Sheena Patel

ARTICOLO n. 80 / 2022

NON C’È STORIA COME

Conseguenze emotive di una fanbase

Pubblichiamo un’anticipazione da Ti seguo, l’esordio letterario già di culto in Inghilterra di Sheena Patel, una delle componenti del collettivo 4 BROWN GIRLS WHO WRITE. Tradotto da Clara Nubile per Atlantide, in libreria dal 19 ottobre.

La vulnerabilità dona autenticità alla mia voce e colma le lacune, perché non ho il sostegno più formale di una laurea specialistica, o il riconoscimento di un premio o il prestigio di un contratto di pubblicazione vinto da un editore all’asta. Ho una laurea triennale in Lettere, eppure quando devo confrontarmi con la scrittura, vado quasi alla deriva. Faccio affidamento sui particolari autobiografici, mastico la mia vita, la sputo fuori e l’abbellisco sulla pagina. Nessuno può contestare la mia esperienza, anche se potrebbero scagliarsi contro il modo con cui comunico quell’esperienza, ed è questa la mia prima linea di difesa: mi è successo veramente è in grado di respingere qualsiasi accusa, anche di usare gli strumenti della scrittura in modo rozzo e amatoriale. 

Qual è il confine tra essere vulnerabili e prostrarsi davanti a un sistema che non ti riconoscerà?L’onere non ricade mai sul sistema che deve correggere i suoi rigidi parametri, ma spetta a te essere metamorfico e accettare le regole. Indosso la vulnerabilità come un’arma contro questa cultura? Se mi volete dura, e sempre più dura per affrontarvi, mi ribello essendo dolce come una caramella gommosa, ma davvero dolce, sempre più dolce e gommosa per avere lo stesso impatto. Trasformo il mio dolore in un’arma e mi faccio del male crogiolandomi in questo dolore, nutrendolo, mettendomi in pericolo per incoraggiarlo, e poi lo rielaboro sotto forma di parole per mostrarlo, per mostrare alla società che sono un essere umano e provo dolore, proprio come voi. È questa violenza rivolta all’interno, un coltello nella mia mano, il peso del mio corpo che preme fino all’impugnatura? 

La stessa storia è raccontata più volte, tante volte, da tutti noi. L’immaginazione umana è stata incanalata per pensare lungo le linee strette dell’algoritmo: se ti è piaciuto questo, allora amerai quest’altro. Le narrazioni per noi disponibili si basano sulle nostre identità, così come le storie che sono approvate dal mercato e dai social media. Hanno in sé una familiarità ottundente. Noi immigrati di seconda generazione abbiamo il privilegio di poterci autorealizzare. Facciamo sculture, dirigiamo film, scriviamo commedie, romanzi, memoir e poesie sul fatto di non avere una casa, di cercare una casa, di vivere tra due tipi di casa, sul cos’è casa, su quanto ci sentiamo tutti male, sulle relazioni miste che intraprendiamo con i bianchi, perdendo la nostra lingua che appartiene a una cultura a cui siamo rimasti aggrappati con tenacia, tanto per cominciare; raccontiamo l’effetto che tutto questo ha avuto su di noi, parliamo dalla posizione della vittima. 

