A. GENTILE: Come sai, oggi i libri sono solo una parte di una delicata equazione di contenuti, talora elegante, spesso sorprendente. Dai film e i programmi televisivi disponibili in streaming in un clic a podcast, app e giochi per dispositivi mobili, siamo circondati da storie, parole e idee, una nube di contenuti che respiriamo costantemente fin da quando ci alziamo, andando al lavoro, parlando con i colleghi, durante una cena romantica al ristorante. È una nube a cui è impossibile sfuggire e che può rivelarsi soffocante, ma anche inebriante. Quali altri “oggetti culturali”, al di là dei libri, influiscono sulle tue strategie editoriali? Hai mai cercato di stabilire una qualche collaborazione tra libri e altri mezzi espressivi che potesse rivelarsi mutuamente vantaggiosa?

A. GALLENZI: I libri sono strumenti estremamente duttili e versatili, capaci di adattarsi ai tempi. È un formato che è rimasto (perlopiù) inalterato nei secoli, sebbene i contenuti continuino a mutare per rivolgersi a generazioni di lettori sempre nuove. Come casa editrice, noi non siamo contrari al cambiamento e ci siamo adeguati alla rivoluzione dell’ebook, ma tendiamo a opporre più resistenza alle ultime mode o alle tendenze passeggere, come i libri scritti da influencer o i romanzi epistolari informa di email, messaggio di testo o tweet. Non abbiamo niente in contrario a nuove idee capaci di coinvolgerci ed emozionarci, ma i nostri sono gusti abbastanza tradizionali e non ci piacciono i libri zeppi di trovate ad effetto. In breve, il nostro programma non include molti titoli “multimediali”.

A. GENTILE: Torniamo a parlare di libri nella loro forma più pura. I libri sono oggetti strani e mi capita spesso di chiedermi quale sia il loro ruolo nella società contemporanea, soprattutto a fronte della proliferazione dei mezzi espressivi di cui abbiamo parlato prima. Come pensi venga percepito comunemente l’oggetto libro? Viene considerato una semplice fonte di intrattenimento? O rappresenta ancora una nuova esperienza emotiva, un diverso modo di interrogarsi sulla nostra realtà? Franz Kafka diceva che abbiamo bisogno di libri capaci di rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Ma riescono ancora a farlo?

A. GALLENZI: I libri sono strumenti versatili ad ampissimo raggio, capaci di intrattenere, mettere in discussione idee, regalare momenti di evasione, suscitare emozioni, favorire scoperte, generare dibattiti e via dicendo. I lettori possono ricavarne quello che vogliono. Lo stesso libro, poi, è in grado di suscitare reazioni diverse in persone diverse. Un libro può innescare o sedare una rivoluzione. Un libro può cambiarti la vita. Credo sia la forma di comunicazione più sofisticata al mondo, perché riesce a impegnare le nostre menti in maniera assai più profonda del cinema, delle arti visive, della musica o dei media digitali, che si basano perlopiù su vista e udito. Dal momento che la nostra essenza si costruisce sul pensiero e sul linguaggio, i libri riescono ad assorbire la nostra mente, offrendo una maniera più complessa di interrogare la realtà fuori e dentro di noi. Keats ha paragonato la sua prima lettura di Omero alla scoperta di un nuovo mondo, mentre Borges ha equiparato il primo incontro con Dostoevskij alla scoperta dell’amore o dell’oceano: un momento indimenticabile della propria vita. In poche parole, un libro consente di accedere a un mondo fisico e spirituale del tutto nuovo, da esplorare e riscoprire tutte le volte che si vuole nel corso della propria vita. In più, sì, anch’io sono convinto che i libri siano in grado di offrire emozioni uniche, ragion per cui hanno avuto tanto successo nella storia dell’umanità.

A. GENTILE: A questo punto non posso che chiederti dei lettori. Che caratteristiche ha il lettore ideale che hai in mente quando lavori, se ne hai uno? E, in quel caso, come lo definisci? Lo cerchi, tentando di elaborare l’esperienza di lettura migliore da offrirgli, o lo inventi, muovendoti nell’universo editoriale e creando esigenze e spazi che prima non esistevano?

