Roberto Ciccarelli

ARTICOLO n. 31 / 2024

MI DIMETTO DALLA MIA CLASSE. MA SEI IMPAZZITƏ?

Confini sociali, sessuali, istituzionali e del lavoro

Non si cambia classe sociale come una camicia. Oggi quella camicia è una camicia di forza. Immobilismo, conservazione o declassamento. In questo scenario solo qualcuno si conquista il diritto alla “mobilità sociale”. Cantanti, sportivi o imprenditori, talvolta incarnati nella stessa persona, per esempio. Gli altri sono alle prese con un dilemma: difendere o perdere quel poco, o molto, che i genitori hanno conquistato nell’epoca d’oro degli anni ’60-’70-’80, definiti “gli anni gloriosi”. Il Novecento è una questione di eredità. Patrimoniale. Per i migranti, tranne qualcuno compreso nelle categorie sopra menzionate, nemmeno quella.

Se c’è un discorso sulla questione sociale oggi è quello della promessa tradita dell’“ascensore sociale”, e in particolare delle classi medie “basse” o povere. Al tempo della pretesa “fine delle classi sociali”, quella “media” è ancora legittimata a parlare, anche perché sui suoi valori è costruita buona parte della comunicazione massmediale. Il terrore di tornare indietro, verso mondi arcaici senza nome – da cui i nonni e i padri di quelle classi provenivano – toglie il fiato e aumenta la paura. Anche perché una società come questa non ha pietà per i “falliti”. Chi invece non ha nulla, tranne le catene, è contemplato solo come minaccia, oppure è compatito come “escluso” o “povero”.

L’ascensorista

C’è stata un’epoca che ha atteso un Messia. Quella attuale attende inutilmente il tecnico degli ascensori. L’ascensorista è una metafora che ha trasformato la società in un condominio dove un ascensore sale e scende. Lui è il protagonista del racconto della mobilità sociale. Occupa il ruolo della mano invisibile del mercato, è la forma secolarizzata della provvidenza, è la metafora dell’assunzione in cielo, dell’investitura carismatica, o della predestinazione.

L’ascensore sociale è sempre stato guasto. E, quando ha funzionato, lo ha fatto grazie alla lotta di classe. La “mobilità sociale” non è una metafora del mercato, ma è l’effetto di un attrito con esso, oltre che della manifestazione di una soggettività irriducibile alla logica dello scambio tra una domanda e un’offerta. Eppure a questo è ridotta, a una lotta di classe malintesa e mascherata. Ci si concentra sull’immagine di una società-piramide, non sul problema di chi ha creato la scala, su chi manda il tecnico quando l’ascensore si blocca o sul potere di chi decide che la ricchezza va in un senso e la povertà nell’altro. 

Nella metafora dell’ascensore sociale è sempre entrata solo un’élite che accede alle posizioni superiori. Può essere ampia quanto si vuole, ma non può evidentemente raccogliere tutta la popolazione. Tutti non entrano nella stessa cabina. A turno potrebbero farlo? Forse anche sì, ma se tutti andassero all’ultimo piano l’intero palazzo crollerebbe. La metafora, pur assurda, ha una logica stringente. 

Sebbene le frontiere si siano allargate, al tempo rimpianto dai più dei “trenta gloriosi”, il sociologo Paul Pasquali ha ipotizzato che l’ascesa sociale abbia escluso almeno un terzo della popolazione con un basso livello di istruzione. Questo è accaduto in Francia. è ragionevole pensare che in un paese come l’Italia che ha conosciuto un notevole cambiamento anche grazie alla scuola e all’università “di massa”, gli esclusi siano stati molti di più. Nonostante una relativa redistribuzione della ricchezza, causata dai tentativi spesso drammatici di allargare la base sociale della democrazia, il potere è rimasto lo stesso, indipendentemente dagli esiti che i singoli vissuti, pur valorosi, hanno avuto.

Il cortocircuito è iniziato con l’inarrestabile riduzione delle possibilità (sociali, professionali, relazionali) della classe media. Non è stato dunque l’accesso mancato ai piani alti dei lavoratori con una scarsa istruzione, ma quello di chi ha lottato ed è stato selezionato per ottenere meriti, capacità e riconoscimenti che non si sono tradotti né in posti di lavoro adeguati, né soprattutto con una sicurezza economica che in passato è stata barattata con la rinuncia a cambiare la gerarchia che stabilisce i poteri.

Annie Ernaux 

Annie Ernaux sarebbe stata un caso esemplare di “ascensione sociale”. Lei, figlia di piccoli commercianti provinciali, è diventata scrittrice di successo in Francia e premio Nobel per la letteratura. I suoi romanzi hanno descritto cosa significa emanciparsi in una società dove i ruoli sono fissati e solo agli individui “meritevoli” è permessa la scalata.

Annie Ernaux, protagonista dei suoi romanzi, ha una storia tutt’altro che individuale. Nel suo racconto che ibrida l’autobiografia, il saggio storico e sociologico, la filosofia e il romanzo emerge un’epopea collettiva. Quella di una lotta di classe in cui una società ha sfidato il razzismo “interno” contro il proletariato e la classe media inferiore, mettendo in crisi la divisione sociale dei ruoli.

