Naveen Kishore

ARTICOLO n. 49 / 2022

IL VALORE DEI LIBRI È NELLA LORO COMUNITÀ

Intervista di Fabio Bozzato

Nato nel 1953 a Calcutta, la città dove vive tuttora, Naveen Kishore ha cominciato lavorando a teatro, disegnando scene e luci e rimanendo affascinato da una quantità di testi, nelle tante lingue che animano il grande paese asiatico, destinati a finire dimenticati o sconosciuti al grande pubblico. Da qui l’idea, nel 1982, di pubblicarli, usando come lingua comune l’inglese. È nata così la Seagull Books: non solo ha inventato una editoria d’arte e teatrale che non esisteva nel suo paese, ma poi ha fatto il salto nella letteratura, puntando sulla traduzione di tanti autori europei. «Per sceglierli, stilo una mia lista di desideri e mi affido ai traduttori, basandomi sui loro consigli e gli autori che loro vorrebbero tradurre». Qualcosa di anomalo per le pratiche editoriali europee e per le leggi del mercato. Ad aiutarlo è la sua familiarità con l’arte, il suo essere lui stesso fotografo e poeta di grande valore. Ha anche fondato la Seagull Foundation for the Arts, con cui organizza dal 2012 la scuola di editoria, diventata punto di riferimento internazionale.

Fabio Bozzato: Prima di tutto una sorta di paradosso: l’editoria vive una profonda crisi, almeno in Europa, mai come ora ha venduto così pochi libri e giornali. Eppure, mai come ora così tanta gente legge e scrive, lascia commenti, dibatte nei social. Cosa è successo al mondo dell’editoria? 

Naveen Kishore: Per spiegarlo, dobbiamo partire dal fatto che nessuno ha smesso di scrivere e nessuno ha smesso di leggere. In realtà, a cambiare è stata la superficie su cui leggiamo e scriviamo. Certo, come editore ho ancora voglia di respirare il mio carattere tipografico sulle pagine, sentire la consistenza della carta, l’estetica della copertina. Ma uno potrebbe chiedermi: perché spendere così tanto denaro per fare ancora questa cosa di carta? Vuoi essere arrogante o indulgente con la tua impresa per fare quello che tu desideri fare? E la mia risposta è sempre: sì e no. So che voglio stampare ancora libri e so anche che i nostri bis-bisnipoti continueranno a leggere, magari non sentiranno la carta sotto le dita, ma sono sicuro che leggeranno su altre superfici. Io non mi sento minacciato dal digitale o dal virtuale, per di più alcune di queste tecnologie cambiano a grande velocità. 
La filiera del libro ha subìto quella che chiamo una frantumazione e continuerà a subirla. Ci sono alcune storie di successo, altre nuove sono emerse. Penso a questi due anni di pandemia, abbiamo tutti sofferto, eppure non abbiamo smesso di fare quello che facciamo. Quando ti occupi di libri, e intendo non solo la vendita ma la vita quotidiana dei libri, non puoi lamentarti. Al mondo non interessa come fai un libro, ma che tu gli offra qualcosa, nel nostro caso dei libri. Penso anche a questo Premio Marsilio: per me ha un gran valore, perché significa che alcune persone sedute in qualche parte d’Europa sono consapevoli del mio lavoro, lo riconoscono e lo celebrano intimamente in una piccola comunità. Ma quello che per me ha valore è che è ancora una comunità.

F.B. Insomma, non siamo al tramonto dell’editoria.

N.K. Vedi, il paradosso è che non avete smesso di produrre libri in Europa. No, si stanno ancora vendendo. Nel frattempo, alcune librerie chiudono, altre aprono. La verità è che l’umanità è costantemente in uno stato di crisi. Per cui non c’è una vera risposta, almeno io non ho una risposta definitiva. Sento solo che devi convivere con il paradosso. Qui in Europa molte persone mi chiedono: «Cosa sta succedendo in India al mercato dei libri? Siete così tanti, avrete tanti lettori». Dico sempre: «Sì, siamo una popolazione molto numerosa, tutti parlano quattro o cinque lingue». Ma la vera domanda è: cosa stiamo leggendo? Recentemente, alcuni amici editori francesi e tedeschi mi hanno chiesto: «Hai notato un cambiamento negli ultimi 13 anni in cui hai acquistato e venduto diritti di traduzione?». Ho detto: «Sono molto protetto, perché i libri che mi offrite dall’Europa sono di una seria qualità letteraria, che è la vostra tradizione». Eppure, mi rendo anche conto che i protagonisti dell’editoria qui in Europa non sono contenti, perché vedono che i contenuti sono diventati sempre più leggeri. Eppure, se guardo alle vostre ricche tradizioni letterarie, sia nella narrativa che nella saggistica, trovo cose meravigliose. Voglio pubblicare Luigi Pintor, sì Io faccio, e Calvino e tutta questa gente meravigliosa della vecchia sinistra, che scrive di filosofia e di politica dal sapore letterario. Questi sono prima di tutto scrittori e lo trovo molto eccitante.

