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ARTICOLO n. 88 / 2024

BYUNG-CHUL HAN, UNO DI NOI

O di come la sua indagine filosofica sia conforme a ciò che analizza

Parto dichiarandomi; sono un’appassionata lettrice di Byung-Chul Han.

Lavoro nella cultura, mi occupo di cinema e scrivo. Ho studiato arte e sono sempre stata attratta dalla filosofia, anche se il mio interesse non è mai sfociato in qualcosa di professionalizzante, se così si può dire. Ho sostenuto qualche esame all’università, ma il mio approccio è sempre stato per lo più da autodidatta seguendo di volta in volta percorsi di approfondimento filosofico molto personali.

Per come sono fatta ho sempre avuto bisogno di supporto teorico per comprendere il mondo e ciò che mi accade. Le teorie femministe per esempio, così come quelle filosofiche in generale, mi hanno sempre aiutata a interpretare gli eventi, e così, senza alcuna pretesa accademica, mi sono avvicinata ai testi di Byung-Chul Han, come tanti altri, credo, attratta dal discreto successo che hanno riscosso in Italia grazie anche alle splendide edizioni di Nottetempo ed Einaudi, curate e insieme estremamente pop.

Ecco: questi volumetti snelli, agili e dall’altissima leggibilità, sono capaci di tessere con garbo e decisione le fila di una tematica, già ben espressa nei titoli, e di condurre il lettore al punto senza distrazioni né deviazioni, dando l’opportunità alla donna della strada, come me, di concentrarsi in breve tempo su riflessioni teoriche che non siano mediate dall’arte o dall’informazione.

Piccoli compendi sul vivere contemporaneo, che corro a comprare ogni volta che ne esce uno nuovo, percependoli come quasi indispensabili per uscire nel mondo e comprenderne i meccanismi sociali. E a ogni nuovo volume mi stupisco di quanto Han sia capace di colpire il bersaglio affrontando temi che, consciamente o meno, abbiamo tutti preso in considerazione senza però riuscire a metterli a fuoco e su cui, nell’incessante incedere della vita quotidianità, abbiamo finito per inciampare.

Molti, anche in Italia, si sono interrogati sul successo della filosofia di Han e sull’originalità di questo pensatore così sui generis, capace di distinguersi dai colleghi per la chiarezza espositiva e l’approccio diretto ai suoi temi. Una delle possibili ragioni di questa limpidezza stilistica risiede, come sottolineato già da molti, forse nel punto d’incontro tra due culture di cui è portatore: da un lato, l’essenzialità della tradizione orientale, mondo in cui è cresciuto e che privilegia espressioni asciutte e prive di eccessi, dall’altro, la precisione della tradizione occidentale tedesca, dove Han ha studiato, insegna e risiede fin dall’età di vent’anni. Questo connubio tra culture così affascinanti dà origine a una straordinaria chiarezza e a una profondità di analisi che si esprimono in testi privi di deviazioni e sbavature. 

I suoi scritti sembrano congegnati per essere sottolineati parola per parola, mettendo in difficoltà una come me, che ama evidenziare e rimarcare con segni a matita solo i concetti chiave dei libri, perché ogni sua frase sembra indispensabile; nei suoi testi, infatti, nessuna lunga e verbosa spiegazione o pesanti genealogie teoriche tanto comuni nei testi di ricerca, portano fuori fuoco o fanno abbassare il livello d’attenzione. E le citazioni di altri sistemi teoretici o pensieri di colleghi sono pochissime e utili solo a essere contraddette o derubricate come inesatte. Così, Han procede senza inciampi con l’incedere pacato e coraggioso di chi, come il saggio, possiede la verità e la sa condividere con la limpidezza dell’illuminato.

Schivo, lontano dai riflettori e dal ritmo incessante della divulgazione accademica, la sua figura sembra perfettamente in linea con la forza teoretica che rappresenta – un mix esplosivo per chi, come me, è in costante ricerca di comprensione dei meccanismi della postmodernità.

Byung-Chul Han sembra dunque possa fornire attraverso ciò che scrive, come lo scrive e la sua stessa essenza, un orizzonte filosofico per l’uomo contemporaneo.

In questo senso, quello che più risulta apprezzabile e godibile è la semplicità d’esposizione che riscontra chiunque abbia un po’ di dimestichezza con il linguaggio filosofico.

Davvero, niente mi appaga più di poter riflettere sulle questioni del nuovo millennio anche mentre sono in sala d’attesa dal dentista o sto aspettando che mio figlio esca da Psicomotricità. 

E questo Han, come un manuale pronto all’uso, mi permette di farlo.

Poco importa se, addentrandomi sempre più nel suo linguaggio, a volte mi sono sentita intimorita dalla sua assertività, dalla sua sicurezza teutonica appunto, quasi incrollabile, e da un sistema di pensiero che, strutturato com’è, non ammette pareri alternativi. Poco importa, perché ciò che dice appare sempre così estremamente sensato e corretto, così ben formulato ed estremamente fondato su studi fatti in modo così estremamente accurato. 

Quasi più intimorita che di fronte a un vecchio filosofo di formazione novecentesca e dall’impostazione patriarcale che inventa mondi complessissimi e linguisticamente respingenti al limite dell’incomprensibile. In questi mondi autoreferenziali e spesso dogmatici, anche quando non sembra, è però necessario “metterci del proprio” per trovare il senso, fare uno sforzo di sintesi che richiede di appellarsi al proprio sapere filosofico e al proprio senso immaginativo.

Al contrario, in Han non si avverte la necessità di alcuna conoscenza filosofica di base, né è richiesto uno sforzo di decodifica. La sua modalità di scrittura solleva il lettore dall’impegno di un’interpretazione personale; ogni concetto è talmente nitido e sensato da non lasciare margini, né di incomprensione, né di disaccordo.

Così, durante una delle cene del venerdì sera, tra noi soggetti di prestazione (come direbbe lui) intenti a confrontarci e a riconoscere il nostro non-essere-più-in-grado-di-non-poter-fare questa sua razionalità assoluta, questa sorta di “infallibilità” ci ha portato a riflettere sulla natura del pensiero e sulla figura di Han, forse molto più simile a quella di un sociologo che di un filosofo.

Lungi dal creare teorie alternative o mondi possibili, Han offre infatti semplicemente una lucidissima, razionale e ben supportata presa di coscienza di ciò che stiamo vivendo – niente più e niente meno. 

Che naturalmente è già molto.

Ecco però che se non è propriamente derubricabile come sociologia, la sua è però una teoria priva di immaginazione, priva di visioni per il futuro che non esce mai dal seminato, non si perde in nessun bosco di senso, non si serve di invenzioni o narrazioni, ma risulta trasparente esattamente come la società che analizza non senza una certa amarezza.  Che è molto probabilmente anche il motivo per cui è così apprezzato da noi donne e uomini stanchi, il cui eros è in agonia mentre siamo attorniati da non-cose.

Han non ci chiede quindi di immaginare o di sognare, ma ci invita semplicemente a prendere coscienza, a fare i conti con una realtà dei suoi scritti cristallina, nuda, perfettamente aderente alla società che racconta.

E pur nello sconforto che il contenuto dei suoi testi provoca, il fatto che lui stesso, il suo potenziale filosofico siano così aderenti al vivere di uomini e donne della società senza dolore come noi, che con tanta lucidità descrive, disincanta e disillude (se ancora ce ne fosse bisogno) ma risulta vagamente consolatorio.

ARTICOLO n. 87 / 2024

MARVIN: UNA COLLETTIVITÀ IBRIDA

conversazione collettiva

MONTAG: La nostra domanda di rito è sempre questa: vi riconoscete nella definizione di “collettivo”? Per introdurla vogliamo partire da alcune vostre dichiarazioni. Dal vostro sito: «Crediamo nella creazione di un ambiente collettivo come valore aggiunto all’atto di scrivere». E poi, dall’ultima call, quella in cui avete lanciato l’idea di una residenza per redigere l’ottavo numero della rivista: «Questo esperimento è uno sviluppo ulteriore della nostra originaria idea di rivista come spazio per esplorare la collettività». A queste citazioni vogliamo aggiungerne un’altra, che è un po’ il vostro motto, e vorremmo chiedervi se è in contrasto con le altre o se invece ne è la chiave di lettura: «Siamo una redazione occasionale».

MARVIN (Martina): Non ci definiamo propriamente un collettivo, anche perché siamo nati come rivista e la struttura della redazione descrive abbastanza bene quello che cerchiamo di fare. Ciò che stiamo proponendo negli ultimi anni è piuttosto creare uno spazio in cui dare origine a delle collettività, da una parte promuovendole, avallandole, dall’altra dando spazio a quelle che noi chiamiamo “redazioni occasionali”, ovvero quei momenti in cui, durante la composizione della rivista, selezioniamo autori e autrici e creiamo un gruppo di lavoro, un collettivo.

MARVIN (Beatrice): L’approccio al concetto di collettività si può pensare un po’ come un caleidoscopio, in cui i frammenti di volta in volta si riuniscono in figure e simmetrie per poi scomporsi e crearne di nuove. Non è qualcosa di fisso, ma è molto più fluido. L’idea è di creare di volta in volta dei gruppi di lavoro che partano dai testi, li elaborino, li discutano in un editing reciproco e dinamico, generando così uno scambio e infine approdando a un risultato che è una rivista completamente diversa, o comunque nuova, rispetto a quella che era all’origine della call. E quindi: creare sempre significati nuovi con persone che di volta in volta si incontrano, per poi separarsi, ma senza perdersi, attivando un circuito di interazioni che restano costanti nel tempo. Sta succedendo con molti degli autori con cui abbiamo lavorato.

MARVIN (Flavio): È vero, quasi tutte le persone che sono entrate nell’orbita di Marvin ci sono rimaste, in un modo o nell’altro. Ci sentiamo di aver creato qualcosa di buono quando vediamo che queste connessioni acquistano senso (che potrebbe anche voler dire semplicemente che la gente sta bene per una sera). E in più c’è il discorso sulla scrittura, che di norma è un’attività solitaria, ma che può anche essere altro, una comunità. Si recupera l’idea della scrittura come trasmissione di contenuti, di conoscenze, uno scambio di opinioni.

MONTAG: In effetti questo vostro modo di intendere la collettività ibrida anche i ruoli, perché scrittori e scrittrici diventano editor per racconti altrui e voi stessi cambiate posizione, tra redazione della rivista, autori, editor.

MARVIN (Martina): Un elemento obbligatorio per partecipare alla rivista è accettare implicitamente, mandando i racconti, che se verrai selezionato o selezionata, non sarai soltanto autore, ma anche redattore. È un elemento che noi inizialmente abbiamo inserito perché ci divertiva l’idea che ognuno avesse entrambi i ruoli.

Dopo poco ci siamo resi conto che gli autori apprezzano moltissimo il fatto di essere messi sullo stesso piano. Comunque, avere il proprio racconto letto da altre persone non è facilissimo. Nell’editoria tradizionale o anche nelle riviste ci sono degli editor fissi, e l’editor è la persona che si incarica di scegliere il racconto e lavorarci su. Noi, invece, volevamo scombinare la gerarchia per creare un momento in cui fosse possibile anche abbassare le difese.

MARVIN (Flavio): In ogni edizione ci troviamo in un posto diverso di questo triangolo che avete disegnato. A seconda di come va capiamo quanto dobbiamo o vogliamo intervenire, quanto sia necessario che facciamo qualcosa. Naturalmente dipende anche dall’alchimia che si crea tra autori e autrici. Il nostro supporto c’è sempre, però alcune volte è maggiore, alcune volte minore, a seconda dei casi.

MARVIN (Beatrice): Penso all’occasione che ha fatto conoscere Marvin e Montag, quando ci siamo trovati a pubblicare un racconto nello stesso numero. Ecco, quello per me è l’esempio perfetto: mi trovavo a cavallo tra tutti questi ruoli e mi è servito moltissimo per crescere sul fronte della scrittura, perché mi trovavo in una posizione inedita e allo stesso tempo paritaria. Ricevi un consiglio da una persona che, esattamente come te, sta cercando di sviluppare la propria voce, lo stile, e si sta esercitando a comprendere le dinamiche di una storia. Poi subentrano una serie di scambi con persone con cui continui a sentirti, di cui poi segui la crescita, le pubblicazioni, insomma il percorso. Si creano dei legami perché la posizione in cui ti trovi è quella di una persona che si sta aprendo, il momento di condivisione di una storia scritta da te è un momento in cui ti senti profondamente esposta, ed è proprio da questa consapevolezza che deriva la cura che avrai per gli altri: l’approccio che adotterai potrà senz’altro essere critico, ma mai aggressivo o violento.

MARVIN (Flavio): Il fatto stesso di lavorare da editor sui testi degli altri ti aiuta a prendere coscienza anche del tuo modo di scrivere. Non solo per quanto riguarda quello specifico racconto, ma anche per ciò che scriverai dopo. Ti permette di sviluppare un approccio diverso, anche perché non è detto che chi scrive sia un editor – anzi, nella maggior parte dei casi non è così. Però acquisire delle conoscenze di editing è importante anche per capire cosa vuoi scrivere e, soprattutto, come vuoi scriverlo.

MONTAG: Ci piace questa visione della rivista che diventa quasi un sistema solare, attorno cui orbitano una serie di astri. Magari alcune sono meteore che passano e poi non si incontrano più. Però poi ci stanno anche dei pianeti che rimangono fissi attorno alla rivista. E proprio questa cosa dell’orbitare attorno, dello stare insieme, del fare sistema, del costruirsi insieme, la vorremmo utilizzare da ponte per poi arrivare a parlare di lavoro, che è una cosa bruttissima, però precedendolo con una cosa bella. Grazie a questo vostro modo di fare rivista fate anche amicizia. Questo su un livello di politica dell’agire collettivo è fondamentale come termine da inserire nel discorso letterario e creativo. In che maniera sentite che struttura la vostra visione della rivista nel futuro, nei vostri progetti, nelle cose che vorreste fare.

MARVIN (Martina): Noi ci consideriamo amici a prescindere dalla rivista e penso che probabilmente lo siamo diventati grazie a Marvin. Io, Flavio e Laura siamo stati i primi a iniziare questo progetto, eravamo persone con una certa affinità che però si conoscevano relativamente poco, quindi definirci amici era troppo, ma poi lo siamo diventati.

Poi è entrata Bea e noi avevamo già creato questo ambiente in cui la complicità, l’amicizia o in generale la fiducia nell’opinione dell’altro erano centrali. Ci sono opinioni diverse tra di noi, anche abbastanza polarizzate, ma il fatto che abbiamo totale fiducia gli uni negli altri e diamo estremo valore all’opinione altrui ci permette di far sì che questi conflitti siano in qualche maniera costruttivi, e ne usciamo tutti in un modo o nell’altro cresciuti. 

MARVIN (Beatrice): Parliamo di qualcosa che non ha uno scopo di lucro, non ci porta guadagni che non servano ad alimentare in modo circolare il progetto, qualcosa in cui però investiamo volentieri le nostre energie. Ma non siamo masochisti, sappiamo di farlo perché ci piace riunirci, stare insieme, ci diverte quello che andiamo a creare e questa è la base. L’amicizia. Perché la cosa fondamentale comunque è trovarsi bene con le persone e stare bene nel fare certe cose. Questo determina anche le evoluzioni che la rivista ha subìto. All’inizio si trattava solo di pubblicare racconti, ma c’è stato un periodo in cui è stata anche un blog culturale che in seguito abbiamo messo da parte. Semplicemente ci muoviamo in base a ciò che ci accende e ci appassiona. Quando qualcosa smette di essere stimolante la rivista cambia pelle. Marvin sarà adesso anche un’associazione, e creerà momenti di aggregazione, come letture collettive al parco, presentazioni, partecipazioni ai festival: alla base c’è sempre il fatto che per noi è entusiasmante stare insieme, anche con le persone che hanno orbitato attorno a noi e che continueranno a farlo.

MARVIN (Flavio): Abbiamo delle sensibilità diverse rispetto ai racconti, è vero: c’è chi è più attento allo stile, chi alla costruzione del racconto, chi ai personaggi, e questo ci permette di essere completi, insieme. Sul discorso dell’amicizia, va detto che ci sono stati momenti di stanchezza della rivista, in cui ci siamo domandati: se Marvin cambiasse forma o addirittura chiudesse noi resteremmo comunque amici? La risposta è stata sempre sì.

MARVIN (Martina): Sarebbe bruttissimo altrimenti, orribile, orribile. Ai miei compleanni ci sarebbero pochissime persone.

MONTAG: Ve l’abbiamo chiesto proprio perché anche noi è su questo principio che abbiamo creato il collettivo e abbiamo parlato molto di quale spazio ci sia per questo tema nel mondo letterario, editoriale, nelle riviste, nelle agenzie.

MARVIN (Martina): Come dicevamo, Marvin ti mette spesso in una condizione di esposizione personale molto profonda, quindi forse è anche naturale che i rapporti non riescano a rimanere superficiali. Questo discorso vale anche, e forse in maniera particolare, nel caso della residenza che abbiamo tenuto per l’ultimo numero che verrà pubblicato a settembre. Ovviamente non so se gli autori siano diventati amici fra loro, però sono abbastanza sicura che un legame si sia creato. 

MONTAG: Oltrepassiamo il ponte dell’amicizia e parliamo invece di lavoro. Come si pone Marvin rispetto al contesto delle riviste italiano in questo momento e cosa può dare al mondo editoriale? Sia nel micro, per esempio nel fare alleanza, conoscere altre persone che fanno riviste, nell’ambiente romano o in generale in quello italiano, ma anche nel macro, per esempio rispetto a contesti e realtà molto più grandi della vostra. Insomma, come vedete il mondo delle riviste oggi?

MARVIN (Flavio): Rispetto alla scena romana delle riviste, che è quella che viviamo di più, percepiamo una fase di disillusione. Quel movimento che si era creato qualche anno fa si è un po’ disgregato per una serie di motivi e perché comunque le riviste, nel momento in cui non mutano forma, chiudono. A complicare la situazione c’è un ambiente editoriale che, quando vuole, sa essere un posto molto cinico, in cui snobbare libri e scrittura fa più fico che parlarne, una tendenza che non crea l’ambiente giusto per la nascita di nuove idee. Direi quindi che Marvin è stato, prima di tutto, un modo sano di vivere l’editoria e in secondo luogo, naturalmente, un mezzo per conoscerla meglio. Con il tempo abbiamo capito anche quale fosse il nostro posto all’interno di questo mondo, realizzando per esempio che l’essenza di Marvin erano i racconti.

MARVIN (Martina): Penso che Marvin segua traiettorie diverse rispetto a quelle di riviste dalle spalle più grandi. Oltre ad avere un sistema di supporto economico imparagonabile al nostro, abbiamo altri obiettivi e rispondiamo ad altre necessità, che non sono obbligatoriamente in contrasto ma solo diverse. Quando abbiamo deciso di abbandonare il blog culturale perché non ci divertiva più e ci siamo concentrati sulla realizzazione di una residenza, su cui fantasticavamo già dal 2020, ci siamo in qualche modo riappropriati di un percorso. Siamo nati in un periodo di fervore meraviglioso: nel pieno della pandemia tutto quello che era online aveva un vigore molto diverso. E appena usciti dalla pandemia, c’è stato il momento in cui tutti volevano stare insieme. Noi abbiamo vissuto quella wave, ce la siamo presa tutta. Adesso ci rendiamo conto che quel tipo di entusiasmo sta svanendo, come è fisiologico per questo tipo di realtà.

MONTAG: Infatti il discorso è proprio ragionare su quale rapporto può esserci in un sistema dove sembra ci siano solo gli estremi, o la piccola realtà o la grandissima realtà con fondi importanti alle spalle.

MARVIN (Martina): Penso che a volte anelare a diventare la grande realtà sia anche uno dei motivi per cui certi spazi chiudono, perché non si riesce a essere né carne né pesce. Credo che noi lo abbiamo evitato nel momento in cui ci siamo guardati in faccia e ci siamo chiesti: ma quello che stiamo facendo ci sta piacendo davvero? O lo stiamo facendo perché vogliamo diventare qualcos’altro?

