Salvatore Ferlita

ARTICOLO n. 67 / 2021

SCRIVERE L’APOCALISSE

Giorgio Manganelli l’aveva a suo tempo spiegato: «La parola stessa, “Apocalisse”, pare essersi staccata dal libro che designa, come una delle belve volanti che lo affollano, e si muove nel nostro cielo con un messaggio ferreo e angoscioso, è una belva dell’intelligenza, non cerca di colpire le nostre carni, ma introdurre nella nostra mente una immagine rovinosa e sacra, il sigillo di una catastrofe che non è biologica, né ecologica, né nucleare, né epidemica: è l’idea della fine come significato, della morte totale di questo mondo come atto dotato di senso, anzi idoneo a conferire senso a tutto ciò che, fino al momento finale, si vestiva dei panni fastosi della “storia”». 

È il passaggio forse più intenso e vorticoso dell’abbagliante introduzione vergata dall’autore di Letteratura come menzogna per un’edizione oggi introvabile del libro dell’Apocalisse, arricchito dalle xilografie del grande Albrecht Dürer. La pervasività che l’apocalisse ha da sempre registrato nell’immaginario degli scrittori sarebbe dunque legata, a detta di Manganelli, all’idea della fine come atto corredato di senso, in grado di trasmettere tale significato a quello che continua a sembrarci, nonostante tutto, scandalosamente insensato, ossia al momento estremo della Storia, a quell’attimo ferale in cui calerà risolutivamente il sipario sulle nostre spoglie mortali. 

Si tratta, insomma, di una sorta di legittimazione logica. Da qui, probabilmente, il fascino che sprigiona ogni crepuscolo, come rilevava Borges: «Perché ci attrae la fine delle cose? Perché più nessuno canta l’aurora e non v’è chi non canti l’occaso? Perché ci attrae più la caduta di Troia che le vicissitudini degli Achei? Perché istintivamente pensiamo alla sconfitta di Waterloo e non alla vittoria? Perché la morte ha una dignità che la nascita non possiede? Perché la tragedia gode di un rispetto che la commedia non ottiene? Perché sentiamo che il lieto fine è sempre fittizio?». 

Se il lieto fine risulta ingannevole, artefatto, simulato, tremendamente svenevole, il finale tragico ha invece un che di irresistibile e insieme irriducibile, di misteriosamente attraente: esso è l’accordo non risolto in musica che scongiura la più banale armonia empatica, che mette in scacco l’eufonia dei destini e dei sentimenti. 

Il finale tragico piomba alla stregua di un meteorite inarrestabile. A maggior ragione, aggiungiamo noi, quando la parola fine fa rima con catastrofe, sciagura, calamità indifferibile. Il disastro conclusivo ai danni dell’uomo e della natura dove abita, del resto, nel tempo ha attecchito come l’edera nelle opere di diversi autori. Con una progressione inquietante, in ragione probabilmente del grido d’allarme che da più parti si è alzato, e che adesso, trasmutatosi in consapevolezza seppure tardiva, tallona le nostre coscienze. 

Anche se eravamo stati avvisati: dalla sacra scrittura per esempio, sulla base della quale sappiamo già che, a ridosso della fine dei tempi, le acque diventeranno «amare», le creature dell’oceano periranno, si abbuieranno la luna e le stelle e infine il sole, arroventatosi ormai parossisticamente, incenerirà l’umanità l’intera. È chiaro come questo passaggio della Bibbia abbia già a suo tempo enfatizzato la responsabilità umana per la degradazione ecologica, la sua rassegnazione dinnanzi alla catastrofe ambientale, annunciandone oltretutto un’imminente punizione. Lo ha spiegato di recente Carla Benedetti col suo La letteratura ci salverà dall’estinzione: si è creduto che la natura, a lungo avversaria dell’uomo, sarebbe stata ammaestrata dalla nascente tecnologia, della quale sarebbe inevitabilmente diventata serva. In realtà stanno da tempo davanti ai nostri occhi gli esiti effettivi e nefasti di tale convinzione, pur non provocando la reazione adeguata, l’unica possibile: cioè quella di cambiare definitivamente rotta, di non perpetrare, in merito soprattutto alle scelte politiche, l’ennesimo fallimento (Glasgow docet).

Ma torniamo a Manganelli: l’apocalisse è innanzitutto il sigillo di una catastrofe tout court, prima di essere biologica, ecologica, nucleare, epidemica. Certo, ne sappiamo di più oggi, viene da dire, riguardo alla distruzione infettiva: gli uomini si isolano gli uni dagli altri, come aveva messo già in evidenza Elias Canetti in Massa e potere; non c’è miglior modo di difendersi che scongiurare l’avvicinamento perché chiunque potrebbe farsi latore del contagio. C’è chi fugge dalla città, chi si chiude in casa: ognuno schiva l’altro. È il disastro della socialità, il naufragio del vivere in comune. 

A proposito poi della calamità nucleare, sempre Canetti aveva rilevato (riferendosi al disastro di Hiroshima) un aspetto generale, di natura assai inquietante e paradossale: forse solo nella loro massima sventura ci è possibile capire intimamente gli uomini. «È soprattutto la sventura – si chiedeva l’autore di Autodafé – ciò che ci accomuna?». 

