ARTICOLO n. 6 / 2024

DENTRO L’ARCA DI PROMETEO

Una conversazione con Veniero Rizzardi

Di tanto in tanto l’instancabile abitudine di festeggiare gli anniversari a cifra tonda si rivela efficiente nel suscitare interesse attorno a qualcosa che forse altrimenti non ne raccoglierebbe. Ben venga dunque l’occasione per riprendere il Prometeo di Nono a cento anni dalla nascita del suo autore e quaranta dalla “prima”, per di più nel preciso luogo in cui era stata eseguita, la chiesa sconsacrata di San Lorenzo a Venezia. La notizia ha infatti prodotto, oltre a un immediato sold out per quattro recite, aspettative tali da spiazzare, anche solo per un momento, un giustificato pessimismo attorno alle sorti della musica d’arte contemporanea. Quando Nono taceva, nel 1990, si stava da tempo chiudendo una stagione nella quale le cosiddette avanguardie erano ancora tali, e non ancora un comparto tra gli altri nel sistema delle produzioni simboliche. Allora il discorso sulla musica nuova non si era ancora condannato all’irrilevanza, polarizzato tra l’accademia e un “culto” di nicchia più o meno informato.

Il prestigio sociale di un artista come Nono era indiscutibile, un dato di fatto. Le sue concezioni avventurose e radicali trovavano risorse (pubbliche) per essere realizzate, e andavano incontro agli interessi di una platea curiosa, che poteva almeno seguire, se non condividere, e in ogni caso rispettare una ricerca tesa, originale, anche utopica, come era la sua. E quando nel 1984 Nono compì Prometeo, i paginoni centrali dei quotidiani erano occupati da anticipazioni e interviste. Le caratteristiche di evento d’eccezione, d’altronde, Prometeo le aveva tutte: un’opera immaginata al di fuori di ogni genere convenzionale nasceva in un’“arca” progettata da Renzo Piano dentro un luogo unico come San Lorenzo; il composito testo poetico era stato scritto da Massimo Cacciari; dirigeva Claudio Abbado; Emilio Vedova, inizialmente coinvolto per un’elaborata scenografia poi non realizzata, si prestava tuttavia come “maestro alle luci”. Inoltre, due strutture produttive erano impegnate nella complessa realizzazione elettroacustica, lo Studio sperimentale della Fondazione Heinrich Strobel di Friburgo, con Hans Peter Haller, e il Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova, con Alvise Vidolin. La produzione era congiuntamente della Biennale di Venezia e del Teatro alla Scala di Milano.

Oggi il primo riallestimento in situ di un simile lavoro, a cura della Biennale, deve fare a meno di una componente strutturalmente e simbolicamente importante, anzi costitutiva: l’arca di Piano, da tempo smantellata e conservata ma probabilmente irrecuperabile; d’altronde è l’ordine del tempo a stabilire, di necessità, che una ripresa, a quarant’anni di distanza, non possa essere letterale: tutte le opere musicali – anche questa, nella sua unicità – sono destinate a rivivere in altro modo, impossibile pantografarle attraverso gli anni. Tuttavia Prometeo può giungere intatto alle orecchie dei contemporanei, in una veste differente, ma altrettanto se non addirittura più sobria, nel rispetto di quella che Nono definì “tragedia dell’ascolto”: dove le fonti sonore, voci, strumenti e altoparlanti si confondono, alla vista come all’udito, in uno spazio nel quale non ha luogo nessuna azione, nessuna narrazione convenzionale, ma in cui si dipana attorno all’ascoltatore una drammaturgia di masse sonore che allude a un rituale senza evocare niente di riconoscibile.

