Piergiorgio Bellocchio

ARTICOLO n. 30 / 2022

MODE CULTURALI

Trave e fuscello. Le male azioni che compio, le sciocchezze che dico non diventano più veniali se me le rinfaccia uno più mascalzone o più sciocco di me. «Togli la trave dal tuo occhio» dice il Maestro di Giustizia. E forse potrebbe dirlo anche l’uomo del fuscello, a patto però di riconoscere che quel fuscello ce l’ha, e che deve toglierselo, per quante travi veda negli occhi altrui. Occorre sì, a volte, contestare i «pulpiti» da cui viene la predica, ma il «da che pulpito» non dev’essere mai un’esimente, un modo di sottrarsi alle proprie responsabilità, di sfuggire l’argomento.

Nella mia famiglia ritrovo quasi tutti i vizi caratteristici della piccola e media borghesia, tranne l’arrivismo, il culto del successo, la ruffianeria. Riconosco, in altre parole, i vizi passivi (conformismo, moderazione, temperanza, avarizia…), ben poco di quelli attivi. È stata l’esperienza precoce della sventura a eliminare quasi alla radice quel tipo di aggressività, desiderio di contare e comandare e salire economicamente e socialmente. L’esperienza della sventura ha tolto ogni sapore a quel tipo di ambizione.

Hai un bel volerti legare alla comunità, 
quando la comunità non c’è più.

Una certa amabilità, allegria e leggerezza è propria solo degli imbroglioni, di chi vive d’espedienti. È il loro strumento di lavoro, e questo abito viene mantenuto anche nei rapporti, come dire?, disinteressati. Sono quasi sempre persone dotate di un buon grado di autocoscienza, abbastanza oneste e serie per vietarsi, quasi per principio, la serietà: il loro stile ignora i toni gravi, solenni e soprattutto moralistici (parlo dei piccoli imbroglioni, non dei grossi, che invece spesso si ammantano di gravità).

Il forte, colui che può esercitare il potere senza ricorrere a sotterfugi, a mezzucci, non è allegro né amabile. Colui poi che è onesto per paura, perché la disonestà è troppo rischiosa, è l’uomo più tetro che ci sia: il moralismo è la sua vendetta. Ci sarebbe infine la superiore amabilità e allegria dei buoni, ma non ci sono i buoni.

Leggendo una pagina di Eco m’è tornato il ricordo di un amico di gioventù. Avevamo vent’anni e s’organizzavano festine da ballo. Chi portava i dischi, chi pasticcini, chi vini e liquori. Lui, con occhio brillante, prometteva di portare tre bellissime ragazze. Poi ne portava solo una e bruttina, che abbandonava subito, con l’aria di mettercela a disposizione, sicché toccava a noi farla ballare perché non si sentisse di troppo. Oppure si trattava di una cena. Uno provvedeva la casa e le stoviglie, un altro i salumi, un altro l’arrosto, un altro i dolci, un altro i vini. Lui prometteva «le salse», ma con un’aria così d’importanza, così misteriosa e maliziosa che tutti s’aspettavano qualcosa di estremamente raffinato, il tocco di classe che avrebbe promosso il nostro cenone studentesco a livelli ristorante con tre stelle. Giunto il momento, quando la tavola era apparecchiata e tutto era pronto, lui con mossa elegante estraeva dalla tasca e posava sul tavolo un tubetto di maionese Calvé.

La preoccupazione del caposervizio culturale: 
«Attenzione a come si scrive Hitchcock, ricordarsi le tre c.»

Intorno ai primi anni settanta (1972? ’73?), un giovane ex gruppettaro operaista con la fissa del cinema e del giornalismo, approdato alla tv, mi aveva contattato e assediato con visite e telefonate per convincermi a partecipare a un programma in più puntate sulle riviste di sinistra degli anni sessanta, che doveva culminare in una serie di dibattiti o tavole rotonde (quali riviste, oltre a Quaderni piacentiniIl manifestoClasse operaiaQuaderni rossi? QuindiciClasse e stato…? Non mi ricordo più).

Per educazione non gli avevo detto subito di no, anche se la cosa mi disturbava: già allora ero estremamente critico sui mass-media, e perfino più di adesso, nel senso che lo ero attivamente, praticamente, convinto che il ruolo politico della Nuova sinistra e le prospettive fossero molto maggiori di quel che in realtà non erano, e tanto più convinto che avesse tutto da perdere a mescolarsi con il bla blaistituzionale, con l’inevitabile risultato di stingere e banalizzare la sua immagine. 

