Roberto Ciccarelli

ARTICOLO n. 75 / 2024

UN SEMPLICE NOME COME NOBEL DELL’ECONOMIA 2024

Anche quest’anno il premio Nobel per l’Economia a Daron Acemoglu, Simon Johnson e James Robinson può essere inteso come un’allusione. Fuori da quella disciplinata e inflessibile dottrina economica neoliberale – il mainstrean che detta le regole alla nostra vita quotidiana – c’è un’alternativa. Ma sempre sotto la forma di un’allusione, appunto. Flatus vocis, disse Roscellino di Compiègne, il grande teorico del nominalismo che definì “soffio della voce” quei concetti universali che non hanno una realtà oggettiva e sono semplici nomi. Solo un nome è considerato sulla scena globale l’alternativa ai dogmi del “libero mercato” governato dalla “mano invisibile” o a quell’altro della massimizzazione del profitto da parte di individui egoisti. Eppure esiste. 

Il nome, in realtà, condensa fior di studi critici tra i ricercatori economici in tutto il mondo che hanno maturato negli ultimi decenni la chiara consapevolezza di quella finzione che è la società governata dal mercato. Il lavoro di Acemoglu, Johnson e Robinson – nella lettura che ho potuto dare dei loro libri e a partire dallo sviluppo delle riflessioni quasi quotidiane di Acemoglu – si colloca sul limite tra un flatus vocis dell’alternativa e le posizioni più avanzate nell’economia mainstream.

Dal punto di vista di una storia del presente questa è una posizione interessante. Acemoglu, Johnson e Robinson riflettono a partire dall’impresentabilità dei vecchi dogmi che in realtà sono vivissimi nelle politiche economiche di tutti i paesi. Basti pensare a cosa sta accadendo in Francia o, in maniera diversa, in Italia che stanno adottando i dogmi dell’austerità nelle loro leggi di bilancio.

Gli autori, allo stesso tempo, hanno maturato una serie di indicazioni politiche che potrebbero essere definite di ordine social-liberale progressista, una specie di speranza nella socialdemocrazia in un tempo in cui la socialdemocrazia è scomparsa. E, con essa, la stessa idea di alternativa a un neoliberalismo autoritario che sta divorando la democrazia e ogni possibile sbocco in senso contrario, cioè socialista, per non dire comunista. Questi sì, puri nomi che potrebbero avere un altro avvenire. Anche se spesso sono considerati discorsi privi di consistenza o promesse che non hanno seguito. L’opera di Acemoglu, Johnson e Robinson si colloca in quella zona di indistinzione tra la realtà e l’astrazione di un nome che contiene mondi.

I tre economisti e politologi – uno dei quali è turco e americano, l’altro britannico, ma tutti e tre hanno trascorso la loro intera carriera negli Stati Uniti – sono partiti da una delle domande più classiche dell’economia liberale: perché alcune nazioni registrano una crescita economica più forte di altre? Domanda che è stata ripetuta fin dagli albori dell’economia intesa come “scienza”, a partire dal suo padre fondatore, Adam Smith. Di questo parla il suo libro più famoso sulle indagini sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, pubblicato nel 1776.

La prima risposta è stata data 23 anni fa in un articolo che è diventato uno dei più citati della letteratura economica mondiale: “The Colonial Origins of Comparative Development” pubblicato dall’American Economic Review nel 2001. Storici dell’economia, Acemoglu, Johnson e Robinson hanno fatto ricorso ai numeri per confrontare le tabelle di mortalità dei coloni bianchi in diverse colonie con i tassi di crescita degli Stati nati da queste colonie. La conclusione è questa: dove i coloni erano in grado di popolare ampi territori grazie a un ambiente sanitario meno duro, hanno creato istituzioni capaci di garantire i diritti – in particolare i diritti di proprietà – e di stimolare il progresso tecnico ed economico. Mentre dove l’ambiente era malsano, si limitavano a schiavizzare la manodopera locale o a importarla per sfruttare le risorse locali, agricole o minerarie, al fine di trarne profitto. Il problema di fondo è il colonialismo. Può forse svolgere una funzione di “civilizzazione” quando crea “buone” istituzioni? Il punto è delicato, evidentemente.

Il problema è stato sfiorato in un articolo, “Reversal of Fortune”, pubblicato nel 2002 sul  Quarterly Journal of Economics, dove gli autori hanno dimostrato che le istituzioni nate dallo schiavismo negli Stati Uniti meridionali alla metà del XIX secolo, quelle che avrebbero garantito uno “sviluppo”, sono diventate un gigantesco problema per la democrazia nel momento in cui il paese procedeva nella sua rivoluzione industriale. 

La politica in Acemoglu, Johnson e Robinson ha il nome di “istituzioni”. Se una politica garantisce la regolazione “istituzionale” dell’innovazione tecnologica, bisogna sempre vedere se i frutti di tale innovazione restano nelle mani di un’élite dominante o viene messa al servizio del maggior numero di persone. Da questo si capisce se una democrazia è più o meno funzionante oppure ha bisogno di essere democratizzata. E oggi la democrazia ne ha un drammatico bisogno. Deve sottrarsi dalla cattura del sistema finanziario per evitare di continuare a subire le crisi che esso produce. Sta qui l’intenzione democratica di Acemoglu, Johnson e Robinson che è stata premiata con il Nobel. Si direbbe: poca roba. Eppure, a chi ha una vaga idea del conformismo feroce che domina l’opinione pubblica oggi, sembra già tanto. Del resto, non è la prima volta che si danno riconoscimenti a questa idea. Cioè al nome di una necessaria trasformazione, a condizione che resti una chimera.

Non diversamente da altri economisti noti, per esempio Thomas Piketty, anche Acemoglu e Johnson hanno scritto libri per il grande pubblico. Ad esempio: Potere e progresso. La nostra lotta millenaria per la tecnologia e la prosperità (Il Saggiatore). Qui il posto della storia dell’economia è molto importante, ed è anche chiaro il ruolo di ponte elaborato dagli autori per unire l’economia dominante a una scuola “istituzionalista” che ha avuto un certo ruolo sia negli Stati Uniti che in Francia, nell’economia e nella sociologia. Per chi ha una passione per questi argomenti in questo tipo di libri possiamo trovare sia Thorstein Veblen che Robert Boyer e Michel Aglietta. Acemoglu, Johnson e Robinson hanno usato i metodi econometrici per ragionare sulla storia e sulla possibilità di regolare diversamente il capitalismo. È un tentativo di individuare un contrappeso a quella tendenza, apparentemente inarrestabile, di tradurre la vita in modelli matematici che non tengono conto della storia e delle politiche economiche.

Acemoglu, Johnson e Robinson sono stati criticati perché credono in una filosofia della storia secondo la quale la ricchezza è assicurata dall’istituzionalizzazione dei diritti di proprietà, prerogativa della cultura giuridica occidentale.Sulla base di questo liberalismo economico, il cui capolavoro ideologico è stato quello di considerare la proprietà come un diritto fondamentale della persona (lo ha scritto Luigi Ferrajoli, che è un liberale di caratura) Acemoglu, Johnson e Robinson sembrano credere all’esistenza di “buone istituzioni” che garantiscono di per sé il progresso. A condizione che rispettino la legge fondamentale del liberalismo economico. 

Se è questa la base teorica di un lavoro storico di notevole interesse, allora è molto interessante il dialogo tra l’economia marxista italiana di Emiliano Brancaccio e Acemoglu. Il loro tema è se esista o meno una legge generale del capitalismo oggi. Per Brancaccio sì, per Acemoglu no. In realtà, come abbiamo visto, una legge esiste. E va trovata nei trascendentali che guidano quella formidabile macchina teorica – e non solo produttiva e finanziaria – che è il capitalismo. Per una filosofia della storia ispirata al liberalismo economico una legge generale non esiste perché è già determinata in maniera trascendentale. Se il diritto di proprietà è una legge naturale e cosmica, non ha bisogno di essere nominata. Essa esiste e basta.

Nelle argomentazioni di Acemoglu, teorico fine, si comprende l’esistenza di un conflitto a un livello alto, quello marxiano. Per Marx infatti la definizione di una tendenza generale del capitalismo non è una legge eterna, bensì la determinazione storica di un avvenire che nasce dalla critica del capitalismo e del suo dogma: l’esistenza in natura di una proprietà considerata diritto fondamentale dell’uomo. Se fosse tale, allora arriveremmo a giustificare la diseguaglianza tra gli esseri umani, e tra l’uomo e la natura, per esempio. Invece, se parliamo di politica – che non è solo un nome, bensì una prassi – questa idea è inaccettabile. 

ARTICOLO n. 53 / 2024

GRAMSCI AL SUGO

Ricette di destra e riappropriazione culturale

Un “Gramsci di destra” non esiste. È un anti-gramscismo, cioè la negazione dell’autore dei Quaderni del Carcere, fondatore del partito comunista italiano e de L’UnitàEppure, la trovata è diventata popolare in un ceto intellettuale che è andato al potere in Italia. Nel governo Meloni c’è chi ha evocato la sua ombra dal Ministero della Cultura. Dopo Dante, Gramsci farebbe parte di una “cultura della destra”. Proprio lui che ha fatto a pezzi un’altra invenzione del moderatismo liberale: la linea ideologica De Sanctis-Croce-Gentile. Proprio lui che è stato ucciso nelle carceri dei fascisti, oggi si ritrova involontario protagonista del nazionalismo culturale dei loro eredi. Gramsci è pronto a essere venduto come un pacchetto vacanze. Oltre ai centri storici trasformati in luna park da turisti, tocca vendergli anche le primizie nostrane. Gramsci è la merce culturale che sta tra il fungo cardoncello e il resort ballardiano costruito per i VIP del G7 in vacanza in Puglia.