Prometeo ha avuto una lunga gestazione. Nono iniziò a concepirlo all’indomani della sua seconda “azione scenica”, Al gran sole carico d’amore, andata in scena al Teatro Lirico di Milano nel 1975. Probabilmente pensava a una nuova e diversa realizzazione di teatro musicale, fino a che, nel corso di almeno tre anni, capì di dover rinunciare del tutto ad azione, scena e costumi, per provare a soddisfare il suo bisogno di una drammaturgia assoluta su di un piano non direttamente rappresentativo. Nel frattempo, avveniva un ripensamento profondo della politicità che la sua musica aveva espresso fino a quel momento; ripensamento che coinvolgeva anche il problema del ruolo sociale dell’artista, da sempre centrale nel suo lavoro. In un tale momento di crisi, l’incontro con Massimo Cacciari significava anche condividere la necessità di rimettere in discussione il quadro dei riferimenti culturali ereditati dalla tradizione del movimento operaio. Nono era così pronto a raccogliere, nel mentre Cacciari la veniva elaborando, gli esiti di un’indagine filosofica sul farsi della modernità. Le fonti: Hölderlin, Benjamin, Nietzsche, Schönberg, insieme al mito, Eschilo, Euripide, Sofocle, Esichio, Esiodo, Pindaro.

Questo, per sommi capi, il paesaggio dei pensieri in cui nasceva Prometeo, fin da subito molto descritto e spiegato, teorizzato, in numerose pubblicazioni, interventi, colloqui. Fu anche pubblicato un volume intitolato Verso Prometeo, a cura di Cacciari stesso, come se le peripezie legate alla genesi dell’opera fossero tanto importanti quanto i suoi elementi costitutivi. 

In uno di questi colloqui fu coinvolto anche chi scrive, e le ragioni per cui lo si riproduce qui, a distanza di quarant’anni, sono legate a un oggettivo interesse di contenuti, oltre che alla natura di inedito de facto: l’intervista comparve su un quotidiano in occasione della prima e non fu mai più ripubblicata. Le informazioni e i pensieri di cui Nono ci rende partecipi sono espressi in maniera schietta, aperta e interrogativa, un atteggiamento per lui abituale, ma tanto più evidente per il fatto di trovarsi di fronte un giovane. Con tutta la sua riluttanza a dare lezioni (pochissimi e quasi casuali sono stati i suoi allievi), Nono era continuamente avvicinato da giovani desiderosi di ricevere da lui un parere, un consiglio, un orientamento; ma nel rivolgersi a loro non assumeva mai la postura del padre o del maestro, piuttosto ne agiva i ruoli condividendo con l’interlocutore le questioni e i problemi che lo toccavano in quel momento. Ne avevo fatto io stesso esperienza.

Avevo incontrato Nono alcune volte in quei primi Anni Ottanta. Ci ritrovammo in un corridoio di Ca’ Giustinian a fare anticamera, ambedue in attesa che Mario Messinis, allora curatore della Biennale, ci ricevesse. Ne approfittai per dimostrargli il mio entusiasmo a proposito della musica che avevo ascoltato la sera prima: IO, frammento dal Prometeo aveva inaugurato la Biennale Musica nel settembre del 1981 – appunto, già nel titolo un “cartone” preparatorio, in realtà un’opera in sé compiuta che diede una prima spettacolare dimostrazione del suo nuovo orientamento. Nono mi impressionò per la disponibilità ad aprirsi e parlare del suo lavoro in modo semplice e in apparenza privo di schermi o filtri, come se stesse ragionando con sé stesso; mi sorprese anche il suo modo sottile, del tutto spontaneo, di entrare in confidenza e di stabilire complicità, esprimendosi in modo ironico ed ellittico.

Tre anni dopo, quando fu la volta di Prometeo, lo incontrai per parlare dell’opera, in un colloquio più strutturato. Ancora una volta era un pomeriggio di settembre, sedevamo sulle poltroncine di tela rossa, sospesi a tre metri dal pavimento nell’arca dentro San Lorenzo, dove passavo di tanto in tanto per seguire le prove, assistendo al lavoro di assemblaggio e affinamento del materiale composto. In quel luogo inventato, che non era una scena ma piuttosto la casa dell’opera, si ascoltavano i suoni e magari si assisteva alle sfuriate di Nono nei confronti di qualche solista; si andava a trovare Alvise Vidolin e Sylviane Sapir chiusi in un cubicolo di legno, intenti a governare i sistemi informatici, rumorosi per via delle ventole di raffreddamento, preposti alla generazione dei suoni di sintesi. Questi poi scomparvero dalle versioni successive. È a questo che si riferisce Nono nell’intervista quando parla del sistema 4i