F.B. Vuole dire che quel paradosso si gioca sulla qualità dei contenuti, che dobbiamo ritrovare…

N.K. Credo nella qualità dei contenuti, sì, e credo che non dovrebbe essere diluita. È allettante se tu, come editore, pensi di poter vendere 30.000 copie di un giovane romanziere nuovo. Certo, sarai tentato di farlo. E succederà. Questo è il tuo paradosso: può essere il tuo desiderio o la tua scelta. Personalmente non ci credo. Non credo che tu possa pubblicare dicendo, il mio cuore è in quei libri dalla scrittura intensa, contemporanea, sperimentale, interessante, ma per farlo devo pubblicare libri leggeri che mi facciano guadagnare. Sono convinto che così non riusciremo mai a trovare quell’equilibrio, perché una volta assaporato il sapore di un certo tipo di mercato, non riusciremo più a ritrovare dove sta il cuore. È come avere un bar dove posso scegliere venti piatti anche se so che ne sceglierai sei o sette. Voglio dire che ci dobbiamo chiedere: chi è il tuo pubblico? Posso davvero creare un libro per ciascuno dei miei lettori? Là sta la reciproca verità emotiva. Io credo che, nello scegliere quali libri pubblicare, possa fidarmi solo del mio intuito.

F.B. Che rapporto ha la Seagull Books con il mondo delle nuove tecnologie, i social media, il virtuale e l’intelligenza artificiale? Al di là di strumenti di marketing, possono reinventare la visione dell’editoria?

N.K. Vedi, prima di tutto, hai trovato una buona parola: reinventare. Parlando in questi giorni con Teresa Cremisi [la presidente di Adelphi] le ho proprio detto: l’unica lezione che ho imparato dall’Europa è stata la reinvenzione. E lei: cosa vuoi dire? E io le ho ricordato che ogni casa editrice ha un responsabile dei diritti d’autore, qualcuno che vende diritti, che è il custode dell’archivio della casa editrice. L’archivio non può permettersi di diventare stagnante. Dunque, devi continuare a reinventare l’archivio. 
Cosa fa il manager dei diritti? Il responsabile dei diritti è l’originario agente letterario. Sì, sono i più forti. Guardano il materiale e dicono: sarà un bel libro. Può essere un tascabile o un e-book, altre storie possono diventare un’antologia, altre si prestano a diventare una graphic novel o un audio-libro o entrare nella realtà aumentata grazie a un QR Code. Ecco, quell’uomo che conserva i diritti d’autore è un regista. Non possiamo essere minacciati dalla tecnologia. Credo sia prima di tutto una questione di estetica, che non riguarda solo il materiale, ma è nella testa, è visione, che suggerisce il tuo modo di guardare. Consapevolmente, ma istintivamente. 
Allora penso che il processo di reinvenzione nel mondo contemporaneo sia molto importante perché gli intervalli di attenzione sono diventati molto brevi. In questo senso i social media possono essere preziosi. Penso soprattutto al mercato americano, dove si pubblicano venti libri in primavera, ma entro l’autunno sono già dimenticati. Quindi devi continuare a reinventare il lavoro. Il che non significa esserne ostaggio o averne paura, ma sovvertire la tecnologia, così come si è sempre fatto. Pensa alla macchina da scrivere! Allora, torniamo alla questione dei paradossi: e se ci vedessimo invece delle opportunità? Alla fine, resto convinto che la figura chiave sia ancora l’agente letterario, il custode dei diritti».

F.B. Lei prima parlava di comunità. E voi alla Seagull Books avete davvero costruito una comunità: di lavoratori, di editori, di lettori. Possiamo definirlo un progetto di comunità prima ancora che un progetto d’impresa?