Gramsci teorico del consenso delle classi dominanti 
Voci su un Gramsci “di destra” sono arrivate in televisione anche da chi è stato nominato in posti di sotto-governo. Nei musei, per esempio. È stato scritto un libro, poco più di una collezione di testi improvvisati, sul fatto che Gramsci è vivo. Più che soffermarsi su pagine modeste è più interessante notare come uno dei pensatori che ha cambiato la teoria della rivoluzione comunista in occidente sia stato ridotto a un insignificante pensatore “liberal-democratico”. Non è la prima volta che accade. Tempo fa, ci hanno provato i liberal-liberisti della “sinistra”. Quelli che, dalla svolta della Bolognina in poi, hanno trasfigurato Gramsci in un filosofo funzionale al progetto di integrazione dei resti dell’ex partito comunista nell’establishment che ha co-gestito la drammatica transizione al neoliberalismo dagli anni Novanta.

Il lavoro di neutralizzazione e di reinvenzione di Gramsci è servito a giustificare il passaggio dalla Chiesa comunista a quella liberista. Così gli ex comunisti sono diventati gli ultras del nuovo verbo capitalista. Da subalterni e convertiti hanno usato Gramsci come un teorico del consenso che spinge le masse ad accettare le politiche neoliberali contrarie ai loro interessi: aziendalizzazione della sanità e della scuola, precarizzazione del lavoro e della vita, dismissione di un welfare già caricaturale, spostamento della ricchezza pubblica verso quella privata.

È questo Gramsci teorico del consenso delle classi dominanti e del ceto politico di turno che interessa al personale intellettuale che ha fatto carriera nella destra di governo. Dalla sinistra liberista alla destra nazionalista: l’appropriazione di Gramsci è una ricetta preparata in salse diverse. Ieri, come oggi, avviene in nome del moderatismo, dell’opportunismo, dell’indifferentismo e del morfinismo politico. Le pratiche criticate da Gramsci nella storia italiana. Oggi sono usate per sussumerlo nell’egemonia dominante. 

“Egemonia senza lotta di classe”
Il concetto più gettonato dal “Gramsci di destra” è l’“egemonia culturale”. Di questa idea importante è fatto un uso derisorio. Viene cioè intesa come il sinonimo di una narrazione pubblicitaria e televisiva che stabilisce la legittimità di chi può parlare nei talk show della sera. Questa idea non va banalizzata più di quello che già fanno i suoi sostenitori. Va intesa nell’ambito di un’operazione sistematica, realizzata ai danni di Gramsci, dal neofascismo e dal pensiero della cosiddetta “Nuova destra”, in particolare quella francese, a partire dagli anni Settanta del XX secolo. 

Una traccia di questo lavoro culturale è stata fornita in questo video da Marion Maréchal-Le Pen, la nipotina ex ribelle di Marine Le Pen da poco rientrata nei ranghi del Rassemblement National in Francia per ragioni di convenienza politica. Con il partito della zia alle soglie del potere non ha senso fare la fronda in un partito razzista collaterale. In una serata culturale organizzata in Liguria nell’estate 2018 Maréchal-Le Pen ha esplicitato chiaramente il senso per Gramsci delle “nuove” destre. A loro non interessa “la sua ideologia di sinistra”. Interessa “un Gramsci senza la lotta di classe”. Gramsci sarebbe colui che ha creato “il metodo di conquista del potere”. “Prima di sperare di vincere politicamente ed elettoralmente – ha continuato Maréchal-Le Pen – dobbiamo vincere sul fronte culturale. Bisogna fornire una risposta culturale da parte dei conservatori, non per un partito politico, non per ragioni elettorali, ma per la società nel suo complesso”.

L’idea di separare Gramsci dalla lotta di classe risponde a una strategia più ampia, quella dell’anticomunismo. Tanto più in effetti manca una politica comunista, tanto più forte è il suo fantasma usato contro le “sinistre”, anche quelle più moderate e ignare della stessa opera di Gramsci. Sull’anticomunismo si innesta la strategia del rovesciamento delle destre contemporanee. Si prendono le idee dell’avversario e le si rovesciano nel loro opposto. Così facendo si sostiene in modo ingannevole di essere dalla parte dell’avversario, attingendo elementi parziali ed errati dalle sue analisi al fine di creare confusione e togliere la credibilità alla parola della “sinistra” che non sa più di cosa parlare, con chi e perché. Soprattutto da quando ha rinunciato al rapporto tra teoria e prassi e ritiene che una politica può esistere se va in televisione o su Internet e non organizza la lotta a partire dai quartieri popolari, nei luoghi di lavoro e in quelli della festa e della produzione culturale dal basso. 

L’egemonia alla quale pensano Maréchal Le Pen e le altre destre reazionarie euro-americane può essere allora sintetizzata in una formula: anti-comunismo che si salda con l’idea proprietaria e capitalista della libertà, con l’odio dell’uguaglianza, il familismo eteronormativo e il razzismo culturalista e etnodifferenzialista, a cominciare da quello anti-arabo e anti-musulmano. 

“Guerra delle idee”: un’inchiesta
Diversamente da quanto si crede, la “guerra delle idee” è solo alla lontana riferibile all’idea gramsciana di “egemonia culturale”. Si tratta invece di un’allusione a una teoria del sociologo americano James Davinson Hunter. Ad avviso di Hunter la “battaglia delle idee” sarebbe una riattualizzazione delle guerre di religione in società secolarizzate dove il conflitto di classe sembra essere stato sostituito da quello sull’identità personale, culturale, religiosa o sociale.

La variante di “destra” di questo ragionamento, oggi prevalente, consiste nell’interpretare gli orientamenti di una maggioranza virtuosa e morale, non più “silenziosa” ma molto loquace grazie ai social network, che prende parola contro la cultura “elitaria” di una sinistra “borghese” ostile al «popolo». C’è anche una variante “di sinistra” di questa lettura riduttiva dell’egemonia culturale gramsciana adattata all’insipida minestrina dei pubblicitari che hanno fatto carriera tra i sondaggisti e tra i narratologi prestati alla propaganda elettorale. Questa “sinistra” ha inizialmente preferito l’identità – di sesso, razza o genere – alla moralità delle condotte prescritte dalla destra e ha pensato di liberare le minoranze oppresse dal giogo del potere maschile bianco.

L’affermazione dell’egemonia neoliberale tra gli anni Settanta e Novanta del Novecento ha complicato questo progetto al punto che si è iniziato a contrapporre i diritti delle persone mettendo in secondo piano, o rinunciando del tutto in altri casi, alla loro connessione con la lotta di classe. Questa compagine “di sinistra” si è ritrovata in ostaggio di uno scontro tra identità culturali essenzializzate, costruite su criteri normativi impenetrabili e fortemente polarizzanti. A questo scontro collaborano anche coloro che evocano la priorità dei diritti “sociali” su quelli “civili”, ma non hanno un’idea di classe e così stabiliscono una gerarchia dei diritti dove al vertice si trova un’identità più “universale”, quella di un “popolo” idealizzato rispetto alle altre considerate parziali.

L’egemonia culturale per i “gramsciani di destra” consisterebbe nell’appropriazione e nel rovesciamento nell’opposto dei valori dell’avversario. Si prendono cioè i valori liberali dell’autonomia o della libertà di parola e quelli “sociali” della protezione paternalistica e autoritaria dello Stato che si occupa della famiglia eteronormativa. E li si brandisce contro l’avversario: una “sinistra” neoliberale fantasmatica, generica e senza distinzioni. Contro di essa è stata scagliata l’accusa di “totalitarismo” poiché intenderebbe determinare cosa può essere pensato e come le opinioni possano essere espresse. 

Contro la nuova polizia di questa cosiddetta “sinistra” gli “anti–autoritari” di destra hanno valorizzato il personaggio del moralista trasgressore, un’individualità eroica già presente nella tradizione avanguardista delle destre fasciste. Questo personaggio si palesa preferibilmente sui social network dove usa una finta ironia passivo–aggressiva, accompagnata da meme, immagini e video. Esibisce una cultura del non–conformismo, della trasgressione e dell’irriverenza fine a se stessa. Non si tratta solo di uno stile comunicativo, ma di una cultura politica che si è forgiata nel limbo dei forum e delle piattaforme digitali dove si usano i linguaggi oggi prevalenti su Internet: l’aggressione verbale fino all’istigazione al crimine, le fantasie di stupro o omicidio contro le donne, in particolare quelle impegnate nelle lotte femministe, rese oggetto di odio e di disprezzo. 

Molti degli “intellettuali” di destra perbenisti o liberal-conservatori potrebbero anche inorridire davanti agli orrori e alle violenze del vero fascismo digitale. Non è escluso che l’ondata politica di cui oggi loro sono le comparse non liberi soltanto la parola sessista e razzista, ma anche le pratiche della violenza fascista organizzata. 

Cos’è l’egemonia
L’egemonia per Gramsci è irriducibile a qualsiasi teoria del potere imposta più o meno surrettiziamente. Non è né una microfisica elettoralistica del potere, né un dominio puro e semplice esercitato dallo Stato attraverso la polizia, né un indottrinamento attraverso i suoi apparati ideologici. L’egemonia non è nemmeno un semplice rapporto pedagogico tra il potere, gli intellettuali e le masse amorfe. Non ha nulla a che vedere con il rapporto commerciale tra il venditore di merci e il consumatore di “offerte politiche”, né con quell’altro gerarchico tra maestro e allievo. In entrambi i casi, i consumatori come gli allievi, sono trattati come bambini che non capiscono le “riforme” ma che devono essere soddisfatti perché altrimenti abbassano il ranking del gradimento dei partiti nelle elezioni politiche. 

Il consenso democratico che sta alla base dell’egemonia gramsciana non può essere equiparato né al consenso passivo né al consenso mediatico. Invece è un consenso attivo, la costruzione di un’intesa, di una volontà collettiva fondata sull’unità tra governati e governanti, attraverso un costante passaggio da una condizione all’altra. Creare l’egemonia significa cioè riflettere sulle condizioni di possibilità e di realizzazione del futuro intellettuale, politico ed etico di tutti. 

L’egemonia è lo sviluppo intellettuale di qualsiasi persona nel dirigere la società e nell’autodeterminare la propria esistenza.