Parlando con lui, lo trovai ancora più schietto, problematico, interrogativo ma anche entusiasta dell’opera che stava letteralmente prendendo forma in quei giorni. Il discorso tocca alcuni degli aspetti più appariscenti di Prometeo per come era stato annunciato, e Nono ritorna sui suoi temi favoriti, il bisogno di discontinuità e dell’incontro con l’imprevisto, l’assolutizzazione dell’ascolto; allo stesso tempo, dalle pieghe del discorso emergono aspetti non premeditati, come il desiderio di suscitare qualcosa di primordiale e, sul finale, quella che pare l’attesa del balenare di una rivelazione. 

[Il colloquio fu raccolto su nastro alcuni giorni prima della pubblicazione, che avvenne su La Nuova Venezia il 25 settembre 1984. Riprendo la trascrizione che ne feci allora, poiché, purtroppo, non posso più ricontrollarla sulla registrazione. Soppressi sicuramente qualche esitazione, ma sono sicuro che non cercai di normalizzare il discorrere di Nono che, almeno in quella circostanza, si espresse in modo molto fluido ed eloquente] 

Veniero Rizzardi: Come si situa l’invenzione musicale in rapporto a un testo così caratterizzato?

Luigi Nono: Certo non è mia intenzione rappresentare alcunché, mai ho voluto con i suoni cercare di fare altro da ciò che è possibile fare con i suoni. Da tempo rifiuto ogni concezione logocentrica. Qui il suono diventa esso stesso tragedia. Per questo il sottotitolo “tragedia dell’ascolto“: è il suono soltanto a dire, ma non a dire programmaticamente… il suono inteso come fenomeno fisico, usato all’interno di trasformazioni di diverso genere, come avviene con l’elaborazione in tempo reale che lo studio di Freiburg è in grado di ottenere, o con i suoni interamente sintetici prodotti dal processore 4i, o con i suoni dell’orchestra. Tutto ciò si scompone, si sovrappone in questi spazi infiniti, che sono il prodotto dell’arte combinatoria di Renzo Piano, tra il suo legno e il suo acciaio, e le pietre di San Lorenzo.

VR: In questo interesse alle trasformazioni del suono si ritrova un importante elemento di continuità rispetto al tuo lavoro precedente. Dunque anche il testo è un ispiratore di queste elaborazioni. 

LN: Certo, il testo è un provocatore, e insieme viene trattato come segnale acustico… e non è un insieme di significati chiusi, ma di significanti… ciò che per me rappresenta una problematica apertissima, e la domanda sul che cosa questo significante diventa, come si trasforma. In genere ci si interroga sul senso del risultato, sulla sua lettera. A me interessa molto di più seguire le trasformazioni cui questo elemento va incontro nel vagabondaggio per spazi come questo. 

VR: Ma se è il suono soltanto a poter dire, in questo Prometeo che peso hanno i residui di rappresentatività immessi nell’opera sotto forma degli interventi luminosi di Emilio Vedova, degli stessi spazi ideati da Piano…?

LN: Lo so, lo so… Quando mi sono trovato di fronte questa struttura, compiuta, mi sono reso conto con spavento che c’era moltissimo da vedere… Basta girare l’occhio, e cambia tutto, spazi, proporzioni… Tra tutto questo e la musica non direi che c’è contraddizione, no, ma un conflitto sì,  che può condurre a delle scoperte… Vi sono due modelli di ascolto che entrano qui in conflitto, credo: quello della ritualità cattolica, in cui la musica ha più fonti sonore e per uno spazio in cui la visualità è per i mosaici, o i quadri, o le pale; e la ritualità ebraica, in cui da vedere non c’è quasi nulla… A ogni modo c’è qui una chiara riproposizione di una situazione d’ascolto perduta: in tutte le chiese, dal gotico, dal normanno, da San Marco, fino a Sant’Andrea di Leon Battista Alberti a Mantova, l’organo e le cantorie sono disposti a mezza altezza. Appunto, da molto tempo si perpetua una falsificazione grossolana proponendo concerti in chiesa secondo il modello della sala da concerto… Insomma, nello spazio del Prometeo, come nella mia partitura, c’è veramente di tutto: scoperte del Novecento e scoperte di duemila anni fa, tutto insieme, con la tecnologia più aggiornata: c’è un’orchestra, quella di Claudio Abbado, c’è il processore 4i, che spesso compiono operazioni molto simili, come l’uso dei microintervalli; c’è l’apparecchio ideato da Hans Peter Haller, l’Halaphon, che può far compiere al suono percorsi anche molto complessi, rimandandolo da un angolo all’altro di questo spazio, facendolo passare sotto il pavimento, e poi in alto… 