Ne era convinto Guido Morselli: «Soffro, dunque sono» è del resto la massima emblematica, l’epigrafe totale della sua produzione, vergata dall’autore di Roma senza papa il 24 novembre 1950. Il più alto addensamento immaginabile, nell’epidermide di uno stringato e tagliente aforisma (ricavato da Cartesio). «Soffro, dunque sono»: Morselli scrive questa dolente verità nel periodo in cui sta leggendo non a caso Il libro di Giobbe, cui dedicherà il capitolo più intenso del suo saggio intitolato Fede e critica (1977), messo assieme tra il 1955 e l’anno successivo, dando in un certo senso ordine e completezza a materiali e chiose raccolti appunto in anni antecedenti. 

La sofferenza, lo sa bene Morselli, è legata al prevalere del negativo sul positivo. Come viene fuori dal bilancio approntato dal protagonista di Dissipatio H.G., un ipocondriaco esponenziale, un inguaribile fobantropo che la notte favolosa tra il I e il 2 giugno di un anno imprecisato decide di farla finita: tale negativo ha «una prevalenza del settanta per cento. Motivazione banale, comune? Non ne sono certo». 

Siamo a Crisopoli, città dell’oro: il suicidio programmato non va a buon fine ma, nel frattempo, è accaduto qualcosa di inatteso e colossale. Il protagonista infatti, ironico e spietato alter ego di Morselli che voleva annegarsi nel laghetto di una caverna, cambia idea alla fine e ritorna sui suoi passi, ma non incontra più anima viva per strada, le edicole sono chiuse, non ci sono treni sui binari. «Tentavo di realizzare la situazione, più specialmente la mia, senza allarmismo, senza illazioni fantasiose. Questa non è l’Antartide, è un fondovalle dove si accalcano quattromila individui». La città con la più alta concentrazione di ricchezza che si conosca adesso risulta deserta, immersa in un «silenzio cimiteriale». 

L’idea di un’apocalisse inevitabile aveva già sfiorato Morselli, poco prima di mettere mano al romanzo in questione. Un’idea che si può dire di matrice leopardiana: del Leopardi, beninteso, avverso alle «umane sorti e progressive» (al cui magistero si sono abbeverati non pochi autori, nel Novecento), autore tra l’altro di due dialoghi significativamente apocalittici: quello di un folletto e di uno gnomo, dal quale si affaccia un mondo deserto, in cui non c’è più traccia del genere umano; e quello che vede confrontarsi Atlante e Ercole: quest’ultimo si accorge che la Terra si è fatta particolarmente leggera e silenziosa, immersa in un torpore simile alla morte. 

Torniamo a Morselli: della sua idea di un’inevitabile, antimoderna, apocalisse, c’è traccia in due pagine del diario, all’altezza cronologica del 26 febbraio 1969: «L’umanità deve finire in una disastrosa apocalisse. Scienza e religione, e del resto anche gli ignari dell’una e dell’altra, concordano in questa previsione catastrofica. (Fanno eccezione soltanto i filosofi; il loro professionale ottimismo non si occupa che del progresso di questo ottimo fra i mondi possibili: non ammette di occuparsi della sua fine). Dunque scomparsa catastrofica e più o meno rapida e improvvisa, della nostra razza, vuoi per cause naturali, ci si immaginava sino all’estate 1945, vuoi per cause artificiali, ossia prodotte dalla forza distruttiva scatenata dall’uomo stesso». 

In realtà questa è l’idea corrente, particolarmente legata alla contingenza storica del secondo conflitto mondiale: il 1945 è l’anno in cui vengono sganciate le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Ma Morselli la pensa in maniera diversa: «Per conto mio, direi invece che l’uomo non è destinato a vedere la propria fine. Non precisamente che io condivida la tesi degli idealisti moderni (la razza umana eterna in quanto di fatto identificata con l’eterna Idea, con lo Spirito). Direi che la fine della nostra razza sarà registrata, a modo loro, dai nostri successori. Ossia dalle scimmie. O dai successori di queste, mammiferi inferiori. Perché (ed è strano che nessuno ci abbia pensato, col chiacchierare che pur si è fatto di “ritorni”) l’evoluzione non è un processo ascendente all’infinito, non è un meccanismo che debba seguitare per sempre, a meno che non si ammetta, appunto, che percorra una parabola, nel senso matematico del termine. E che a un certo momento non volga “all’ingiù”. Non si trasformi in involuzione. È l’ipotesi più giudiziosa, come la più normale».