A. GALLENZI: Il mio “cortese spettatore” (per citare il prologo del Troilo e Cressida shakespeariano)[CP1]  è curioso, intelligente, indagatore e comprensivo, ama le sfide ma non è mai petulante né pedante. Voglio poter condividere i miei gusti e i interessi con i miei lettori, voglio che possano provare un po’ della gioia e dell’allegria che mi hanno spinto a pubblicare i libri che porto alla loro attenzione. Ogni libro è un invito aperto, ma, siccome so che è impossibile accontentare tutti, per me è questione di spargere dei semi che possano crescere, più che di sperare che qualcuno abbocchi alla mia esca.

A. GENTILE: A prescindere dall’immagine che ogni editore può avere dei fruitori dei libri che pubblica, i libri sono spesso considerati dei ponti, soprattutto in epoche di grandi divisioni. È uno stereotipo, certo, che però (come tutti gli stereotipi) racchiude anche una briciola di verità, seppur messa continuamente in discussione da barriere linguistiche, politiche e sociali. Negli anni, molti hanno immaginato una casa editrice paneuropea, in grado di pubblicare libri in più lingue contemporaneamente per i lettori di tutto il continente. È semplice utopia o è un progetto che, con le nuove tecnologie e una rinnovata esigenza di cooperazione, potrebbe presto diventare realtà? Tu cosa ne pensi?

A. GALLENZI: Ci hanno già provato in molti, ma senza successo. C’è stato un periodo in cui, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, un gruppo di editori accomunati dalla stessa mentalità e visione politica (Giangiacomo Feltrinelli, John Calder, Barney Rosset, Klaus Wagenbach, Heinrich Ledig-Rowohlt, le case editrici olandesi Bezige Bij e Nijgh & van Ditmar, Jérôme Lindon, Christian Burgois e altri) ha creduto che sarebbe stato possibile pubblicare i libri migliori d’Europa in tutte le lingue principali. A far naufragare il progetto sono state le forti individualità dei partecipanti e l’enorme divario nei gusti e nelle aspettative dei lettori da un paese all’altro. L’editoria è un’attività caratterizzata da una forte idiosincrasia. Forse è proprio questo a rendercela così affascinante: la cosiddetta “bibliodiversità”, un concetto che in realtà sarebbe importante coltivare e salvaguardare. Credo che oggi realizzare un progetto come quello sarebbe ancora più difficile (soprattutto per ragioni legate alla complessità del mercato e al passaggio a un’editoria più commerciale), eccetto forse per operazioni molto commerciali come quelle relative alle saghe di Harry Potter ed Elena Ferrante, sebbene il recente passato ci abbia dimostrato che non esistono formule garantite, nemmeno per i best seller: ciò che ha successo in Francia non piace in Gran Bretagna, quel che fa impazzire Italia e Spagna in Germania viene considerato noioso e così via.

A. GENTILE: Nonostante l’esigenza di cooperazione a cui abbiamo accennato, tutti noi abbiamo le nostre differenze, differenze che è importante tutelare anche nel trovare nuovi modi di collaborare e di esistere insieme, perché sono proprio le nostre differenze a renderci unici. Un altro stereotipo, forse, ma in editoria ne è lampante esempio il contrasto tra gli editori inglesi e americani da un lato e quelli europei dall’altro. In genere, infatti, nel Regno Unito e negli Stati Uniti ogni libro è un mondo a sé, e l’identità dell’editore passa più in secondo piano rispetto a quella del curatore che si occupa di una serie di pubblicazioni; in Europa, invece, ogni casa editrice tende ad avere un’identità riconoscibile fin dall’inizio, basti pensare alle blanche di Gallimard o ai colori pastello delle copertine Adelphi su uno scaffale. Quali vantaggi presentano secondo te questi due approcci e quale senti più tuo?