“Guerra di posizione”
Tutto questo avviene attraverso la lotta di classe con la quale il partito – il “Nuovo principe” di Gramsci – si rapporta, organizza, rilancia, ma non determina dall’alto. Il partito segue la lotta di classe, come quelle ambientaliste anti-razziste e anti-sessiste, cerca di valorizzare la loro autonomia, prova a collegarle insieme a tutte le organizzazioni indipendenti della “società civile” che si formano in queste lotte. Estende la loro organizzazione in tutta la società, oltre che nei luoghi di lavoro, in maniera non gerarchica e alla luce di una strategia trasversale della convergenza e dell’insorgenza. 

Ripensato con Gramsci il dibattito magmatico che si svolge oggi sulla “intersezionalità” delle lotte e sulle loro “alleanze” assume un interesse ulteriore. A queste pratiche, infatti, Gramsci può dare l’idea di “guerra di posizione”. Questo tipo di “guerra” coincide con l’egemonia politica. Bisogna però fare attenzione a non intendere la definizione nei termini solo ed esclusivamente militaristi o di occupazione delle istituzioni.  L’egemonia è il contrario: è l’azione di direzione della società e di autodeterminazione degli individui. Questa azione serve a “riassorbire la società politica nella società civile” e a riarticolarla attraverso la disseminazione dei poteri tra i mille fuochi dell’autonomia popolare e soggettiva presenti nelle società contemporanee. 

In questo obiettivo si riconosce quello marxista dell’“estinzione dello Stato” completamente sconosciuto alle destre. La “presa del potere” al quale esse inneggiano è invece per Gramsci la fine del potere capitalista, e di Stato, sulle masse. Gramsci pensava a un sistema di principi, e dunque a una egemonia, di una democrazia comunista che escludeva “accuratamente ogni appoggio anche solo apparente alle tendenze “assolutiste”. Ieri il gramscismo si opponeva allo stalinismo trionfante, oggi potrebbe farlo contro il neoliberalismo senza democrazia al quale si stanno riducendo i liberalismi “democratici”.

Tabù
Perché allora le destre postfasciste e i conservatori neoliberali scartano la lotta di classe da Gramsci? Perché sono subalterni alla vera egemonia del nostro tempo: il neoliberalismo. Quella che parte dall’assunto per cui la lotta di classe sarebbe morta con quel capitalismo totalitario e omicida che è stato lo stalinismo sovietico e oggi vivremmo nella società del “libero mercato” che coincide con l’“occidente”. Non è vero, e mai lo sarà. Il problema è che la lotta di classe non ha direzione, e si svolge al contrario. Cioè è una guerra tra i penultimi e gli ultimi. Parliamo di un conflitto regressivo che segue la linea del colore ed è basato sulla paura. I neoliberali conservatori, e le destre razziste, lo usano come strumento di persecuzione dei migranti e per segmentare la società attraverso un’apartheid flessibile e spietata.

Gramsci allora lo vorrebbero mettere al lavoro con l’obiettivo di prendere possesso delle leve del potere per realizzare, senza freni, una strategia avviata da tempo da altre forze politiche. All’esterno, e con la complicità di una borghesia senza scrupoli che ha perso ogni rapporto con l’idea di democrazia, ciò permetterebbe alle “nuove” destre di guidare in maniera autoritaria la complessa macchina neoliberale “occidentale” che sta affrontando una nuova guerra con i capitalismi neoliberali concorrenti (cinesi, russi ecc.). All’interno, Gramsci servirebbe a queste destre a fare la guerra contro i subalterni. Un paradosso, in effetti. Ma questo significa neutralizzare il suo pensiero sottraendolo a una sinistra politica e sindacale che lo ha sostanzialmente dimenticato, almeno in Europa. Non certo altrove dove Gramsci conosce, da 40 anni, un grandissimo ritorno di interesse pieno di originali declinazioni. 

Un Gramsci globale contro le riappropriazioni nazionalistiche per di più sconnesse. La riappropriazione, tra l’altro, risponde a una logica coloniale e scambia il potere per un dominio. Non è un caso che il Gramsci globale sia usato anche da coloro che pensano le strategie decolonizzatrici e si pongono il problema di come i subalterni residenti, immigrati o oppressi ed esclusi possano liberarsi.

La “cultura” che le destre vogliono imporre è una parodia del “lavoro culturale” attraverso il quale Gramsci invitava gli intellettuali e i subalterni a liberarsi delle catene e a distruggere il potere che li opprime. In tal caso il potere servirebbe per opprimere i loro simili e trasformare la “guerra di posizione” nel suo opposto di “guerra civile”. La lotta di classe, cioè la presa di parola da parte dei subalterni, in cui si inserisce l’egemonia gramsciana intesa come guerra di posizione, dovrebbe invece spaccare un simile progetto terrificante e organizzare la resistenza, già dall’interno di ciascun paese. Di questo scontro si vedono le prime scintille.

ARTICOLO n. 49 / 2024

DECLINO CHE PASSIONE

anatomia del mito "era meglio prima"

Era meglio prima. Oggi non va bene niente. Siamo in declino. Il declino è diventato un genere: il declinismo. È più che una moda. In effetti, non esistono mode che durano in eterno. Il declinismo è un pensiero retrospettivo che spiega il presente a partire da un’origine perduta o dalla degradazione di una potenza organica, industriale, personale, militare.Questo pensiero è basato sulla psicologia collettiva, sulla condizione sociale di chi si sente personalmente in declino, sull’idea di progresso lineare ma anche sull’idea di società organica, gerarchica, automatica.

Nostalgia e risentimento

Il declino è una questione di prospettive. Non è solo il rimpianto di un’epoca. È anche la proiezione del presente in direzione di un’idea del passato da riattualizzare nel futuro. Questo doppio movimento sfugge all’attenzione. Di solito, infatti, si pensa che il declinista rimpianga il tempo della sua giovinezza, sia vittima della Caduta dal paradiso terrestre, rimpianga l’Età dell’Oro. È vero, ma non è tutto. 

La passione del declino è la nostalgia. La nostalgia può ribaltarsi in risentimento. Il declinismo è, in fondo, un idealismo. Il mondo è la degradazione dell’Idea, va riportato all’origine. E se il mondo va da un’altra parte, e non si lascia correggere, né risponde al bisogno di mettere ordine, allora si scatena l’apocalisse, il misantropismo, l’odio per chi non capisce la necessità di salvare la storia da se stessa e imporre la storia come dovrebbe essere ma non sarà. 

Non c’è un unico declino. Ce ne sono tanti quanti sono i declinisti per generazione, che siano della politica, dell’ideologia o della storia. Ciascuno ha il proprio modo di essere passivo, e di reagire. Il declino, in fondo, risponde a un’economia delle passioni. Oggi, nel cuore della controffensiva reazionaria, queste passioni sono spietate.  

Il declino inizia su Tik Tok

Ci sono i declinisti aggiornati. Quelli che si occupano di provocazioni scrivendo libri contro la scuola pubblica di massa, colpevole a loro dire di diseducare e non essere “meritocratica”. Dicono che il declino è iniziato con l’avvento di Internet e poi dei social network. Oggi i ragazzi non sanno scrivere, né parlare. Hanno la soglia di attenzione di un video su TikTok. È una catastrofe, signora mia. È la fine dell’età dell’oro, quando tutto sembrava più grande, gli alberi del paradiso terrestre erano gravidi di frutti promettenti. Tutto allora sembrava possibile. Oggi, quando abbiamo in effetti un problema con le mezze stagioni, ci troviamo sul piano inclinato verso il nulla. Se non reagiamo, il declino ci sommergerà.

C’era una volta: i “trent’anni gloriosi”

Il tempo delle mele è quello della giovinezza perduta. Se il declinista è di sinistra, la giovinezza coincide con i “trent’anni gloriosi” (1945-1973), cioè con il periodo del boom del neocapitalismo e di una narrazione mitologica di un Welfare idealizzato, una classe operaia eroica, un partito comunista frizzante, l’altra Chiesa che accoglieva e dava identità. Non occorre avere vissuto quegli anni. Si tramanda la loro idea. Oggi il declinista rimpiange quella idea di comunità, più che di classe. E in subordine il maggio ’68. I conflitti allora c’erano. Erano più vivi, tondi, sensati. Si capiva chi era il nemico. Bisogna salvare quella memoria ora che è finito tutto.

Io li capisco questi declinisti. Mi sento vicino a loro. Come dargli torto. Allora c’era la musica tra le più belle, un rito liberatorio, un’immaginazione politica. A un concerto dei Pink Floyd psichedelici ci sarei andato. Li ascolto oggi e sono favoleggianti. La scena finale di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni è una bomba, letteralmente. E avrei fatto un viaggio avventuroso. Non so se in India però.

Scrivo per un giornale che si chiama Il Manifesto. Una delle creature del Sessantotto. Spesso vado in archivio a leggere il quotidiano che facevano le madri e i padri fondatori e gli altri che li hanno seguiti. I primi furono espulsi dal PCI perché, tra l’altro, scrissero: “Praga è sola”. Denunciavano lo stalinismo che invase la Cecoslovacchia nel ‘68. Altro che riconciliazione. Altro che passato ideale. Violenza, repressione, negazione. La critica al Partito Comunista italiano era ruvida. La ricerca di un’altra rivoluzione era difficile. C’era allora però un’intuizione di fondo che dura ancora oggi. Gli studenti, gli operai, le donne, i movimenti di liberazione dal colonialismo e dall’imperialismo a cui si rivolgeva quel giornale formavano allora la parte emersa di un altro tipo di rivoluzione. Questa è la politica che resta da pensare, e da fare, ancora oggi. È il futuro. Si direbbe che il “declino” sia stato inventato per cancellare la sua intuizione. E per annegarla nella nostalgia del presente. Il genealogista vede invece la realtà in prospettiva. Le rivoluzioni, quando ci sono, lasciano il segno. 

All’origine dei guai

Tra i declinisti di “destra”, ma le parti si confondono perché sono in molti a pensare lo stesso a sinistra, si pensa che il “Sessantotto” sia stato l’inizio della decadenza e della perdita di autorità. A pensarlo c’è sia chi ha partecipato a qualche collettivo in quegli anni e poi si è messo a scrivere libri, trovando una popolarità tra i “nuovi filosofi”, sia i qualunquisti, populisti o fascisti veri e propri. In cinquant’anni di odio per il Sessantotto hanno trovato un’idea comune: chi allora si è opposto – i movimenti della contestazione studentesca e della protesta operaia, il femminismo – sarebbe stato un agente del capitalismo. Gli anti-autoritari avrebbero desiderato in realtà più autorità sostituendo i loro padri al potere e gli anti-capitalisti avrebbero desiderato più capitale auspicando una società liberata. 