Per un algoritmo che non abbiamo ideato noi, per una piattaforma che non è stata progettata affinché potessimo attirare l’attenzione di un sistema culturale che ci esclude, ci facciamo ulteriormente del male inscenando la nostra Alterità, diventiamo Altri da noi stessi per avere like, per essere ricondivisi e avere approvazione, per avere un seguito, per costruirci una fanbase? Quali sono gli effetti di questa alienazione, e soprattutto ce ne frega qualcosa? Il bisogno di avere dei fan devoti è l’espressione più profonda della paura di essere anonimi, perché sappiamo che nel frastuono c’è protezione. Non vogliamo scomparire dentro una massa senza nome se Qualcosa di Brutto Dovesse Succedere. Se restiamo parte delle masse, sappiamo che soffriremo la doppia ingiustizia dell’abbandono istituzionale da parte della polizia o del sistema giudiziario, aggravato dal crimine originale – come nel caso dei nostri omicidi (Stephen Lawrence, Nicole Smallman e Bibaa Henry, ma anche troppi altri), o l’errore giudiziario che ha fatto storia (lo scandalo dell’ufficio postale), la minaccia di deportazione da parte del Ministero degli Interni (lo scandalo Windrush) o la perdita della cittadinanza (Shamima Begum) per aver commesso un terribile errore da ragazzina. Il desiderio ardente di avere una fanbase è davvero l’espressione di quanto ci sentiamo politicamente impotenti? O è qualcosa di completamente diverso?Anche se sosteniamo di essere socialisti e marxisti nei nostri ideali, i social media e la caccia alla fama all’interno di questa struttura non sono forse l’espressione più pura della politica individualista, thatcherista e neocolonialista, in cui ci trasformiamo in marche individuali come da copione, lanciando noi stessi come start-up mentre ci camuffiamo dicendo che siamo “al servizio” delle nostre “comunità”, come se essendo davvero fedeli a noi stessi facessimo un enorme favore a tutti gli altri? 

La strada più facile per costruirsi un seguito è penetrare nella cultura, e il modo più veloce è raccontare la storia che vogliono sentirsi raccontare, la storia della nostra assimilazione nel mondo dei bianchi, o dell’avversione, o del fallimento di quest’assimilazione, così i bianchi che detengono le chiavi del castello possono restare a bocca aperta e scuotere la testae dire, non sapevamo mica che le cose stessero così male, è il [inserite l’anno] per lamor di Dio, e poi magari abbasseranno il ponte levatoio per farci entrare? Sappiamo che piegarci a questo sistema ci assicurerà lo status che cerchiamo. Solo così possiamo avere un “nome” e sederci alle tavole rotonde e parlare della “diversità” e inventarci soluzioni serie dentro gli edifici storici davanti a un pubblico rapito, che funge da cassa di risonanza e non arriverà mai a nulla eccetto sentirsi ben disposto nei nostri confronti a causa del malessere che proviamo per lo stato del mondo; tutta questa materia diventa i seminari che teniamo, i libri che scriviamo quando strilliamo, so cos’è veramente la Gran Bretagna e voi no, comprate il mio libro per scoprire la Verità.

Una fanbase è il mezzo per ottenere gli anticipi sui libri, per assicurarci gli inviti ai premi prestigiosi, per essere l’attrazione principale in uno dei padiglioni più piccoli dei più grossi festival letterari, e un giorno forse riusciremo persino a travestirci da guardiani diventando parte della giuria di un premio benvisto. Pensiamo che spiegare noi stessi o giustificare la nostra esistenza non sia un prezzo troppo alto da pagare per aver accesso a quei cancelli dorati, dietro cui i bianchi liberali e creativi ci trasformeranno in un simbolo del loro progresso ideologico – pensano di essere così esotici da poter stare nelle nostre opere, sono davvero affilate, davvero underground, o più probabilmente ci cammineranno intorno in punta di piedi, con deferenza ma continuando a escluderci; non è un prezzo così alto per essere ammessi nel sistema culturale, ecco come ragioniamo. Se ci specializziamo nel raccontare agli altri Cos’è davvero il mondo: una relazione di razze, non ci pesa poi tanto inventare queste ballate pornografiche sul trauma per ottenere un briciolo di status sociale. Ci rattrista sapere che niente cambia veramente a livello collettivo, ma ci facciamo rassicurare dal pensiero che per me qualcosa è cambiato a livello individuale, mentre nuotiamo a dorso nel vasto e placido mare della superiorità legittima.

© Sheena Patel, 2022
© Edizioni di Atlantide srl, 2022