A. GALLENZI: Poco dopo aver iniziato la mia carriera editoriale in Gran Bretagna ho scoperto che, per avere successo lì, avrei dovuto ritarare la mia bussola di editore e produttore. Se avessi potuto seguire il mio istinto e il mio gusto personale avrei aderito al modello francese di Fayard e Gallimard, o il modello italiano di Adelphi e Sellerio. Alcune case editrici inglesi ci hanno provato (la prima Pushkin Press, Maia, Peirene, ecc.), ma non sono mai riuscite a liberarsi dalla percezione di essere editori “di nicchia”, difficili e inaccessibili. Per quanto mi riguarda, con Hesperus come con Alma, ho cercato di dare particolare enfasi alla cura editoriale, alla qualità della traduzione e all’aspetto estetico del libro, facendo ricorso a copertine con immagini o illustrazioni fuori dall’ordinario, in grado di far risaltare ogni volume a sé e non come parte di una serie. Abbiamo utilizzato carta sottile Arctic Paper e alette molto ampie, ma i nostri libri sono sempre stati considerati accessibili e hanno riscosso grande successo tra vecchi e giovani. Il motto di Hesperus era “Et remotissima prope”, cioè “avvicinare ciò che ci è lontano” (in termini sia di spazio che di tempo), e siamo riusciti a fare esattamente quello, anche dove altri avevano fallito: siamo riusciti a trovare la giusta formula commerciale senza dover rinunciare alla nostra integrità di editori. Il mercato britannico è in continua evoluzione e per avere successo noi dobbiamo evolvere con lui, senza fossilizzarci su un unico approccio.

A. GENTILE: Come i nostri lettori avranno intuito da questa conversazione, l’editoria è un’attività molto idiosincratica. Come immagini il futuro del settore? Umberto Eco diceva che i libri sono “oggetti eterni”, cioè oggetti che, come una forchetta o un cucchiaio, sono talmente perfetti così come sono da non dover subire alcun cambiamento. Credi che valga anche per i libri? Pensi che nei prossimi anni i libri rimarranno immutati, dal punto di vista fisico e spirituale? Altrimenti, come pensi che cambieranno?

A. GALLENZI: Sono completamente d’accordo con Umberto Eco, anzi, il paragone tra un libro e una forchetta e un cucchiaio ricorre molto spesso nei miei interventi sull’editoria, a dimostrazione che ci sono oggetti perfetti così come sono, senza bisogno di migliorie. I PDF da leggere online o su tablet e gli ebook per Kindle non sono altro che una versione scadente e meno valida dell’originale cartaceo. Voglio credere (e il recente revival dei libri stampati in tutti i mercati ne è testimone) che i libri rimarranno immutati, sempre pronti ad adattarsi nel contenuto e nell’estetica per poter parlare alle nuove generazioni, ma senza perdere il seducente piacere che ci trasmettono da secoli.

A. GENTILE: Per concludere la nostra conversazione, passiamo a qualcosa di più faceto. Abbiamo parlato del futuro dell’editoria, perciò ora vorrei saperne di più sul futuro della tua casa editrice. Che cosa avete in programma nei prossimi sei mesi? C’è qualche pubblicazione che ti sta particolarmente a cuore?

A. GALLENZI: Non vedo l’ora di pubblicare le ritraduzioni inglesi[CP2]  di Delitto e castigo e di Pinocchio, oltre che di portare alla luce a una perla letteraria assai poco conosciuta di Charles Dickens, Pictures from Italy, in cui l’autore descrive le proprie impressioni nell’anno in cui ha vissuto nel nostro paese, tra il 1844-45. Inoltre sono molto contento perché, dopo l’uscita di una traduzione a mio nome delle lettere di John Keats per Adelphi, La valle dell’anima, a settembre Alma pubblicherà il mio primo volume di saggistica, Written in Water, sugli ultimi mesi trascorsi dal poeta in Italia fino alla sua morte.

A. GENTILE: Un’ultima domanda: se dovessi scegliere un classico del passato che, se arrivasse sulla tua scrivania oggi, non riusciresti a mandare alle stampe, quale sarebbe?