Dell’Io, protagonista di molta “autofiction” di oggi, Ernaux fa un uso strategico. Per lei l’Io – forma al tempo stesso maschile e femminile – è uno strumento esplorativo per catturare le sensazioni, guida all’autenticità della ricerca e impegno a rompere la solitudine «delle cose sofferte e sepolte», a «pensare in modo diverso a noi stessi». «Quando l’indicibile viene alla luce, è politico». 

«Per quanto mi riguarda, è vero che non riesco a pensare ad altro che alla scrittura. Ho sempre pensato che la scrittura fosse un modo di intervenire nel mondo… Non ho mai voluto che i libri fossero qualcosa di personale per me. Non è perché mi sono successe delle cose che le scrivo, ma perché sono successe, quindi non sono uniche… Quando l’indicibile diventa scrittura, è politica. Certo, le cose le vivi personalmente… Ma non devi scriverle in modo che siano solo per te. Devono essere transpersonali, ecco cosa devono essere» (A. Ernaux, Le Vrai Lieu. Entretiens avec Michelle Porte, 2014).

La scrittura come confessione di classe originaria o elettiva è “transpersonale”, nel senso che si connette con coloro che sono invisibili, non sono in grado di scrivere, ma hanno altri codici con i quali hanno tradotto il loro desiderio di emancipazione. La scrittura parla sia con i laureati all’Ecole Normale Supérieure consacrati professori universitari che con gli operai, i borghesi, gli inquieti e i non classificabili che hanno rifiutato di aderire alle aspettative borghesi o aristocratiche dei loro genitori.

Ernaux ha inoltre insistito sulla duplice espressione: “ho tradito la mia razza”, “ho tradito la mia classe”. L’ambivalenza è dovuta sia a un equivoco epistemico e politico diffuso nel movimento operaio alle cui origini, come ha spiegato anche Michel Foucault in Bisogna difendere la società, la “razza” e la “classe” si sovrapponevano e confliggevano.

Ernaux ha scritto che sessant’anni fa l’espressione “Scriverò per vendicare la mia razza” riecheggiava il grido di Rimbaud: “Sono di una razza inferiore da tutta l’eternità“. Aveva 22 anni. Studiava letteratura in un’università di provincia, tra ragazze e ragazzi, molti dei quali appartenenti alla borghesia locale. 

La “razza” è quella comune degli oppressi al di là del colore della pelle e delle appartenenze sociali e nazionali. La classe “tradita” è quella di nascita. Il suo tradimento è l’effetto di una rivolta diffusa contro i meccanismi che riproducono la società oppressiva così com’è. 

In un libro come L’evento, storia di un’interruzione di gravidanza, è apparso chiaro che la rivolta contro l’oppressione di classe camminava insieme a quella contro lo Stato che condannava le donne ad abortire illegalmente. La scrittura è uno strumento di liberazione sociale e femminista. Vendicare la “razza” significa vendicare sia la “classe” che “il mio sesso”. Sono “la stessa cosa”.

Didier Eribon

La lotta contro la metaforologia neoliberale basata sull’ascensore sociale è stata alimentata anche dal libro di Didier Eribon Ritorno a Reims. Un libro che ha recepito le istanze maturate da Ernaux e ha contribuito a un ricco dibattito letterario e politico al quale ha partecipato un altro scrittore, Edouard Louis con un romanzo come Il caso Eddy Bellegueule.

All’intersezione tra donna, razza e classe sulla quale ha riflettuto Ernaux, Eribon ha aggiunto un altro aspetto: il rapporto tra l’appartenenza di classe e l’omosessualità. Figlio di una famiglia operaia, dunque di una classe più chiaramente schierata nel conflitto di classe, Eribon ha dovuto difendersi dallo stigma omofobo nel suo ambiente di provenienza.

«Per me – ha scritto – fu capitale la frase di Sartre nel suo libro su Genet: “L’importante non è quel che si fa di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi”» (D. Eribon, Ritorno a Reims, p.91).

Lo studio fu un modo per liberarsi dallo stigma sessuale. Eribon andò a Parigi dove trovò più semplice vivere la sua sessualità. 

«Ero segnato nel profondo da due verdetti sociali: un verdetto di classe e un verdetto sessuale. Non si sfugge mai alle sentenze di questo tipo. E porto in me il segno dell’una e dell’altra.  Poiché in un momento della mia vita entrarono in conflitto l’una con l’altra, dovetti forgiare me stesso facendo giocare l’una contro l’altra» (D. Eribon, Ritorno a Reims, pp.196-197).

Per l’emancipazione individuale per realizzare una transizione sociale di successo serve un’“ascesi: un lavoro di sé su di sé. In un doppio senso: nel riappropriarmi e nel rivendicare il mio essere sessuale ingiuriato nel primo caso; nello strapparmi dalla mia condizione sociale di origine nel secondo”.