L’esempio di questa posizione è la credenza basata su una considerazione ingenua della critica: se Karl Marx si è occupato di capitalismo, questo significa che è un sociologo capitalista; se Michel Foucault ha parlato di neoliberalismo, allora è un neoliberale. E Herbert Marcuse? Era l’ideologo di un movimento neo-capitalista composto da anarchici pulsionali che volevano godere dei privilegi della società dei consumi. La criticavano? Erano schiavi del capitale. Gilles Deleuze e Félix Guattari? Figuriamoci: teorici dei fondatori di Google e Facebook. Al di là delle stupidaggini che si scrivono alla base di questa idea del declino della critica c’è l’immaginazione di un soggetto pieno, bello e fatto, che si trova in natura. Uno nasce e, se è fortunato, lo trova nella culla. Dipende però dove e quando. Se nasce nel paese e nel movimento sbagliato non godrà della stessa fortuna. 

“Riarmamento demografico della popolazione”

Ci sono i declinisti natalisti. Un agghiacciante capolavoro di retorica declinista è stato realizzato dal presidente francese Emmanuel Macron quando ha detto che «bisogna riarmare demograficamente la nazione». Non lo ha detto Giorgia Meloni, o Viktor Orbán, di solito considerati tra i campioni dell’estrema destra europea al potere. Lo ha detto il liberal-qualcosa Macron che, quanto ad autoritarismo, non scherza nella civilissima Francia. Basta parlare con chi ha perso un occhio a causa dei flash ball sparati dalla sua polizia in piazza. Discorso patriarcale, guerriero, machista, teso a militarizzare il corpo delle donne, considerandolo una risorsa della nazione nella guerra, pardon nella competizione. 

L’ossessione contemporanea per la demografia implica l’idea inconfessabile che le donne producono forza lavoro. La Nazione ha bisogno dei loro grembi per riarmarsi. Se le donne non fanno figli, la colpa è loro. Non delle condizioni materiali che impediscono anche di amare un figlio. È la popolazione che non reagisce al proprio declino, non i suoi leader che invitano a riprodursi. Se le donne non fanno figli disertano dall’esercito della Nazione. Le metafore hanno una logica atroce. Macron, nella sua stupida brutalità, ha esplicitato ciò che è stato osservato a suo tempo da Michel Foucault: esiste un discorso che attraversa le teorie del capitale umano, l’economia della famiglia, la storia sociale, la geografia e altre discipline. Oggi il posto di questo discorso è occupato dal declinismo. E serve a disciplinare e controllare la popolazione.

Dietro la natalità, l’ossessione xenofoba

Ci sono i declinisti razzisti. Il demografo Hervé Le Bras lo aveva osservato nel 1998 nel libro  Le Démon des origines. Démographie et extrême droite: «La demografia sta diventando un mezzo per esprimere il razzismo». “Grande sostituzione” o “sostituzione etnica” sono i concetti in cui tale processo si è condensato. Questa espressione è stata importata anche in Italia. Ce ne siamo accorti quando il Ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, cognato della Presidente del Consiglio Meloni, ha parlato di “sostituzione etnica” e della necessità di “incentivare le nascite”. 

Idea-guida dellestrema destra, la grande sostituzione” è un pilastro anche del discorso declinista. Uno dei suoi ispiratori è il francese Renaud Camus. In un libro omonimo ha parlato della Francia, e per estensione l’Occidente, che stanno subendo un “cambiamento di popolo” a causa dell’immigrazione. Gli “autoctoni” saranno “sostituiti” da persone provenienti dall’Africa, in particolare dal Maghreb. Lo stesso dice oggi Trump a proposito dell’immigrazione dal centro e dal Sud America. Questo processo di “sostituzione” è paragonato da Camus a una “occupazione del territorio”, persino a una “colonizzazione”. Chi vive nelle periferie delle città, e del mondo, è un “soldato” del campo nemico che punta sulla “demografia” che è “uno degli strumenti di questa conquista”, “il suo braccio armato”. L’obiettivo è la “conquista attraverso l’utero”. Deriverebbe da un aumento del tasso di fertilità delle donne che non sono “autoctone”, ma cittadine acquisite di fede musulmana. 

Questo discorso permette di comprendere l’orizzonte coloniale in cui si muovono in discorsi che parlano di “reagire” a un “declino” calcolato in base all’uso natalista delle statistiche. In questa prospettiva un problema ricorrente in tutti i paesi del capitalismo in crisi è vincolato all’evocazione di un aumento della produttività dei corpi delle donne, alla divisione razzista tra le donne autoctone e quelle immigrate, alla gerarchia tra donne “cristiane” e donne “musulmane”, alla divisione tra donne “bianche” contro “donne nere”, e così via. “Reagire al declino” implica il potenziamento di queste tecniche di governo, e di oppressione, in un discorso trasversale.

L’apocalisse

Il declinismo è un racconto fondato sull’apocalisse. Quello delle nascite, rappresentato per Renaud Camus dalla “grande sostituzione”, sarebbe «il fenomeno più cataclismatico nella storia della Francia da 15 secoli». 

C’è poi l’apocalisse ambientale. Se oggi nei paesi capitalisti ci si concentra sul calo delle nascite “bianche”, fuori da essi si parla della sovrappopolazione del pianeta. E si evoca la necessità di una “denatalità”. I due discorsi non sono estranei. Stanno in un rapporto stabilito dal neomalthusianesimo in cui si sviluppa il declinismo. L’ecologista Jason W. Moore ha ricostruito questo nesso nella sua critica radicale al concetto di Antropocene e ha evidenziato come la riduzione dell’ecopolitica al problema del governo della popolazione sia stato un modo per rendere l’ambientalismo compatibile con il capitalismo. Se un problema esiste, allora è quello del modo in cui si produce e della distribuzione più equa della ricchezza. Visto che vivremo in dieci miliardi sulla Terra, allora come minimo bisognerebbe evitare che 2.400 miliardari e 100.000 milionari possiedano la stragrande maggioranza della ricchezza impedendo che le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche siano messe al servizio di tutti, compreso il mondo animale, vegetale e minerale. Il declinismo invece serve a giustificare l’estrattivismo (non c’è tempo, arriva la fine, troviamo i rimedi!). E poi ad accelerare la “crescita”, a rafforzare il fascismo fossile, radicando le divisioni e l’ostilità. In questa prospettiva dire che stiamo vivendo l’apocalisse, o dire che l’apocalisse c’è già stata, significa rafforzare lo schema prevalente, non profetizzare una rivoluzione che non c’è.

C’è l’apocalisse dell’identità nazionale. L’Italia, per esempio. Un caso di scuola. Si potrebbe dire che lo Stato unitario non era ancora nato e già si parlava del suo declino. Non sono riusciti a fare gli italiani. In compenso hanno creato e rinvigorito un paese disfunzionale, depredato, i servizi a pezzi, con i salari al palo da trent’anni e una totale sfiducia in tutti e in tutto. Il declinismo è il lato oscuro della Nazione. Un concetto, quest’ultimo, caro agli eredi del Movimento Sociale Italiano al governo. La Nazione la mettono dappertutto. È come il tofu. Sta bene con tutto. Insapore, prende quello del piatto che condisce. La usano come il crocefisso contro i vampiri. E tuttavia ciò non basta ad allentare il declino. Quest’ultimo è uno spettro. Insegue la Nazione. E smentisce i suoi protettori.

Lo strano caso del debito pubblico

Il declinismo è una costante nel racconto del debito pubblico in Italia. Ne Lo strano caso del debito pubblico italiano, Danilo Corradi e Marco Bertorello hanno spiegato un mito diffuso nella storiografia post-risorgimentale: l’Italia anello debole dello sviluppo capitalistico, eccezione incorreggibile, cicala e spendacciona, ostaggio di imprenditori levantini, di uno Stato inefficiente in un paese dove la «modernizzazione» è stata mancata. Il debito pubblico, e l’incapacità di governarlo, sarebbero la prova di una storia arcaica che non passa. Al contrario l’Italia è un paese moderno, e non solo perché altri paesi europei come la Francia oggi sono avviati a produrre un debito paragonabile. 

Il record italiano non è stato tanto generato da apprendisti stregoni senza cultura economica, ma da un progetto politico che ha usato il debito pubblico per garantire un modello di sviluppo profondamente ingiusto e radicato sulla bassa pressione fiscale sui capitali che ha favorito, già dagli anni Ottanta del XX secolo, il blocco sociale dell’individualismo proprietario composto da professionisti, commercianti, piccole e grandi aziende che non investono, risparmiano sui salari, non fanno innovazione, evadono o eludono il fisco. 

Certo, errori enormi ne sono stati fatti. Certo, c’è la corruzione e il clientelismo. Ma il grosso dell’aumento è stato una risposta pragmatica all’esaurimento del modello keynesiano-fordista, quello dei rimpianti “Trenta gloriosi” che ha associato l’aumento della produttività con quello dei salari, ma non ha garantito una crescita sociale coerente con le sue premesse moderatamente riformistiche. L’uso compensativo del debito pubblico ha posticipato le contraddizioni che si ritrovano immutate nel nuovo modello, il “keynesismo finanziario”. Il declino è una giustificazione a posteriori di un modello economico ingiusto che continua ad essere applicato in condizioni diverse. 

Di cosa, allora, il declino è il nome? Dell’estenuazione di un paradigma economico fondato sulla centralità della finanza: bassa crescita e aumento delle diseguaglianze pagate da lavoratori precari e cittadini senza tutele.

Il rinvio a un futuro negato

I declinisti sono una famiglia. Ci sono i progressisti, i reazionari e i conservatori. I primi pensano di tornare indietro per fare due passi in avanti. I secondi voltano le spalle al presente e in sostanza rimpiangono il tempo quando le donne erano disuguali rispetto agli uomini, quando il mondo era diviso tra colonie e imperialismo, o l’omosessualità era criminalizzata. Gli ultimi, i conservatori, vogliono conservare il meglio che la storia per loro ha tramandato. Tutti hanno una memoria selettiva. Per loro la storia è la discesa in un pozzo.