MARVIN (Flavio): Aggiungo un punto: le riviste indipendenti hanno una libertà che altre realtà più grandi non si possono permettere di avere, nella selezione dei contenuti e soprattutto nei racconti. Il fatto che noi possiamo pubblicare qualsiasi autore o autrice, basta che ci piaccia, è una forma di indipendenza molto grossa che non vogliamo perdere. Diventando più grandi si entra inevitabilmente all’interno di altre dinamiche.

MONTAG: Tutti quanti avete menzionato varie volte la scelta di aver abbandonato la parte del blog. Vorremmo chiedervi come si vive all’interno di una rivista l’idea di cambiare o anche rinunciare a una strada. Per esempio, Marvin nasce dall’idea di scrivere racconti a partire da tre elementi diversi per ciascun numero e quell’idea è rimasta fino a oggi.

MARVIN (Martina): È una domanda che ci poniamo spesso, perché l’espediente dei tre elementi (un personaggio, un luogo, una frase) è uno stimolo ma anche un limite. E la risposta che ci siamo dati è che crediamo veramente che questi limiti possano essere utili dal punto di vista creativo, un confine dentro il quale giocare. Ed è bello rendersi conto che all’interno del numero, tra i vari racconti, c’è una coerenza.

MARVIN (Beatrice): La chiave delle metamorfosi di Marvin dipende proprio dal “finché ci diverte va bene”. Finché questa cosa continua a farci dire ok, ci piace farlo, ok, così funziona, noi proseguiamo. Ma diamo molto ascolto anche ai feedback, proprio per la questione della collettività, del fatto che ci teniamo a creare una comunità reale, e, se ci rendiamo conto che questa scelta inizia a perdere di efficacia, allora possiamo ripensarci. L’unica cosa irrinunciabile è questa: lo scambio costante di persone intorno all’atto dello scrivere. La questione dei tre elementi (finora) ha sempre funzionato, sia sul fronte della creatività sia nel favorire una coerenza maggiore (all’interno del numero e della redazione), perché ciascuno si confronta sul modo in cui ha scelto di usare la parola: ci sono nomi che a volte vengono interpretati come verbi (penso al personaggio “modella” del numero in cui eravamo insieme, qualcuno l’ha usato come professione, qualcuno come azione), luoghi che diventano totalmente metaforici e così via. E la cosa più interessante è scoprire quali meccanismi sono scattati nella testa degli altri, i modi diversi in cui gli elementi sono risuonati e si sono combinati in ciascuno.

MONTAG: Invece, qual è il vostro rapporto con gli altri media? A parte il fatto che siete nati online e che siete attivi sui social, avete creato rubriche come “Marvin guarda” sui film, ma soprattutto a ogni numero associate una playlist e ogni racconto all’interno del numero fa da spunto per delle illustrazioni di artisti visivi.

MARVIN (Martina): Quello che vorremmo fare in futuro è spostarci sempre più dall’online e dai social per incontrarci di persona. Sappiamo che è un obiettivo molto ambizioso e non vogliamo neanche risultare escludenti, perché noi viviamo a Roma, quindi in un grande centro pieno di risorse. Ma sappiamo benissimo cosa significa vivere in centri minori dove l’offerta culturale è meno variegata. Quindi ovviamente non abbandoneremo gli incontri online, ma se potessimo offrire a tutti un biglietto per conoscerci dal vivo lo faremmo.

MARVIN (Beatrice): Per quanto riguarda gli altri media, penso che li abbiamo incontrati in maniera tangente, all’epoca del blog, trattavamo in maniera più estesa anche il cinema o organizzavamo cineforum e dibattiti. La parte musicale è invece stabile, perché la playlist (di Johannesburg) è sempre presente nella rivista, anche in quella cartacea. Marvin è un prodotto che vuole essere ibrido, ibrido anche nel prendere persone diverse e metterle in contatto. E queste persone spesso provengono da media diversi: nel prossimo numero uno degli autori è in primo luogo sceneggiatore. Questa è una cosa bellissima. In questo modo possiamo intercettare sia chi ha pubblicato con moltissime riviste, e che quindi è parte integrante della bolla, sia chi ha pubblicato un racconto per la prima volta. Per questo motivo, nell’ultima call, abbiamo voluto tutti i racconti in anonimo, proprio perché non volevamo farci influenzare dal nome. Inoltre Marvin è una rivista illustrata: dalla copertina ai singoli racconti, ogni parte è corredata da immagini che sono frutto dell’ingegno di illustratrici e illustratori selezionati e invitati a collaborare per potenziale affinità con la storia.

MARVIN (Flavio): Potremmo metterla così: la nostra visione dei media è orizzontale e non gerarchica, nel senso che abbiamo sempre messo letteratura, cinema, musica sullo stesso piano.

MONTAG: In chiusura, cosa bolle in pentola? Cosa c’è all’orizzonte per Marvin?

MARVIN (Beatrice): Innanzitutto il nuovo numero, sempre frutto della collaborazione con Bahut, lo studio grafico che ci segue da già due edizioni e che ha dato a Marvin la forma che vedete oggi. E in generale, partecipazioni a eventi dove sentiamo che la sensibilità è simile alla nostra.

MARVIN (Martina): In qualche modo, portare le “redazioni occasionali” all’interno di nuovi ambienti accoglienti. Aggiungerei che siamo diventati un’associazione, che ci siamo resi conto essere la forma che definisce meglio il percorso di cui parlavamo. E sicuramente replicare la residenza di scrittura, che abbiamo inaugurato quest’anno e ci ha dato nuova linfa vitale.   

MONTAG: In realtà vogliamo farvi un’ultimissima domanda: ci suggerite tre o quattro libri che ci vorreste consigliare in quanto Marvin?

MARVIN (redazione): Be’, potremmo dirvi Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams, perché la nostra rivista prende il nome proprio da lì, dal robot depresso Marvin. Poi Gli interessi in comune di Vanni Santoni, perché racconta di gruppi di persone che condividono delle passioni, e perché è uno dei primi libri che abbiamo portato al nostro club di lettura. Ma anche Il cornetto acustico di Leonora Carrington; c’è forse bisogno di spiegare il perché? E infine, naturalmente, il romanzo d’esordio dei Montag.

ARTICOLO n. 86 / 2024

DEBORAH LEVY, ABITARE IL MOVIMENTO

«Le case sono proprio dei corpi», scrive Deborah Levy, «noi siamo attaccati ai muri, ai tetti e agli oggetti esattamente come al nostro fegato, allo scheletro, alla carne e al flusso sanguigno». In questa analogia anatomica si rivela la matrice della sua Autobiografia in movimento, un’opera che trasforma il conflitto tra radicamento e nomadismo in un’indagine sulla condizione femminile contemporanea. Dal Sudafrica dell’apartheid agli appartamenti di Londra e Parigi, fino alle dimore provvisorie e quelle solo immaginate, Levy costruisce una cartografia del desiderio dove ogni stanza diventa metafora di una possibile libertà. È un viaggio che solleva una domanda spesso trascurata: che cosa significa, per una donna artista del XXI secolo, trovare il proprio posto nel mondo?

Negli ultimi dieci anni Levy ha costruito, libro dopo libro, una delle più significative riflessioni contemporanee sulla scrittura femminile e sul concetto di appartenenza. La sua “autobiografia vivente”, come lei stessa l’ha definita e come è nel titolo originale inglese, si compone di tre volumi che, pur mantenendo ciascuno una propria autonomia tematica, tracciano un percorso di emancipazione tanto personale quanto universale, il cui sottile e quasi impercettibile fil rouge è proprio la casa.

Il primo volume, Cose che non voglio sapere, si apre sulle scale mobili di una stazione londinese, dove l’autrice sta piangendo in un momento di smarrimento. Da lì la memoria si muove a ritroso fino al Sudafrica della segregazione razziale, attraversando un’infanzia segnata dall’attivismo politico del padre e dalla necessità dell’esilio. Lo spazio dell’appartenenza diventa già un tema sotterraneo: è la casa che abbandona, quella che trova in Inghilterra, quella che non potrà mai più essere la stessa. In questo primo movimento autobiografico, Levy intreccia la dimensione politica dell’esilio con quella intima dello sradicamento: le scale mobili della stazione – un non-luogo in perpetuo movimento – diventano emblema di una condizione esistenziale sospesa tra la nostalgia di un’appartenenza perduta e l’impossibilità di un vero ritorno. Il Sudafrica dell’infanzia emerge dai ricordi non come un paradiso perduto, ma come il primo teatro di una dislocazione necessaria, dove l’idea stessa di “casa” inizia a perdere i suoi contorni rassicuranti.

Questa prima dislocazione segna l’inizio di una consapevolezza: l’identità si forgia proprio negli spazi di transizione, nelle terre di mezzo, nei luoghi che non possono essere chiamati casa se non temporaneamente.

Il costo della vita trasforma la frattura matrimoniale in una riflessione sul prezzo – emotivo, economico, sociale – della libertà femminile. È qui che Levy esplora più apertamente il paradosso dell’abbandono: lasciare la casa che più di tutte, e suo malgrado, è stata casa. La dissoluzione di vent’anni di vita domestica diventa occasione per interrogare il significato stesso dell’abitare. Nel vuoto lasciato dalle certezze coniugali, l’autrice scopre che ricostruire una vita indipendente significa anche reimparare a occupare lo spazio, a muoversi in esso secondo ritmi propri. Non più moglie e scrittrice ma solo scrittrice, non più custode di uno spazio condiviso ma esploratrice di territori sconosciuti: così il trauma della separazione si trasforma in un’opportunità di ridefinizione radicale del proprio posto nel mondo. È in questo momento che il capanno nel giardino di un’amica diventa la sua stanza tutta per sé, per scrivere: uno spazio prestato che paradossalmente si rivela più “proprio” della casa coniugale appena lasciata. Un rifugio dove la necessità di proteggere il proprio lavoro creativo si materializza nelle pareti di legno, nel silenzio, nella temporaneità stessa del prestito. 

È però con Bene immobile che il tema della casa emerge in tutta la sua complessità simbolica. Cerca una casa in cui poter vivere, lavorare e creare un mondo al suo ritmo, ma persino nella sua immaginazione questa casa è «sfocata, indefinita, irreale, irrealistica o priva di realismo». Il desiderio di questa casa è però intenso, così da trasformare la ricerca di un “bene immobile” in un’indagine sul significato stesso dell’appartenere. 

Nel labirinto dell’identità contemporanea, pochi concetti risultano infatti tanto sfuggenti quanto immanenti come quello di “casa”. Un luogo che non è mai solo spazio fisico, ma territorio dell’immaginazione dove si intersecano desiderio, appartenenza e libertà creativa.  

In questo capitolo Levy espande ulteriormente gli spazi geografici e mentali: da Mumbai a Parigi, da Berlino a Hydra, fino a tornare sempre a Londra. In questo nomadismo, Levy costruisce una riflessione profonda sul significato di “casa” per una donna artista. Attraverso il dialogo con Virginia Woolf e Simone de Beauvoir, l’abitare si fa atto politico: uno spazio dove si intersecano questioni di genere, classe e potere creativo. La stanza tutta per sé woolfiana viene così ripensata non più come luogo statico ma come territorio mobile di autodeterminazione.

È proprio questa dimensione creativa che emerge nel suo rapporto con gli oggetti che abitano la casa, elevati a ulteriore chiave di lettura dell’intera trilogia. «I libri sono la mia proprietà», scrive Levy, «e non è una proprietà privata. Non ci sono cani feroci o guardie al cancello, né cartelli che vietano di tuffarsi, baciare, fallire, provare rabbia o paura, intenerirsi o piangere, innamorarsi della persona sbagliata, impazzire, diventare famosi o giocare sull’erba». La biblioteca personale diventa così il primo, autentico spazio di libertà, un territorio che trascende i confini tra pubblico e privato, tra possesso e condivisione.

Gli oggetti in Levy non sono mai semplici arredi ma testimoni di un modo di abitare il mondo. Sono presenze che mediano tra il desiderio di stabilità e la necessità del movimento, tra l’aspirazione al radicamento e l’inevitabilità del cambiamento.

La dimensione del desiderio, che innerva l’intera trilogia, prende forma come atti di rivendicazione: lo sguardo nelle vetrine delle agenzie immobiliari, il banano (che la figlia chiama “il terzo figlio”) trasportato in metropolitana come un improbabile giardino portatile, le tre mensole in bagno trasformate in una serra improvvisata. Sono gesti che raccontano non tanto la precarietà dell’abitare contemporaneo, quanto la capacità di trasformare ogni spazio in territorio di possibilità.

Immaginare una casa grande significa anche prendere le misure degli spazi e dei vuoti. Sapere che non ci sarà nessuno che l’abiterà se non un fantasma. Allora, un esercizio di immaginazione diventa una brutale presa di coscienza della propria realtà. 

Levy cita proprio Mark Fisher quando scrive che «la casa è là dove ci sono i tuoi spettri», e ne fa l’intuizione cardine della sua riflessione: siamo presenze che abitano i luoghi anche quando li abbiamo abbandonati, fantasmi che continuano a popolare gli spazi attraversati. L’abitare diventa così un atto di continua negoziazione non solo tra presente e passato, ma tra tutte le versioni di noi stessi che abbiamo disseminato nel mondo.

Nella tensione tra realtà e immaginazione, Levy ribalta l’idea tradizionale dello spazio domestico. Se la casa è sempre stata vista come il luogo che protegge dalla dispersione del sogno, che àncora alla concretezza del quotidiano, per l’autrice questa funzione si rovescia: «Il più prezioso effetto benefico della casa? Fornire riparo dalla reverié, proteggere il sognatore». La casa diventa così non il rifugio dalla fantasticheria, ma il luogo che la custodisce, che protegge non dal sogno ma per il sogno. Levy cerca le mura che possano custodire non l’ordinario ma lo straordinario, non la routine ma la sua interruzione.

«Il buco nel muro era un portale», scrive poi Levy verso la fine, «non verso un altro mondo, ma verso questo, in cui cercavo senza sosta una casa, come se fosse un amore sfuggente». È questa forse la chiave di lettura dell’intera opera: non la ricerca di un posto definitivo, ma l’esplorazione di quella tensione vitale tra radicamento e movimento che definisce l’esistenza contemporanea. La casa che non può essere un approdo ma una perpetua oscillazione tra il desiderio di appartenenza e la necessità di libertà.

Attraverso questi tre volumi, Levy ha costruito un manifesto sulla possibilità di abitare il movimento stesso. La sua scrittura, come il banano sul bus o i libri senza confini, ci suggerisce che forse l’unico vero “bene immobile” è proprio questa capacità di fare della precarietà una forma di residenza, del nomadismo una forma di appartenenza. Una lezione che trascende la questione di genere per parlare a chiunque si trovi a negoziare il proprio posto in un mondo sempre più fluido e incerto.

ARTICOLO n. 85 / 2024

PURA FELICITÀ. IL CANARINO

Pubblichiamo un racconto dalla raccolta di Katherine Mansfield Pura felicità (Feltrinelli, traduzione di Sara De Simone e Nadia Fusini). Ringraziamo l’editore per la disponibilità

…Vede quel grosso chiodo a destra della porta d’ingresso? Ancora oggi posso a malapena guardarlo, eppure non sopporto l’idea di toglierlo. Mi piace pensare che resterà lì, anche quando non ci sarò più. 

A volte sento chi verrà dopo di me dire: “Lì dev’esserci stata appesa una gabbia”. E questo mi conforta; mi sembra che così non sarà del tutto dimenticato.

…Non immagina come cantava splendidamente. Non era come il canto degli altri canarini. E non è la mia immaginazione. Spesso, dalla finestra, vedevo la gente fermarsi davanti al cancello e ascoltarlo, o appoggiarsi alla staccionata, accanto al filadelfo, e starsene lì a lungo, come rapita. 

Suppongo che possa sembrarle assurdo – non lo sarebbe se l’avesse sentito – ma avevo davvero l’impressione che cantasse canzoni intere, con un inizio e una fine.

Per esempio, il pomeriggio, quando finivo le faccende di casa, mi cambiavo la camicetta e portavo il cucito qui in veranda, lui – “op, op, op!” – salterellava da un trespolo al­l’altro e picchiettava contro le sbarre della gabbia come a voler attirare la mia attenzione, beveva un sorso d’acqua, proprio come farebbe un cantante professionista, e prorompeva in un canto così squisito che dovevo posare l’ago per ascoltarlo. Non riesco a descriverlo; magari potessi. Ma era sempre lo stesso, ogni pomeriggio, e a me sembrava di capire ogni singola nota.

…Lo amavo. Come lo amavo! Forse non è così importante cosa si ama a questo mondo. Ma qualcosa si deve amare. Certo, c’erano sempre la mia casetta e il mio giardino, ma per qualche ragione non erano abbastanza. I fiori sono incredibilmente ricettivi, ma non entrano in empatia con noi. Allora amai Venere, la stella della sera. Le sembra sciocco?

Me ne andavo in cortile, dopo il tramonto, e aspettavo finché non iniziava a brillare in cima allo scuro eucalipto. E sussurravo: “Eccoti qui, tesoro mio”. E per quel primo breve istante sembrava che brillasse solo per me. Era come se lo capisse… come fosse un desiderio, ma non era un desiderio. O come un rimpianto – sì, più come un rimpianto. Ma rimpianto di cosa? Ho molto di cui essere grata.

…Ma quando lui entrò nella mia vita dimenticai la stella della sera; non ne avevo più bisogno. Ma fu strano. Quando quel cinese che vendeva uccelli si presentò alla mia porta e me lo mostrò nella sua gabbietta, e lui invece di agitare le ali come i poveri cardellini, fece un debole, piccolo “cip,” mi ritrovai a dire, proprio come facevo con la stella in cima al­ l’eucalipto: “Eccoti qui, tesoro mio”. Da quel momento in poi fu mio.

…Ancora oggi mi stupisco se ripenso al modo in cui condividevamo le nostre vite. Quando scendevo giù, al mattino, e toglievo il panno dalla gabbia, mi salutava con una piccola nota sonnolenta. Sapevo che voleva dire: “Padrona! Padrona!”. Poi lo appendevo al chiodo, fuori, mentre preparavo la colazione ai miei tre giovanotti, e non lo riportavo dentro finché non avevamo di nuovo la casa tutta per noi. Poi, una volta finito il bucato, c’era un vero e proprio spettacolino. Stendevo il giornale su un angolo del tavolo, e appena ci appoggiavo sopra la gabbia lui sbatteva le ali disperatamente, come se non sapesse cosa stava per accadere. “Sei il solito piccolo attore,” lo rimproveravo. Raschiavo il fondo della gabbia, lo cospargevo di sabbia pulita, riempivo le vaschette dei semi e del­l’acqua e infilavo tra le sbarre una foglia di centocchio e mezzo peperoncino.

E sono assolutamente certa che lui capiva e apprezzava ogni passaggio di questa recita. Perché vede, per natura era incredibilmente pulito. Sui suoi trespoli non c’era l’ombra di una macchia. E avreste dovuto vedere come si godeva il bagno per capire che vera piccola passione aveva per la pulizia. La vaschetta per il bagno era l’ultima cosa che mettevo nella gabbia. E lui ci saltava subito dentro. 

Prima sbatteva un’ala, poi l’altra, poi tuffava la testina e si bagnava le piume del petto. Le gocce schizzavano per tutta la cucina, ma non voleva saperne di uscire. Allora io gli dicevo: “Ora basta, ti stai solo mettendo in mostra”. Alla fine saltava fuori e, stando su una zampetta sola, cominciava ad asciugarsi col becco.

Per finire, una scrollatina, un colpetto, un cinguettio, poi sollevava gola – oh, riesco a malapena a sopportare il ricordo. A quel­ l’ora pulivo sempre i coltelli, e mi sembrava che anche i coltelli cantassero, mentre li strofinavo sul­ l’asse per lucidarli.