Ma ciò ancora non bastava. Serviva la sua connessione con la liberazione politica, sociale e sessuale collettiva. Dunque, la coniugazione tra la singolarità e l’universalità nella concretezza dei vissuti collettivi. Nel frattempo qualcosa si era rotto nella politica delle “sinistre”. Quella socialista, dopo il 1983, era diventata sia neoliberale che conservatrice, aveva cioè rinunciato a trasformare il sistema capitalista ed era diventata “neoconservatrice”:

«Voleva rimpiazzare gli oppressi e i dominati di ieri – e le loro lotte – con gli “esclusi” di oggi – e la loro presunta passività –, e di piegarsi verso di loro come destinatari potenziali (ma silenziosi) di misure tecnocratiche destinate ad aiutare i “poveri” e le “vittime” della “precarizzazione” e della “disaffiliazione» (D. Eribon, Ritorno a Reims, p. 115). 

Eribon ipotizza che la lotta di classe non sia stata perduta solo dalle trasformazioni produttive del capitale e dall’effettiva tenuta del “blocco conservatore” dopo il maggio ‘68. Fu sabotata dall’interno dai “partiti di sinistra e dai loro intellettuali di partito e di stato che pensavano e parlavano con un linguaggio da governanti e non più da governati”.

«Non si parlò più di sfruttamento o di resistenza, ma di “modernizzazione necessaria” e di “rifondazione sociale”; non si parlò più di rapporti di classe, ma di “vivere insieme”; non si parlò più di destini sociali, ma di “responsabilità individuale”. Fu giustificata la demolizione del welfare state e della protezione sociale, in nome di una necessaria individualizzazione (o decollettivizzazione, desocializzazione) del diritto del lavoro e dei sistemi di solidarietà e di ridistribuzione». 

Il problema di Eribon è comprendere la ragione per cui la classe operaia, a cominciare dalla sua famiglia, ha iniziato a votare l’estrema destra della famiglia Le Pen a cominciare dagli anni Ottanta, proprio in coincidenza della svolta neoliberale della “sinistra”. La diga del partito comunista francese non è servita, è avvenuto uno spostamento. Ad avere contribuito a questo esito sarà stato il razzismo anti-immigrati in quel partito denunciato già all’inizio degli anni Ottanta. Ma, questa è la tesi di Eribon, la trasformazione è stata sia la causa che l’effetto di un cambiamento del “blocco sociale” che ha unito 

«Ampi settori delle classi popolari fragilizzate e precarizzate a commercianti, a pensionati benestanti del Sud della Francia, se non addirittura a militari fascisti o a vecchie famiglie cattoliche tradizionaliste e dunque fortemente radicate nella destra, perfino nell’estrema destra. Entrando in nuove alleanze politiche, in nuove configurazioni politiche, questo gruppo – composto solo da una parte del vecchio gruppo mobilitato nel voto comunista – è diventato altro da quello che era un tempo. Le persone che lo costituivano pensarono se stesse, i loro interessi e i loro rapporti con la vita sociale e politica in modo totalmente differente» (pp. 47 e 117).

L’impotenza creata dalla crisi, e dall’incapacità delle sinistre di assemblare un nuovo blocco sociale che unisse la strategia della liberazione che Ernaux ha preso dai soggetti della rivoluzione del ‘68 a quella della classe operaia, è diventata rabbia. La classe sociale decostruita dai discorsi neoconservatori della sinistra, «ha trovato un nuovo modo di organizzarsi e di far conoscere il suo punto di vista». 

Un punto di vista che contrappone il “noi” (francesi) a “loro” (immigrati) e sovrappone la lotta di classe a quella razzista. Ciò non basta a riavviare l’ascensore sociale, ma aggrava la separazione tra i subalterni e gli oppressi. In compenso la lotta per salire in una cabina bloccata è feroce. A quarant’anni dall’inizio del processo è ancora difficile uscire da questa trappola:

«Non ci si dissocia facilmente da un’appartenenza politica in cui si è mentalmente situati da molto tempo – fosse anche in modo instabile e incerto – per crearsi di punto in bianco un’altra appartenenza, vale a dire un altro rapporto con sé e con gli altri, un altro sguardo sul mondo, un altro discorso sulle cose e sulla vita».

Transfugadisertore, di classe

Un disertore di classe è una persona che ha superato le barriere sociali. Questo passaggio può avvenire in direzione dell’ascesa sociale (Ernaux), ma anche in direzione opposta (Eribon). Il disertore è un individuo che partecipa a un processo di massa, oppure un individuo che perde i contatti con tale processo. Quando accade può trovare una comunità globale di appartenenza – è il caso sia di Eribon che di Ernaux, il primo nell’accademia, la seconda nelle lettere. Ciò non toglie che entrambi continuano ancora oggi a voler uscire dalla loro terra di nessuno. 