Il declinismo è una delle formule che sono riemerse in un nuovo campo di battaglia. Quello dell’egemonia neoliberale il cui scopo è assorbire e canalizzare le richieste di una profonda discontinuità politica in una progressiva, continua e flessibile restaurazione di un ordine senza giustizia. Da quasi mezzo secolo le controriforme che hanno costellato la storia di questa egemonia non hanno riformato nulla se non le condizioni che rendono praticabile la vita dei dominanti e spingono gli oppressi ad adattarsi a una vita parossistica e servile in una crisi senza sbocchi né alternative. Nella rivoluzione al contrario in cui viviamo, la vita è un rinvio a un futuro negato, a una pratica separata dalle sue potenze e dalla concreta possibilità di esercitarle in maniera democratica e generativa, al ricordo di un’epoca dell’età dell’oro che non è mai stata tale.

ARTICOLO n. 31 / 2024

MI DIMETTO DALLA MIA CLASSE. MA SEI IMPAZZITƏ?

Confini sociali, sessuali, istituzionali e del lavoro

Non si cambia classe sociale come una camicia. Oggi quella camicia è una camicia di forza. Immobilismo, conservazione o declassamento. In questo scenario solo qualcuno si conquista il diritto alla “mobilità sociale”. Cantanti, sportivi o imprenditori, talvolta incarnati nella stessa persona, per esempio. Gli altri sono alle prese con un dilemma: difendere o perdere quel poco, o molto, che i genitori hanno conquistato nell’epoca d’oro degli anni ’60-’70-’80, definiti “gli anni gloriosi”. Il Novecento è una questione di eredità. Patrimoniale. Per i migranti, tranne qualcuno compreso nelle categorie sopra menzionate, nemmeno quella.

Se c’è un discorso sulla questione sociale oggi è quello della promessa tradita dell’“ascensore sociale”, e in particolare delle classi medie “basse” o povere. Al tempo della pretesa “fine delle classi sociali”, quella “media” è ancora legittimata a parlare, anche perché sui suoi valori è costruita buona parte della comunicazione massmediale. Il terrore di tornare indietro, verso mondi arcaici senza nome – da cui i nonni e i padri di quelle classi provenivano – toglie il fiato e aumenta la paura. Anche perché una società come questa non ha pietà per i “falliti”. Chi invece non ha nulla, tranne le catene, è contemplato solo come minaccia, oppure è compatito come “escluso” o “povero”.

L’ascensorista

C’è stata un’epoca che ha atteso un Messia. Quella attuale attende inutilmente il tecnico degli ascensori. L’ascensorista è una metafora che ha trasformato la società in un condominio dove un ascensore sale e scende. Lui è il protagonista del racconto della mobilità sociale. Occupa il ruolo della mano invisibile del mercato, è la forma secolarizzata della provvidenza, è la metafora dell’assunzione in cielo, dell’investitura carismatica, o della predestinazione.

L’ascensore sociale è sempre stato guasto. E, quando ha funzionato, lo ha fatto grazie alla lotta di classe. La “mobilità sociale” non è una metafora del mercato, ma è l’effetto di un attrito con esso, oltre che della manifestazione di una soggettività irriducibile alla logica dello scambio tra una domanda e un’offerta. Eppure a questo è ridotta, a una lotta di classe malintesa e mascherata. Ci si concentra sull’immagine di una società-piramide, non sul problema di chi ha creato la scala, su chi manda il tecnico quando l’ascensore si blocca o sul potere di chi decide che la ricchezza va in un senso e la povertà nell’altro. 

Nella metafora dell’ascensore sociale è sempre entrata solo un’élite che accede alle posizioni superiori. Può essere ampia quanto si vuole, ma non può evidentemente raccogliere tutta la popolazione. Tutti non entrano nella stessa cabina. A turno potrebbero farlo? Forse anche sì, ma se tutti andassero all’ultimo piano l’intero palazzo crollerebbe. La metafora, pur assurda, ha una logica stringente. 

Sebbene le frontiere si siano allargate, al tempo rimpianto dai più dei “trenta gloriosi”, il sociologo Paul Pasquali ha ipotizzato che l’ascesa sociale abbia escluso almeno un terzo della popolazione con un basso livello di istruzione. Questo è accaduto in Francia. è ragionevole pensare che in un paese come l’Italia che ha conosciuto un notevole cambiamento anche grazie alla scuola e all’università “di massa”, gli esclusi siano stati molti di più. Nonostante una relativa redistribuzione della ricchezza, causata dai tentativi spesso drammatici di allargare la base sociale della democrazia, il potere è rimasto lo stesso, indipendentemente dagli esiti che i singoli vissuti, pur valorosi, hanno avuto.

Il cortocircuito è iniziato con l’inarrestabile riduzione delle possibilità (sociali, professionali, relazionali) della classe media. Non è stato dunque l’accesso mancato ai piani alti dei lavoratori con una scarsa istruzione, ma quello di chi ha lottato ed è stato selezionato per ottenere meriti, capacità e riconoscimenti che non si sono tradotti né in posti di lavoro adeguati, né soprattutto con una sicurezza economica che in passato è stata barattata con la rinuncia a cambiare la gerarchia che stabilisce i poteri.

Annie Ernaux 

Annie Ernaux sarebbe stata un caso esemplare di “ascensione sociale”. Lei, figlia di piccoli commercianti provinciali, è diventata scrittrice di successo in Francia e premio Nobel per la letteratura. I suoi romanzi hanno descritto cosa significa emanciparsi in una società dove i ruoli sono fissati e solo agli individui “meritevoli” è permessa la scalata.

Annie Ernaux, protagonista dei suoi romanzi, ha una storia tutt’altro che individuale. Nel suo racconto che ibrida l’autobiografia, il saggio storico e sociologico, la filosofia e il romanzo emerge un’epopea collettiva. Quella di una lotta di classe in cui una società ha sfidato il razzismo “interno” contro il proletariato e la classe media inferiore, mettendo in crisi la divisione sociale dei ruoli.

Dell’Io, protagonista di molta “autofiction” di oggi, Ernaux fa un uso strategico. Per lei l’Io – forma al tempo stesso maschile e femminile – è uno strumento esplorativo per catturare le sensazioni, guida all’autenticità della ricerca e impegno a rompere la solitudine «delle cose sofferte e sepolte», a «pensare in modo diverso a noi stessi». «Quando l’indicibile viene alla luce, è politico». 

«Per quanto mi riguarda, è vero che non riesco a pensare ad altro che alla scrittura. Ho sempre pensato che la scrittura fosse un modo di intervenire nel mondo… Non ho mai voluto che i libri fossero qualcosa di personale per me. Non è perché mi sono successe delle cose che le scrivo, ma perché sono successe, quindi non sono uniche… Quando l’indicibile diventa scrittura, è politica. Certo, le cose le vivi personalmente… Ma non devi scriverle in modo che siano solo per te. Devono essere transpersonali, ecco cosa devono essere» (A. Ernaux, Le Vrai Lieu. Entretiens avec Michelle Porte, 2014).

La scrittura come confessione di classe originaria o elettiva è “transpersonale”, nel senso che si connette con coloro che sono invisibili, non sono in grado di scrivere, ma hanno altri codici con i quali hanno tradotto il loro desiderio di emancipazione. La scrittura parla sia con i laureati all’Ecole Normale Supérieure consacrati professori universitari che con gli operai, i borghesi, gli inquieti e i non classificabili che hanno rifiutato di aderire alle aspettative borghesi o aristocratiche dei loro genitori.

Ernaux ha inoltre insistito sulla duplice espressione: “ho tradito la mia razza”, “ho tradito la mia classe”. L’ambivalenza è dovuta sia a un equivoco epistemico e politico diffuso nel movimento operaio alle cui origini, come ha spiegato anche Michel Foucault in Bisogna difendere la società, la “razza” e la “classe” si sovrapponevano e confliggevano.

Ernaux ha scritto che sessant’anni fa l’espressione “Scriverò per vendicare la mia razza” riecheggiava il grido di Rimbaud: “Sono di una razza inferiore da tutta l’eternità“. Aveva 22 anni. Studiava letteratura in un’università di provincia, tra ragazze e ragazzi, molti dei quali appartenenti alla borghesia locale. 

La “razza” è quella comune degli oppressi al di là del colore della pelle e delle appartenenze sociali e nazionali. La classe “tradita” è quella di nascita. Il suo tradimento è l’effetto di una rivolta diffusa contro i meccanismi che riproducono la società oppressiva così com’è. 

In un libro come L’evento, storia di un’interruzione di gravidanza, è apparso chiaro che la rivolta contro l’oppressione di classe camminava insieme a quella contro lo Stato che condannava le donne ad abortire illegalmente. La scrittura è uno strumento di liberazione sociale e femminista. Vendicare la “razza” significa vendicare sia la “classe” che “il mio sesso”. Sono “la stessa cosa”.

Didier Eribon

La lotta contro la metaforologia neoliberale basata sull’ascensore sociale è stata alimentata anche dal libro di Didier Eribon Ritorno a Reims. Un libro che ha recepito le istanze maturate da Ernaux e ha contribuito a un ricco dibattito letterario e politico al quale ha partecipato un altro scrittore, Edouard Louis con un romanzo come Il caso Eddy Bellegueule.

All’intersezione tra donna, razza e classe sulla quale ha riflettuto Ernaux, Eribon ha aggiunto un altro aspetto: il rapporto tra l’appartenenza di classe e l’omosessualità. Figlio di una famiglia operaia, dunque di una classe più chiaramente schierata nel conflitto di classe, Eribon ha dovuto difendersi dallo stigma omofobo nel suo ambiente di provenienza.

«Per me – ha scritto – fu capitale la frase di Sartre nel suo libro su Genet: “L’importante non è quel che si fa di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi”» (D. Eribon, Ritorno a Reims, p.91).