Ma questo giovane mi faceva un po’ pena, e poi non mollava la presa. Vantava idee e sentimenti come i nostri (ciò che, secondo lui, avrebbe dovuto garantire a sufficienza sulla serietà del programma), e poi presentava la cosa come la sua grande occasione per affermarsi professionalmente e fare un po’ di strada in Rai. Non avevo cuore di dirgli un no secco. Cercai di tergiversare, di stancarlo, senza risultato. Cedetti: posi come unica condizione di non essere il solo a rappresentare Quaderni piacentini, dato che non ne ero (e meno ancora me ne sentivo) il leader: avrebbero dovuto partecipare – con me – almeno un altro paio di redattori (Stame o Ciafaloni o Grazia Cherchi o Salvati…). Si diede molto da fare, come già aveva fatto con me, con i compagni da me indicati per ottenerne la partecipazione. Ma anche questi compagni la pensavano più o meno come me e risposero con obiezioni, svogliatezza, pretesti di altri impegni. (Se c’era una cosa che unificava il gruppo dei Quaderni piacentini era proprio la mancanza di vanità di tutti i suoi redattori, il disprezzo per l’auto-pubblicità). Le trattative si trascinarono per qualche tempo, con alti e bassi, finché si arenarono su un nostro no conclusivo (non ricordo più come, per quali ragioni o pretesti).

Disperazione del giovane (intanto il programma era partito, con la fervida partecipazione – manco a dirlo – delle altre testate); estremi tentativi di smuoverci dal no (gli scocciava molto che nella rassegna mancasse proprio la testata che era allora la più autorevole e anche diffusa); appelli all’amicizia (che non c’era), alla comune fede politica (tutta da verificare), alla sua posizione imbarazzante o addirittura in pericolo nei confronti del suo capo, responsabile del programma (un grosso personaggio televisivo, un big, suppongo democristiano). È vero che era venuta meno la conditio sine qua non da me posta subito (la partecipazione di altri della rivista oltre a me), ma il giovane aveva il sospetto, più che fondato, che non avessi fatto nulla per convincerli, in realtà sabotando la cosa. 

Per non pregiudicare la sua posizione, disse al suo capo che la colpa era solo mia, che prima avevo accettato e poi m’ero negato, venendo meno alla parola data. Ricevetti una telefonata del boss, che aveva il tono onnipotente di un Darryl Zanuck o Howard Hughes. Gli spiegai com’erano andate le cose: il programma non m’aveva mai interessato, anzi; comunque avevo accettato a certe condizioni, venute meno le quali indipendentemente da me, non mi sentivo vincolato a nessuna promessa. Non avevo mancato di parola. Ma il boss era soprattutto incredulo che un nessuno come me rinunciasse a un’opportunità così ghiotta come quella di farsi pubblicità apparendo sui teleschermi; chiaramente, non si capacitava della cosa, pensava che scherzassi o fossi totalmente stupido, o facessi il difficile, per mercanteggiare o magari solo per civetteria.

Né poteva accettare che un nessuno come me, per un capriccio, potesse danneggiare un programma che era costato soldi e lavoro… Ma presto dovette prendere atto, benché il rifiuto non cessasse di apparirgli inconcepibile e scandaloso, che il mio «no» significava proprio «no». Allora, accantonato il tono «logico» e «pratico» cui s’era attenuto, passò alle minacce. Mi disse chiaro e tondo che io con la tv «avevo chiuso»; che se mai avessi avuto bisogno di lui «me l’avrebbe fatta pagare…». Mancava solo che promettesse di «rovinarmi», come il padrone col sottoposto, il produttore con il regista o l’attore… Non era il caso, dato che non c’erano rapporti di alcun genere, e poi ero troppo poca cosa per lui.

Ma anche nel momento in cui doveva accettare che non ero come lui (ciò che lui riteneva oltremodo importante non aveva per me nessun valore), non poteva fare a meno di trattarmi come uno della sua razza (a parte il lato grottesco, l’episodio è anche indicativo del costume verso i media di una certa Nuova sinistra, che non solo non si negò a nessuna offerta o occasione, ma anzi le ricercò, fu sensibilissima alle seduzioni del potere, ben presto a caccia di posti, carriere, pubblicità…).

Io credo di essere sostanzialmente rimasto quello di allora, anche se la Nuova sinistra non c’è più da un bel pezzo. Ma non io solo. Quasi tutti gli amici e compagni dei Quaderni piacentini hanno continuato a distinguersi per riserbo, decenza, hanno resistito assai meglio di ogni altro gruppo e formazione d’allora alla volgarità e all’opportunismo trionfanti. Non lo dico a scopo apologetico: può darsi che dopotutto la maggiore decenza nostra rispetto ad altri sia solo un fatto di classe: tra noi prevaleva l’elemento borghese, di buona famiglia, rispetto all’estrazione più piccolo-borghese o plebea di altri gruppuscoli; eravamo meno affamati, meno voraci, avevamo già il necessario e il superfluo, non avevamo bisogno di guadagnarci un posto al sole.

Tratto da Diario del Novecento, a cura di Gianni D’Amo, in libreria dal 26.05.22.