L’esito della loro lotta non dipende dalla volontà, dal talento, dal merito di un individuo, né dalla forza impersonale di un sistema, ma da un conflitto che si svolge anche dentro chi vuole uscire dai confini sociali, sessuali, istituzionali, capitalistici e del lavoro. Questo conflitto è generato dall’attraversamento dei confini – tanto sociali quanto spaziali – oppure dalla sua “riterritoralizzazione” all’interno di perimetri già dati che formano nuovi territori, anche immaginari. 

Per spiegare il senso di questa lotta la filosofa spinozista Chantal Jaquet ha coniato il fruttuoso neologismo “transclasse” sul modello della parola “transgender” o “transessuale”. A suo avviso, sia Ernaux che Eribon sono un esempio di questa transizione trasformativa. 

La parola transclasse, adattata dal concetto anglosassone di passaggio di classe [class-passing]Passing è il titolo di un romanzo di Nella Larsen del 1929, indica l’azione di fuggire alla segregazione razziale e sessuale di una donna nera nell’America segregazionista. Tale “transizione” può avvenire in entrambi in sensi della linea del colore: il “nero” può fingere di essere bianco, ma anche il bianco può dire di essere “nero” (è raccontato nel 1961 in Black like me dal giornalista John Howard Griffin). Lo stesso può fare una donna che passa per un uomo, e viceversa.  E ancora un gay che “passa” per un “uomo eterosessuale”. 

La “finzione” si rende necessaria perché i transclasse devono affrontare un’ostilità tale che preferiscono mimare le convenzioni vivendo però quello che sono, cercando di sfuggire alla repressione. Il problema è sentito tra le donne che hanno dovuto affrontare la dominazione maschile nella classe operaia che cercava di emanciparsi, ma anche dagli omosessuali e dalle lesbiche, per non parlare dei trans oggi.

Un’interpretazione riduttiva ritiene che lo scontro sia confinato alle singole identità sessuali che legittimamente lo producono oggi. In realtà, proprio in ragione dell’estensione del concetto di “transclasse”, questi soggetti richiamano una potenzialità che risuona a partire dalla propria condizione individuale. Il processo è irriducibile a quello economicistico indicato dall’“ascensore sociale”. È tortuoso, inquietante e irriducibile a una misura unica. Il “passaggio di classe” non avviene solo rispetto alla gerarchia sociale e produttiva, ma anche rispetto alla posizione rispetto all’identità e alla differenza, la memoria e gli affetti, la sessualità e i poteri. 

A differenza della narrazione sulle “classi popolari” usate come mascotte dell’ordine sociale dominante per alimentare l’ideologia del “capitalista umano”, il “passaggio di classe” è un’attività complessa non limitabile a un’ascesa o a una caduta in una scalata. Parliamo di un duplice lavoro: quello su di sé connesso a uno con gli altri. Tale nesso è considerato marginale o vincolato alla trasformazione dell’ordine economico e politico. Oppure è ostacolato, deriso e considerato “pericoloso”. L’idea di fuga, diserzione o tradimento, per di più talvolta legata a una trasformazione sessuale, aggrava le inquietudini in un tempo in cui si cerca di vincolare l’esistenza a un’idea di un ordine “naturale”. Non esiste nulla di peggio che essere considerati rinnegati in un momento in cui bisogna serrare le fila nella guerra guerreggiata, delle identità e dei commerci.

Jacquet è stata criticata perché l’ha limitata alla sfera individuale, mentre si tratterebbe di pensarla in termini collettivi: una soggettività si trasforma quando è connessa alla società, alle tecnologie, all’ambiente e all’economia. A tale proposito, ne Le tre ecologie lo psicoanalista e filosofo Fèlix Guattari parlava della connessione tra l’ecologia mentale, sociale e ambientale. Più che auspicare il passaggio di un individuo da una classe all’altra già formate, si tratterebbe dunque di realizzare una trasformazione di un mondo diviso in classi. Ma è evidente che un movimento non è separabile dall’altro. È la connessione dell’uno con l’altro che ieri, come oggi, è considerata insidiosa e, per questo, va bloccata. Una simile ipotesi manda in tilt le destre al potere, e sorprende sempre più spesso le “sinistre”. In questa impasse il desiderio di dimettersi dalla propria classe, e dal suo mondo, sembra una supposizione priva di fondamento.

ARTICOLO n. 21 / 2024

PANICO WOKE

Anatomia di un'offensiva reazionaria

C’è un’ondata di panico nel dibattito pubblico globale sul termine wokismo. È nato con l’omicidio, nel febbraio 2012, di Trayvon Martin, un adolescente afroamericano uscito dalla sua casa in una città della Florida per comprare caramelle in un negozio di alimentari. Fu ucciso da George Zimmerman, un uomo di razza mista bianca e latina che faceva parte di un’organizzazione di “vicini vigilanti”. Il governo federale non ha immediatamente perseguito l’aggressore. In Florida, la legge “Stand Your Ground” consente a chiunque ritenga ragionevolmente che la propria sicurezza, o quella della propria proprietà, sia minacciata di sparare alla persona che la sta minacciando.