…Perché vede, una era compagnia… ecco cos’era. Una compagnia perfetta. Se ha mai vissuto da sola saprà quanto è preziosa. Certo, c’erano i miei tre giovanotti, che venivano a cena tutte le sere, e qualche volta si trattenevano in sala da pranzo a leggere il giornale.

Ma non potevo aspettarmi da loro che fossero interessati alle piccole cose di cui era fatta la mia giornata. Perché avrebbero dovuto? Non ero niente per loro. Difatti, una sera li sentii mentre parlavano di me sulle scale e mi chiamavano la “spaventapasseri”. Non importa. Non ha importanza, davvero. Posso capirli. Sono giovani. Perché dovrei prendermela? Ma ricordo di essermi sentita particolarmente grata, quella sera, per il fatto di non essere completamente sola. 

Glielo raccontai, dopo che se n’erano andati. Dissi: “Sai come chiamano la tua Padrona?”. E lui piegò la testina di lato e mi guardò coi suoi occhietti vispi finché non mi scappò da ridere. Sembrava divertito.

…Ha mai avuto degli uccelli? Se non ne ha mai avuti probabilmente tutto questo le suonerà esagerato. La gente pensa che gli uccelli siano senza cuore, fredde creaturine, non come i cani e i gatti. La lavandaia tutti i lunedì mi domandava perché non prendevo “un bel fox terrier”. “Un canarino non dà nessun conforto, signorina.” Falso. Terribilmente falso. 

Ricordo una notte. Avevo fatto un sogno orribile – i sogni possono essere spaventosamente crudeli – anche dopo essermi svegliata non riuscivo a scrollarmelo di dosso. Così mi misi la vestaglia e scesi giù in cucina per bere un bicchier d’acqua. Era una notte d’inverno e pioveva forte.

Forse ero ancora mezza addormentata, ma attraverso la finestra della cucina, che non aveva gli scuri, mi parve che il buio mi fissasse, che mi spiasse. D’improvviso, sentii che era insopportabile non avere nessuno a cui poter dire: “Ho fatto un sogno orribile”… Oppure: “Proteggimi dal buio”. Per un istante mi coprii perfino il viso con le mani. E in quel momento sentii un piccolo “Cip! Cip!”.

La gabbia era sul tavolo, e il panno era scivolato in modo da far entrare uno spiraglio di luce. “Cip! Cip!” fece di nuovo quel caro piccolo tesoro, dolcemente, come per dire: “Sono qui, padrona! Sono qui!”. Fu così meravigliosamente confortante che per poco non mi misi a piangere.

…E ora non c’è più. Non avrò mai più un altro uccello, nessun animale di nessun tipo. Come potrei? Quando lo trovai, riverso sul dorso, con l’occhio vitreo e gli artigli serrati, quando mi resi conto che non avrei mai più ascoltato cantare il mio tesoro, mi parve che qualcosa dentro di me morisse. Il mio cuore era vuoto, come la sua gabbia. Lo supererò. Certo. Devo. Tutto col tempo si supera. E la gente dice sempre che ho un’indole allegra. Hanno ragione. Ringraziando Dio, ce l’ho.

…Eppure, senza voler essere morbosa e senza indulgere in – in ricordi e così via, devo confessare che mi sembra ci sia un che di triste nella vita. È difficile dire che cosa. Non mi riferisco al dolore che tutti conosciamo, come la malattia, la povertà e la morte. No, è qualcosa di diverso.

È lì, nel profondo, nel profondo, fa parte di noi, come il nostro stesso respiro. Per quanto lavori duramente e mi stanchi, appena mi fermo so che è qui, in attesa. Spesso mi chiedo se anche

gli altri provino la stessa cosa. Non si può mai sapere. 

Ma non è incredibile che dietro quel suo piccolo dolce canto gioioso fosse proprio questo che sentivo – la tristezza… Oh, che altro?

ARTICOLO n. 84 / 2024

LA SCRITTURA SURREALE DI VAIVA GRAINYTÉ

bip degli scanner che leggono i codici a barre continuano a suonare, monotoni, fino a che tutto il pubblico si è seduto in sala. Le luci si spengono e nel frattempo una delle interpreti sul palcoscenico comincia a cantare, con tono dolce. «Dorme tranquilla la panna, gli yogurt non chiudono occhio»: è una ninna nanna, dedicata ai prodotti, ai magazzinieri, ai registratori di cassa, mentre il negozio chiude e viene inserito l’allarme per la notte. Comincia così, Have a Good Day!, «opera per dieci cassiere, suoni del supermercato e pianoforte», in cui attraverso brani ironici e surreali scopriamo la vita interiore delle lavoratrici di un supermercato, tempio contemporaneo sempre uguale a se stesso, che nasconde una concitazione di cui spesso, evidentemente, non ci accorgiamo.

Lo spettacolo è frutto di una collaborazione nata tra tre artiste lituane, la scrittrice Vaiva Grainyté, la compositrice Lina Lapelyté e la regista Rugile Barzdziukaité, ed è stato inizialmente presentato nel 2013. Un lavoro di grande successo, capace di vincere diversi premi, trasmesso dalla Bbc e dalla radio nazionale lituana e portato in tournée ovunque, e da poco tornato in scena in Italia, alla Biennale Teatro (durante l’ultima edizione diretta da Stefano Ricci e Gianni Forte, prima della nomina a direttore artistico dell’attore Willem Dafoe).

Spicca, per la sua originalità e leggerezza, la scrittura di Vaiva Grainyté, alla sua prima esperienza in un lavoro di questo genere, creato collettivamente. Il libretto di Have a Good Day! è stato tradotto in dieci lingue. «Lo spettacolo è nato dal desiderio di lavorare insieme» racconta l’autrice lituana, «e ci è sembrato che l’opera contemporanea fosse il genere perfetto per noi per una collaborazione, in cui potessimo incontrarci». 

Le dieci cassiere, con età e personalità molto diverse, raccontano dei loro acquisti e di quello che non possono permettersi, pensano al rinnovo del contratto, si preparano per andare a trovare i figli all’estero, immaginano la vita con un lavoro diverso, migliore, anche se poi «vado a dormire e non sogno niente». «Ogni personaggio deriva dall’osservazione, a partire dalle persone che ho incontrato, oppure dalla mia esperienza», spiega Grainyté. «Io tendo a prestare attenzione ai dettagli, a osservare come le persone parlano e si comportano: così ho una specie di archivio di personaggi e storie nella mia testa. C’è un personaggio, ad esempio, la critica d’arte, che riflette sul fatto di lasciare il paese, magari per fare il dottorato, oppure continuare a lavorare come cassiera. Riflette anche sulla politica culturale, sul fatto che la cultura non viene supportata abbastanza: è un personaggio molto vicino al mio alter ego, perché ho studiato storia e critica teatrale e quando ho finito i miei studi ho avuto anch’io questa sorta di crisi su cosa fare dopo, è una connessione autobiografica». In qualche caso, è stato l’incontro con le attrici durante la audizioni a suggerire personaggi e storie, poiché «il processo creativo si è svolto tutto insieme, ispirato anche dalle persone con cui abbiamo collaborato». 

I gesti e i suoni che si ripetono, l’atmosfera claustrofobica, l’interazione non sempre facile con colleghi e clienti, che si risolve sempre in quell’augurio forzato di una buona giornata, ben esprimono l’alienazione che vive quotidianamente chi fa questo tipo di lavori. Ricorda, per molti aspetti, la ricerca sul rapporto tra corpo e lavoro portata avanti dalla danzatrice e performer Anna-Marija Adomaityté, anche lei lituana, che con workpiece ha creato una coreografia intensissima basata sui movimenti ripetitivi di un addetto al banco di un fast food (portata al festival di Santarcangelo nel 2023).

Ma è chiaro che, se in fondo stiamo parlando degli effetti che il sistema capitalista ha sugli aspetti più intimi e ordinari delle nostre vite, si tratta di qualcosa che non è più locale, ma riguarda tutti, dappertutto. «Credo che il successo di Have a Good Day! derivi dal fatto che non parla solo di cassiere che si lamentano dei loro lunghi turni o dei loro bassi stipendi, ma riguarda la loro esperienza umana», riflette Vaiva Grainyté. «Tutti posso riconoscersi in un personaggio. È sorprendente scoprire che un lavoro che ha più di dieci anni sia ancora rilevante. Questo spettacolo è stato in tour in molti posti, dagli Stati Uniti all’Asia, e in tutta Europa: persone di culture molto differenti sono riuscite a trovare un modo per relazionarsi a questo lavoro, quindi credo che comunichi qualcosa di molto universale».

A colpire, nel percorso di Vaiva Grainyté, è l’enorme versatilità, fin dall’inizio, con la scrittura sempre al centro. Con i racconti, le pagine di diario e le poesie, scritte fin da giovanissima, che assumono diverse forme, come negli esperimenti musicali dei Regina Band, in cui l’autrice recita i suoi testi e suona la tastiera in un gruppo di free jazz. 

La prima pubblicazione risale al 2012. «Sono stata in Cina per un anno per studiare il cinema cinese e nel frattempo tenevo un diario», elaborando i piccoli saggi di non fiction che hanno dato forma a Beijing Diaries, in cui racconta con il suo sguardo sempre ironico e un po’ stralunato l’incontro con la medicina tradizionale mentre stava male, oppure un viaggio in Mongolia in solitaria, «ed è così che la mia carriera di scrittrice è iniziata».

L’ultimo libro, uscito nel 2022, è Roses and Potatoes, un romanzo collage in lituano e in inglese, che vuole decostruire gli stereotipi sulla felicità. Nel mezzo ci sono stati due lavori scritti per la radio, Witches Don’t Eat Gummies e Axis Deviation, un libro di poesie, l’adattamento per marionette dell’Ubu roi di Jarry, la band concettuale The Cuckoos, formata da due coppie di gemelli, che si è esibita all’interno di un museo con testi che dibattono su pezzi originali e copie. 

«Lavoro in solitudine, quando scrivo prosa, saggi o poesie», racconta Grainyté. «Quando scrivi poesie non sei tu a decidere, ma sono loro che arrivano, semplicemente. Può suonare forse un po’ romantico, ma è così». Per i lavori collettivi, invece, il processo è differente. «Sono progetti che nascono da inviti o da idee che mettiamo giù insieme», spiega, «penso molto alle persone con cui mi piacerebbe lavorare, anche senza avere un testo preciso in mente. Discutere le proprie idee con altre persone ti mette molto alla prova e ti prende molte energie, ma è sempre molto emozionante. Ogni tanto mi accorgo però che mi manca lavorare da sola e stare solo con me stessa. Ma a volte quando scrivo da sola mi mancano le collaborazioni. Credo sia un’ottima cosa per me poter variare tra questi due canali, è qualcosa che mi fa sentire privilegiata». 

Quanto al suo stile così peculiare, al contempo ironico e profondo, straniante e capace di arrivare a tutti, trova ispirazione lontano dalla letteratura, grazie a uno sguardo allenato a indagare il mondo dell’arte. «Credo di essere stata davvero influenzata dalla pittura e dal cinema surrealista» riflette Vaiva Grainyté. «Mi piace moltissimo Max Ernst, per esempio. C’è una sua citazione molto famosa che parla di un «incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio»: parla dell’interazione tra oggetti molto diversi in uno stesso spazio e credo che questo tipo di paradosso sia molto comune alla mia poesia e alla mia scrittura in generale. Quindi può trattarsi di una situazione molto comune, quotidiana, in cui c’è però qualcosa di strano, di bizzarro, di paradossale. Credo che tutto ciò venga dal mio grande interesse verso il surrealismo». 

Vaiva Grainyté ha anche vinto un Leone d’Oro, assegnato al padiglione lituano per la miglior partecipazione nazionale alla Biennale Arte nel 2019, per l’opera performance Sun & Sea, realizzata ancora insieme a Lina Lapelyté e Rugile Barzdziukaité. 

Il lavoro, che non ha mai smesso di girare i festival dopo l’esordio a Venezia, presenta alcune persone, viste dall’alto, in una spiaggia, in costume e asciugamano. Cominciano a cantare e a raccontare, in uno stile molto vicino a quello di Have a Good Day!, affrontando questa volta, in modo molto singolare, il cambiamento climatico. 

«Una volta in tour con Have a Good Day! abbiamo pensato che forse era tempo di lavorare a qualcosa di nuovo», ricorda la scrittrice. «Avevamo questa immagine, delle persone in costume osservate dal punto di vista del sole, ma non sapevamo ancora cosa avrebbero cantato. Abbiamo raccolto idee per un paio d’anni, partendo da questi corpi mezzi nudi, pensando alla loro fragilità, alla mortalità, a quella della terra, e dunque alla crisi climatica. Ma è un tema così grande, come si fa a parlarne, a scriverne?». 

«È importantissimo occuparsene», continua l’autrice, «ma volevamo evitare una retorica minacciosa, le immagini di morte, le notizie sui mari pieni di plastica. Stavo leggendo molto riguardo al cambiamento climatico, mi faceva molta ansia e non sapevo cosa fare. Ma a poco a poco ho capito che poteva funzionare, come in Have a Good Day!, l’idea di fare un ingrandimento su alcune micro storie, raccontarle da una prospettiva personale, per prendere i temi ecologisti e renderli più vicini, più concreti». C’è un personaggio, the Complaining Lady, che si sorprende quando va a camminare in un bosco e trova dei funghi a dicembre, totalmente fuori stagione. C’è il maniaco del lavoro, che è esausto e sorride fingendo che vada tutto bene. E anche qui, alcuni brani sono stati ispirati direttamente dagli attori coinvolti, perché le audizioni si sono svolte prima che il libretto nascesse. «In quel periodo stavo leggendo della barriera corallina che muore e degli esperimenti di alcuni scienziati che per ricreare i coralli stavano usando delle stampanti 3D», ricorda Vaiva Grainyté. «Abbiamo incontrato due sorelle gemelle, venute alle audizioni, e quando le ho viste ho pensato: “Ma forse una di loro è stampata!”, e così, per la combinazione casuale di articoli scientifici e immaginazione, improvvisamente sapevamo di cosa avrebbe parlato la canzone che avrebbero cantato loro due».

Nel frattempo, Vaiva Grainyté continua a sviluppare nuove idee, esplorando ambiti sempre diversi. Per l’autunno sarà pronto un nuovo progetto per la radio, una storia d’amore queer realizzata tramite interviste, un lavoro che sarà presentato in Lituania. E poi, entro la fine dell’anno, l’autrice sarà in Francia per un periodo di residenza, ospitata dalla Fondazione Camargo, all’interno di un parco nazionale in Provenza, per continuare le sue riflessioni sul clima che cambia. «Ancora non so esattamente su cosa lavorerò», racconta la scrittrice, «ma avrò l’opportunità di stare a contatto con alcuni scienziati e conoscere le loro ricerche, con l’idea di trasformarle in forma poetica. In questo momento non voglio avere un progetto preciso, ma avere il tempo per pensare con calma a cosa succederà, ai prossimi passi. Questi anni sono stati molto intensi».

ARTICOLO n. 83 / 2024

NOLITE TE BASTARDES CARBORUNDORUM

A una settimana di distanza dal risultato delle elezioni statunitensi che hanno visto trionfare per la seconda volta Trump, il doveroso e logico timore che i prossimi quattro anni possano essere una tragedia per molte, moltissime persone appartenenti alle categorie marginalizzate non si placa.

Se all’alba dei risultati elettorali lo sgomento e la disperazione la facevano da padroni a tutte quelle reazioni affidate da migliaia e migliaia di persone ai social media, dopo sette giorni il dolore si è trasformato in azione e perfino i nostri feed europei – X e Tik Tok soprattutto – si sono riempiti di una vera e propria catena di video di chiamata alle armi da parte delle donne e delle persone della comunità LGBTQ+ nordamericana.

Facendo un passo indietro per capire come si sia arrivati a una situazione sicuramente nuova e potenzialmente frizzante, la mia mente si sofferma innanzitutto sulle promesse di Trump.

Se per quanto riguarda la politica estera, sia lui che Harris hanno sempre avuto idee piuttosto genocidiarie (dove “piuttosto” è un eufemismo), in politica interna il tycoon ha saputo avvicinare molto elettorato democratico con la promessa di una diminuzione delle tasse, un aumento del lavoro, sgravi fiscali, una propaganda mirata a targhetizzare le minoranze e una bella infarinata di complottismo come dessert (dalla negazione della crisi climatica ai deliri sulla comunità LGBTQ+, dai gatti mangiati a Springfield alle falsità sui migranti). I risultati di questa campagna che mira a rassicurare l’elettorato (affamato, impaurito, arrabbiato) si vedono chiaramente nelle proporzioni dei votanti per Trump: il 63% degli uomini bianchi, il 49% delle donne bianche, il 47% degli uomini latino-americani. Le donne nere, quelle di origine sudamericana e quelle appartenenti ad altri gruppi etnici hanno ampiamente dato fiducia a terze parti o ai democratici.

E questo perché, a differenza di moltissime donne bianche Gen X (questa la fascia femminile che più ha votato per Trump), hanno molto più chiaro cosa ne sarà dei diritti delle persone con utero nei prossimi 4 anni. 

E se le donne bianche e borghesi di mezza età non si pongono troppo il problema poiché si godono ancora per poco il privilegio di classe, etnia e quello di essere vicine alla menopausa e quindi non più corpi utili per la funzione riproduttiva, le giovani donne di tutto il blocco statunitense, soprattutto quello degli stati repubblicani, si sono unite in un coro digitale senza precedenti.

Utilizzando i social come cassa di risonanza e strumento per creare una vera e propria catena. Prima le donne e poi le persone alleate si sono unite in una serie di reti che, da quanto sono partecipate, sono arrivate anche oltreoceano. 

Nei giorni immediatamente successivi all’elezione di Trump, la rete si è riempita di consigli pratici da attuare in velocità ovvero prima che il presidente entri alla Casa Bianca a gennaio.

Ci sono centinaia di migliaia di video che consigliano di comprare Plan B – ovvero la pillola del giorno dopo – e farne scorta in modo da poterla garantire alle persone della propria comunità che non possono comprarla. Lo stesso consiglio vale per la Ru486, ovvero la pillola a base di mifepristone che permette di ricorrere all’aborto farmacologico. Negli Stati che mantengono intatti i principi di autodeterminazione previsti dalla Roe v Wade, questa si può acquistare con prescrizione medica direttamente in farmacia. Entrambi i farmaci hanno una validità di oltre quattro anni.

Tra i consigli più importanti sempre riguardanti la salute riproduttiva c’è quello di ricorrere prima di gennaio a contraccezione ormonale a lunga durata come IUD e dispositivo sottocutaneo, che hanno la durata di circa quattro anni o più, in base al modello. Molte persone consigliano anche di farsi legare le tube, e di non portare avanti gravidanze nei prossimi anni poiché il rischio di sepsi e di morte della gestante potrebbe essere elevato in quanto in alcuni Stati non è garantito neanche l’aborto terapeutico.

Considerando i pericoli anche legali a cui vanno incontro le persone che vogliono interrompere una gravidanza, molti profili social consigliano di cancellare le app di tracciamento del ciclo mestruale in quanto le compagnie che le gestiscono, in caso di indagine e su richiesta dei singoli Stati, potrebbero dover rilasciare i dati privati delle utenti. E, in questo senso, ogni anomalia del ciclo mestruale potrebbe diventare un motivo di dubbio o ulteriore indagine.

So che d’impatto tutto questo sembra un capitolo de Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, ma la distopia in cui è ambientata la storia di June Osborne/Difred non è distante dalla realtà, soprattutto ora che il Project 25 potrebbe essere supportato da uno dei presidenti degli Stati Uniti più conservatori – e imprevedibili – della storia.

Il Project 25, un programma in più punti e di oltre mille pagine che dovrebbe garantire una transizione repubblicana di tutti gli Stati, è stato studiato dalla Heritage Foundation, un’organizzazione iper-conservatrice che mira a ridefinire i ruoli istituzionali all’interno del governo federale. Seppure Trump ne abbia preso le distanze, la linea politica che ha adottato in passato nei confronti delle politiche relative alla salute riproduttiva e ai diritti delle famiglie omogenitoriali e delle persone trans è molto vicina al documento redatto tra le altre cose da alcuni dei suoi fedelissimi che hanno collaborato con lui nello scorso mandato.