Lo studio fu un modo per liberarsi dallo stigma sessuale. Eribon andò a Parigi dove trovò più semplice vivere la sua sessualità. 

«Ero segnato nel profondo da due verdetti sociali: un verdetto di classe e un verdetto sessuale. Non si sfugge mai alle sentenze di questo tipo. E porto in me il segno dell’una e dell’altra.  Poiché in un momento della mia vita entrarono in conflitto l’una con l’altra, dovetti forgiare me stesso facendo giocare l’una contro l’altra» (D. Eribon, Ritorno a Reims, pp.196-197).

Per l’emancipazione individuale per realizzare una transizione sociale di successo serve un’“ascesi: un lavoro di sé su di sé. In un doppio senso: nel riappropriarmi e nel rivendicare il mio essere sessuale ingiuriato nel primo caso; nello strapparmi dalla mia condizione sociale di origine nel secondo”.

Ma ciò ancora non bastava. Serviva la sua connessione con la liberazione politica, sociale e sessuale collettiva. Dunque, la coniugazione tra la singolarità e l’universalità nella concretezza dei vissuti collettivi. Nel frattempo qualcosa si era rotto nella politica delle “sinistre”. Quella socialista, dopo il 1983, era diventata sia neoliberale che conservatrice, aveva cioè rinunciato a trasformare il sistema capitalista ed era diventata “neoconservatrice”:

«Voleva rimpiazzare gli oppressi e i dominati di ieri – e le loro lotte – con gli “esclusi” di oggi – e la loro presunta passività –, e di piegarsi verso di loro come destinatari potenziali (ma silenziosi) di misure tecnocratiche destinate ad aiutare i “poveri” e le “vittime” della “precarizzazione” e della “disaffiliazione» (D. Eribon, Ritorno a Reims, p. 115). 

Eribon ipotizza che la lotta di classe non sia stata perduta solo dalle trasformazioni produttive del capitale e dall’effettiva tenuta del “blocco conservatore” dopo il maggio ‘68. Fu sabotata dall’interno dai “partiti di sinistra e dai loro intellettuali di partito e di stato che pensavano e parlavano con un linguaggio da governanti e non più da governati”.

«Non si parlò più di sfruttamento o di resistenza, ma di “modernizzazione necessaria” e di “rifondazione sociale”; non si parlò più di rapporti di classe, ma di “vivere insieme”; non si parlò più di destini sociali, ma di “responsabilità individuale”. Fu giustificata la demolizione del welfare state e della protezione sociale, in nome di una necessaria individualizzazione (o decollettivizzazione, desocializzazione) del diritto del lavoro e dei sistemi di solidarietà e di ridistribuzione». 

Il problema di Eribon è comprendere la ragione per cui la classe operaia, a cominciare dalla sua famiglia, ha iniziato a votare l’estrema destra della famiglia Le Pen a cominciare dagli anni Ottanta, proprio in coincidenza della svolta neoliberale della “sinistra”. La diga del partito comunista francese non è servita, è avvenuto uno spostamento. Ad avere contribuito a questo esito sarà stato il razzismo anti-immigrati in quel partito denunciato già all’inizio degli anni Ottanta. Ma, questa è la tesi di Eribon, la trasformazione è stata sia la causa che l’effetto di un cambiamento del “blocco sociale” che ha unito 

«Ampi settori delle classi popolari fragilizzate e precarizzate a commercianti, a pensionati benestanti del Sud della Francia, se non addirittura a militari fascisti o a vecchie famiglie cattoliche tradizionaliste e dunque fortemente radicate nella destra, perfino nell’estrema destra. Entrando in nuove alleanze politiche, in nuove configurazioni politiche, questo gruppo – composto solo da una parte del vecchio gruppo mobilitato nel voto comunista – è diventato altro da quello che era un tempo. Le persone che lo costituivano pensarono se stesse, i loro interessi e i loro rapporti con la vita sociale e politica in modo totalmente differente» (pp. 47 e 117).

L’impotenza creata dalla crisi, e dall’incapacità delle sinistre di assemblare un nuovo blocco sociale che unisse la strategia della liberazione che Ernaux ha preso dai soggetti della rivoluzione del ‘68 a quella della classe operaia, è diventata rabbia. La classe sociale decostruita dai discorsi neoconservatori della sinistra, «ha trovato un nuovo modo di organizzarsi e di far conoscere il suo punto di vista». 

Un punto di vista che contrappone il “noi” (francesi) a “loro” (immigrati) e sovrappone la lotta di classe a quella razzista. Ciò non basta a riavviare l’ascensore sociale, ma aggrava la separazione tra i subalterni e gli oppressi. In compenso la lotta per salire in una cabina bloccata è feroce. A quarant’anni dall’inizio del processo è ancora difficile uscire da questa trappola:

«Non ci si dissocia facilmente da un’appartenenza politica in cui si è mentalmente situati da molto tempo – fosse anche in modo instabile e incerto – per crearsi di punto in bianco un’altra appartenenza, vale a dire un altro rapporto con sé e con gli altri, un altro sguardo sul mondo, un altro discorso sulle cose e sulla vita».

Transfugadisertore, di classe

Un disertore di classe è una persona che ha superato le barriere sociali. Questo passaggio può avvenire in direzione dell’ascesa sociale (Ernaux), ma anche in direzione opposta (Eribon). Il disertore è un individuo che partecipa a un processo di massa, oppure un individuo che perde i contatti con tale processo. Quando accade può trovare una comunità globale di appartenenza – è il caso sia di Eribon che di Ernaux, il primo nell’accademia, la seconda nelle lettere. Ciò non toglie che entrambi continuano ancora oggi a voler uscire dalla loro terra di nessuno. 

L’esito della loro lotta non dipende dalla volontà, dal talento, dal merito di un individuo, né dalla forza impersonale di un sistema, ma da un conflitto che si svolge anche dentro chi vuole uscire dai confini sociali, sessuali, istituzionali, capitalistici e del lavoro. Questo conflitto è generato dall’attraversamento dei confini – tanto sociali quanto spaziali – oppure dalla sua “riterritoralizzazione” all’interno di perimetri già dati che formano nuovi territori, anche immaginari. 

Per spiegare il senso di questa lotta la filosofa spinozista Chantal Jaquet ha coniato il fruttuoso neologismo “transclasse” sul modello della parola “transgender” o “transessuale”. A suo avviso, sia Ernaux che Eribon sono un esempio di questa transizione trasformativa. 

La parola transclasse, adattata dal concetto anglosassone di passaggio di classe [class-passing]Passing è il titolo di un romanzo di Nella Larsen del 1929, indica l’azione di fuggire alla segregazione razziale e sessuale di una donna nera nell’America segregazionista. Tale “transizione” può avvenire in entrambi in sensi della linea del colore: il “nero” può fingere di essere bianco, ma anche il bianco può dire di essere “nero” (è raccontato nel 1961 in Black like me dal giornalista John Howard Griffin). Lo stesso può fare una donna che passa per un uomo, e viceversa.  E ancora un gay che “passa” per un “uomo eterosessuale”. 

La “finzione” si rende necessaria perché i transclasse devono affrontare un’ostilità tale che preferiscono mimare le convenzioni vivendo però quello che sono, cercando di sfuggire alla repressione. Il problema è sentito tra le donne che hanno dovuto affrontare la dominazione maschile nella classe operaia che cercava di emanciparsi, ma anche dagli omosessuali e dalle lesbiche, per non parlare dei trans oggi.

Un’interpretazione riduttiva ritiene che lo scontro sia confinato alle singole identità sessuali che legittimamente lo producono oggi. In realtà, proprio in ragione dell’estensione del concetto di “transclasse”, questi soggetti richiamano una potenzialità che risuona a partire dalla propria condizione individuale. Il processo è irriducibile a quello economicistico indicato dall’“ascensore sociale”. È tortuoso, inquietante e irriducibile a una misura unica. Il “passaggio di classe” non avviene solo rispetto alla gerarchia sociale e produttiva, ma anche rispetto alla posizione rispetto all’identità e alla differenza, la memoria e gli affetti, la sessualità e i poteri. 

A differenza della narrazione sulle “classi popolari” usate come mascotte dell’ordine sociale dominante per alimentare l’ideologia del “capitalista umano”, il “passaggio di classe” è un’attività complessa non limitabile a un’ascesa o a una caduta in una scalata. Parliamo di un duplice lavoro: quello su di sé connesso a uno con gli altri. Tale nesso è considerato marginale o vincolato alla trasformazione dell’ordine economico e politico. Oppure è ostacolato, deriso e considerato “pericoloso”. L’idea di fuga, diserzione o tradimento, per di più talvolta legata a una trasformazione sessuale, aggrava le inquietudini in un tempo in cui si cerca di vincolare l’esistenza a un’idea di un ordine “naturale”. Non esiste nulla di peggio che essere considerati rinnegati in un momento in cui bisogna serrare le fila nella guerra guerreggiata, delle identità e dei commerci.

Jacquet è stata criticata perché l’ha limitata alla sfera individuale, mentre si tratterebbe di pensarla in termini collettivi: una soggettività si trasforma quando è connessa alla società, alle tecnologie, all’ambiente e all’economia. A tale proposito, ne Le tre ecologie lo psicoanalista e filosofo Fèlix Guattari parlava della connessione tra l’ecologia mentale, sociale e ambientale. Più che auspicare il passaggio di un individuo da una classe all’altra già formate, si tratterebbe dunque di realizzare una trasformazione di un mondo diviso in classi. Ma è evidente che un movimento non è separabile dall’altro. È la connessione dell’uno con l’altro che ieri, come oggi, è considerata insidiosa e, per questo, va bloccata. Una simile ipotesi manda in tilt le destre al potere, e sorprende sempre più spesso le “sinistre”. In questa impasse il desiderio di dimettersi dalla propria classe, e dal suo mondo, sembra una supposizione priva di fondamento.