VR: Allora c’è anche un recupero di un modello rituale di ascolto, storicamente piuttosto ben caratterizzato… 

LN: Non rifiuto affatto la ritualità. La musica, qualunque musica, si consuma come rito. È rito, negativo e demagogico, il concerto in piazza con la Nona sinfonia di Beethoven, un mega concerto dei Clash è un altro tipo di rito, così come trenta persone attorno a un quartetto d’archi… Qui si è raggiunto un risultato nuovo, credo, grazie a partecipazioni geniali: quella di Piano, che ha inventato, oltre a una struttura formata fornita di caratteristiche visuali di grande originalità, una formidabile “macchina da musica”, una macchina acustica che interagisce con lo spazio della chiesa in modo straordinario; quella di Abbado, che ha messo a disposizione la sua esperienza e le sue doti di interprete per un’esperienza totalmente differente da quella dei suoi concerti abituali; e poi ci sono i pensamenti di Massimo Cacciari, le sue continue escogitazioni, così innovative, così necessarie nella loro provocatorietà; la disponibilità umana di Emilio Vedova che ha intuito, nel gioco di luci progettato ed eseguito insieme a Vannio Vanni, gli elementi primordiali di questa tragedia dell’ascolto… ecco, davvero direi che tutti hanno contribuito a rendere espliciti i caratteri primordiali che questo lavoro possiede.

VR: L’ultimo tuo grande lavoro scenico è stato, nove anni fa, Al gran sole carico d’amore, che è profondamente diverso da questo Prometeo in tutti i suoi aspetti, musicale, rappresentativo… Vorresti provare a misurare la distanza che ti separa oggi da quella esperienza? 

LN: Allora la grande scoperta era stata quella di Jurij Ljubimov e della sua teatralità, che rappresenta oggi la continuità con una scuola teatrale che amo moltissimo, quella cioè di Mejerchol’d. Lo spazio del Teatro Lirico di Milano mi aveva posto limiti precisi, così come oggi la struttura di Piano, la scelta di San Lorenzo hanno cambiato tutto per me, hanno indirizzato tutto il mio lavoro attuale. E poi allora mi valevo dell’elaborazione elettronica analogica, pur con l’aiuto dello straordinario Marino Zuccheri [lo storico tecnico dello Studio di Fonologia musicale della RAI di Milano, ndr]. Ci possono benissimo essere delle discontinuità, delle rotture… Io amo queste rotture, ho bisogno di buttarmi senza rete di protezione, di mettermi a ristudiare tutto, di rimettermi in discussione… Non è un partire da zero, ma un ridiscutere tutto ciò che hai fatto fino a un certo momento: e allora operi con filtri, con lacerazioni se necessario… Credo che questo modo, attuale, di scrivere, di pensare per frammenti non significhi impotenza nei confronti del grande progetto. È lo stesso progetto a non significare più nulla, non ha davvero più senso la programmabilità delle operazioni. Davvero, io ho necessità di poter esercitare una critica scarnificante sul mio lavoro… Su ciò che siamo, o su ciò che non siamo pensando di esserlo. È solo in questo modo che ci si può tenere aperta la possibilità di sorpresa, che può manifestarsi in un balenio, che appare…

ARTICOLO n. 74 / 2024