L’omicidio di Trayvon Martin è avvenuto nel 2012, in un’epoca in cui le reti sociali erano sviluppate: Twitter, Facebook, Instagram, Tumblr, e altri. Furono organizzate mobilitazioni digitali per chiedere giustizia, spingere lo Stato della Florida a perseguire l’assassino e reclamare lo spazio pubblico per le persone di colore. I genitori di Trayvon Martin, Tracy Martin e Sybrina Fulton, lanciarono una petizione, sostenuta da celebrità come Janelle Monae e LeBron James. Il processo si è tenuto durante l’ondata di emozione per l’omicidio. L’assassino si difese sostenendo di essersi difeso contro un diciassettenne disarmato. Una giuria composta da sei donne, cinque bianche e una latina, assolse Zimmerman nel 2013. Le conversazioni trapelate sulla stampa indicano che, secondo la giuria, Zimmerman “temeva per la sua vita”. Tuttavia, si scoprì che il vigile volontario aveva preso l’iniziativa di seguirlo con la sua auto, sebbene il 911 [il numero per le emergenze negli Usa, ndr.] gli avesse proibito di farlo.

Stay woke

È stato a questo punto che è dilagato lo slogan “stay woke” sui social network. Era un’indicazione alle persone mobilitate di restare vigili di fronte alla violenza della polizia. Stay woke esprimeva anche la sfiducia nei confronti della copertura mediatica tradizionale degli eventi, riecheggiando la famosa frase di Malcolm X: «Se non sei vigile, i media ti faranno odiare gli oppressi e amare coloro che li opprimono». 

L’espressione deriva dall’African-American Vernacular English, l’inglese sviluppato dai neri americani. È stata diffusa sui social network e irritò gli utenti conservatori che l’hanno subito ridicolizzata. Allora venne realizzata un’operazione di rovesciamento semantico e di ricolonizzazione del senso di un’espressione concepita per liberare gli oppressi. Wokismo, oggi, si riferisce a chiunque sia coinvolto in lotte sociali progressiste: contro la “negrofobia”, la transfobia e così via. Ormai “wokeism” non è una parola che indica un contenuto, ma va considerata a partire da una funzione censoria e stigmatizzante che serve a contestare tutto ciò che gli oppressi hanno da dire quando sono uccisi, sfruttati o umiliati.  

A differenza di Stay wokewokismo non ha una definizione precisa. L’acquista quando si tratta di colpire, con il cinismo aggressivo dell’ironia social o il disprezzo di classe, qualcuno che osa dire di non volere essere malmenato. Stiamo parlando di una chimera come altre nate quando le guerre di religione sono state secolarizzate nei conflitti sulla proprietà dell’immaginario. La sua peculiarità è data dal fatto che il wokismo è azionato quando si tratta di bloccare un principio di organizzazione dei dannati della terra.

Per chi indaga le culture politiche contemporanee, questa strategia indica l’esistenza di uno scontro e permette di comprenderne la logica spesso oscura e quasi mai esposta in maniera razionale. Alla base delle discussioni che occupano la sfera pubblica digitale c’è un’intuizione della teoria critica della razza, quella di Angela Davis ispirata alla connessione tra classe-genere-razza, Questa prospettiva denuncia la criminalizzazione degli uomini e delle donne di colore e il loro alto tasso di incarcerazione negli Stati Uniti. Un’altra ricercatrice, Kimberlé Crenshaw, ha sviluppato questo lavoro e ha parlato di “intersezionalità della violenza”, soffermandosi in particolare sulle lotte femministe contro la misoginia, l’ipersessualizzazione e la criminalizzazione dei corpi neri.

Insieme queste teorie sono state usate dai movimenti statunitensi a partire da quel 2012 per creare uno spazio politico liberato e denunciare quello occupato dalla “supremazia bianca”. Questa opera di costruzione politica procedeva insieme allo sviluppo di un movimento a Miami, Oakland, New York e Detroit e in tantissime altre città. Un’attivista afrofemminista, Alicia Garza, scrisse un post su Facebook in risposta all’assoluzione dello sparatore Zimmermann: BLACK LIVES MATTER. Lo slogan è stato ripreso come hashtag ed è stato urlato da folle di manifestanti. Attivismo, teoria critica, creazione di uno spazio politico, anche attraverso i social network, dunque. Questo, a oggi, è lo schema seguito per costruire un movimento.

Cancel culture

Un’analoga strategia di contro-rovesciamento di una pratica militante è avvenuta nel caso della cosiddetta cancel culture. L’abbattimento delle statue raffiguranti personaggi razzisti, prove del colonialismo e l’imperialismo degli Stati Uniti, è stato interpretato come una volontà nichilista di cancellare il passato della “nazione” e imporre in maniera totalitaria una verità di minoranze pericolose e riottose. In realtà si è trattato di atti simbolici, profondamente conflittuali, realizzati sia per contestare la violenza del passato che l’oppressione del presente ai danni di una moltitudine di soggetti amplissima, non limitabile nemmeno ai discendenti degli schiavi. 