Il delirio conservatore e reazionario alla base del Project 25 è quello più caro al pensiero repubblicano e si fonda su principi biblici antiscientifici e discriminatori.

Per questo, vista la vicinanza di Trump a suddette idee distorte e soprattutto in seguito all’abolizione della Roe v Wade, chiunque abbia un utero o non rispecchi in pieno i valori “tradizionali” ha iniziato a farsi due domande.

Se le categorie marginalizzate dunque si stanno organizzando, gli uomini bianchi repubblicani – soprattutto gli uomini bianchi repubblicani appartenenti alla GenZ – si stanno riversando sui social commentando ogni post, reel, video, storia femminile di organizzazione e logica preoccupazione con la frase “your body, my choice” ovvero “corpo tuo, scelta mia”. La frase è stata resa virale all’alba della vittoria di Trump dal fenomeno del web e neonazista Nick Fuentes.

Fuentes, che con questa frase minaccia un intero genere di violenza sessuale, coercizione riproduttiva e misoginia, ha attivato un effetto a catena nei giovani maschi statunitensi che si sono mossi in gruppo targhetizzando tutti i video delle donne sopracitate. L’effetto è stato quello di una vera e propria onda di minacce di stupro e di morte verso il genere femminile condito di insulti razzisti o transfobici, misogini e abilisti.

Ma è proprio dopo questo evento che il fenomeno neofemminista statunitense ha preso una nuovissima e inaspettata piega. Internet si è infatti riempito di video di risposta. Una risposta, come dire, peculiare e sicuramente per me, da questo lato dell’Atlantico, inattesa.

Sono decine e decine i video di giovani donne che, ripetendo la frase di Fuentes, imbracciano un fucile o caricano una semiautomatica guardando dritte nella fotocamera dello smartphone. Alcune ripetono la frase maneggiando asce o armi da taglio, altre praticando arti marziali o autodifesa.

Sono invece centinaia i video femminili – sarcastici – sull’acqua tofana, ovvero il veleno inventato dall’omonima Giulia Tofana che, leggenda vuole, fosse usato dalle donne palermitane del diciassettesimo secolo per uccidere i mariti dai quali, per legge, non potevano separarsi e dai quali subivano ogni tipo di sopruso. 

Fanno molto sorridere le risposte piccate di giovani uomini bianchi che si lamentano spaventati del fatto di non potersi più fidare di bere da bicchieri offerti da donne o condivisi con loro. Fa molto sorridere perché se per loro la minaccia di un possibile avvelenamento o di essere drogati è estremamente remota, il genere femminile vive con questa paura quotidianamente. 

Non solo: sono previste nelle prossime settimane due manifestazioni generali di sciopero delle donne su modello svedese, unite a movimenti di boicottaggio della piattaforma di Musk, di Amazon e dei grandi colossi capitalisti, proprio in vista del Black Friday.

Ma non finisce qui: oltre alla corsa agli armamenti e alla mitologia, la risposta più impattante a questa fiumana di minacce di stupro è stata il doxxing. Il doxxing è la pratica di rendere pubblici indirizzi e dati personali delle persone via web. Solitamente usata nella condivisione non consensuale di materiale intimo, di questa pratica, in questo preciso momento storico, se ne è riappropriato velocemente il genere femminile, esponendo al proprio pubblico social gli indirizzi, i luoghi di lavoro, i nomi degli uomini che avevano minacciato le creator di stupro e morte.

Tra screenshot inviati alle famiglie dei molestatori, tra mail consegnate a università e luoghi di lavoro degli abusanti, il caso più eclatante riguarda proprio Nick Fuentes, il cui indirizzo di casa è stato doxxato sul web e lo spavaldo neonazista è sparito dalla circolazione digitale da qualche giorno, dopo aver blurrato la propria abitazione su Google Maps.

Il fenomeno in cui si inserisce questa risposta forte e coesa, che arriva dopo anni di battaglie come MeToo e Black Lives Matter (che non hanno avuto l’eco che avrebbero dovuto avere) ha un nome, e sotto il suo hashtag i contenuti sono ormai centinaia di migliaia. FAFO, acronimo che sta per Fuck Around and Find Out, ovvero: se fai una cazzata, aspettati le conseguenze. 

Perciò, davanti a comportamenti che sono sempre rimasti impuniti – dai governi, dalle piattaforme, dalla società, dagli altri uomini, dai media, dalla collettività, dai giudici, dalle famiglie e dalle scuole di ogni grado – l’unico strumento rimasto alle donne e alle categorie marginalizzate per ottenere una parvenza di sicurezza e tranquillità a quanto pare è rispondere a tono.

Se i maschietti conservatori e i boomer europei miagolano già inneggiando alla cancel culture, ho come l’impressione che a questa nuova, forte generazione femminista importi meno di zero delle lamentele democristiane di categorie di persone che non hanno mai protetto dalla violenza o fatto qualcosa per arginare il fenomeno.

Ho l’impressione che proprio lo scontento che arriva da anni in cui la svolta progressista sembrava vicina dopo i due movimenti citati qualche riga fa, unito a un gigantesco menefreghismo istituzionale di tutto l’Occidente, abbia lasciato ben poca scelta a chi subisce violenza. Ovvero: organizzarsi da soli, fare mutualismo dal basso e rispondere alla violenza senza abbassare più il capo.

Sono particolarmente impressionata dalla veracità e assoluta determinazione di questa risposta alla chiusura conservatrice che arriverà con la nuova presidenza Trump. Ne sono impressionata perché da noi, che non viviamo tempi molto dissimili, la risposta è stata molto diversa.

Siamo ancora nella fase in cui, crisalidi, condanniamo le risposte maleducate alle minacce e agli insulti misogini. Siamo ancora nella fase in cui d’aborto non ci si preoccupa molto, perché forse pensiamo che la legge 194 ci protegga, quando invece è ormai quasi del tutto inapplicata. Siamo nella fase in cui l’interesse è sempre altrove, perché tanto pensiamo che qualcuno alla fine ci salvi il culo – o l’utero, o il matrimonio ugualitario, o l’omogenitorialità, o la possibilità di manifestare o l’accessibilità al lavoro – eppure mi sembra ormai molto chiaro che non andrà così.

I movimenti frammentati, la sterile critica che vuole il digitale come superficiale, le piazze poco partecipate, le attiviste e i movimenti dal basso che si occupano di aborto e mutualismo lasciati soli, gli intellettuali spariti in una nuvola di fumo. In Italia abbiamo più paura del giudizio dei compagni che dell’estrema destra e questo ha frenato la nascita di una nuova ondata di femminismo esplosiva come quella statunitense.

Non so cosa succederà nei prossimi quattro anni di presidenza Trump. Una cosa però so per certo: la brutta figura a livello mondiale che ha fatto a poche ore dall’elezione e i riflettori di tutto l’Occidente puntati sulle politiche discriminatorie e violente del Project 25 saranno un deterrente non da poco alle derive reazionarie che ci si aspetterebbe.

So per certo anche un’altra cosa. Negli Stati Uniti il femminismo di quella che a tutti gli effetti sembra essere una nuova ondata è trainato dalle giovani donne nere e dalle persone trans. Le giovani donne bianche, che hanno saputo decolonizzare il proprio sguardo, sono scese al loro fianco, creando un fronte coeso che dimostra di aver imparato la lezione più importante della distopia ideata da Margaret Atwood e che sta diventando realtà per gran parte del mondo Occidentale. Questo nuovo movimento lo ha imparato bene: Nolite te bastardes carborundorum, non lasciare che i bastardi ti annientino. Chissà quando anche noi, nella vecchia Europa, glielo impediremo.

ARTICOLO n. 82 / 2024

QUELLI CHE CAMMINANO PER STRADA

intorno a "paradiso" di Stefano dal bianco

C’è intorno a Paradiso di Stefano Dal Bianco una sorta di distanza e di silenzio. Se ne comincia la lettura per presto dar conferma di un ingresso avvenuto. Entriamo in un luogo che l’autore non teme, titolando il volume, di identificare con paradiso, senza articolo (non l’incontestabilità del determinativo, non la languida vaghezza dell’indeterminativo), quasi si potesse fermarlo nella permanenza di un bene.

Siamo dunque in un luogo, e si tratta di un luogo che si lascia individuare toponomasticamente: c’è Orgia, c’è l’alta valle di Merse. Siamo sulle colline senesi, siamo dove il poeta ha riconosciuto dei confini entro cui dimorare e deambulare, entro cui esercitare i sensi – il suo la vista, quello del cane che lo accompagna l’olfatto. Nessuno è chiamato a manifestarsi se non questa coppia compresa fra l’altezza del cielo e la prossimità della terra. Benché si muovano entrambi, esploranti e complici, è come se fossero entrambi accarezzati dal fantasma dell’immobilità. Avverti i passi che rallentano, lo sguardo confitto, la tensione perlustrativa che vibra «…in questa mattinata quasi astratta / dove nessun pensiero giunge a compimento / si fa strada l’idea di un nostro posto, qui, / un dolore calato dal cielo di piombo / che ci atterra e ci libera nel tutto».

È come se fosse il vibrare «di vita immobile» a disegnare la mappa dettagliatissima di bipede e quadrupede. L’avvicendarsi del giorno e della notte, il cangiare della qualità della luce e delle stagioni, del vegetabile e del tempo atmosferico riempiono i righi musicali insieme alla erogazione degli odori: tutto è compreso dentro una scena che si sottrae alla tentazione allegorica e che tuttavia desta un affanno gioioso, sempre sul punto di dire, sempre sul punto di essere detto.

Nei quindici versi che portano in esergo «Acero di Arquà / che quest’anno compie quarant’anni» si dice per l’appunto di questo acero che si muove, che par sorrida, e che il suo provare «qualcosa di nostro» è un tentativo «di essere nel vento / un accordo di foglie / un fremito di luci nella luce». A una contemplazione così ravvicinata, il poeta accerta l’evidenza di una serenità senza secondi fini (per usare un’espressione destinata a ritornare) che dunque non è né impettita dichiarazione di autorevolezza, né ipotesi di salvezza: èsemplicemente, non esibisce significati, fa «quello che deve fare», è «nel suo chiuso riso, / paradiso». 

Dal Bianco fa un moderato uso della punteggiatura, di virgole soprattutto, ma qui la cesura è forte, è un respiro, una pausa, prima di lasciar scivolare sull’acero quarantenne l’attributo cruciale. Paradiso è una condizione, dunque, una serenità che si consuma e si disperde in riso, nel puro «riso dell’universo» di dantesca memoria. 

Che questo “riso” stia nella prima sezione del libro, Appuntamento al buio, ci consente di continuare a leggere senza mai confondere il paesaggio naturale con un fondale. 

Dovessimo registrare l’azione del racconto che formicola in Paradiso – racconto filtrato da una cautela narrativa più discreta che minimale – la sentiremmo come avventura, l’avventura di un poeta che si cala, persino con un cenno di sfida sperimentale (i versi dettati a un cellulare), nella residualità della natura richiamandone, senza attrito drammatico, l’assiduità, il suo irresistibile, antichissimo dispiegarsi.

All’evidenza quasi invisibile dei sentieri fa riscontro la deambulazione assetata del vedere: il vagare di Paradiso non è quello preromantico presago di mete, ma neppure quello della Wanderung romantica così perduta nel mero transito, nella vanificazione di ogni forma di ritorno.

Qui si sta. Qui si coltivano serenamente una deliberata assenza, un affrancamento dall’umano, «perché non c’è niente di umano nell’umanità». Al paesaggio che diventa memoria nell’ultimo Andrea Zanzotto, presentissimo nella formazione di Dal Bianco, si oppone, ma forse non fa che succederne un altro non perente, non plastificato, non preda di vitalbe, lasciato tuttavia distendersi in concava e vitale «sovraimpressione».   

L’esercizio della solitudine non si consuma nel vuoto: al contrario, chi parla in questi versi non fa che avvertire la pienezza incompiuta dell’accadere, un accadere dal quale discendono ascolto e voce, che, se vengon meno, «tanto vale allora mutamente / uscir di bosco e andare fra la gente». 

Che cosa sia l’avventura del poeta lo dice il passo che avanza fra le ragioni di un giovane frassino, la «perplessa maestà dei castagni», la storia di una foglia che cade, i «fiordalisi sul sentiero», il verde leggero dell’erba nuova, il tappeto delle foglie secche, una coppia di daini, una volpe grigia arresa alla morte. 

Non si tratta di una restituzione della o alla natura: quelli citati sono dettagli che il luogo distribuisce acciocché l’avventura si compia, e per compiersi è bene che appaia un compagno, Tito il cane. I vaganti sono due, e ciascuno ha obiettivi suoi – condivisibili ma non reciprocamente assimilabili.

Per entrambi la geografia è decisiva: la geografia degli odori e degli eccessi di memoria, la geografia «di luci e ombre» e la soverchiante «fragranza del mondo». Uomo e animale dividono il pericolo e la grazia, il lancio del sasso nella corrente e la scoperta del mondo rasoterra; vanno esplorando l’aria ferma e i miraggi della paura.

Ci si chiede dove sia questo luogo, chi lo ha voluto così. Non è dagli uomini abbandonato: tanto che gli ulivi son potati, i prati falciati, il fango inciso dalle ruote. Si suppone che oltre l’uomo e il cane ci sia gente dei borghi che si chiude «silenziosamente in casa», contadini, lavoratori, e se non ci sono son passati, hanno lasciato tracce; e di tracce è fatto il permanere, tanto che il poeta lo dice esplicitamente: ci si può stancare del paesaggio, e allora «basta posare gli occhi sull’asfalto / che tanta parte ha nella geografia del luogo / e nella storia che restituisce». Ci son le crepe della gelata del duemiladieci, le toppe lasciate dagli operai dell’acquedotto, i lavori del gas: non si tratta di «paesaggio alternativo» ma di tracce, per l’appunto, che possono portare «a casa di qualcuno», all’eco «di un pensiero che era stato / e di uno che verrà». E tracce sono anche quelle lasciate dai grandi ungulati sulla terra argillosa della Merse («bassorilievi / che il sole ha avuto il tempo di fissare»), e che all’acqua conducono come esortazione a proseguire. 

Se è paradiso, è questo: il luogo in cui per segni minimi, per voci, per voli, per nuvole e notturni arpeggi di luce si suppone timida ma audace una certezza dell’essere e dell’essere lì, proprio lì.

Se non ci fosse Tito che ha bisogno di te «per essere felice / ma se ne infischia della tua felicità», questa avventura cederebbe la scena tutta intera a una natura insensibile all’accadere, all’imprevisto, insomma al sospetto che una storia esista. E invece ecco il «paradiso di riflessi» che in primavera attrae Tito, ecco lo sguardo che chiede un altro sasso lanciato, il ruolo «tanto difficile da sopportare» al quale inchioda il suo compagno. Sì, perché Tito «non è costretto a dominare niente / mentre il suo amico si fa serio / dall’alto della sua incostante umanità». Mitologicamente uomo e cane si sentono dèi, l’uno con il naso rasoterra «perché tutto / profuma di qualcosa», l’altro con il naso per aria «perché il profumo è altrove, / perché niente mi basta sulla terra».

Questo «niente mi basta sulla terra» mi sembra perno cruciale della poesia di Dal Bianco, il rovello, grave e sorridente insieme, che inventa, dal luogo traendo le coordinate, un paradiso come lui l’ha pensato, come, totus in illis, il viandante l’ha trovato. Senza stabilire alcuna forma di discendenza diretta, si pensa al Zanzotto dialettale, quando, in Idioma, evoca una Maria Carpela degna – sia pur dopo aver cacciato all’inferno «tuta, tuta quanta ‘la realtà’» – di un paradiso suo, «gnentaltro che ’l paradiso / come che ti tu l’à pensà». 

Può ben darsi che niente gli basti sulla terra, ma il poeta sa di cosa sono fatti i colori fra i quali almeno «è quello che fa per noi», presume l’«ultrasuono d’angelo» che accende la mente di Tito, la paura di una vipera che ha sbarrato il passo, la luce del tramonto «senza secondi fini», la «luce azzurra delle nubi» e via citando dal catalogo del vedere, e del sapere, del dirsi uomo con un cane.

Umanità torna più volte a segnalare un limite, una condizione, certamente un’assenza: chi sia stato messo al bando (se mai ci furono peccato e condanna) o chi sia stato chiamato a dimorare (se mai ci fu premio o fuga) non è dato sapere. Il paradiso di cui parla Dal Bianco è compreso nel raggio di uno schivo ma forse anche esitante auspicio che i confini del mondo coincidano con il profilo del Monte Amiata, e che siano i crepuscoli, o meglio che sia il valore della luce (anzi delle luci: non sono esclusi azzurrità di nubi, lucciole, lampioni), a consegnare l’azione e l’inazione alla «voce del mondo». Siamo di fronte a un’esclusione consapevole, come se l’umanità (e così pure la terra) rischiasse di creare confusione. In questo luogo non ci sono né arcadie né appartenenze, c’è il semplice emergere di un teatro naturale.

Il compagno di Tito è un uomo orazianamente contemplativo, Tito è cane che perlustra e scopre diversivi», talora si sottrae, sparisce ma riappare, ma soprattutto è misura del tempo («non mi va di aspettare Tito / più di una vita») e di quanto nel tempo, ferinamente, si muove. Tito, che pur porta sul muso un sorriso, ha avuto in dotazione la certezza animale del nemico: «che cosa vede nella notte un cane che non sia / sacrosanta illusione che vi sia / un nemico nascosto e invisibile nel bosco».

Si dà conto di spazi talora percorsi almeno in parte in auto: si avverte la presa di fiato di un avvio, «Come ormai tante altre volte stamattina». Il disegno ritmico distende una visione che si vuole innestata nel tempo: questa mattina ripete altre mattine, uomo e cane attraversano in auto «uno sterrato pianeggiante»; lo fanno perché poi si va a piedi «in un grande prato verde seminato a foraggio». Sul prato ci sono apparizioni di volatili (un airone, una garzetta, un fagiano, due ghiandaie) che alzandosi in volo da un fosso attizzano la vergine curiosità di Tito su «gli abitanti dell’acqua», creature nuove, non incontrate ancora. Nella sequenza di versi distesi, descrittivi, si situa, netto, al centro della poesia, l’endecasillabo piano «ha scoperto finalmente Tito» ovvero il verso eroico, lo schiocco dell’avventura. Raganelle e pesci entrano nel suo privato catalogo di viventi. Ma il fosso divide il prato da un altro prato, e di là ecco il calare delle nubi, il vento che fischia, nulla si vede più, né più si sente «l’animale di dentro»: la scena si spoglia, si spoglia di presenze insieme all’animale «che scappava in lontananza / in fondo a ogni prato / portandosi con sé una parte di noi». Nell’intervallo fra dentro e fuori sembra venir meno la certezza che il trasferimento del mattino aveva promesso. Come ormai tante altre volte stamattina ci si dispone a vivere e, consumata l’esperienza della scoperta e dunque di un’acquisizione, ci si dispone a perdere. Non ci sono strappi, neppure traumi, semmai l’aderenza a sconfessare, dentro l’abituale, l’abitudine.

C’è nella poesia di Stefano Dal Bianco un’attitudine geometrica che dà misure e le confonde, un’ondulazione prosodica non meno collinare del paesaggio con il quale progressivamente si prende confidenza.

Mi piace che i suoi versi calchino la terra, che non smettano di tornare alla terra sia attraverso la pertinenza della contemplazione sia attraverso l’esperienza del cane Tito, un’esperienza che talora diventa pensiero, un pensiero «contagioso», «grande abbastanza da comprenderti / come farebbe un prato / di una tana di talpe». Sono, quelli di Paradiso, versi che si lasciano contenere da uno spazio in cui leggiamo continuità, insistenza, ammaliata vigilanza, nonché latebra (quella «tana di talpe»), ma anche quella sorta di rumore che fanno «quelli che camminano per strada», «nell’aderire al suolo / dove ogni storia che trova un inizio / a ogni passo rinnova la sua fine in sé / in sé soltanto».