N.K. In realtà è abbastanza semplice: come editore indipendente devi sopravvivere, senza lamentarti, altrimenti non stai nel business. Sopravvivere significa che sei dentro a ciò che fai, ma significa anche guardare indietro di quarant’anni e solo allora puoi vedere il metodo che hai usato. Ma mentre produci quei libri, non costruisci obiettivi. Stai facendo anche i conti mentalmente, perché non sei uno sciocco. Non è tutto romantico, ma è anche romantico. E bisogna esserlo, sapendo che ogni pezzo di romanticismo ha una sua matematica. Succede tutto molto rapidamente quando stai lavorando e intanto pensi: questi dieci libri supporteranno i prossimi quaranta. Ma gli editori di oggi non fanno così: vogliono che ogni libro sia un buon profitto. 
Questo è il mio 40° anno e quando mi guardo indietro, vedo che la comunità si è creata da sola. In parte ha giocato il mio intuito, la mia personalità o la mia filosofia, ma non è stato un progetto a tavolino. Sento di appartenere a questa mia comunità, ma non è stato un progetto sociale. Anzi, penso che l’editoria sia una delle poche professioni che non sono attraenti. La comunità è cresciuta spontaneamente. Credo abbia a che fare con la voglia di costruire diversità e in tutta la storia della Seagull l’unica scelta consapevole è stata quella di attraversare le culture e andare oltre i confini. Non ho lasciato che qualcuno mi dicesse che questa è la globalizzazione. No, perché se la devo chiamare globalizzazione, è quello che ho cercato di fare, da Calcutta, comprando i diritti internazionali per i libri francesi, tedeschi, italiani, africani, palestinesi. Perché? Perché ho dimostrato una certa interpretazione seria della globalizzazione che è un mondo aperto. E anche quando non è così aperto, come ora, io sostengo lo stesso quell’idea. Come editore indipendente, quanto più è diversificata la tua lista di autori, quanto più crei diversità, tanto più la comunità cresce. Quindi, se mi chiedi come abbia pianificato la mia impresa, ti posso rispondere che ho solo mescolato la mia lista dei desideri. 

F.B. E cosa rappresenta la Scuola per editori? Un altro pezzo di questa comunità?

N.K. La scuola dell’editoria è uno strumento. È qualcosa che abbiamo iniziato 12 anni fa in un momento in cui senti di voler condividere. E non esiste una scuola del genere. Le persone hanno workshop o corsi universitari, ma nessuno ha un laboratorio intensivo di tre mesi in cui praticanti da tutto il mondo, almeno 30 studenti ogni anno, incontrano un editore italiano o francese o africano che condivide la propria esperienza. Così capisci che non si tratta di un fatto locale, dell’India, si tratta di editoria. Non importa da quale parte del mondo vieni o se conosciamo le lingue che parliamo, troviamo un modo per comunicare, tradurre, scambiare. Insegniamo a essere editori, imprenditori, editor e designer, non sentendoci legati al proprio luogo di origine, ma sentendoci parte del mondo. E non occorre essere già dentro il mondo dell’editoria, a volte abbiamo giovani dall’Etiopia o dalla Cambogia, nazioni che non hanno una editoria strutturata. E tornano nel loro paese con una conoscenza sul mondo editoriale. 
Vedo che oggi ci sono troppi saperi settorializzati. Alla Seagull, ad esempio, tutti possiamo impostare i nostri libri e decidere cosa modificare. Potremmo fare tutto internamente. Seguiamo le tipografie e la spedizione al magazzino. Quindi abbiamo mantenuto un ambiente deliberatamente piccolo, ma fai più cose.

F.B. Lei ha cominciato traducendo testi teatrali scritti nelle varie lingue del paese, usando l’inglese come terreno comune. 

N.K. Sì, vengo dal teatro e a un certo punto ho pensato di non perdere quel patrimonio di testi. Per di più non c’erano all’epoca degli editori di teatro. Quello che non ci aspettavano era il meccanismo che avrebbe indotto: uno leggeva il copione in inglese, nella lingua comune, tornava alla lingua originale e comprava i diritti. È stato molto eccitante. Sono passati 30 anni e sono tutti diventati veri e propri testi. Tutti parlano tanto di mercato, ma è stato come inventare un mercato che non esisteva. Il mercato ha un dovere: trovare te. Ci vuole solo molto tempo, ma puoi crederci. E non c’è nessuna magia, tranne l’impegno. Dovremmo smetterla di lamentarci che è difficile, certo che lo è!

F.B. La traduzione è quasi un’azione performativa, che trasforma i testi in altri testi. Che cos’è davvero la traduzione?