ARTICOLO n. 21 / 2024

PANICO WOKE

Anatomia di un'offensiva reazionaria

C’è un’ondata di panico nel dibattito pubblico globale sul termine wokismo. È nato con l’omicidio, nel febbraio 2012, di Trayvon Martin, un adolescente afroamericano uscito dalla sua casa in una città della Florida per comprare caramelle in un negozio di alimentari. Fu ucciso da George Zimmerman, un uomo di razza mista bianca e latina che faceva parte di un’organizzazione di “vicini vigilanti”. Il governo federale non ha immediatamente perseguito l’aggressore. In Florida, la legge “Stand Your Ground” consente a chiunque ritenga ragionevolmente che la propria sicurezza, o quella della propria proprietà, sia minacciata di sparare alla persona che la sta minacciando.

L’omicidio di Trayvon Martin è avvenuto nel 2012, in un’epoca in cui le reti sociali erano sviluppate: Twitter, Facebook, Instagram, Tumblr, e altri. Furono organizzate mobilitazioni digitali per chiedere giustizia, spingere lo Stato della Florida a perseguire l’assassino e reclamare lo spazio pubblico per le persone di colore. I genitori di Trayvon Martin, Tracy Martin e Sybrina Fulton, lanciarono una petizione, sostenuta da celebrità come Janelle Monae e LeBron James. Il processo si è tenuto durante l’ondata di emozione per l’omicidio. L’assassino si difese sostenendo di essersi difeso contro un diciassettenne disarmato. Una giuria composta da sei donne, cinque bianche e una latina, assolse Zimmerman nel 2013. Le conversazioni trapelate sulla stampa indicano che, secondo la giuria, Zimmerman “temeva per la sua vita”. Tuttavia, si scoprì che il vigile volontario aveva preso l’iniziativa di seguirlo con la sua auto, sebbene il 911 [il numero per le emergenze negli Usa, ndr.] gli avesse proibito di farlo.

Stay woke

È stato a questo punto che è dilagato lo slogan “stay woke” sui social network. Era un’indicazione alle persone mobilitate di restare vigili di fronte alla violenza della polizia. Stay woke esprimeva anche la sfiducia nei confronti della copertura mediatica tradizionale degli eventi, riecheggiando la famosa frase di Malcolm X: «Se non sei vigile, i media ti faranno odiare gli oppressi e amare coloro che li opprimono». 

L’espressione deriva dall’African-American Vernacular English, l’inglese sviluppato dai neri americani. È stata diffusa sui social network e irritò gli utenti conservatori che l’hanno subito ridicolizzata. Allora venne realizzata un’operazione di rovesciamento semantico e di ricolonizzazione del senso di un’espressione concepita per liberare gli oppressi. Wokismo, oggi, si riferisce a chiunque sia coinvolto in lotte sociali progressiste: contro la “negrofobia”, la transfobia e così via. Ormai “wokeism” non è una parola che indica un contenuto, ma va considerata a partire da una funzione censoria e stigmatizzante che serve a contestare tutto ciò che gli oppressi hanno da dire quando sono uccisi, sfruttati o umiliati.  

A differenza di Stay wokewokismo non ha una definizione precisa. L’acquista quando si tratta di colpire, con il cinismo aggressivo dell’ironia social o il disprezzo di classe, qualcuno che osa dire di non volere essere malmenato. Stiamo parlando di una chimera come altre nate quando le guerre di religione sono state secolarizzate nei conflitti sulla proprietà dell’immaginario. La sua peculiarità è data dal fatto che il wokismo è azionato quando si tratta di bloccare un principio di organizzazione dei dannati della terra.

Per chi indaga le culture politiche contemporanee, questa strategia indica l’esistenza di uno scontro e permette di comprenderne la logica spesso oscura e quasi mai esposta in maniera razionale. Alla base delle discussioni che occupano la sfera pubblica digitale c’è un’intuizione della teoria critica della razza, quella di Angela Davis ispirata alla connessione tra classe-genere-razza, Questa prospettiva denuncia la criminalizzazione degli uomini e delle donne di colore e il loro alto tasso di incarcerazione negli Stati Uniti. Un’altra ricercatrice, Kimberlé Crenshaw, ha sviluppato questo lavoro e ha parlato di “intersezionalità della violenza”, soffermandosi in particolare sulle lotte femministe contro la misoginia, l’ipersessualizzazione e la criminalizzazione dei corpi neri.

Insieme queste teorie sono state usate dai movimenti statunitensi a partire da quel 2012 per creare uno spazio politico liberato e denunciare quello occupato dalla “supremazia bianca”. Questa opera di costruzione politica procedeva insieme allo sviluppo di un movimento a Miami, Oakland, New York e Detroit e in tantissime altre città. Un’attivista afrofemminista, Alicia Garza, scrisse un post su Facebook in risposta all’assoluzione dello sparatore Zimmermann: BLACK LIVES MATTER. Lo slogan è stato ripreso come hashtag ed è stato urlato da folle di manifestanti. Attivismo, teoria critica, creazione di uno spazio politico, anche attraverso i social network, dunque. Questo, a oggi, è lo schema seguito per costruire un movimento.

Cancel culture

Un’analoga strategia di contro-rovesciamento di una pratica militante è avvenuta nel caso della cosiddetta cancel culture. L’abbattimento delle statue raffiguranti personaggi razzisti, prove del colonialismo e l’imperialismo degli Stati Uniti, è stato interpretato come una volontà nichilista di cancellare il passato della “nazione” e imporre in maniera totalitaria una verità di minoranze pericolose e riottose. In realtà si è trattato di atti simbolici, profondamente conflittuali, realizzati sia per contestare la violenza del passato che l’oppressione del presente ai danni di una moltitudine di soggetti amplissima, non limitabile nemmeno ai discendenti degli schiavi. 

L’enorme differenza tra un atto politico è un altro banalmente distruttivo è stata strumentalizzata per fare dire a questi movimenti ciò che non pensano. Questa strategia ha unito, nel medesimo empito di legge e ordine, liberali reazionari e destre estreme oggi al potere, o che aspirano a vincere le prossime elezioni. Il senso comune è diventato un campo di battaglia attraversato dalle scorribande degli editorialisti negli spazi mediatici centralizzati come la televisione, la radio e la stampa scritta. La comunicazione tra il livello mediatico e quello politico-organizzativo ha bisogno di una continua manutenzione e di un costante rilancio, proseguendo la strategia di base: quella di occupare il terreno dell’avversario e cambiare radicalmente il senso delle sue azioni, e dei simboli, al fine di delegittimare e patologizzare la sua stessa esistenza. 

Contraccolpo, contrattacco

Alex Mahoudeau ha analizzato le caratteristiche della “offensiva reazionaria” nel libro La Panique woke. Per l’autrice la denuncia del wokismo è un esempio di “panico morale”, cioè “una serie di aneddoti più o meno esagerati o inventati [che] alimentano la sensazione di una grande minaccia”. Aneddoti decontestualizzati che caricaturano la realtà. Ecco perché le scienze sociali, o le filosofie, che descrivono una realtà diversa sono sempre il primo bersaglio di queste operazioni. Il loro scopo è creare un consenso su una presunta minaccia rappresentata da gruppi di subalterni accusati di essere responsabili di comportamenti “devianti”. 

La “devianza” è l’esito dell’affermazione di una norma, considerata naturale e accettata dalla maggioranza, mentre in realtà è l’espressione della volontà di un’élite che ha interesse a mantenere un “dominio” e a stigmatizzare chi lo insidia come responsabile di un’irrazionalità rispetto all’ordinato decorso del mondo.Strategie come il wokismo servono ad alimentare l’ostilità diffusa verso persone classificate come “nemiche” nel dibattito pubblico. L’operazione è astuta perché usa il linguaggio della democrazia liberale, quello ispirato alla libertà di opinione, per negare una visione diversa della società attribuendole una minaccia all’integrità sociale.

Il panico woke è dunque l’espressione di una reazione a difesa di uno dei rapporti di poteri sui quali è costruita una società maschilista e bianca. Il binomio è tornato con forza all’attenzione dello scontro. Un simile ritorno è stato spiegato da Susan Faludi nei termini di un backlash, cioè di un “contraccolpo” o di un “contrattacco” dopo le conquiste sociali delle lotte femministe degli anni Settanta e Ottanta. Faloudi ha descritto una proteiforme mobilitazione maschilista che ha portato nel dibattito pubblico l’idea che le donne controllino tutto, mettano la museruola anche a una sana opposizione e prosperino a spese degli uomini, della famiglia e del mondo del lavoro.

Una simile torsione, osservabile anche nella retorica acchiappatutto del “politicamente corretto”, non è nuova. Susan Faludi sostiene che si verifica dopo la manifestazione di una nuova soggettività rivoluzionaria che impone, anche in maniera contraddittoria e non lineare, un “progresso sociale” che incrina i rapporti di potere, a cominciare da quelli nelle relazioni. A quel punto scatta un’operazione che potremmo definire di “sussunzione”: gli avanzamenti vengono parassitati e modificati anche nel significato da teorie concorrenti, e apparentemente assonanti, che tendono a espropriare le soggettività associandole a teorie come quella dell’“empowerment” femminile, per esempio. Quest’ultima è una teoria che riduce le nuove libertà e le nuove uguaglianze al mercato. Contemporaneamente si diffonde una paura che contribuisce a destabilizzare le persone escluse dai cambiamenti e a colpevolizzare coloro che li hanno formulati, rimproverandole per la sconfitta o per la crisi dello status quo che è all’origine dell’ingiustizia.

Problematizzare l’universalismo

Il campo non è tuttavia occupato solo da due forze opposte. In mezzo si trova l’universalismo degli Stati costituzionali, che conosce diversi sviluppi nei singoli paesi. Per esempio in Francia, dove l’universalismo “repubblicano” e “laico” è fortissimo, le istituzioni restano in una posizione apparentemente neutrale. Una posizione usata sia per addomesticare lo scontro, sia per “regolarlo” in termini consensuali, di “patto sociale”, o di normalizzazione. 

Questo universalismo si basa sull’idea che il popolo sia “uno e indivisibile”, composto da individui indistinguibili e indistintamente rappresentati. Allo stesso tempo l’universalismo è un principio costituzionale della Repubblica, basato su un individualismo mediato socialmente. La contraddizione entra in fibrillazione quando emergono i conflitti scatenati dal genere, dalla razzializzazione o dalla religione. Da un lato, lo stato costituzionale cerca di garantire una differenza positiva di trattamento; dall’altro lato, conferma l’esistenza di differenze oggettive. 