Il tempo si consuma e si rinfranca, e pure si annulla, eppure i confini dai quali l’umanità sembra esclusa lasciano palpitare un sentore del mondo che non si smemora, che, anzi, è l’avventura vegetale e animale di cui Tito e il suo compagno conoscono le quotidiane stazioni.

Credo che Paradiso sia opera della cui importanza dovremo prendere atto come di uno scarto, di un segnale, di una soglia. Da qui in avanti, e non solo ora mentre tentiamo di rincorrere il generoso sgomento che ci ha lasciato.

ARTICOLO n. 81 / 2024

DENTRO LO STESSO SOGNO

Un dialogo a cura di Salvatore Toscano

Pubblichiamo un estratto dal volume Dentro lo stesso sogno. Conversazioni (a cura di Salvatore Toscano, Wojtek, 2024) in libreria in questi giorni. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Salvatore Toscano: Sapreste individuare il momento esatto in cui avete pensato che sareste diventati scrittori? Quando avete capito che nel vostro destino c’era la letteratura? 

Mircea Cărtărescu: Non ho mai avuto un momento del genere, non ho voluto diventare uno scrittore e persino oggi la parola scrittore mi provoca un particolare disagio. La scrittura non è il mio mestiere. Non è nemmeno la mia arte, attiene piuttosto a una sorta di istinto, come quello della sopravvivenza o della riproduzione. Scrivo così come la chiocciola secerne il proprio guscio, o come l’occhio produce lacrime. Mi sento fatto per questo e mi sento inesistente al di fuori di questa attività che devo svolgere, proprio come devo respirare, poiché altrimenti non potrei vivere. Ho scritto versi e prosa attorno ai quindici anni, ma solo dai venti ho scritto in maniera intensa, sistematica, nel campo di forze di una vera ispirazione. Nemmeno allora ho mai pensato di pubblicare. Sognavo, in realtà, di restare un autore puro, che scrive solo per se stesso, poiché persino la semplice pubblicazione di un testo mi sembrava un compromesso. Leggevo poesie e racconti in cenacoli studenteschi, e quei testi sono stati notati da critici letterari e da editori di quel tempo, così ho debuttato con la poesia a ventiquattro anni. Da allora ho tratto dalla mia attività di scrittura, che è in realtà un continuum, una trentina di volumi, ma ancora oggi non mi sento né uno scrittore, né un poeta, né un critico, bensì semplicemente un uomo che scrive, e che continuerebbe a farlo anche se nessuno sapesse più leggere. E persino se restassi solo nell’intero universo. La scrittura non è per me una forma d’arte, ma piuttosto il senso stesso della mia vita. Non scrivo per raccontare agli altri storie, ma per potermi rifugiare nella mia stessa narrazione, come la chiocciola nel suo guscio. 

Antonio Moresco: Una volta sbloccato, dai quindici ai diciannove anni ho letto molto e ho anche scritto molto, tutte cose che ho poi distrutto a vent’anni: poesie, diari, romanzi, racconti, testi teatrali… Intanto però continuava la mia difficoltà ad apprendere ogni altra cosa che non fosse la lingua italiana, gli scrittori e i poeti, e a scuola venivo ripetutamente bocciato e umiliato, i miei compagni andavano avanti e io restavo indietro, eterno ripetente. Però almeno avevo trovato un filo nella mia vita, dei fratelli e delle sorelle, delle persone che ardevano e la cui luce arrivava fino a me attraverso lo spazio e il tempo. Poi mi sono gettato in altre imprese e follie e, per dieci anni, non ho più letto e scritto niente, ho tradito e rinnegato quella parte di me, che mi sembrava una debolezza da cui dovevo separarmi. Ho vissuto randagio in diverse città d’Italia e sono sprofondato nella vita senza cinture di sicurezza, sono andato allo sbaraglio, ho conosciuto persone e mondi che altrimenti non avrei mai conosciuto. Sulla mia carta di identità c’era scritto: operaio. Ero l’ultimo della fila in mezzo agli ultimi della fila e tale pensavo che sarei rimasto per sempre. Ho lavorato nelle fabbriche, nelle discariche, in officine sottoterra, ho fatto il bracciante, il facchino, sono stato processato più volte e incarcerato. Mi ero abbandonato a illusioni secolari e poi avevo sperimentato quella che il mio amato Leopardi chiama “la strage delle illusioni”. A trent’anni, ritornato a Milano in condizioni fisiche e psichiche difficili, in un monolocale di periferia vicino a un imbocco autostradale, di notte, chiuso nel gabinetto per non svegliare mia moglie e mia figlia che stavano dormendo nell’unica stanza, seduto sulla tazza del water con il quaderno sulle ginocchia, sono nato veramente e finalmente come scrittore e ho cominciato a scrivere ciò che avrebbe visto la luce soltanto quindici anni dopo. Da quel momento la letteratura (chiamiamola così, anche se è una parola insiemistica che non vuole dire niente e che non mi piace) è stata per me l’unica strada nel buio, che non mi potevo permettere di tradire e rinnegare una seconda volta nella mia vita. Perciò sono d’accordo con quello che dice Mircea. Neanch’io mi sento uno scrittore, mi sento qualcosa d’altro che non saprei definire, qualcosa di più e di meno di uno scrittore. Io sono uno con le spalle al muro, per me scrivere, inventare, prefigurare era e continua a essere una questione di vita e di morte, non una professione, un mestiere, una carriera.

S.T. Nel linguaggio religioso si parla del problema della teodicea, cioè della presenza del male nel mondo: che rapporto c’è tra le vostre opere e il male? È ancora viva in voi l’illusione adolescenziale di poter salvare o redimere l’umanità attraverso l’arte? 

M.C. Non ho mai pensato di salvare l’umanità attraverso la mia scrittura, ma semplicemente di scrivere bene. Mi sembra che sia sufficiente. In questo modo salvo almeno me stesso. Per quanto riguarda la presenza del male nel mondo, essa è naturale. Il mondo è un’opera d’arte, come un romanzo. Non è possibile immaginare un romanzo esclusivamente con personaggi positivi. Sarebbe un idillio ridicolo e noioso. Gli esseri umani a tavola hanno bisogno di spezie, di pepe e di peperoncino, e nella vita hanno bisogno di lottare, di soffrire, di sperimentare vittorie e sconfitte, di confrontarsi con le proprie debolezze e i propri difetti, come pure con quelli altrui. Senza la presenza del male non avremmo la sensazione che la vita abbia un senso. Non abbiamo bisogno del paradiso, ma della vita in terra, con il nostro essere fatto di carne, ossa e intelletto. Il male è lì per combatterlo con tutte le nostre forze, per mostrare in tal modo che siamo esseri umani. Salvo che non lo sconfiggeremo mai definitivamente, poiché è radicato profondamente in noi. Non credo che la bellezza salverà il mondo, credo però che il vero, il bene e il bello debbano risplendere da qualunque nostro scritto, per dargli senso e finalità. Tutto ciò che è fatto con amore è sacro, per questo ogni libro dovrebbe avere la drammaticità umana dei Vangeli. Per coloro che scrivono letteratura, ciò significa scrivere bene, senza compromessi, senza pensare “ai frutti delle azioni”, come è detto nella Bhagavadgītā: fama, danaro, premi, recensioni entusiastiche e altri riconoscimenti illusori. Ribaltando la frase di Wittgenstein, “Tutto ciò che può essere detto, può essere detto in modo oscuro, complicato, simbolico, profetico. Su ciò che può essere detto con chiarezza, occorre tacere”. Potrebbe essere questo il motto degli autori che io prediligo.

A.M. C’è, a mio parere, una doppia tentazione per lo scrittore, un doppio piano inclinato e un doppio vicolo cieco: o di usare la letteratura come una cattedra moralistica diventando l’edificante cantore del bene, o di usarla come una cattedra immoralistica diventando l’altrettanto edificante cantore del male. Lo scrittore deve guardare in faccia la Medusa senza farsi pietrificare dal suo sguardo. Ma se uno scrittore non ha il coraggio di andare vicino al male, che scrittore è? Io credo di andarci vicino, certe volte anche molto o troppo vicino, perché il male di cui è pervaso il mondo deve essere fronteggiato, come hanno sempre fatto – ciascuno a suo modo – gli scrittori e i poeti che amo: Dante, Shakespeare, Cervantes, Swift, Kleist, Leopardi, Dickinson, Balzac, Dickens, Melville, Dostoevskij, Kafka… Se io mi illudo di poter salvare e redimere l’umanità attraverso l’arte? No, però continuo lo stesso a non darmi per vinto, a sognare, a fantasticare, a delirare, a combattere, anche se non ho speranza.

ARTICOLO n. 80 / 2024

ISABELLA DUCROT: I MOTIVI DI UN INCONTRO

Anni fa, al filatoio di Caraglio, vidi una piccola mostra su Escher. Non ne ricordo molto oggi, se non che una didascalia, Motivo per un tappeto, era stata tradotta in inglese “Reason for a carpet”. Uno svarione memorabile e a suo modo istruttivo. Motivo viene dal latino movere: che la fantasia usata per un tappeto sia in qualche modo anche un movente, una spinta verso qualcosa, è un’idea che da allora non mi ha più abbandonato, e non poteva non tornarmi in mente quando ho incontrato Isabella Ducrot.

motivi – teorici o figurativi che si voglia – per interessarsi a lei di sicuro non mancano, e difatti Monica Stambrini le ha dedicato il suo ultimo film, Tenga duro, signorina!, da qualche giorno in sala. Un film che, proprio come la protagonista che racconta, è pieno di energia e di meraviglia, e non ha tempo né voglia di commuovere, perché troppo occupato a raccontare l’entusiasmo del fare. Stambrini e Ducrot si sono conosciute anni fa quando, per raccogliere fondi per produrre un film porno, la regista organizzò un’asta a Roma con i lavori inediti di vari artisti. 

Ducrot allora tirò fuori dal cassetto dei disegni erotici che, a sentir lei, non voleva nessuno. Furono venduti tutti (uno se lo aggiudicò Bernardo Bertolucci) e da quell’incontro le due non si persero più di vista. Il titolo del film, preso in prestito da una pièce di Queneau, è perfetto per questa “vecchia signora di Napoli” (così Ducrot stessa si definisce) che da novantatré anni attraversa la vita con grazia e devozione, e che ha impiegato molto tempo a diventare se stessa.

«Appartengo a un’altra epoca, sono nata prima dello scotch tape», dice lei, sorridendo, senza nessuna nostalgia, e difatti in lei niente – né le sue opere, gli aggettivi che sceglie parlando, gli abiti che indossa, i gesti con cui si muove – fa pensare al passato.

Ducrot ha cominciato a dipingere a cinquant’anni. Ha esordito negli anni Ottanta alla Galleria Giulia di Roma, esposto alla Biennale di Venezia, in numerose collettive da Israele al Giappone. Ha realizzato su commissione pubblica, nei primi anni 2000, due grandi e magnifici mosaici della stazione della metro Vanvitelli di Napoli. Solo da qualche anno, però, il mondo dell’arte sembra essersi davvero accorto di lei. La signorina ha tenuto duro, per l’appunto, e il film, che simbolicamente si apre con lei che resta involontariamente chiusa fuori dal suo studio, racconta un tratto decisivo di un lungo percorso, lo stupore e la felicità che accompagnano questa recente ascesa. Ascoltiamo Sadie Coles da Londra che racconta come si è innamorata delle sue opere ad Art Basel, Gisela Capitain rievocare il suo incontro con Ducrot (fondativo per tutto quello che sarebbe arrivato, visto che è grazie a lei che il suo nome ha iniziato a rimbalzare tra le gallerie più influenti del nord Europa). 

Vediamo la galleria T293 e la Petzel dedicarle solo shows rispettivamente a Roma e a New York. Sempre a Roma, fino a febbraio il museo delle civiltà ospita Tessere è umano, mostra in cui le sue opere dialogano con la collezione tessile del museo, e il Madre di Napoli sta preparando una esposizione monografica su di lei, in programma per il 2026.

Ci sono artisti venerati già dagli esordi, artisti che vengono scoperti solo a posteriori, dopo la loro scomparsa. Ma cosaaccade quando il tuo momento arriva quando hai novant’anni? Cosa insegna, che storia racconta? «Non me lo aspettavo, ma non mi meravigliavo che accadesse», commenta candidamente lei, in una delle sue frasi solo apparentemente semplici, che a guardarle bene tengono insieme tutto.

Nel suo studio in Piazza del Collegio Romano, la prima cosa di cui parliamo è la traduzione. Campionessa indiscussa di understatement, Isabella Ducrot dice spesso di essersi a lungo sentita impreparata, fuori posto, di essere un’assoluta parvenue del mondo dell’arte, di non aver seguito nessuna formazione. Se deve, a ritroso, scovare un suo punto di forza, è la continuità con cui ha inseguito piccole scintille, fili che negli anni non ha mai smesso di seguire: «Ho vissuto sempre procedendo a tentoni, un po’ a caso, ma a modo mio anche coltivando ossessioni. Venivo da una famiglia molto religiosa, e il racconto di questi Settanta [i primi traduttori della Bibbia] che da Gerusalemme furono ad Alessandria d’Egitto chiamati dal re per tradurre dall’ebraico al greco il vecchio Testamento, mi ha sempre affascinato. Ognuno lavora per conto suo, ma poi scoprono che hanno usato tutti le stesse parole». Una storia a suo modo esemplare, dice, «ed è proprio questo il dramma degli ebrei: essere grandissimi narratori». Poi si interrompe e, come ogni tanto fa, formula una domanda che sembra rivolta non tanto agli altri ma a se stessa. «Che poi perché mi interessasse così tanto questa leggenda, non saprei: forse perché in fondo anche il mio è un po’ un lavoro di traduzione: dalle stoffe alla carta, dallo scritto verso l’immagine. Non l’avevo mai visto così, prima di oggi». Citando Il compito del traduttore di Walter Benjamin, dice: «In italiano la parola compito ha una valenza un po’ compilativa, in tedesco invece ha un significato più profondo: il compito non è un dovere da sbrigare, come i compiti di scuola. È una cosa più profonda, che ha che fare con il destino». E al destino, quando la si ascolta, si finisce a pensare spesso.

La vita di Isabella Ducrot, all’anagrafe Antonia Mosca, è iniziata decine di volte. Dopo la guerra, quando suo padre la fece tornare a vivere in un palazzo seicentesco, di cui, a seguito dei bombardamenti, era rimasto in piedi soltanto un angolo. «Vivere per più di dieci anni in quel modo, tra maniglie dorate e rovine che cadevano a pezzi, è stata forse la più grande lezione ricevuta dalla mia famiglia». Un’altra vita è iniziata quando, dopo sette anni di cure segrete e vergogne sociali, le dissero che era guarita dalla tubercolosi. Un’altra poco dopo, quando aveva trent’anni e lasciò Napoli per trasferirsi a Roma. Era l’inizio degli anni Sessanta: «Fu una boccata d’aria fresca, a Roma grazie a dio non conoscevo nessuno, mentre a Napoli, vuoi o non vuoi, mi imbattevo sempre in qualcuno che si chiedeva perché mai una bella ragazza di quell’età non si fosse ancora sistemata».

Non aveva particolari talenti o ambizioni, era una ragazza squattrinata e molto distratta. Trovò un posto da segretaria all’IBM: «Delle amiche ricche e sciocche un giorno, per farmi uno scherzo, staccarono tutti i quadri della sala d’attesa in cui lavoravo e li portarono via. Non me ne accorsi mica, il giorno dopo il portiere dell’IBM corse da me allarmato: signorina, c’è stato un furto… Caddi dalle nuvole, come sempre… Andavo avanti così, infilando avventure innocenti ed equivoche al tempo stesso». A un certo punto entrò in contatto con la «sinistra radicale e atea» di Nuovi Argomenti: «Erano perlopiù intellettuali con la barca a vela e i milioni in banca. Mi fidanzai con il figlio di uno dei fondatori, ma a quei tempi ero ancora molto religiosa, e ogni settimana gli toccava aspettarmi fuori dalla chiesa mentre andavo a confessarmi, così non durò molto…».

Di lì a poco incontrò l’uomo con cui avrebbe diviso la vita, Vicky Ducrot, che ai tempi lavorava per la KLM e nel 1974 avrebbe fondato i Viaggi dell’elefante, storico tour operator specializzato in soggiorni esotici di lusso. Scomparso due anni fa, Ducrot era un americano di origine palermitane, discendente di una importante famiglia di industriali, produttori di mobili e lussuosi arredi navali. 

Con lui, oltre che ai viaggi in tutto il mondo (cinquanta soltanto in India, e del resto basta guardare le sue opere o scorrere la sua collezione di stoffe per sentire l’Oriente dappertutto), arrivarono i figli, le terrazze in città e le ville in campagna, le collezioni di stoffe e quelle di rose, la vita mondana e quella familiare, gli agi e le sicurezze che le erano mancate in gioventù. Antonia Mosca diventò insomma la signora Ducrot. Un’altra magari si sarebbe fermata lì, ma lei non lo fece, anzi, forse soltanto allora cominciò il cammino che l’avrebbe portata a diventare l’artista che è oggi.

A disegnare aveva iniziato timidamente già ai tempi dell’IBM: «Durante la pausa per il pranzo mi capitava di scrivere, scarabocchiare bozzetti per abiti o tessuti. Li feci vedere a Vicky quando lo conobbi. E gli feci leggere qualche racconto che avevo scritto. Ma lui era un legittimista, e mi diceva, più o meno indirettamente: non hai fatto l’accademia, non hai studiato Lettere, meglio lasciar perdere». Lei però non gli diede retta. Mise su uno studio tutto per sé e cominciò a dipingere: non fiori o acquerelli di tramonti, come ci si sarebbe magari aspettati da una signora bene, ma amplessi («Ci sarebbe da fare un bel saggetto psicanalitico», osserva lei stessa nel film: «Come mai, quando ho iniziato, ho disegnato amplessi?»)

Alla miseria provata da bambina, pian piano, si sostituì un altro sentimento: l’invisibilità. «Per diverso tempo, credo di essere stata considerata poco più di una signora con l’hobby della scrittura e della pittura. Poi sono arrivate le prime mostre, mi vennero commissionati lavori anche importanti, ma il sentimento di essere una parvenue mi è rimasto addosso per anni, e in ogni caso non era per così dire previsto che si facesse sul serio. Quando, più di recente, sono cominciati ad arrivare dei veri riconoscimenti, a molti ovviamente non è andata giù». 

Racconta tutto questo senza smettere di sorridere, guardando un punto imprecisato davanti a sé. Scandendo bene ogni parola, conoscendone la gravità e l’amarezza, ma al tempo stesso divertendosi, specchiando negli altri la propria inadeguatezza e lasciando che gli altri facciano altrettanto. «Sembrano fragili, ma non lo sono», dice nel film mentre maneggia delle opere che sta preparando per una mostra. Ed è difficile non pensare che, in fondo, stia anche parlando di sé.

In un breve video girato per The World of Interiors qualche mese fa vediamo Isabella Ducrot in casa, mentre racconta a Marella Caracciolo come lei e Vicky l’hanno arredata nel corso degli anni. Si passano in rassegna dipinti barocchi, sculture americane, poltrone moderniste, mobili di Alvar Aalto, stampe esotiche e quadri astrali di Saddam Hussein. A un certo punto, dispiega sul tavolo una sciarpa tibetana color indaco (ora in mostra al Museo delle civiltà di Roma, e cuore di uno dei suoi libri, Stoffe.) La maneggia con cura, si capisce che per quella sciarpa prova una devozione sincera e inscalfibile, la stessa che si riserva a certe antiche memorie: «Questo manufatto è l’esemplare più vicino alla somiglianza quasi imbarazzante tra il tessuto e la parola umana, contiene una incarnazione del mistero della parola acciuffato dal tessitore mentre tesse». 

