ARTICOLO n. 60 / 2025
MURAKAMI, LA CORSA, L’OSSESSIONE
Di cosa parliamo quando parliamo di sport
Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndr) perché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato. Trovi tutti gli articoli della serie qui.
Lessi L’arte di correre di Murakami appena fu pubblicato in Italia da Einaudi con la traduzione di Antonietta Pastore. Era il 2009, e se non ricordo male avevo iniziato a correre da circa tre anni.
Non correvo con sistematicità, facevo due o tre uscite alla settimana, preferibilmente al tramonto. Salivo in macchina e raggiungevo una strada alberata in aperta campagna, campi dorati a destra e a sinistra, grilli, uccellini e poco altro. La strada era un cul-de-sac lungo settecentocinquanta metri che terminava davanti al cancello di una vecchia villa. Insomma, parcheggiavo la macchina all’ombra e iniziavo a correre avanti e indietro. Ogni andirivieni contava un chilometro e mezzo. Potevo farlo al massimo per sei volte, nove chilometri in tutto, prima di rimettermi alla guida sudato e sfatto verso casa.
A quel tempo non partecipavo alle gare, non conoscevo nulla della tecnica di base della corsa, usavo un abbigliamento approssimativo, facevo tutti quegli errori che molto presto conducono i runner improvvisati a un infortunio, e quindi alla frustrazione, e quindi alla decisione di smettere di correre (ho proseguito ostinatamente così per molti anni, lasciando e riprendendo la pratica della corsa, prima di iniziare a fare le cose come si deve). La stessa cosa potrei dire della scrittura. In quegli anni ero uno scrittore senza regole, puro istinto, innamorato del gesto ma facile all’avvilimento. E quindi, quando Murakami pubblicò quella raccolta di brani a tema podistico, lo lessi perché era esattamente il libro di cui avevo bisogno: l’autoritratto di uno scrittore che corre. Potevo desiderare qualcosa di meglio?
A onor del vero il libro fu per me una delusione. Nell’arte di correre (il titolo americano occhieggiava a Carver, What We Talk About When We Talk About Love, solo che al posto di Love c’era Running, un giochetto che poi si sarebbe ripetuto in decine di altri libri), Murakami rifletteva sul legame che unisce il suo corpo in movimento alla sua mente creativa, tracciando una specie di autobiografia di un corridore. Nulla di diverso da quello che mi aspettavo. Ma mancava qualcosa. Cosa, l’avrei scoperto anni dopo, quando questo genere di scritture avrebbe conosciuto la sua stagione più felice.
Mancava la spada. Ecco. Intendo la spada che usa il samurai per squarciarsi il ventre nel suicidio rituale. L’immagine è un po’ forte, mi rendo conto. Benché Murakami in quel libro non si sottraesse dal raccontare di crampi, dolori insopportabili alle gambe, pustole da eccessiva esposizione solare, il libro era attraversato da una quieta stagnazione, dal sospetto di una continua rimozione. Non affondava mai la lama nelle proprie viscere squadernando l’unica cosa che davvero mi interessasse: l’ossessione. Perché è del tutto evidente che Murakami abbia vissuto gran parte della sua vita nell’assoluta ossessione che muove molti esseri umani alla corsa sulle lunghe distanze. Ma ciò che trapelava attraverso quelle pagine sembrava più che altro un tentativo di definire cosa NON fosse per lui la corsa. Non un’attività fisica. Non un modo per mantenersi in forma. Non un vezzo da scrittore di successo. E neppure parte di una routine salutista. E di conseguenza il suo memoir non era un trattato motivazionale né un diario sportivo.
Il senso del suo lavoro poteva essere racchiuso in una frase che compariva nelle prime pagine: “Coprire a passo di corsa lunghe distanze è semplicemente consono al mio carattere, mi fa sentire felice”.
Tutto qui? Ebbene sì. So che molti corridori si riconoscerebbero in una verità così semplice. E non c’è nulla di male ad ammettere che praticare uno sport ci rende felici. È che forse da uno scrittore della sua levatura mi aspettavo qualcosa di più. Ero animato dallo stesso pregiudizio che non mi ha mai fatto apprezzare fino in fondo i romanzi di Murakami? Può darsi. Eppure se penso all’opera narrativa di Murakami non fatico a scorgere connessioni sotterranee con la corsa. Ed è proprio questo che mi ha spinto a parlare di ossessione, qualcosa che di solito fa a cazzotti con l’idea di felicità.