Quando un governo, come quello francese guidato da Jean Castex nel 2021, ha iniziato a polemizzare contro un grottesco, e inesistente, “islamogauchismo”. Con questa formula arzigogolata si è cercato di attribuire alla sinistra, e al pensiero critico, posizioni simili al fondamentalismo islamico. Così facendo si è cercato di stigmatizzare ogni forma di opposizione, a cominciare da quelle espresse da una generazione fortunata del pensiero politico: per esempio Derrida o Foucault, le cui opere sono state oggetti di interpretazioni distorsive e parodistiche.

Il conflitto sull’universalismo, e nell’universalismo, ha investito anche il campo cosiddetto “decoloniale”. Con questa espressione si intende un ampio lavoro, sia teorico che politico, che in Francia (e non solo, evidentemente), lavora su più fronti al fine di estendere la critica del passato coloniale di questo paese nelle relazioni sociali e di potere in cui sono imbrigliati i soggetti “razzializzati”.

Ci sono state violentissime polemiche, seguite anche da minacce di violenza contro le attiviste impegnate in questa prassi. Hanno riguardato in particolare la tendenza al separatismo, definito anche “non-mescolanza” [non-mixité, ndr.]. Tale pratica conflittuale è uno strumento usato in maniera occasionale dallə attivistə oggettədelle discriminazioni. Offre un sostegno per rielaborare il senso della propria posizione in una società in cui la contraddizione non è ancora stata accettata dalle autorità pubbliche come problema politico. Spesso questo tipo di oppressione viene negata o minimizzata, a cominciare dalle sue vittime. In più, com’è accaduto più volte, l’organizzazione di tali momenti di “non mescolanza” è stata attaccata come una manifestazione di “razzismo anti-bianchi”. Invece, sostengono lə attivistə, è in realtà una tattica per contrastare il “razzismo strutturale”.

La critica dell’universalismo è un argomento molto delicato in un momento in cui l’universalismo è usato, in maniera del tutto destoricizzata, per sostenere le ragioni di una “democrazia occidentale” senza distinzioni contro quelle di tirannie e altri “illiberalismi” in un mondo multipolare e ostile. Su questo spartito si esercitano sia le fabbriche dell’opinione conservatrice e che quelle delle estreme destre che saccheggiano la storia del “liberalismo” in maniera capziosa e strumentale, espellendo da essa proprio gli aspetti legati al colonialismo e all’imperialismo. 

Il punto debole 

Una delle ragioni per cui l’offensiva reazionaria continua ad avere presa sembra essere dovuta al fatto che colpisce uno dei luoghi più problematici dei pensieri critici, a cominciare dal marxismo. L’obiettivo è fornire nuove ragioni per consolidare la separazione tra razza, genere, lavoro, mercato e Stato. Si intendono così dividere i diritti della libertà da quello dell’uguaglianza, la struttura dalla sovrastruttura, la verità dall’ideologia, le lotte sulla produzione da quelle sulla redistribuzione, la materialità dalla cultura, la sessualità dal simbolico, e così via. 

Contro questo dualismo molti pensieri materialistici, femministi o spinozisti si sono battuti. Ma, in tempi di debole connessione tra teoria e prassi, la loro lotta è indebolita. Rinascono invece identificazioni fantasmatiche, ispirate all’ontologia dell’autenticità e dell’identità. Si creano nuove gerarchie. Ad esempio, quella di una classe lavoratrice con bianchi maschi eterosessuali separati, e spesso ostili, a una forza lavoro migrante composta sia da uomini che da donne. Su un dualismo tra minoranza e maggioranza è costruita anche la parodia secondo la quale le richieste di giustizia avanzate dalle minoranze sono una difesa dei loro “privilegi”. 

Queste e altre pratiche fanno parte di una guerriglia ideologica, realizzata nei perimetri dei pensieri critici tra loro in conflitto. Il loro scopo è screditare ed eliminare la possibilità stessa che i subalterni si organizzino in maniera efficace e di massa. Si tratta di avvelenare i pozzi ai quali si abbeverano le soggettività che cercano di creare una nuova condizione politica in comune. Bisogna riuscire però a riconoscere le strategie di resistenza, e di contropotere, usare per interrompere questa aggressione sistematica. Tali strategie incontrano spesso un limite storico, intensamente combattuto, ma perdurante: il dualismo, appunto. Tra i diritti, le identità, le priorità politiche: viene prima l’anticapitalismo oppure la lotta per l’ecologia? Viene prima la libertà o l’uguaglianza? L’oppressione patriarcale o lo sfruttamento del lavoro? La centralità della dinamica razziale oppure quella sessuale?

Su queste opposizioni la controrivoluzione in atto va a nozze e si diverte a dividere i suoi avversari a seconda delle priorità del momento. Questa azione risponde a una priorità: bisogna impedire con ogni mezzo la ricomposizione dei soggetti e la riscoperta di una dialettica tra teoria e prassi che permetta di coniugare nuovamente, in contesti diversi, la critica dell’economia politica con i conflitti di classe, di razza, di sesso e ambientali. Sono numerosi i tentativi sia teorici che pratici di ricombinare questi elementi, individuando nuove forme politiche e organizzative.

Rispetto a questi obiettivi abbiamo riscontrato diversi passaggi a vuoto. Non ha giovato la diffusione del populismo, nelle sue diverse declinazioni. Si tratta di una politica che contrappone i “ricchi” e i “poveri”, ma non pensa la lotta di classe, e istituisce una nuova gerarchia tra diritti sociali e civili. Non ha giovato nemmeno la svolta neoliberale e autoritaria del sistema mediatico che è più pronto a rielaborare le parole d’ordine delle destre estreme (“prima gli italiani” ecc., o migranti = pericolo invasione) che le istanze femministe, anticapitaliste, anti-razziste. Un’evoluzione che è andata di pari passo con la chiusura all’elaborazione più avanzata e diffusa dei pensieri critici nell’accademia come nella scuola. 

Questi mutamenti strutturali e istituzionali sono gli effetti materiali, e sistemici, della controrivoluzione che si è rafforzata in coincidenza con il moltiplicarsi delle crisi dal 2008 a oggi. Gli spauracchi del wokismo, della cancel culture o del “politicamente corretto” non sono mere ideologie, ma effetti discorsivi prodotti da un potere reale.

Rivoluzione passiva

La tesi di una “guerra non dichiarata contro le donne” (Faludi) in nome di un “contrattacco” condotto per riaffermare il “dominio maschile” (Pierre Bourdieu) e la “bianchezza” (Paul Gilroy) è molto interessante nella prospettiva di una genealogia della politica contemporanea. Sono usati cioè i valori del liberalismo politico (la libertà, l’universalità, il diritto all’opinione, la tolleranza, e altri ancora) per affermare il contrario e ristabilire un’egemonia dei dominanti giudicata sotto attacco. Ciò avviene in un momento, per di più, in cui il presunto attacco è più debole rispetto ad altri, come quello degli anni Sessanta e Settanta, oltre che di natura difensiva. 

Ciononostante il conflitto si basa sull’uso delle parole dell’avversario (le donne, i neri, i subalterni, gli sfruttati e gli oppressi), e della loro storia “minoritaria”, per evidenziare come le “maggioranze” artificialmente costruite siano in pericolo. In nome di tale emergenza si evoca l’antica legge del “bisogna difendere la società” per colpire i soggetti e la loro presunta volontà di destabilizzare il sistema.

In Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista ho definito questa strategia nei termini di una “rivoluzione passiva”. Termine che ho rielaborato da Antonio Gramsci, con il quale il filosofo comunista italiano ha inteso descrivere un lungo periodo di “contro-rivoluzione” moderata e classista nel XIX secolo in Italia. Questa politica ha strumentalizzato i contenuti di una rivoluzione politica e sociale – di segno diverso: quella francese prima, quella sovietica poi – riconoscendo ai popoli solo i diritti decisi dalle classi dominanti e negando ogni forma di partecipazione e trasformazione ai movimenti di autodeterminazione. Dal punto di vista della logica politica, l’offensiva reazionaria in corso si esprime allo stesso modo. Prolunga cioè la reazione a un ciclo rivoluzionario che ha modificato i rapporti sociali, di genere o razziali nelle società capitalistiche, attacca i soggetti che si ispirano necessariamente a quella storia e usa contro di essi i principi che, in linea teorica, dovrebbero liberarli. 

Così funziona l’egemonia. Diversamente da come la intendeva Gramsci, una certa corrente della destra al governo l’ha intesa come una “guerra culturale” priva però di lotta di classe. Questa “guerra” intende consolidare un sistema basato su un triplice potere: economico (il potere di possedere la maggior parte della produzione di ricchezza e di stabilire una divisione razziale del lavoro); normativo (il potere di stabilire le regole della società su scala internazionale – in un mondo globalizzato); simbolico (il potere di attribuire un valore e di valutare unilateralmente i corpi e le pratiche dei “non bianchi” per definire la loro umanità). 

Un simile assetto dei poteri è rivoluzionato incessantemente, in maniera antitetica a chi si oppone, al fine di consolidare l’ordine della proprietà, dei confini e del capitale. La rivoluzione passiva oggi è un ribaltamento postmoderno dei principi classici della rivoluzione: la reazione è libertà, l’uguaglianza è sfruttamento, il capitale è natura. In questo regime paradossale, i soggetti restano subalterni. Di solito, questo processo è considerato un blocco unico insuperabile, un grande Leviatano indistruttibile. Quando accade, come oggi, è difficile trovare un’alternativa, mentre risorgono culture dell’apocalisse e della fine del mondo. In queste fasi si perde di vista il carattere reazionario dell’offensiva, cioè la sua mancanza di autonomia. Essa non può fare a meno del “nemico” che si è scelta per giustificare la propria esistenza. Quanto ai suoi avversari, continuano a dividersi, obnubilati da un’intelligente operazione politica che sembra avere saturato ogni spazio di libertà nel presente. Ma questo è l’effetto derivato della loro autonomia che persiste nel mondo rovesciato della rivoluzione passiva.