È così esemplare quella sciarpa, dice, così rappresentativa dei fili che ha inseguito in tutti questi anni che potrebbe lasciarla sola «a rispondere al nome di collezione». Ma l’incontro tra tessuto e parola, oltre che punto di arrivo, per lei è stato anche un inizio. «Da qui cominciò tutto, in fondo» mi dice porgendomi un libriccino bianco intitolato La matassa primordiale, pubblicato da Nottetempo. Che, scoprirò la sera stessa leggendolo, ha il passo di una fiaba e le intuizioni di un piccolo trattato. «Conoscevo di vista Ginevra Bompiani, ma mi costava chiederle di leggere». Ma poi lo fece, Bompiani richiamò poco dopo entusiasta, Patrizia Cavalli scrisse un’introduzione in versi. E anni dopo quel testo, nella sua versione inglese, finì nelle mani di Gisela Capitain, che grazie alla sua galleria (con sedi a Basilea e a Napoli) portò le sue opere in piena luce.

Oggi, Isabella Ducrot trascorre le sue giornate perlopiù tra lo studio al piano terra e l’appartamento all’ultimo piano di palazzo Doria Pamphilj. In casa la assiste una governante, in studio due assistenti, Nora e Veronica, che da oltre vent’anni lavorano al suo fianco. Invisibile, adesso, sceglie di esserlo: viaggia di rado, non partecipa agli opening o alle fiere, dice che le fa una enorme fatica essere al centro della scena. «“La vita inizia a sessant’anni», ripete in compenso a chiunque la interroghi sull’argomento, e giura di non essersi mai sentita tanto libera. Dopo che è rimasta vedova si è fatta confezionare un vestito in taffetà celeste, che indossa come un amuleto, e dice di provare, arrivata a questo punto, «a terrible pain and a fantastic happiness». Allo stesso tempo, senza rimedio, senza distinzione. «Mi domando come mi sia successo di diventare una persona che pretende di fare arte», si chiede ancora adesso: non tanto, si direbbe, incuriosita da se stessa, ma dalla natura umana, da quei “motivi” che spostano il mondo e le vite della gente, e che il maldestro traduttore di Caraglio nella mia testa ha trasformato per sempre in fantasie.

«People like framed things», dice nel film, mentre ragiona ad alta voce con una gallerista sul modo migliore per presentare al pubblico alcuni suoi dipinti. Sta parlando di cornici, ovviamente, ma potrebbe benissimo parlare di tutti quelli che, in tutti questi anni, per i motivi più diversi avrebbero voluto inquadrarla, assegnarle una casella e tenerla lì dentro, e non ci sono riusciti. Una tra tutti, come nel più classico dei racconti, sua suocera, dama inflessibile delle squisite Officine Ducrot, che perse le staffe quando, dal raffinatissimo George’s di via Marche, la vide ordinare due primi. «Ma tu non hai proprio capito come si sta al mondo, mi disse indignata. Ma io volevo proprio due piatti di spaghetti. Che cosa c’era di male? Proprio non riuscivo a capirlo. Mi sono alzata e sono andata via. Vicky mi seguì». Ma questo è solo un dettaglio, naturalmente: se ne sarebbe andata comunque. Non era proprio il caso di restare al suo posto, perché il suo posto, a quei tempi, lo stava ancora cercando.

ARTICOLO n. 79 / 2024

UNA GIGANTESCA ZUCCA DI HALLOWEEN

Pubblichiamo un estratto da Godfall (Atlantide) il romanzo di Van Jensen da oggi in libreria per la traduzione di Alessandra Osti. Ringraziamo l’editore per la disponibilità

Alla luce della luna, la pozza di sangue brillava nera. David si accovacciò e scrutò il terreno e la boscaglia attraverso uno squarcio di circa un metro. Sembrava profonda, tanto da poterci finire dentro e venirne sputato fuori in Cina o in Australia. Nel punto più lontano possibile dal Nebraska, dovunque fosse. «Sceriffo. Dov’è andata secondo te?».

David si appoggiò su un ginocchio, che si era irrigidito non appena arrivato il freddo, un ricordo del menisco rotto durante una partita di football alle superiori, una decina di anni prima. La sua corporatura muscolosa era evidente anche sotto al pesante giaccone marrone, sulla cui schiena era stampato in giallo, “Dipartimento dello Sceriffo”. David superava il metro e ottanta, e lo Stetson nero che aveva in testa lo faceva sembrare ancora più alto. Indossava dei blue jeans, come sempre. Il vento lo sferzava, spilli contro la faccia.

Era la sua solita maledetta sfortuna, che a qualcuno fosse venuto in mente di fare una cosa come quella in una notte così gelida. Accese la torcia, e con la luce la pozza di sangue sembrò prendere vita. Lì accanto, Gentry Luwendyke teneva le braccia incrociate sulla giacca di montone. Quando espirava, da sotto ai baffi ispidi usciva una nuvola di vapore, subito spazzata via dal vento di febbraio. Con la torcia David tracciò degli archi lenti. A una decina di metri, la luce cadde su una striscia rossa. «Sembra andare da questa parte», disse.

Proseguì da una chiazza di sangue all’altra, che diventavano sempre più piccole e che formavano una linea quasi retta verso la fila buia degli alberi a ovest del campo. L’erba e la salvia della prateria erano ricoperte di brina e scricchiolavano come pezzi di vetro sotto ai loro stivali. Quando raggiunsero il bosco di cedri e di eleagni, la traccia si era ridotta a singole gocce.

Nello stomaco di David stava montando la rabbia, che bruciava fino a che ne avvertì il calore sotto al giaccone; sudava, nonostante il freddo. Era stato qualcuno a farlo. Qualcuno l’avrebbe pagata. Strinse la torcia. No. Non adesso, si disse. Poteva arrabbiarsi più tardi. Adesso doveva concentrarsi su quello che doveva fare. Dove era andata? «Qua».

David la vide per primo, stesa su un fianco in una radura. Sembrava morta, poi il petto le si sollevò e si riabbassò, mentre dalle narici le usciva un filo spettrale di vapore. Lui si chinò, attento a non calpestare il sangue che scorreva per terra. Poi appoggiò la torcia sull’erba, per illuminarla, e si levò i guanti.

«Figli di puttana», sibilò Gentry.

«Una fucilata. L’ha colpita qui», disse David, facendo scorrere le mani lungo il pelo morbido dell’addome della mucca. Il colpo le era entrato nelle viscere. Dio solo sapeva quale organo avesse raggiunto; se ne stava andando in fretta.

«Figli di puttana», ripeté Gentry, più forte. All’improvviso la vitella sbuffò ed ebbe uno spasmo. Scalciò per trovare un appoggio. David cadde all’indietro e si scostò mentre lei si sollevava sulle zampe, riuscendo quasi a raddrizzarsi. Poi barcollò e ricadde. Si riavvicinarono.

«Non deve soffrire più», disse Gentry.

«No, non deve», concordò David.

«Lo faccio io. È la mia mucca». Gli occhi di Gentry erano puntati sulla Glock nove millimetri nella fondina sul fianco destro di David, che aprì la custodia di cuoio e tirò fuori l’arma, maledettamente fredda nella mano.

«No. Nessuno può usare la mia pistola. Sono le regole». Si avvicinò alla testa della mucca. Respirava forte, dal naso e dalla bocca le usciva una schiuma di muco e sangue. I suoi occhi di ossidiana lo supplicavano, non riusciva a capire il dolore che era dentro di lei, il caos del mondo, l’orrore della vita e quello ancora più grande di qualsiasi cosa che sarebbe venuta dopo. David non aveva risposte. Le appoggiò la canna sulla tempia e fece fuoco.

Il pick-up procedeva sullo sterrato pieno di solchi. Sotto la luce della luna, David avrebbe potuto benissimo non accendere i fari. Le strade correvano dritte in direzione est-ovest, nord-sud, una griglia tracciata nella campagna. Aveva trascorso quasi tutti i suoi trent’anni di vita lì, e ne conosceva tutti gli smottamenti, le curve, sapeva quali fossero senza uscita. E da quando era stato eletto sceriffo tre anni prima, sapeva anche troppo bene ciò che accadeva all’interno delle fattorie in fondo a ognuno di quei sentieri.

Mentre guidava, ripensò a ciò che era successo. Gentry aveva sentito dei colpi di fucile. Era uscito e aveva visto nel pascolo un pick-up con un faro sul tetto. Poi aveva trovato il sangue. Era sicuro che qualcuno l’avesse fatto apposta, magari un vicino spinto da qualche vecchio rancore. Che ci fossero persone a Little Springs che detestavano Gentry Luwendyke era fuori questione. Che qualcuna di queste potesse sparare nella pancia a una mucca era improbabile.

Era più facile che qualcuno con una cassa di Pabst o di Old Milwaukee buttata sul pavimento del pick-up, fosse entrato nel pascolo, cercando con il faro, sperando di beccare un daino o un cervo. L’aveva fatto anche David quando era giovane e stupido.

Dopo un po’ di birre, da lontano, una mucca sembra un daino. In città, di pick-up con un faro ce n’erano sei. Quattro appartenevano a persone che non avrebbero potuto fare stronzate del genere. Il quinto era dei Johnson, e magari il loro figlio sarebbe stato capace di fare una cosa così, ma erano tutti a far visita ai nonni nell’Ozark. Ne restava uno, e David sapeva dove trovarlo.

Si spostò sull’autostrada a due corsie, che correva in direzione est e ovest parallelamente al Platte River. Davanti a lui, le luci della città scintillavano. Ai piedi dei silos torreggianti, un cartellone verde dichiarava. “Little Springs, abit. 731”. Ogni dieci anni, dopo il censimento, c’era un nuovo cartellone con la popolazione che diminuiva sempre di più.

Girò su Main Street, un tratto di asfalto crepato largo abbastanza da contenere sei corsie, tanto da poterci far stare i carri tirati dai cavalli che nel secolo precedente entravano in città ogni fine settimana portando gli agricoltori e i loro raccolti. Su entrambi i lati, le vetrine dei negozi sulle desolate facciate di mattoni erano coperte da compensato. All’estremità più lontana svettava la torre idrica.

Anni prima, il consiglio comunale aveva deciso di ridipingerla a ogni stagione, tanto per portare un po’ di allegria. Il tentativo però era stato abbandonato poco dopo, e la torre adesso sembrava una gigantesca e malevola zucca di Halloween.

Un bar era ancora aperto, e la sua insegna al neon era accesa: Vic’s. David scrutò i veicoli parcheggiati lì davanti. Eccolo. Un Dodge blu con delle ruote enormi, e una barra sull’abitacolo su cui era attaccato un faro. Parcheggiò lì accanto e sbirciò dal finestrino. 

C’erano lattine di birra accartocciate per terra. Un fucile sistemato sul lunotto posteriore. Provò la portiera. Aperta. Frugò sotto all’unico sedile e tirò fuori una scatola di cartucce. Ne mancavano un po’. Ne prese una, se la infilò in tasca ed entrò nel locale.

Il Vic’s consisteva in un unico ambiente. Il bar era a destra. A sinistra c’erano alcuni separé. Due biliardi. Le pubblicità al neon di birre e le plafoniere con lampadine diverse gettavano una cacofonia di luci colorate tra le nuvole di fumo di sigaretta. La solita gente. 

Tute da lavoro e jeans, per la maggior parte persone piuttosto robuste, con la pelle secca e screpolata, per la nicotina o il vento perenne, o per entrambe le cose. Al centro del bar, un uomo massiccio con i capelli biondi cortissimi alzò lo sguardo all’ingresso di David e si girò verso di lui. «Guarda, guarda! Una birra per il nostro sceriffo!». «Ehi, cugino», replicò David, mettendosi accanto a lui al bancone.

Prima che David potesse impedirglielo Vic, il barista, gli spinse accanto una bottiglia di Bud Light e un bicchierino di whisky. «Sono in servizio». «Giusto», asserì Jason, con il suo solito sorriso da stronzo. «Beh, qui non ci stanno problemi, e va bene così».

All’altro lato di Jason c’era Spady, con i capelli neri che gli spuntavano da sotto un cappello da baseball dei Nebraska Huskers, e la barba ispida di un paio di giorni che gli segnava la faccia livida. 

Spady non era un loro parente, ma era cresciuto insieme a loro come se lo fosse stato. Stava fumando una Marlboro che teneva nella mano sinistra, poi la posò su un portacenere prima di usare la stessa mano per bere dalla sua bottiglia di Bud. La manica destra della camicia era cucita al gomito, dove finiva il braccio. 

Aveva lavorato alle ferrovie dai tempi delle superiori fino all’incidente, e adesso gli restava soltanto l’indennizzo per la disabilità. «Roba grossa?», domandò Spady. David si rese conto che la sua mano tremava ancora da quando aveva sparato. Sorrise e scosse la testa. «Niente di che».

ARTICOLO n. 78 / 2024

E POI È ARRIVATA LA REALTÀ

Pubblichiamo un estratto dall’ultimo romanzo di Violetta Bellocchio, Electra (Il Saggiatore) da oggi in libreria. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità

Sono una di voi. Una come tanti. Sono al lavoro. Presento domanda per centinaia di incarichi, residenze, borse di studio.

Riordino il curriculum: si allunga l’attesa. Prendono qualcun altro. Non importa. Vado a guardare cosa cercano gli agenti, per amore dei vecchi tempi, solo per scoprire che oggi viene chiesto a noi di specificare quale sia la nostra piattaforma – il nostro pubblico, il nostro palcoscenico – e quale genere di campagna promozionale ci staremmo immaginando per un prodotto che siamo lontani dal consegnare. Ah, fate un podcast.

Ma che carini. Quanti ascolti per episodio? Diteci subito (età, sesso, posizione utenti). Mando centinaia di messaggi sperando che uno o due vengano aperti nell’arco di un mese. La posta elettronica potrebbe venir cancellata in blocco. Dato il volume della corrispondenza… La moda consiglia di avvisare in anticipo: il silenzio equivale al «no». Non siete adatti al ruolo. Forse siete dei cani, in effetti, ma non vi azzardate a chiedere un chiarimento (cosa non darei per una lettera di rifiuto copia e incolla. Sono bellissime).

Badate bene, andava tutto così quando ancora avevo una faccia. Il silenzio lo dovevano affrontare quelli che lavoravano per me. Essere un volto noto significa bruciarsi dalle tre alle otto ore al giorno nel vano tentativo di far cambiare idea su di te agli sconosciuti. Lo vedi? Non sono un mostro. Non sono la ragione portante dello schifo che fa la tua vita.

Forse potresti aggiustare la mira. Sorridi, ci metti il tocco personale. Li guardi negli occhi. L’onere della gentilezza casca sulle tue spalle (piccolo aneddoto: non mi pagavano mai). L’ultimo manager che ho avuto riusciva a piangermi al telefono, siamo sommersi, quando non stava lì a ridacchiare per disperazione oppure partiva con moglie e figli per una vacanza fuori stagione a Istanbul. E che cazzo ci fai in aereo, gli avevo detto, invece di dire quello che volevo dire: tu credi che la Morte smetterà di inseguirti se prendi l’aereo? 

Ogni posto di lavoro era sotto organico a un punto tale che il linguaggio stesso andava in frantumi. Se non scattava un’operazione di marketing articolata su più livelli attorno ai fatti del tuo corpo per dodici mesi dodici, niente rompeva il muro dell’indifferenza. Tu annegavi.

Si violavano i contratti, scadevano le opzioni. Nelle parole di un manager con cui non ho firmato: litighi per piazzare un artista, hai una porta in meno dove bussare per qualcun altro la settimana prossima. Eppure. Per un limitato numero di stagioni posavo per servizi fotografici, venivo intervistata a tu per tu. Perché? Avevo due o tre caratteristiche di quel personaggio – donna, giovane, la fama la incuriosisce, vuole sembrare bella, bella da pigliarsi la vendetta – e correvo dietro alla promessa implicita dell’annullamento che sarebbe derivato dal trasformarmi in un pezzo di carta.

Fingevo di essere consenziente – fingevo di essere disponibile alla messa in commercio del mio volto e del mio nome, pensavo di stare tirando la prima pietra, pensavo a un attacco preventivo di quelli che faceva Colin Farrell all’inizio della sua carriera – mentre in realtà mi stavo prestando a qualsiasi opportunità promozionale, non importa quanto déclassé, perché sapevo che nel minuto in cui si sarebbero smorzate le chiacchiere sul mio conto non avrei lasciato traccia. Bionda stupida.

Nell’accettare che considerevoli porzioni della mia immagine venissero determinate da questo o quel professionista che si credeva più furbo di me, stavo svendendo all’asta la mia capacità di produrre lavoro in maniera professionale. Ogni apparizione pubblica ti stacca un morso di carne dal collo. Poi un giorno stai buttando sangue e il tuo ufficio stampa ti abbaia, perché non sei felice! Dietro le quinte vedi persone che tremano fuori fuoco. Le loro immagini stanno avendo problemi tecnici.

Se ti pagano dieci milioni di dollari a botta, forse riesci a procurarti gli strumenti per rimediare all’assenza di individualità. Costruisci un te stesso segreto, niente codice, indecifrabile. Ti infili la maschera dell’attore alle prime luci dell’alba; metti insieme una bambola, la bambola si muove.

Sono stata una stella per cause di forza maggiore. Poi mi sono lasciata credere morta. Era più facile che andare avanti a vivere. Mi sono presa un nuovo nome e ho lavorato con quello. C’erano stati problemi relativi alla sicurezza in carne e ossa di cui non si riusciva a venire a capo, minacce di cui non mi sarei liberata una volta per tutte, se non cambiando radicalmente stile di vita. Una storia come tante nella categoria storia triste piangi piangi – di una donna in pericolo non importa a nessuno – e non è stato nemmeno quello il punto di non ritorno per me. Il pulsante «scomparsa» l’ho premuto quando ho capito che non avevo mai fatto niente di quello che volevo fare. Non una cosa.

Soltanto quello che veniva offerto per sfida o per scherzo da gente più vecchia e più ricca di me, pochi avanzi sul pavimento per vedere chi aveva più fame: una continua guerra disincantata che prendeva una persona e la faceva diventare una ferita d’arma da taglio.

Chi è nato e cresciuto nell’esercito dei fantasmi non prova simpatia per l’invisibilità come scelta – anzi, magari viene a chiedere a te cos’hai fatto di male, se hai preferito l’auto‑esilio al concreto rischio di mostrare un viso sempre più cattivo e più scavato in tempo reale. Come se il panopticon non arrivasse per tutti.

I legami sono stati tranciati. I telefoni, gettati. Gli abiti indossati a favore di camera sono finiti nei bidoni delle parrocchie. Ho vissuto irreperibile per dodici mesi, senza saltare un anacronismo – il mio nome d’arte l’ho preso da una strada statale – e ho cominciato a scrivere quando stavo diventando un’altra persona dalla testa ai piedi. Ho fatto in modo che Violetta non la trovasse nessuno: ho deciso che non mi sarei fidata, e quindi, come nella migliore tradizione, a metà dell’opera mi sono rilassata per trenta secondi e mi sono affezionata a Daniel, l’unico che qualcosa di me la sapeva.

La cotta, in sé, è stata un’esperienza fuori dal corpo, dall’eccitazione alla tensione al terrore è stato un attimo: mi sono allontanata dallo schermo del portatile la prima volta che lui mi ha chiamato darling. In un lampo avevo dodici anni e la bocca che bruciava. Oh no. 

Voglio stare con lui. Cos’ho fatto.

Sia data la colpa a me. Che Daniel vivesse per smontare i ricchi e i famosi dal divano di casa sua, avevo scelto di ignorarlo. Che Daniel fosse un contatto incrociato e tenuto a bordo senza la più pallida idea del come, o perché, lo attribuivo alla piacevole casualità delle relazioni a distanza prima dell’avvento dei social network. Che Daniel fosse un aspirante scrittore, quello sì rendeva speciale la nostra corrispondenza. Eravamo sullo stesso piano: ci scambiavamo consigli; materiale inedito, alla fine.