A. GALLENZI: Ce ne sono tantissimi, ma uno che continuo a riprendere in mano e poi a rimettere sullo scaffale è Il pellegrinaggio del cristiano di John Bunyan, forse troppo denso e dal ritmo troppo lento per un’epoca con una curva dell’attenzione ridotta come la nostra.

Traduzione di Camilla Pieretti.

ARTICOLO n. 32 / 2022

A CONVERSATION WITH ALESSANDRO GALLENZI

What does it mean to be a publisher?

When thinking about international publishing, there are many questions we should ask ourselves: how is cultural work changing in the world? Will the publishing world be able to respond to the multiplicity of stimuli from which it is overwhelmed every day? What will the role of the publisher be in the future?
These, and many other questions, open up a series of conversations with the protagonists of today’s publishing industry.

A.GENTILE What does it mean to be a publisher? Giangiacomo Feltrinelli used to say that a publisher is like a wheelbarrow, a mean of transportation, thanks to which books pass from an author’s hands to a reader’s. The late Roberto Calasso, on the other hand, thought of a publisher as an artist, who thinks about the construction of a catalogue as a writer thinks about his novel, with a creative, artistical mindset. Which of these two positions you feel closer to?

A.GALLENZI Both of these approaches are part of my publishing ethos. On the one hand I agree with the likes of Giangiacomo Feltrinelli and his friend John Calder, whose list we inherited, that a publisher is a conduit – not just between authors and readers, but also between past, present and future. Sometimes a publisher is necessary in order to keep alive a legacy that would otherwise be forgotten. Once we published an English translation of Edmondo De Amicis’s Costantinopoli, a book which had been long out of print even in Italy, and Einaudi was intrigued by our idea and reissued it there. This kind of cross-pollination is very important in publishing. I do, however, feel closer to Roberto Calasso’s approach, and like to think that our list, on the whole (with some exceptions), is a reflection both of our taste and an attempt to create a work of art in itself. The image I like to use to describe a publisher is that of a gallery curator, who selects a number of works and creates a narrative that links them, speaking to the viewer in simple, understated terms. It is essential, and Calasso was a master at this, that the message is not too loud or obtrusive, and that publishers know how to take a step back and let go of their own creations.

A.GENTILE Before being publishers, first of all we are readers, though readers who read books in a way no one else does, sometimes dissecting a text like a surgeon would. My question then would be about the books that influenced you the most in your work as publisher, the ones you keep returning to in your daily job. What are the most vital pages that give shape to your publishing strategies?

A.GALLENZI I feel very lucky and privileged, because my experience as a translator and my interest in linguistics helped me to look at texts in a different way, and to recognize their beauties and complexities in all their multifaceted aspects. I have always been an extremely slow and “dissecting” reader, and there are a number of books I keep going back to as a kind of measuring rod for my work as a publisher. Dante’s Divina commediaVita nuova and Rime are among the most important works in my own development both as a reader and as a publisher. Then I would say the works of Dostoevsky, Bulgakov, Gogol, the poetry of Keats, Dylan Thomas, W.B. Yeats. I am very passionate about Alexander Pope, Smollett, Fielding, Sterne, George Eliot, Charlotte Brontë, Louis-Ferdinand Céline. The list could go on – the trouble is that once you discover the beauties of literature, you almost feel compelled to share your passion with others.

A.GENTILE Of course, today books are only one part of a delicate, sometimes elegant, often surprising equation of content. From movies and tv shows available for streaming at a click of our devices, to podcasts, mobile Apps and games, stories, words, ideas are all around us, a cloud of content that we breathe, constantly, as we do our morning routines, go to work, talk with a colleague, have a romantic dinner in a restaurant. It’s inescapable and can be suffocating, this cloud, but also exhilarating. What other “cultural objects” beside books are currently influencing your publishing strategies? Are you pursuing any type of cooperation between books and other media that might turn out to be mutually beneficial?  