L’enorme differenza tra un atto politico è un altro banalmente distruttivo è stata strumentalizzata per fare dire a questi movimenti ciò che non pensano. Questa strategia ha unito, nel medesimo empito di legge e ordine, liberali reazionari e destre estreme oggi al potere, o che aspirano a vincere le prossime elezioni. Il senso comune è diventato un campo di battaglia attraversato dalle scorribande degli editorialisti negli spazi mediatici centralizzati come la televisione, la radio e la stampa scritta. La comunicazione tra il livello mediatico e quello politico-organizzativo ha bisogno di una continua manutenzione e di un costante rilancio, proseguendo la strategia di base: quella di occupare il terreno dell’avversario e cambiare radicalmente il senso delle sue azioni, e dei simboli, al fine di delegittimare e patologizzare la sua stessa esistenza. 

Contraccolpo, contrattacco

Alex Mahoudeau ha analizzato le caratteristiche della “offensiva reazionaria” nel libro La Panique woke. Per l’autrice la denuncia del wokismo è un esempio di “panico morale”, cioè “una serie di aneddoti più o meno esagerati o inventati [che] alimentano la sensazione di una grande minaccia”. Aneddoti decontestualizzati che caricaturano la realtà. Ecco perché le scienze sociali, o le filosofie, che descrivono una realtà diversa sono sempre il primo bersaglio di queste operazioni. Il loro scopo è creare un consenso su una presunta minaccia rappresentata da gruppi di subalterni accusati di essere responsabili di comportamenti “devianti”. 

La “devianza” è l’esito dell’affermazione di una norma, considerata naturale e accettata dalla maggioranza, mentre in realtà è l’espressione della volontà di un’élite che ha interesse a mantenere un “dominio” e a stigmatizzare chi lo insidia come responsabile di un’irrazionalità rispetto all’ordinato decorso del mondo.Strategie come il wokismo servono ad alimentare l’ostilità diffusa verso persone classificate come “nemiche” nel dibattito pubblico. L’operazione è astuta perché usa il linguaggio della democrazia liberale, quello ispirato alla libertà di opinione, per negare una visione diversa della società attribuendole una minaccia all’integrità sociale.

Il panico woke è dunque l’espressione di una reazione a difesa di uno dei rapporti di poteri sui quali è costruita una società maschilista e bianca. Il binomio è tornato con forza all’attenzione dello scontro. Un simile ritorno è stato spiegato da Susan Faludi nei termini di un backlash, cioè di un “contraccolpo” o di un “contrattacco” dopo le conquiste sociali delle lotte femministe degli anni Settanta e Ottanta. Faloudi ha descritto una proteiforme mobilitazione maschilista che ha portato nel dibattito pubblico l’idea che le donne controllino tutto, mettano la museruola anche a una sana opposizione e prosperino a spese degli uomini, della famiglia e del mondo del lavoro.

Una simile torsione, osservabile anche nella retorica acchiappatutto del “politicamente corretto”, non è nuova. Susan Faludi sostiene che si verifica dopo la manifestazione di una nuova soggettività rivoluzionaria che impone, anche in maniera contraddittoria e non lineare, un “progresso sociale” che incrina i rapporti di potere, a cominciare da quelli nelle relazioni. A quel punto scatta un’operazione che potremmo definire di “sussunzione”: gli avanzamenti vengono parassitati e modificati anche nel significato da teorie concorrenti, e apparentemente assonanti, che tendono a espropriare le soggettività associandole a teorie come quella dell’“empowerment” femminile, per esempio. Quest’ultima è una teoria che riduce le nuove libertà e le nuove uguaglianze al mercato. Contemporaneamente si diffonde una paura che contribuisce a destabilizzare le persone escluse dai cambiamenti e a colpevolizzare coloro che li hanno formulati, rimproverandole per la sconfitta o per la crisi dello status quo che è all’origine dell’ingiustizia.

Problematizzare l’universalismo

Il campo non è tuttavia occupato solo da due forze opposte. In mezzo si trova l’universalismo degli Stati costituzionali, che conosce diversi sviluppi nei singoli paesi. Per esempio in Francia, dove l’universalismo “repubblicano” e “laico” è fortissimo, le istituzioni restano in una posizione apparentemente neutrale. Una posizione usata sia per addomesticare lo scontro, sia per “regolarlo” in termini consensuali, di “patto sociale”, o di normalizzazione. 

Questo universalismo si basa sull’idea che il popolo sia “uno e indivisibile”, composto da individui indistinguibili e indistintamente rappresentati. Allo stesso tempo l’universalismo è un principio costituzionale della Repubblica, basato su un individualismo mediato socialmente. La contraddizione entra in fibrillazione quando emergono i conflitti scatenati dal genere, dalla razzializzazione o dalla religione. Da un lato, lo stato costituzionale cerca di garantire una differenza positiva di trattamento; dall’altro lato, conferma l’esistenza di differenze oggettive. 