N.K. In un certo senso l’atto del tradurre è performativo, ma è soprattutto un’interessante trasgressione. Nel senso che è anche sovversione. Ci sono tante storie che rimarranno non raccontate. E quando dico storie, penso a forme di resistenza politica. Tante storie clandestine non sarebbero mai venute alla luce se qualcuno non l’avesse fatto. Non è semplicemente il passaggio da una lingua all’altra, perché come traduttore stai dando voce non solo all’autore ma a tutta la serie di vite che l’autore ha creato. Quindi è come una comunità diversa che viene alla luce in un’altra cultura. 
Allora la traduzione è davvero un insieme di cose. Tradurre riguarda la libertà, accompagnare la libertà in termini pratici. Lo vedo con il mio libro che sta per essere tradotto in urdu per il Pakistan. Dico al mio traduttore: non essere necessariamente fedele, in senso stretto, al testo, prenditi la libertà nella tua lingua di esprimere ciò che capisci, anche se cambia ciò che pensi che io possa dire. Questo è importante e non c’è una formula per questo, non puoi insegnarlo: è qualcosa che deriva dal fatto di aver passato tutta la vita a tradurre le cose. La traduzione è sicuramente, come dicevo, un atto di resistenza. Quindi è decisamente politico ed è anche trasgressione nel senso che rompe lo status quo. Quando lo fai, non stai giocando su un terreno sicuro: in questo senso, è un atto di fede.

F.B. Lei ha trasformato un’idea semplice in qualcosa di originale che ha avuto ricadute nella cultura e nell’impresa. È questo il significato di innovazione?

N.K. Penso che bisognerebbe lasciarsi guidare dell’entusiasmo per un’idea, fino a esserne coinvolti abbastanza a lungo. Devi riuscire a trasformarlo in quella che io chiamo “logistica”. I miei maestri mi hanno insegnato che il mondo dell’immaginazione può essere trasformato in qualcosa di reale. La magia del palcoscenico mi insegna che ciò che sembra costare tremila, magari lo realizzi con due, e producendo lo stesso effetto. Il teatro ti insegna a risolvere i problemi. Molto spesso ho trovato soluzioni per l’editoria grazie alla mia esperienza teatrale. E anche a livello personale: ho sempre scattato fotografie, ma non le ho mai esposte: ora, dopo tanti anni, improvvisamente la mia fotografia è stata scoperta, viene esposta e persino comprata. E così è successo con le mie poesie, ne ho centinaia: non ho mai pensato di pubblicarmele, ma un altro editore lo ha fatto e stanno uscendo in sette o otto lingue.
L’importante è tenere l’entusiasmo e trasformarlo. Come farlo? Bisogna fare come i musicisti, che si esercitano giorno dopo giorno e insistono, si svegliano al mattino e trascorrono ore semplicemente provando. Innovare significa prima di tutto non smettere di fare le cose, reinventarle costantemente, con nuove variazioni. Ad esempio, noi andiamo nelle scuole di tutto il paese e lo facciamo convinti che in India significa anche imparare a vivere le differenze, non stare intrappolati negli errori del passato, nei rancori, che ci hanno tanto diviso, sottrarsi a questo veloce processo di deriva cultura che stiamo vivendo e sta trascinando gran parte della nazione.

F.B. Lei si riferisce sempre alla sua città. Crede che il cosmopolitismo di Calcutta sia stato fondamentale per il successo della sua esperienza editoriale?

N.K. Sì, Calcutta è uno spazio di nutrimento, il luogo in cui sono nato e cresciuto e lì ho studiato. Ho praticato il mio teatro, la mia fotografia. Quindi sì, mi ha nutrito. Questo è vero. Ma ho anche grande fiducia nel fatto che se mi ritrovassi in strada, troverei un modo per sopravvivere. Perché ho imparato a sopravvivere in una cultura che promette ai giovani studenti che sono protetti, che possono studiare e trovare un lavoro. Ma non è vero. Quando mio padre perse il lavoro, dai 16 anni, per andare al college, ho dovuto guadagnarmi da vivere. Lavoravo in un negozio che vendeva moto e guadagnavo una somma che è meno di un euro al mese. Ho scoperto il mio amore per il teatro, ho scoperto che ero in grado di progettare l’illuminazione e non mi potevo permettere di fare corsi costosi, ho imparato da autodidatta. A quel punto, non stavo pensando di diventare una personalità. Era la cosa naturale da fare perché tutti i miei coetanei facevano esattamente la stessa cosa. Di diverso, magari, è stato l’amore per la cultura. A volte mi hanno chiesto: ti è mancata la tua adolescenza? E io ho detto, no. Perché mi piaceva ballare, avevo delle ragazze, ho fatto teatro, ho fatto tutto ciò che era normale per un adolescente. L’unica condizione che mi sono sempre posto è di poter sopravvivere all’interno delle arti. Certo, era una città molto stimolante, c’era una grande popolazione ebraica, si andava a cene e festival religiosi. Calcutta è stata una bellissima lezione di comunità e di inter-comunità.