Molti dei protagonisti dei romanzi di Murakami sono esseri solitari che abitano il proprio corpo e la propria mente con un senso di straniamento e di stupore, spesso immersi in routine ripetitive, nella musica, nel silenzio, nel vuoto. La corsa, pur non essendo sempre presente, si riflette nella struttura stessa delle sue narrazioni: nelle lunghe digressioni, nei movimenti ipnotici, nella pazienza con cui costruisce i suoi universi alternativi. Romanzi come Norwegian Wood, Kafka sulla spiaggia o 1Q84 hanno una qualità meditativa che rimanda alla corsa come pratica di interiorità. Il tempo della narrazione si dilata, si tende come un lungo tragitto da percorrere riducendo al minimo il dispendio energetico. Anche quando accade qualcosa di misterioso o surreale, Murakami non forza il ritmo, lascia che il lettore cammini – o corra – al suo fianco, che entri nel respiro del testo. C’è insomma una conoscenza dei meccanismi fisici e filosofici che sottendono alla pratica della corsa, ma lui ne fa un uso che ricorda molto certi saggi che lasciano balenare verità estremamente profonde in una sentenza semplice e quasi banale. Dev’essere un modo di pensare tipicamente orientale.
Nato nel 1949, Murakami inizia a correre regolarmente all’inizio degli anni Ottanta, dopo aver deciso di chiudere il jazz bar che gestiva a Tokyo per dedicarsi a tempo pieno alla narrativa. È un cambiamento radicale, e la corsa, introdotta quasi per necessità, si trasforma presto in un’esigenza vitale. Scrivere è un lavoro sedentario. Eppure richiede una quantità straordinaria di energia mentale. Correre diventa allora la contropartita fisica a quello sforzo immateriale, serve a bilanciare il corpo con la mente, a purificare i pensieri, ad affinare la resistenza e la tenacia, virtù fondamentali tanto per il podista quanto per lo scrittore.
Murakami corre ogni giorno, si sveglia presto, percorre almeno dieci chilometri, partecipa a una maratona all’anno, si dedica persino al triathlon. In questo regime rigoroso non c’è fanatismo, ma una precisa visione del mondo. La corsa, come la scrittura, non si improvvisa. È un impegno quotidiano con se stessi, una forma di ascesi moderna. In un articolo di un paio di anni fa apparso su «Fortune» firmato da Mari Yamaguchi confessa che la forza trainante della sua attività è ancora la corsa, anche adesso che ha abbondantemente superato i settanta. È la sua routine mattutina quotidiana: “Tradurre, correre e collezionare dischi usati”.
Quando mi è stato chiesto di scrivere questo articolo, dunque, la prima cosa che ho fatto è stato rileggere L’arte di correre. Ho sempre pensato a quanto sia bello parlare dei libri letti dieci o venti o trent’anni fa, libri che non si è mai più riletto, commentando solo ciò che si è conservato, con tutte le mancanze e le approssimazioni, catturandone un sapore, uno sbuffo rimasto a galleggiare nell’aria, un chiarore remoto, in una parola, un ricordo, che spesso è ingannevole. Ma in fondo è proprio l’inganno teso dal tempo che fa la bellezza di un libro, e quindi la sua persistenza. Perché quando parliamo dei libri lo facciamo sempre mentre li stiamo già dimenticando. In questo caso però ho voluto sommare le due esperienze: il ricordo del libro e la fresca rilettura.
Ebbene, c’era nell’arte di correre un passaggio di cui mi ero totalmente dimenticato, un passaggio importante. Mentre si trova a Cambridge nel Massachusetts per prepararsi alla maratona di New York, Murakami si inoltra in una notevole riflessione: “L’attività artistica, fin dalle prime fasi del suo sviluppo, ha in sé una componente malsana e antisociale”, scrive. “Proprio per questo tra gli scrittori – tra gli artisti in genere – non sono pochi quelli che nella vita quotidiana si comportano in maniera sregolata e asociale”.
A questa malattia dell’anima, contrappone un antidoto: “Dobbiamo costruirci un sistema immunitario specifico che possa neutralizzare quel pericoloso, se non fatale, elemento tossico che abbiamo dentro di noi”.
Questo antidoto lo individua nella forza fisica, nella cura del corpo. Nel suo caso, nella corsa. Conclude: “Per manipolare qualcosa di veramente malsano è necessario condurre una vita più sana possibile. Questa è la mia tesi”.
E lo fa (sorpresa!) dopo averci raccontato, tra le altre cose, di aver corso in passato un’ultramaratona di cento chilometri stressando il corpo oltre ogni limite, e in tempi – aggiungo – ancora avventurosi in cui non si prestava la necessaria attenzione a cose come l’alimentazione in gara, l’idratazione, e tutte quelle piccole e grandi strategie che oggi qualsiasi runner minimamente informato conosce bene.
La “componente malsana” curata con una forza altrettanto malsana che tuttavia si ritiene sana. Nella lettura di quasi vent’anni fa mi era sfuggito il vero passaggio ossessivo. Murakami aveva sfoderato – eccome – la spada del samurai: ero io a non essermene accorto.