Qui lo scrittore mostra senza infingimenti il suo sembiante anti-darwiniano: l’umanità regredirà progressivamente, una sorta di sindrome del gambero costringerà l’uomo a ripercorrere all’indietro le tappe del suo glorioso cammino: «Secondo questa ipotesi, niente catastrofe finale per chiudere la carriera dell’homo sapiens, o oeconomicus (o comunque si scelga, fra i tanti appellativi che si è inventato). […] Un bel giorno, senza che nessuno se ne accorga, né abbia più voglia o attitudini per rifletterci e impressionarsene, ci rimetteremo a camminare a quattro zampe. Potrebbe essere il ritrovamento dell’età dell’oro. Poi scenderemo ancora, ci sorprenderemo (per modo di dire) a strisciare per terra: rettili. Il mare primordiale ci aspetta, o piuttosto, i laghi o le paludi o le lagune, che nel frattempo si saranno redenti dalle nostre perfide polluzioni. Da ultimo, i protozoi, e le “macromolecole”. Qualche cosa degli antichi istinti (umani) sornuoterà? È probabile o se non altro possibile, così come oggi c’è abbastanza dell’animalesco, residuo, in noi. Saremo tutti solo lucertole, ma qualcuna di quelle lucertole, presa da ataviche nostalgie estetiche, indugerà amorosamente al sole sui muri scrostati dove qualche milione di anni prima c’era la Cappella Sistina. […] Perché no? (Mi accorgo di essere, in fondo, ottimista anch’io)». 

È un vero e proprio apologo infarcito di tragica ironia: l’umanità non avrà la possibilità di assistere alla propria fine. Sadico, Morselli nega all’uomo il podio sospirato. Nessuna onorificenza a fine «carriera». Da quadrupedi a rettili a macromolecole: al diavolo il progresso, la sopravvivenza e il benessere della razza umana sulla terra. Sarebbe, quella preconizzata da Morselli, un’età dell’oro sui generis: quanto meno, a unico senso, relativamente alla duplice metamorfosi immaginata da alcuni filosofi: l’uomo che può trasformarsi in animale e viceversa, senza posa e senza limiti. Qui l’uomo abbandonerebbe la scena definitivamente, ripercorrerebbe all’indietro le tappe del suo cammino evolutivo. Il miracolo stupefacente della civiltà si sbriciolerà rovinosamente e dell’uomo non rimarrà traccia alcuna. Forse sopravvivrà la larva di un sentimento, l’ombra di un empito estetico. L’autore di Fede e critica qui sbandiera trionfante il suo umorismo, si fa vessillifero di un grottesco antiumanesimo.

Quest’idea apocalittica Morselli la innesta nel suo Dissipatio H.G.: «La fine del mondo? Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima ma non che possano finire dopo di noi. […] Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro». 

In Dissipatio H.G. l’apocalisse silenziosa è oramai compiuta, avendo però risparmiato un unico essere umano, il quale inizialmente stenta a prendere atto della sparizione del genere umano. Ma di questa latitanza la natura non può che gioire: gli animali sembrano riappropriarsi dei loro spazi senza gli antichi timori. E questo, agli occhi del protagonista, si staglia come la prova che l’evento non sia una chimera, un’invenzione, un sogno. In mezzo ai binari scorge sfilare una famiglia di camosci: due femmine, un maschio e i cuccioli. Ma non è l’unico segno di buon auspicio: gli uccelli fanno baccano, si sono moltiplicati, si vedono le strigi, i gufi, gli allocchi e le civette (è, del resto, quanto abbiamo registrato di recente grazie al lockdown imposto per via del Covid: si è saputo di caprioli che osservavano straniti le vetrine dei negozi del centro in un paesino della pianura piemontese, di lupi stiracchiati sui marciapiedi, di aquile reali sui cieli di alcune metropoli). «L’istinto li avverte di una novità in cui certo non speravano: il grande Nemico si è ritirato. Non ci sono più fumi nell’aria, a terra non ci sono più puzzi e frastuoni. (O genti, volevate lottare contro l’inquinamento? Semplice: bastava eliminare la razza inquinante)». 

Forse l’umanità tutta (tranne uno) è scomparsa perché non ha osservato le leggi della madre Terra? Perché ha diffuso nell’aria fumi, puzzi, ha riempito il mondo di frastuoni? Se la letteratura non ci salverà dall’estinzione, per dirla con Benedetti, soltanto l’estinzione dell’uomo, sembra incalzare Morselli, potrà salvare il nostro pianeta. Non sappiamo se la silenziosa apocalisse che si è consumata a Crisopoli da cosa sia stata generata: verrebbe da pensare a un disastro inevitabile. 

Come quello che prova a immaginare Primo Levi ragionando sugli scarabei, sulla loro diversità irriducibile rispetto a noi umani. Nel caso di una catastrofe nucleare, rivela il chimico scrittore, questi coleotteri sarebbero i migliori candidati alla nostra successione grazie alle mirabili capacità di adattamento a tutti i climi che hanno dimostrato, colonizzando tutte le nicchie ecologiche e mangiando ogni cosa (alcuni di essi sono in grado, si meravigliava lo stesso Levi, di perforare pure il piombo e la stagnola). «Da quando il pianeta sarà loro, dovranno ancora passare molti milioni di anni prima che un beetle particolarmente amato da Dio, al termine dei suoi calcoli, trovi scritto sul foglio, in lettere di fuoco, che l’energia è pari alla massa moltiplicata per il quadrato della velocità della luce».