A.GALLENZI Books are a very supple and versatile communication tool, and they continue to adapt with the times. It is their format that has remained (in most cases) more or less the same over the centuries, but their content keeps morphing in order to speak to new generations of readers. As a book publisher we are not averse to change, and we have embraced the eBook revolution, but tend to resist the latest fads or fashions, such as books by influencers, epistolary novels written as emails, text messages or tweets. We are not closed to any new idea that speaks to us and excites us, but our taste is fairly traditional, and we don’t like gimmicky books. In short, you won’t find many “multimedia” titles in our programme.

A.GENTILE But let’s go back to books. Books are strange objects, and I often wonder what their role in our contemporary society is – especially given the proliferation of media we were talking about. What do you think the common perception of books is? Are they thought about as merely entertaining devices? Do they still represent a different kind of emotional experience, or a different way to interrogate our reality? Franz Kafka used to say that we need books that break the icy sea inside ourselves. Do books still manage to do this? 

A.GALLENZI Books are extremely wide-ranging and eclectic: they can entertain, challenge ideas, grant a little escapism, kindle emotions, lead to a discovery, create a debate and so on. Readers can take what they want from a book. Even the same book can elicit different reactions from different readers. A book can spark or quell a revolution. A book can change one’s life. It is perhaps the most sophisticated form of communication, because it can engage our minds in a more profound way than, say, cinema, visual arts, music or online media, which are mostly based on vision and hearing. Since what we are is clearly defined by thought and language, a book absorbs all our mind and offers a much more complex way to interrogate our internal and external reality. Keats compared his first reading of Homer to the discovery of a new world; Borges likened the discovery of Dostoevsky to that of love or the ocean – a memorable event in our lives. In short, a book gives access to an entire new physical and spiritual world, which can be explored and rediscovered many times during one’s life. And yes, I believe books can offer a unique kind of emotional experience: this is what has made them so successful throughout human history.

A.GENTILE A follow-up question would have to do with readers. What’s the ideal reader you have in mind as you work? And how this ideal reader, if present at all, comes to you: do you search for them, trying then to find the best possible reading experience for them; or do you invent them, meaning that you move about the publishing world creating needs and spaces that weren’t there before?

A.GALLENZI My «eternall reader» (to quote from the prologue to Shakespeare’s Troilus and Cressida) is curious, intelligent, questioning, understanding, happy to be challenged and never petulant or pedantic. I want to share my interests and my tastes with my readers, and I want them to feel some of the joy and good humour that inspired me to publish the books I bring to their attention. Each book is an open invitation, but since I am fully aware that it is impossible to make everyone happy, for me it’s more like scattering seeds than casting a baited hook.

A.GENTILE However, a publisher thinks about the readers who the books she publishes are going to meet, books are often thought of as bridges, especially in times of great division. It’s a platitude, of course, but one that holds – like all platitudes do – a morsel of truth, though one that is consistently challenged by political, societal and linguistic barriers. Many have dreamt, over the decades, of a fully European publishing house, that can make a book available in multiple languages at the same time, for readers across the Continent. Is it utopia, or is it something that new technology and a renewed need for cooperation are making more and more possible? How would you feel about such a project?

A.GALLENZI Many have tried and failed. There was a time when, during the late Sixties and early Seventies, when a group of likeminded and politically aligned publishers (Giangiacomo Feltrinelli, John Calder, Barney Rosset, Klaus Wagenbach, Heinrich Ledig-Rowohlt, the Dutch firms Bezige Bij and Nijgh & van Ditmar, Jérôme Lindon, Christian Burgois and others) thought it possible to publish the best books from Europe in every major language. But what made their project unrealizable was their own strong individuality and the gulf in readers’ tastes and expectations across the borders. Publishing is a very idiosyncratic pursuit. Perhaps this is the beauty of it – what we call «bibliodiversity», something that in fact should be fostered and safeguarded. I think that, today, making this happen would be more difficult than ever (mainly for reasons which have to do with the complexity of our market and a shift towards corporate publishing), extremely commercial publishing operations such as Harry Potter and Elena Ferrante aside. Nonetheless, and as we have seen recently, there is no guaranteed formula of success even for best-sellers: what France adores, Britain dislikes – what Italy and Spain rave about, Germany finds boring, and so on.