Lui mi segue ancora. Deve aver premuto il tasto «mute» sei mesi fa, forse prima – a Natale. Se siete già stati qui, l’assenza di interazione racconta tutta la storia. Per come la vedevo io, Daniel mi aveva bloccato. Ci poteva stare. Quando mi sono accorta che non era proprio così – riuscivo a leggere i suoi commentini, avrei avuto il permesso di rispondere agli aggiornamenti per soli amici che mi schizzavano accanto in tempi di elevata angoscia politica –, lì ho pensato che lui avesse chiuso con me, allora ho rispolverato i classici del mestiere: evitare con garbo, fermarsi a esaminare il dolore spento di un bersaglio mancato, farsi domande del tipo, cosa ci ho mai trovato in questo, per caso sta uscendo con qualcuno – lui vede mai quello che sto facendo adesso?

E poi è arrivata la realtà: certo che non lo vede. Daniel non mi rivolge la parola da quasi un anno, ma potrebbe sempre decidere che io merito di essere ascoltata, se e quando mi rimette in viva voce.

ARTICOLO n. 77 / 2024

COME CAPITA SPESSO NELLE FAMIGLIE

Pubblichiamo un estratto dalla nuova edizione di Invasioni controllate (Ponte alle Grazie) in libreria in questi giorni. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

Ok, papà, inizia la tortura. La tua proverbiale riservatezza sta per subire un grave attentato. So che diffidi dell’idea di questa conversazione e del resto, in generale, sei una persona molto schiva. Ti definiresti una persona timida? E la timidezza, riveste per te un qualche tipo di interesse psicologico, o è un semplice impedimento, un fatto accidentale?

Entrambe le cose. Mi spiego: la timidezza, un certo eccesso di riservatezza sono indubbiamente un mio difetto. Nello stesso tempo, io provo sempre ad attuare una strategia di utilizzazione dei limiti… che in fondo è già un concetto junghiano, Jung amerebbe parlare di utilizzazione dell’«Ombra». Senti però, prima di andare avanti ti ricordo che ho ottantatré anni, e che la mia memoria non è più quella di una volta, posso fare qualche errore. Non c’è da fidarsi completamente.

Tu sei nato nel 1924, ad Ancona. Senza mai nominarla, Nanni Moretti ci ha ambientato un film, La stanza del figlio, dove lui – guarda le combinazioni! – interpreta molto bene la parte di uno psicologo, forse anche junghiano visto che non usa il lettino. Una volta, passeggiando per Ancona vicino al porto, ho notato su un palazzo una vecchia insegna di marmo, c’era scritto: MATERASSI TREVI. Era la ditta di tuo padre?

No, era una ditta di parenti dei nonni, d’altra parte tutti i Trevi di Ancona erano più o meno parenti. I nonni erano abbastanza ricchi, i tipici rappresentanti della borghesia ebraica di allora, gli anni a cavallo tra Otto e Novecento. Ma la loro sorte è cambiata radicalmente con la Prima Guerra Mondiale. Perché avevano molti affari in Ungheria. A questo proposito, ho un ricordo molto vivido dell’infanzia: ci lasciavano giocare con dei grandi contenitori – quelle casse di vimini che oggi non si fanno più – pieni fino all’orlo di corone ungheresi… che non valevano più nulla! Ci facevamo il gioco della banca, il gioco della posta… La nostra era quella che si dice una buona famiglia: tra gli avi c’è anche, a quanto pare, un famoso rabbino, un commentatore della Torah. Non è che ne sappia molto, però.

Tuo padre non era tanto legato alle tradizioni, visto che ha sposato una cristiana…

Sì, mia madre, tua nonna Bianca, in un certo senso era una perfetta mezzosangue, metà piemontese e metà meridionale. Ma non era ebrea.

Suo padre, mio nonno, veniva da Salerno, era un bravissimo ingegnere ferroviario, faceva cose difficili, come i valichi, le gallerie, le elettrificazioni delle linee più importanti. Aveva lavorato anche a un tratto particolarmente difficile della rete di allora, quello di Porretta, vicino Bologna. E così, andava con la moglie dove lo portava il lavoro. Figurati che mia madre è nata a Sulmona. La casa dei nonni era piena di ricordi, trofei, riconoscimenti…

Parli della casa a Diano d’Alba, nelle Langhe, dove hai passato parte della tua infanzia?

Sì, ci siamo trasferiti in Piemonte da Ancona con la mamma quando mio padre, Giacomo, è partito per il Kenya. Lui aveva preso in Svizzera una specie di laurea – ora non esiste più – in ingegneria tessile, ma era il tipo d’uomo che sapeva fare tutto, strade, case… devo riconoscere che era una persona geniale. Era andato in Kenya con un amico che aveva un’azienda agricola di migliaia e migliaia di ettari, e faceva tutto quello che può fare un ingegnere vero e proprio: abitazioni, strade, ponti. Tra l’altro l’azienda tessile di famiglia, come ti dicevo, non esisteva più, era fallita a causa della guerra. Mia madre si sentiva sola ad Ancona, dopo la partenza di mio padre, e così decise di tornare in Piemonte per stare vicina ai suoi, che tra l’altro iniziavano a invecchiare. Voleva proteggere ed essere protetta. Noi non stavamo proprio a Diano, ma ad Alba, dove io e le mie sorelle saremmo potuti andare al ginnasio e al liceo. A Diano, a casa dei nonni, ci andavamo anche a piedi, sono solo sei chilometri.

Tu sei il più piccolo, entrambe le zie sono nate prima di te…

Sì, abbiamo quattro anni di differenza uno dall’altro: la prima era Mariù, che è morta da poco, poi è venuta Vera, poi io.

Sei nato il 3 di aprile, sei un Ariete. Mi sembra però che, a differenza di molti junghiani, te ne sei sempre infischiato del tuo segno zodiacale…

In effetti, non gli ho mai dato peso. E pensa che Ernst Bernhard, il mio maestro, cercava sempre di stimolare il mio interesse per questa materia. Come molti tedeschi, credeva fermamente nell’astrologia. Aveva anche studiato un po’ il mio quadro astrale, come lo chiamano…

Anche Jung del resto credeva nell’influenza delle stelle…

Sì, lui ci era arrivato studiando il fenomeno della sincronicità. Comunque, mi è anche capitato di frequentare persone che si occupavano di astrologia, voglio dire professionalmente. Dei tratti del carattere che si attribuiscono per tradizione all’Ariete, mi sono riconosciuto particolarmente nella testardaggine, nella tenacia nel perseguire certi obiettivi.

In realtà, tu sei una persona molto metodica. Un ricordo che ho di quando ero piccolo è il rumore della macchina da scrivere che partiva puntualmente alle cinque di mattina…

…mi avrai odiato.

…no, anzi, era un rumore rassicurante, un invito a rigirarsi nel letto, il segnale che l’ora della scuola era ancora lontana.

Per me quelle ore intorno all’alba sono sempre state le più produttive, le uniche in un certo senso. Ancora oggi, mi alzo alle cinque e mi metto a lavorare per un’ora, un’ora e mezzo. Poi mi occupo di altro.  Torniamo ai tuoi genitori, se ti va. Da quello che ho intuìto, tuo padre era una persona dal carattere forte, quello che si definisce un volitivo. Giusto?

Sì, la definizione è esatta. Tieni presente che è anche stato molto sfortunato, come tutti coloro che, provenendo da una condizione agiata, a un certo punto si ritrovano praticamente in miseria. Ecco, lui ha reagito a testa bassa, facendosi la sua strada nella vita. Aveva questa incredibile capacità di fare tutto. Mi ricordo per esempio che, quando ero ancora molto piccolo, aveva costruito per un amico una bellissima villa vicino a Foligno. Andavamo spesso lì, a vedere il babbo lavorare. Per noi bambini, faceva dei presepi fantastici, con vere cascate d’acqua! E aveva una prodigiosa facilità per le lingue, che io non ho mai avuto e che lo ha indubbiamente aiutato. In Africa aveva imparato non solo lo swahili, ma anche molti dialetti locali, quelli che si parlavano in tutta la zona che va dal Kenya alla Somalia. Lo aiutava anche il suo carattere molto espansivo, era una persona dalle relazioni facili con il prossimo. Tu hai ereditato questo carattere molto più di me, come spesso capita nelle famiglie.

ARTICOLO n. 76 / 2024

L’IMPORTANZA DI ESSERE JOKER

Tutti odiano Joker: Folie à deux. Così leggo in giro.

Accolto in maniera tiepida alla Mostra del Cinema di Venezia, flop al botteghino negli Stati Uniti, e con un misero 33% di recensioni positive su Rotten Tomatoes, il film di Todd Philips è il sequel del più fortunato Joker, premiato invece a suo tempo da pubblico e critica. Quel Joker mostrava la genesi di un “villain”, attraverso il racconto di una porzione di vita di Arthur Fleck. Ex bambino abusato e ora nullità umana, aspirante comico in una Gotham City del 1981, più sudicia che dark e pronta a esser risucchiata da spirali di violenza. Il ragazzo vive in compagnia della madre e di seri problemi psicologici; vuole essere riconosciuto come artista e come essere umano, ma nessuno si accorge di lui. Questa frattura fra sé e il mondo viene colmata dall’assunzione di un’ombra, di un riflesso cattivo, e così l’alter ego Joker prende il sopravvento su Fleck, che da timido bullizzato diventa violento bullizzatore. Finirà in macello: durante un’ospitata in televisione, Joker uccide il presentatore in diretta. Verrà rinchiuso in un manicomio criminale, mentre la città, in preda a sommosse, chiama a gran voce cattivi maestri da prendere a modello.

È da qui che Folie à deux ricomincia: Fleck è in carcere, anestetizzato dai farmaci e in attesa di un processo. In un corso di canto per detenuti a cui partecipa conosce Harley, una bionda forse più disturbata di lui. Si capisce presto che, più che da Fleck, è attratta dal Joker assopito dentro di lui. Insomma: nasce l’amore, ma nascendo risveglia il male.

La sceneggiatura, opera dello stesso Haynes e di Scott Silver, così come quella del precedente Joker ha il merito di ricreare un mondo di finzione in cui l’elemento supereroistico è compresso fino quasi a scomparire. Il cliché è ridotto a pretesto, a mero ingranaggio di accensione narrativa, a scusa buona per far dimenticare il mondo DC Comics. È ormai lontanissimo il carrozzone grottesco dei Batman di Tim Burton, così come è ampiamente superato il realismo noir di Nolan. Qui non ci sono costumi, armi speciali, lattice e gommapiuma. Allucinata forma di courtroom dramaFolie à deux non enfatizza l’azione tipica del genere: scarseggiano combattimenti e inseguimenti. C’è un solo momento in cui la macchina da presa “esce allo scoperto”, sfondando gli interni (ovvero carcere, tribunale, e studios “mentali” di Fleck), ed è la scena in cui Fleck scappa da un taxi e comincia a correre in mezzo al traffico, ripreso in campo largo frontale, mentre schiva automobili, ambulanze e ostacoli in movimento. Ecco, qui ci si può commuovere se si riconosce l’atto poetico del contravvenire a una regola, fatto con la misura e l’eleganza di un balletto o di un musical. 

Il musical, per l’appunto. Leggo commenti in rete del tipo “non andate a vederlo, non succede niente, parla solo del processo”, e “cantano di continuo, ripetendo le stesse canzoni”, oppure “è un vero e proprio musical” (in senso dispregiativo). Oltre lo sberleffo di prendere a prestito un personaggio dai fumetti e permettersi di scrollargli di dosso tutto il “fumettabile”, Haynes alza la posta e aggiunge carne al fuoco. Ha a disposizione un’attrice che è anche cantante (Lady Gaga, bravissima, anche soltanto nel non sfigurare accanto a Joaquin Phoenix) e ne sfrutta le doti canore. Ma il film non è un musical! O perlomeno non lo è classicamente. I personaggi non dialogano cantando, il modo-canzone rimane all’interno del racconto su un piano di realtà che è esclusivamente quello del sogno, quello della rappresentazione soggettiva del mondo da parte di un personaggio, ovvero il disturbato Fleck. Fleck vede la realtà – sometimes – in forma di musical, e il film ci fa mostra di questo: un uomo la cui mente “vede e pensa in modalità musical”.

Cosa non piace di Folie à deux, dunque? Il tradimento di un genere? Ci si aspettava un action ed è uscito un film d’autore, una forma informe in cui si canta troppo? Potrebbe darsi, anche se già il precedente film, con i suoi rimandi a Re per una notte e Taxi Driver, la diceva già abbastanza chiara sul dove si volesse andare stilisticamente a parare. Non piace Joaquin Phoenix, la cui interpretazione travalica, trascende o annulla quasi il film? Non credo. Sarebbe come criticare all’Everest l’altezza e ai diamanti il troppo splendore. È più probabile che dia fastidio in giro il fatto che Folie ò deux, più del suo predecessore, intendo dire più didascalicamente del suo predecessore, è un film che quasi si autodichiara chiave di decodifica del presente.

Lo è, dal mio punto di vista, a tutti gli effetti. Potrei aggiungere che è addirittura un film necessario per capire l’oggi. Si può effettivamente non essere interessati a questa chiave di lettura e ostinarsi invece a cercare qui e chiedere al genere il distacco, l’ironia, l’evasione. Perfino il divertissement o il postmoderno. “Abbiamo la guerra, il riscaldamento climatico e i ragazzi che massacrano le famiglie, lasciate che Hollywood faccia Hollywood, e i supereroi combattano senza che nessuna scheggia ci arrivi in casa. Lasciateci il piacere del nostro privato e sicuro vivere nerd”. Mi pare di leggere in questo, e mi pare di leggere in generale in giro da qualche tempo i segni di un’insofferenza, di un’intolleranza generale delle persone, nei confronti di qualsiasi fatica interpretativa, e più in generale dell’analisi dei meccanismi di produzione del senso.

Come scrive Giulio Sangiorgio su FilmTV (uno dei pochi che difende), Folie à deux è un’opera «mainstream radicale, situazionismo grand public». Ha ragione. È un film che mostra l’assassino in un tempo in cui l’assassino, quello vero, non lo vuole più conoscere nessuno. È un’opera che senza paura rivela un tratto somatico fondamentale dell’Età Spettacolarizzata: ovvero come tutti noi ci aggrappiamo oramai allo spettacolo come atto disperato. Agiamo solo tramite atti spettacolari, pensandoli come gli unici oramai possibili. Piuttosto che aprirci la testa e guardare dentro, ma anche piuttosto che indagare fuori, colmiamo con l’agire spettacolare il gap fra reale e immaginario. Per poter continuare a vivere, indossiamo una maschera dalla risata spastica.

Tanti anni fa ho avuto la fortuna di svolgere il servizio civile alla ASL di Siena. Fra le varie mansioni che dovevo svolgere nell’arco della mia giornata lavorativa, c’era quella di occuparmi di Federico. Federico faceva il secondo anno in un Istituto Tecnico ed era cieco e paralizzato alle gambe. La mia mansione era quella di andare a scuola all’ora di ricreazione e portarlo in bagno a fare i suoi bisogni. Arrivavo a scuola puntuale, e varcavo la porta della classe Terza D un secondo dopo il drin lungo della campanella; venivo accolto dal boato degli studenti, dal frastuono delle sedie spostate, dalla voglia di uscire in corridoio di tutti.

Salutavo la professoressa, schivavo le spinte di qualcuno e andavo al banco da Federico, che era l’unico, ovviamente, a essere rimasto a sedere. Lui sapeva che sarei arrivato, e appena suonava la campanella cominciava a ridere freneticamente, ad agitarsi. Un filo di bava gli usciva dalla bocca. La professoressa lo raggiungeva al banco e ogni volta, con una carezza sulla testa, cercava di calmarlo. “È arrivato l’obiettore”, gli diceva. L’obiettore, senza alcuna esperienza di tipo medico o infermieristico, e senza avere fatto alcun corso di preparazione, lo sollevava di peso e lo trascinava al bagno, attraversando un corridoio lungo una ventina di metri. L’obiettore in piedi dietro, il corpo di Federico abbracciato davanti, come un manichino appoggiato al petto. L’obiettore spingeva le proprie gambe in avanti e quelle di Federico andavano avanti con lui. Arrancavano, con fatica, passando in mezzo agli altri studenti in pausa, che facevano varco per lasciarli passare. Una piccola Via Crucis quotidiana.

Arrivati al bagno, gli tiravo giù pantaloni e mutande, lo piazzavo con non so quale forza sulla tazza del cesso e aspettavo. Poi lo rivestivo e facevo il viaggio di ritorno nella solita modalità di trascinamento di peso morto: solito lunghissimo corridoio all’indietro, e rientro in classe. Lo posizionavo sulla seggiola, e saluti. Durante questi per me disperati tragitti Federico voleva chiacchierare, era esaltato, felice come una Pasqua di parlare con me. Io respiravo male per la fatica, quindi tendevo a star zitto e lasciavo parlare lui, rispondendo con mozziconi di parole. Federico durante i trascinamenti mi parlava di voler essere Robbie Williams. Il cantante pop, in quel momento molto famoso e adorato dal pubblico. Soprattutto da quello femminile. Perché vuoi essere Robbie Williams, gli chiedevo. Perché è bello, ha donne bellissime, perché è amato. Mi raccontava che stava scrivendo dei testi per delle canzoni di un suo proprio disco personale, che anche lui un giorno avrebbe cantato. Gli chiesi un giorno il nome di questo fantomatico disco e lui senza pensarci un attimo rispose “Millennium”. Millennium era esattamente il nome del disco di Robbie Williams uscito in quel momento.

Federico con me si trasformava in Robbie. La sua ricreazione era essere un altro. La professoressa con cui ogni tanto ho scambiato qualche parola e la tizia con cui mi rapportavo alla ASL mi avevano detto che i genitori di Federico avevano deciso volontariamente di non far usare la sedia a rotelle al figlio. Perché non si sentisse discriminato, perché fosse uguale agli altri ragazzi. Chissà cosa avrà pensato lui, ogni volta che si toglieva la maschera da Spettacolare Robbie. Non potrò mai saperlo, perché con me ce l’aveva sempre su.

Una volta, durante un trascinamento in corridoio, si agitava particolarmente, parlando di Millennium; io ho perso l’equilibrio e siamo caduti a terra. Per evitare che si facesse male ho sbattuto prima io entrambe le ginocchia sul pavimento. Ho bestemmiato per il dolore, ma credo di aver attutito a lui l’impatto col granito. Rideva, me lo ricordo, mi pareva felice. Anche se credo capisse che non c’era la carrozzella soltanto perché ero io la sua carrozzella di carne e ossa, anche se credo capisse bene di non essere come gli altri, in quel momento era un supereroe ed era certo che Millennium sarebbe uscito presto e che prima o poi le donne le avrebbe trombate tutte lui.

ARTICOLO n. 75 / 2024

UN SEMPLICE NOME COME NOBEL DELL’ECONOMIA 2024

Anche quest’anno il premio Nobel per l’Economia a Daron Acemoglu, Simon Johnson e James Robinson può essere inteso come un’allusione. Fuori da quella disciplinata e inflessibile dottrina economica neoliberale – il mainstrean che detta le regole alla nostra vita quotidiana – c’è un’alternativa. Ma sempre sotto la forma di un’allusione, appunto. Flatus vocis, disse Roscellino di Compiègne, il grande teorico del nominalismo che definì “soffio della voce” quei concetti universali che non hanno una realtà oggettiva e sono semplici nomi. Solo un nome è considerato sulla scena globale l’alternativa ai dogmi del “libero mercato” governato dalla “mano invisibile” o a quell’altro della massimizzazione del profitto da parte di individui egoisti. Eppure esiste. 

Il nome, in realtà, condensa fior di studi critici tra i ricercatori economici in tutto il mondo che hanno maturato negli ultimi decenni la chiara consapevolezza di quella finzione che è la società governata dal mercato. Il lavoro di Acemoglu, Johnson e Robinson – nella lettura che ho potuto dare dei loro libri e a partire dallo sviluppo delle riflessioni quasi quotidiane di Acemoglu – si colloca sul limite tra un flatus vocis dell’alternativa e le posizioni più avanzate nell’economia mainstream.