Quando un governo, come quello francese guidato da Jean Castex nel 2021, ha iniziato a polemizzare contro un grottesco, e inesistente, “islamogauchismo”. Con questa formula arzigogolata si è cercato di attribuire alla sinistra, e al pensiero critico, posizioni simili al fondamentalismo islamico. Così facendo si è cercato di stigmatizzare ogni forma di opposizione, a cominciare da quelle espresse da una generazione fortunata del pensiero politico: per esempio Derrida o Foucault, le cui opere sono state oggetti di interpretazioni distorsive e parodistiche.

Il conflitto sull’universalismo, e nell’universalismo, ha investito anche il campo cosiddetto “decoloniale”. Con questa espressione si intende un ampio lavoro, sia teorico che politico, che in Francia (e non solo, evidentemente), lavora su più fronti al fine di estendere la critica del passato coloniale di questo paese nelle relazioni sociali e di potere in cui sono imbrigliati i soggetti “razzializzati”.

Ci sono state violentissime polemiche, seguite anche da minacce di violenza contro le attiviste impegnate in questa prassi. Hanno riguardato in particolare la tendenza al separatismo, definito anche “non-mescolanza” [non-mixité, ndr.]. Tale pratica conflittuale è uno strumento usato in maniera occasionale dallə attivistə oggettədelle discriminazioni. Offre un sostegno per rielaborare il senso della propria posizione in una società in cui la contraddizione non è ancora stata accettata dalle autorità pubbliche come problema politico. Spesso questo tipo di oppressione viene negata o minimizzata, a cominciare dalle sue vittime. In più, com’è accaduto più volte, l’organizzazione di tali momenti di “non mescolanza” è stata attaccata come una manifestazione di “razzismo anti-bianchi”. Invece, sostengono lə attivistə, è in realtà una tattica per contrastare il “razzismo strutturale”.

La critica dell’universalismo è un argomento molto delicato in un momento in cui l’universalismo è usato, in maniera del tutto destoricizzata, per sostenere le ragioni di una “democrazia occidentale” senza distinzioni contro quelle di tirannie e altri “illiberalismi” in un mondo multipolare e ostile. Su questo spartito si esercitano sia le fabbriche dell’opinione conservatrice e che quelle delle estreme destre che saccheggiano la storia del “liberalismo” in maniera capziosa e strumentale, espellendo da essa proprio gli aspetti legati al colonialismo e all’imperialismo. 

Il punto debole 

Una delle ragioni per cui l’offensiva reazionaria continua ad avere presa sembra essere dovuta al fatto che colpisce uno dei luoghi più problematici dei pensieri critici, a cominciare dal marxismo. L’obiettivo è fornire nuove ragioni per consolidare la separazione tra razza, genere, lavoro, mercato e Stato. Si intendono così dividere i diritti della libertà da quello dell’uguaglianza, la struttura dalla sovrastruttura, la verità dall’ideologia, le lotte sulla produzione da quelle sulla redistribuzione, la materialità dalla cultura, la sessualità dal simbolico, e così via. 

Contro questo dualismo molti pensieri materialistici, femministi o spinozisti si sono battuti. Ma, in tempi di debole connessione tra teoria e prassi, la loro lotta è indebolita. Rinascono invece identificazioni fantasmatiche, ispirate all’ontologia dell’autenticità e dell’identità. Si creano nuove gerarchie. Ad esempio, quella di una classe lavoratrice con bianchi maschi eterosessuali separati, e spesso ostili, a una forza lavoro migrante composta sia da uomini che da donne. Su un dualismo tra minoranza e maggioranza è costruita anche la parodia secondo la quale le richieste di giustizia avanzate dalle minoranze sono una difesa dei loro “privilegi”. 

Queste e altre pratiche fanno parte di una guerriglia ideologica, realizzata nei perimetri dei pensieri critici tra loro in conflitto. Il loro scopo è screditare ed eliminare la possibilità stessa che i subalterni si organizzino in maniera efficace e di massa. Si tratta di avvelenare i pozzi ai quali si abbeverano le soggettività che cercano di creare una nuova condizione politica in comune. Bisogna riuscire però a riconoscere le strategie di resistenza, e di contropotere, usare per interrompere questa aggressione sistematica. Tali strategie incontrano spesso un limite storico, intensamente combattuto, ma perdurante: il dualismo, appunto. Tra i diritti, le identità, le priorità politiche: viene prima l’anticapitalismo oppure la lotta per l’ecologia? Viene prima la libertà o l’uguaglianza? L’oppressione patriarcale o lo sfruttamento del lavoro? La centralità della dinamica razziale oppure quella sessuale?

Su queste opposizioni la controrivoluzione in atto va a nozze e si diverte a dividere i suoi avversari a seconda delle priorità del momento. Questa azione risponde a una priorità: bisogna impedire con ogni mezzo la ricomposizione dei soggetti e la riscoperta di una dialettica tra teoria e prassi che permetta di coniugare nuovamente, in contesti diversi, la critica dell’economia politica con i conflitti di classe, di razza, di sesso e ambientali. Sono numerosi i tentativi sia teorici che pratici di ricombinare questi elementi, individuando nuove forme politiche e organizzative.