A.GENTILE Despite the need for cooperation we were talking about, we do have our differences, of course, and differences must be treasured even as we find new ways of working together, of being together, because it’s our differences that make us unique. Another platitude, perhaps, but one that is often exemplified in publishing by the contrast between British and American publishers and European ones. Generally speaking, and on the one hand, every book is different in the UK and the US, thus, a publisher’s identity is less perceivable that the identity of the editor building a particular list. On the other hand, and in the European landscape, a publisher’s identity tends to be immediately recognizable from the get-go – think of a Gallimard blanche, or Adelphi’s pastel colours on a bookshelf. What do you think the respective merits of the two approaches are? And which one do you feel closer to?

A.GALLENZI Soon after starting my career in publishing in Britain, I discovered that I would have to adapt my editorial and production compass in order to be successful. If I had followed my instincts and personal taste, I would have conformed to the French model of Fayard and Gallimard, or the Italian model of Adelphi and Sellerio. Other British publishers have done that (the first Pushkin Press, Maia, Peirene, etc.), however, they have never been able to shake off the perception of being «niche», difficult and inaccessible. My approach, first at Hesperus and later at Alma, was to put an emphasis on the editorial care, the quality of the translation and the physical appearance of the book, using striking images or illustrations for our covers and making every single volume stand out on its own, rather than becoming part of a series. We used fine Arctic paper and «French» flaps, but our books were perceived as accessible and were a hit among younger and the older generations alike. Our motto at Hesperus was «Et remotissima prope» – «bringing near what is far» (both in terms of space and time) – and we managed to do what others had failed to do before: finding the right commercial formula without having to sacrifice our editorial integrity. As the British market evolves, we need to keep changing too if we want to remain successful, so we can’t adopt a one-layered approach to publishing.

A.GENTILE Publishing, as our readers may have gathered from this conversation, is sometimes a very idiosyncratic business. How do you imagine the future of our industry? Umberto Eco used to say that books are «eternal objects»; objects that, like a fork or a spoon, are so perfect from the moment of their invention that they don’t need changes. Do you think this is true for books? Do you believe that books will stay the same – physically and spiritually – through the next years? And if, on the contrary, you think they will change, how will they do it?

A.GALLENZI I totally agree with Umberto Eco, and, in fact, the comparison of a book to a fork or a spoon is one I have used many times in the past during my talks about publishing to illustrate that some objects are perfect as they are and need no improvement. Both PDFs – which are meant to be read online or on tablets – and eBooks for Kindle devices are in fact a substandard, diminished version of the original paper artefact. I want to believe (and the recent resurgence of the printed book in all markets bears testimony to this) that books will remain the same – always adapting in content and presentation. And I do believe they will speak to new generations, remaining the lusciously pleasurable objects they are to our senses today, as they have been for centuries.

A.GENTILE As we wind down our conversation, perhaps it’s time to move into more playful territory. We talked about the future of publishing, so, perhaps, now it’s time to talk about the future of your publishing house. Give us a sneak peek into the next six months. What are you most excited for in publishing?

A.GALLENZI I am particularly looking forward to brand-new translations of Crime and Punishment and Pinocchio, and to the publication of a lesser-known literary gem by Charles Dickens, Pictures from Italy, detailing his impressions of our country during his one-year stay in 1844–45. Having recently published a translation of John Keats’s letters for Adelphi, La valle dell’anima, I am thrilled to be publishing in September, under our Alma imprint, my first non-fiction book, Written in Water, about the poet’s final months and death in Italy.

A.GENTILE Last question. If you were to choose a classical book from ages past that were to reach your desk today and that you wouldn’t be able to pass on, which book would that be?

A.GALLENZI Too many to mention, but one that keeps coming into my hands and is swiftly put back onto the shelves is John Bunyan’s The Pilgrim’s Progress – possibly too dense and slow-paced for our times of short attention spans.