Rispetto a questi obiettivi abbiamo riscontrato diversi passaggi a vuoto. Non ha giovato la diffusione del populismo, nelle sue diverse declinazioni. Si tratta di una politica che contrappone i “ricchi” e i “poveri”, ma non pensa la lotta di classe, e istituisce una nuova gerarchia tra diritti sociali e civili. Non ha giovato nemmeno la svolta neoliberale e autoritaria del sistema mediatico che è più pronto a rielaborare le parole d’ordine delle destre estreme (“prima gli italiani” ecc., o migranti = pericolo invasione) che le istanze femministe, anticapitaliste, anti-razziste. Un’evoluzione che è andata di pari passo con la chiusura all’elaborazione più avanzata e diffusa dei pensieri critici nell’accademia come nella scuola. 

Questi mutamenti strutturali e istituzionali sono gli effetti materiali, e sistemici, della controrivoluzione che si è rafforzata in coincidenza con il moltiplicarsi delle crisi dal 2008 a oggi. Gli spauracchi del wokismo, della cancel culture o del “politicamente corretto” non sono mere ideologie, ma effetti discorsivi prodotti da un potere reale.

Rivoluzione passiva

La tesi di una “guerra non dichiarata contro le donne” (Faludi) in nome di un “contrattacco” condotto per riaffermare il “dominio maschile” (Pierre Bourdieu) e la “bianchezza” (Paul Gilroy) è molto interessante nella prospettiva di una genealogia della politica contemporanea. Sono usati cioè i valori del liberalismo politico (la libertà, l’universalità, il diritto all’opinione, la tolleranza, e altri ancora) per affermare il contrario e ristabilire un’egemonia dei dominanti giudicata sotto attacco. Ciò avviene in un momento, per di più, in cui il presunto attacco è più debole rispetto ad altri, come quello degli anni Sessanta e Settanta, oltre che di natura difensiva. 

Ciononostante il conflitto si basa sull’uso delle parole dell’avversario (le donne, i neri, i subalterni, gli sfruttati e gli oppressi), e della loro storia “minoritaria”, per evidenziare come le “maggioranze” artificialmente costruite siano in pericolo. In nome di tale emergenza si evoca l’antica legge del “bisogna difendere la società” per colpire i soggetti e la loro presunta volontà di destabilizzare il sistema.

In Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista ho definito questa strategia nei termini di una “rivoluzione passiva”. Termine che ho rielaborato da Antonio Gramsci, con il quale il filosofo comunista italiano ha inteso descrivere un lungo periodo di “contro-rivoluzione” moderata e classista nel XIX secolo in Italia. Questa politica ha strumentalizzato i contenuti di una rivoluzione politica e sociale – di segno diverso: quella francese prima, quella sovietica poi – riconoscendo ai popoli solo i diritti decisi dalle classi dominanti e negando ogni forma di partecipazione e trasformazione ai movimenti di autodeterminazione. Dal punto di vista della logica politica, l’offensiva reazionaria in corso si esprime allo stesso modo. Prolunga cioè la reazione a un ciclo rivoluzionario che ha modificato i rapporti sociali, di genere o razziali nelle società capitalistiche, attacca i soggetti che si ispirano necessariamente a quella storia e usa contro di essi i principi che, in linea teorica, dovrebbero liberarli. 

Così funziona l’egemonia. Diversamente da come la intendeva Gramsci, una certa corrente della destra al governo l’ha intesa come una “guerra culturale” priva però di lotta di classe. Questa “guerra” intende consolidare un sistema basato su un triplice potere: economico (il potere di possedere la maggior parte della produzione di ricchezza e di stabilire una divisione razziale del lavoro); normativo (il potere di stabilire le regole della società su scala internazionale – in un mondo globalizzato); simbolico (il potere di attribuire un valore e di valutare unilateralmente i corpi e le pratiche dei “non bianchi” per definire la loro umanità). 

Un simile assetto dei poteri è rivoluzionato incessantemente, in maniera antitetica a chi si oppone, al fine di consolidare l’ordine della proprietà, dei confini e del capitale. La rivoluzione passiva oggi è un ribaltamento postmoderno dei principi classici della rivoluzione: la reazione è libertà, l’uguaglianza è sfruttamento, il capitale è natura. In questo regime paradossale, i soggetti restano subalterni. Di solito, questo processo è considerato un blocco unico insuperabile, un grande Leviatano indistruttibile. Quando accade, come oggi, è difficile trovare un’alternativa, mentre risorgono culture dell’apocalisse e della fine del mondo. In queste fasi si perde di vista il carattere reazionario dell’offensiva, cioè la sua mancanza di autonomia. Essa non può fare a meno del “nemico” che si è scelta per giustificare la propria esistenza. Quanto ai suoi avversari, continuano a dividersi, obnubilati da un’intelligente operazione politica che sembra avere saturato ogni spazio di libertà nel presente. Ma questo è l’effetto derivato della loro autonomia che persiste nel mondo rovesciato della rivoluzione passiva.