Dal punto di vista di una storia del presente questa è una posizione interessante. Acemoglu, Johnson e Robinson riflettono a partire dall’impresentabilità dei vecchi dogmi che in realtà sono vivissimi nelle politiche economiche di tutti i paesi. Basti pensare a cosa sta accadendo in Francia o, in maniera diversa, in Italia che stanno adottando i dogmi dell’austerità nelle loro leggi di bilancio.

Gli autori, allo stesso tempo, hanno maturato una serie di indicazioni politiche che potrebbero essere definite di ordine social-liberale progressista, una specie di speranza nella socialdemocrazia in un tempo in cui la socialdemocrazia è scomparsa. E, con essa, la stessa idea di alternativa a un neoliberalismo autoritario che sta divorando la democrazia e ogni possibile sbocco in senso contrario, cioè socialista, per non dire comunista. Questi sì, puri nomi che potrebbero avere un altro avvenire. Anche se spesso sono considerati discorsi privi di consistenza o promesse che non hanno seguito. L’opera di Acemoglu, Johnson e Robinson si colloca in quella zona di indistinzione tra la realtà e l’astrazione di un nome che contiene mondi.

I tre economisti e politologi – uno dei quali è turco e americano, l’altro britannico, ma tutti e tre hanno trascorso la loro intera carriera negli Stati Uniti – sono partiti da una delle domande più classiche dell’economia liberale: perché alcune nazioni registrano una crescita economica più forte di altre? Domanda che è stata ripetuta fin dagli albori dell’economia intesa come “scienza”, a partire dal suo padre fondatore, Adam Smith. Di questo parla il suo libro più famoso sulle indagini sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, pubblicato nel 1776.

La prima risposta è stata data 23 anni fa in un articolo che è diventato uno dei più citati della letteratura economica mondiale: “The Colonial Origins of Comparative Development” pubblicato dall’American Economic Review nel 2001. Storici dell’economia, Acemoglu, Johnson e Robinson hanno fatto ricorso ai numeri per confrontare le tabelle di mortalità dei coloni bianchi in diverse colonie con i tassi di crescita degli Stati nati da queste colonie. La conclusione è questa: dove i coloni erano in grado di popolare ampi territori grazie a un ambiente sanitario meno duro, hanno creato istituzioni capaci di garantire i diritti – in particolare i diritti di proprietà – e di stimolare il progresso tecnico ed economico. Mentre dove l’ambiente era malsano, si limitavano a schiavizzare la manodopera locale o a importarla per sfruttare le risorse locali, agricole o minerarie, al fine di trarne profitto. Il problema di fondo è il colonialismo. Può forse svolgere una funzione di “civilizzazione” quando crea “buone” istituzioni? Il punto è delicato, evidentemente.

Il problema è stato sfiorato in un articolo, “Reversal of Fortune”, pubblicato nel 2002 sul  Quarterly Journal of Economics, dove gli autori hanno dimostrato che le istituzioni nate dallo schiavismo negli Stati Uniti meridionali alla metà del XIX secolo, quelle che avrebbero garantito uno “sviluppo”, sono diventate un gigantesco problema per la democrazia nel momento in cui il paese procedeva nella sua rivoluzione industriale. 

La politica in Acemoglu, Johnson e Robinson ha il nome di “istituzioni”. Se una politica garantisce la regolazione “istituzionale” dell’innovazione tecnologica, bisogna sempre vedere se i frutti di tale innovazione restano nelle mani di un’élite dominante o viene messa al servizio del maggior numero di persone. Da questo si capisce se una democrazia è più o meno funzionante oppure ha bisogno di essere democratizzata. E oggi la democrazia ne ha un drammatico bisogno. Deve sottrarsi dalla cattura del sistema finanziario per evitare di continuare a subire le crisi che esso produce. Sta qui l’intenzione democratica di Acemoglu, Johnson e Robinson che è stata premiata con il Nobel. Si direbbe: poca roba. Eppure, a chi ha una vaga idea del conformismo feroce che domina l’opinione pubblica oggi, sembra già tanto. Del resto, non è la prima volta che si danno riconoscimenti a questa idea. Cioè al nome di una necessaria trasformazione, a condizione che resti una chimera.

Non diversamente da altri economisti noti, per esempio Thomas Piketty, anche Acemoglu e Johnson hanno scritto libri per il grande pubblico. Ad esempio: Potere e progresso. La nostra lotta millenaria per la tecnologia e la prosperità (Il Saggiatore). Qui il posto della storia dell’economia è molto importante, ed è anche chiaro il ruolo di ponte elaborato dagli autori per unire l’economia dominante a una scuola “istituzionalista” che ha avuto un certo ruolo sia negli Stati Uniti che in Francia, nell’economia e nella sociologia. Per chi ha una passione per questi argomenti in questo tipo di libri possiamo trovare sia Thorstein Veblen che Robert Boyer e Michel Aglietta. Acemoglu, Johnson e Robinson hanno usato i metodi econometrici per ragionare sulla storia e sulla possibilità di regolare diversamente il capitalismo. È un tentativo di individuare un contrappeso a quella tendenza, apparentemente inarrestabile, di tradurre la vita in modelli matematici che non tengono conto della storia e delle politiche economiche.

Acemoglu, Johnson e Robinson sono stati criticati perché credono in una filosofia della storia secondo la quale la ricchezza è assicurata dall’istituzionalizzazione dei diritti di proprietà, prerogativa della cultura giuridica occidentale.Sulla base di questo liberalismo economico, il cui capolavoro ideologico è stato quello di considerare la proprietà come un diritto fondamentale della persona (lo ha scritto Luigi Ferrajoli, che è un liberale di caratura) Acemoglu, Johnson e Robinson sembrano credere all’esistenza di “buone istituzioni” che garantiscono di per sé il progresso. A condizione che rispettino la legge fondamentale del liberalismo economico. 

Se è questa la base teorica di un lavoro storico di notevole interesse, allora è molto interessante il dialogo tra l’economia marxista italiana di Emiliano Brancaccio e Acemoglu. Il loro tema è se esista o meno una legge generale del capitalismo oggi. Per Brancaccio sì, per Acemoglu no. In realtà, come abbiamo visto, una legge esiste. E va trovata nei trascendentali che guidano quella formidabile macchina teorica – e non solo produttiva e finanziaria – che è il capitalismo. Per una filosofia della storia ispirata al liberalismo economico una legge generale non esiste perché è già determinata in maniera trascendentale. Se il diritto di proprietà è una legge naturale e cosmica, non ha bisogno di essere nominata. Essa esiste e basta.

Nelle argomentazioni di Acemoglu, teorico fine, si comprende l’esistenza di un conflitto a un livello alto, quello marxiano. Per Marx infatti la definizione di una tendenza generale del capitalismo non è una legge eterna, bensì la determinazione storica di un avvenire che nasce dalla critica del capitalismo e del suo dogma: l’esistenza in natura di una proprietà considerata diritto fondamentale dell’uomo. Se fosse tale, allora arriveremmo a giustificare la diseguaglianza tra gli esseri umani, e tra l’uomo e la natura, per esempio. Invece, se parliamo di politica – che non è solo un nome, bensì una prassi – questa idea è inaccettabile. 

ARTICOLO n. 74 / 2024

LA NUOVA SOCIETÀ DEGLI APOTI

Il 23 settembre scorso, Giorgia Meloni ha ritirato il Global Citizen Award 2024 dell’Atlantic Council. Il premio, consegnatole da Elon Musk, le sarebbe stato conferito per la sua – cito – attività pionieristica come prima premier italiana, per il suo rapporto con UE e Nato e per la presidenza dello scorso G7.

Meloni, nel ritirare il premio, ha tenuto un discorso di ringraziamento in cui ha citato tre suoi grandi miti: Michael Jackson, Ronald Reagan e Giuseppe Prezzolini.

Ora, se i primi sono conosciuti al grande pubblico (uno è stato uno tra i peggiori presidenti degli Stati Uniti della storia, l’altro non ha bisogno di introduzioni) il terzo non è un nome che si sente con la stessa frequenza degli altri due.

Prezzolini è stato un intellettuale, giornalista, editore, scrittore italiano, fondatore de La Voce e maestro di molti noti nomi del giornalismo e della cultura nostrana (da Gobetti, che poi ne prenderà le distanze, a Montanelli).

Nella sua lunghissima vita – muore centenario – Prezzolini ha sviluppato diverse linee di pensiero, care soprattutto al giornalismo a noi contemporaneo (la ricerca della verità priva di pregiudizio era per Prezzolini il fine ultimo del giornalista). Ma oltre a questo riconoscimento, Prezzolini è divenuto anche un intellettuale di riferimento per il mondo conservatore italiano.

La vita di Prezzolini fu ricca di cambi di rotta, ma dall’avvento del fascismo le sue opinioni sul ruolo degli intellettuali si fecero man mano più scettiche. Nel 1921, a un mese dalla marcia su Roma, Prezzolini scrisse una lettera a La Rivoluzione Liberale, giornale fondato dall’allora suo amico Gobetti.

Nella lunga riflessione a mezzo stampa, Prezzolini teorizzò che la figura dell’intellettuale politicizzato fosse ormai desueta, asservita involontariamente a un gioco di potere viziato nelle fondamenta. La proposta che espresse in questa sua lettera fu quella di costituire, con altri intellettuali vicini a La Rivoluzione Liberale, una Società degli apoti, ovvero un sodalizio di individui super partes, disillusi dalla politica contemporanea e liberi dalle logiche di fazione.

Per Prezzolini, la società degli apoti doveva «far risaltare i valori, per salvare sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dare frutti nei tempi futuri». Insomma, un ritorno al passato, alla conservazione delle tradizioni, all’esaltazione della territorialità in contrapposizione al progresso, visto come disfattista, e alle forze politiche, percepite come corrotte, delle quali non c’era da fidarsi.

Prezzolini rinnegava il “pensiero dominante” – termine amato, abusato e ossessivamente ripetuto da ogni rigurgito alt right occidentale – verso il quale era apertamente oppositore e scettico. 

L’unico pensiero di cui non fu oppositore ma solamente critico fu, manco a dirlo, quello fascista. Fu sì amico di Mussolini, ma fu anche un intellettuale che decise di lasciare l’Italia fascista per trasferirsi negli Stati Uniti. Non si oppose apertamente al ventennio e fece – breve – ritorno in Italia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, per teorizzare le sue idee sul conservatorismo. Abbandonò definitivamente l’Italia per la Svizzera, dove morì nel 1982.

Nel nostro contemporaneo, molti esponenti dell’attuale governo sono stati affascinati da Prezzolini. Il primo è l’ormai fu Ministro della cultura, Sangiuliano, che ha addirittura scritto un libro su di lui e sul suo pensiero anarchico-conservatore. La prefazione è a cura di Vittorio Feltri. La dedica è a Giorgia Meloni.

Ed è proprio Meloni che, ritirando il Global Citizen Award, ha citato di nuovo il pilastro del conservatorismo e una sua celebre frase, ovvero «chi sa conservare non ha paura del futuro, perché ha imparato le lezioni del passato».

Ho provato a pensare spesso, in queste due settimane, al perché Prezzolini piaccia così tanto alla nostra nuova ultra-destra.

Per quanto fosse – passatemi il termine – un cerchiobottista, Prezzolini non ha mai esitato nel criticare ogni tipo di potere, anche quello del suo amico Mussolini. E per quanto fosse conservatore, Prezzolini non ha mai avuto fiducia in alcuna forma di pensiero politico post-fascista.

Eppure un grosso punto di contatto tra l’ideologia alt right nostrana (e direi anche occidentale) e il pensiero anarco-conservatore di Prezzolini c’è. E sta tutto nella teoria della compagnia degli apoti.

Gli apoti sono scettici, non credono ai soliti furbetti di partito, sono dubbiosi, malfidati nei confronti del potere e del progressismo liberale o socialista. Il passato è un elemento rassicurante mentre l’istituzione democratica viene percepita come corrotta, maligna, malfidata.

Se questa descrizione vi rammenta un certo tipo di elettorato occidentale (dagli Stati Uniti all’Ungheria, passando per l’Italia e anche le ultra-destre francesi, tedesche e spagnole), avete fatto centro.

La visione anarco-conservatrice di Prezzolini si presta a una rilettura perfetta per i movimenti far right, che fanno leva da un lato su un elettorato scettico e nostalgico, dall’altro su figure politiche che hanno ben poco dell’istituzionale e del democratico.

Giorgia Meloni viene definita underdog, qualcuno di lontano dai circuiti di partito (il che è falso, vista la sua militanza ventennale nei partiti satellite di matrice fascista che a oggi supportano il suo Fratelli d’Italia), qualcuno che non si mischia con le solite dinamiche di palazzo. Trump è un altro perfetto esempio di questa erronea percezione: viene dall’imprenditoria, dallo show business, da ambienti che hanno a che fare con un altro tipo di potere, più libertino e libertario che istituzionale. Gli spagnoli di Vox hanno fatto del negazionismo (climatico e scientifico) una bandiera, idem per Bolsonaro in Brasile e Milei in Argentina, ma anche Orbán in Ungheria. Insomma, le grandi forze dell’Occidente del globo hanno preso una nettissima svolta a destra, godendo della fiducia di un elettorato scettico, stanco, ossessionato dal “pensiero dominante” (che, al pari della “teoria gender”, non esiste, ed è bene ricordarlo di tanto in tanto). Non solo: l’alt right occidentale ha goduto moltissimo di altre sottoculture di apoti contemporanei, come i negazionisti storici (in primis dell’Olocausto), quelli climatici, gli incel, i complottisti (da QAnon a quelli sul Covid19), i movimenti omofobi e antiprogressisti, i puristi della razza bianca, le comunità digitali di 4chan, Reddit e non ultimo l’X di Elon Musk.

L’elettorato alt right e far right è stato intercettato perfettamente dalle nuove linee politiche di ultra-destra, che hanno saputo vendersi come semi anarchiche o, in alcuni casi, apertamente e completamente nemiche del potere democratico: il tentato colpo di Stato avviato da Trump il 6 gennaio 2021 a Capitol Hill ne è un perfetto esempio. Idem l’autoritarismo anticostituzionalista ungherese. 

Facendo leva sulla ricerca spasmodica della verità anche quando questa è lampante e plateale, le ultra-destre occidentali hanno preso la fiducia degli sfiduciati per eccellenza, ovvero una congregazione di apoti che arriva da decenni difficili di crisi delle democrazie occidentali e della borghesia stessa. 

Importare dunque un’ideologia conservatrice è diventato facile: se al tempo di Prezzolini gli intellettuali socialisti e liberali cercavano di fare muro alle derive fasciste, oggi perfino la classe intellettuale è in crisi e fa fatica a ritrovare il coraggio che dovrebbe contraddistinguerla.

In questo panorama desolato, in cui gli intellettuali si vendono spesso al miglior offerente e depongono le armi della radicalizzazione a favore della visibilità su ogni tipo di media esistente, il pensiero retorico del “si stava meglio quando si stava peggio” è diventato centrale in tutto l’Occidente.

E in questa affermazione del pensiero di destra, la riscoperta degli intellettuali conservatori è necessaria, per conferire quella parvenza di autorevolezza e cultura che da sempre manca a ogni forma di movimento far right.

Prezzolini dunque, parzialmente compreso e ampiamente revisionato, è diventato un teorico di riferimento per Meloni e compagnia cantante ma soprattutto per il suo elettorato.

Così come gli intellettuali etnonazionalisti in Francia e quelli neoconservatori negli Stati Uniti: le ultra-destre stanno diventando teoriche, riprendendo terreno nella cultura, spingendosi verso la celebrazione di una società rabbiosa e diffidente, inascoltata per troppo tempo e che, abbandonata dalle sinistre liberali occidentali, si è crogiolata nella diffidenza e nell’odio.

Da apoti sono divenuti dunque neofascisti, convinti di poter distruggere ciò che reputano nemico ovvero lo stato democratico e la sua naturale evoluzione progressista, in favore di un moto reazionario che si muove spedito verso una chiusura anti-illuminista.

La sfiducia verso la democraticità è il cardine di questi nuovi apoti, coccolati dalle nuove destre e abbandonati dalla classe intellettuale progressista, sempre meno adatta a contrastare i conservatorismi.

Poco sopra vi raccontavo di come Prezzolini teorizzò la società degli apoti al suo giovane collega Gobetti tramite una lettera pubblicata sulla rivista fondata da quest’ultimo. 

La lettera di Prezzolini ricevette una precisa, forte e appassionata risposta da parte del giovane intellettuale antifascista.

E nelle parole di Gobetti io ritrovo una disarmante attualità, una linea morale ed etica assolutamente a fuoco e a noi contemporanea, che sa perfettamente disinnescare gli slanci conservatori e ignavi e ricorda quasi le parole – scritte venticinque anni più tardi – di Italo Calvino ne Il sentiero dei nidi di ragno.

Mi sembra doveroso dunque aggiungervele qui, senza alterazione alcuna da parte mia, affinché possiate farne tesoro, ricordandovi che quella della “compagnia della morte” teorizzata da Gobetti è ancora oggi la più efficace spiegazione della pericolosità di chi non sa prendere una posizione intellettuale, anche e soprattutto davanti al fascismo.«Mentre assistiamo alle più vigliacche dedizioni degli intellettuali ai fasci noi non ci siamo mai sentiti tanto ferocemente nemici di questa intellettualità delinquente, di questa classe bastarda, bollata così definitivamente da Marx e da Sorel e in Russia dai bolscevichi. Sapremo mostrare come ci distinguiamo da questi parassiti anche a costo di ricorrere alla tattica anarchica di insurrezionismo armato, se pare il fascismo non si risolverà allegramente in una palingenesi ottimistica di democrazia e di riformismo. Di fronte a un fascismo che con l’abolizione della libertà di voto e di stampa volesse soffocare i germi della nostra azione formeremo bene, non la Congregazione degli Apoti, ma la compagnia della morte. Non per fare la rivoluzione, ma per difendere la rivoluzione». Pietro Gobetti.

ARTICOLO n. 73 / 2024

HAN KANG, LA RIVOLUZIONE DI UNA LETTERATURA MINORE

La Premio Nobel per la letteratura 2024

Han Kang, prima scrittrice (sud) coreana e diciottesima donna a vincere il premio Nobel per la letteratura: queste le principali informazioni fornite dalla maggior parte delle testate giornalistiche che hanno riferito la notizia. Generalmente, l’attribuzione di tali onorificenze è trasferita su un’eccezionalità legata all’appartenenza a qualche tipo di minoranza di genere, etnica o linguistica, quantomeno percepita.

In realtà, l’autrice de La vegetariana rappresenta un paradosso interessante nella sua esibita volontà di apertura all’ibridazione, a una letteratura intesa come tensione e riflessione continua sulla lingua e sulla comunicazione. Come la protagonista de La vegetariana, suo romanzo d’esordio, Kang accoglie la lezione di Bartleby alla perfezione inoltrandosi nel più vasto territorio della “world literature” già auspicata da Goethe e che, come afferma Franco Moretti, rappresenta ancora oggi una sfida, un’ipotesi.

Questa provocazione si concretizza in una prosa definita dall’accademia svedese “poetica” ma che potrebbe essere piuttosto intesa come sperimentale nel suo soppesare parola per parola, nel procedere per sottrazione fino alla rarefazione con l’obiettivo di raggiungere lo scheletro di ciò che è umano e della letteratura come narrazione basilare di questa umanità. Non a caso i pareri della critica di mestiere e dei lettori più o meno forti non sono unanimi, a conferma anche dell’intento politico e sovversivo perseguito dalla prosa pacata – ma editorialmente ben diffusa – di Kang. Il lettore, infatti, è spesso disatteso nelle sue aspettative, posto di fronte a una continua deterritorializzazione.

Kang si sottrae apertamente al piedistallo della “periferia” instradandosi, invece, in quella che Deleuze e Guattari hanno definito letteratura minore che “non è la letteratura di una lingua minore ma quella che una minoranza fa di una lingua maggiore”. Quando, infatti, nel 2016 Kang vince il Man Booker International Prize per La vegetariana (2007, uscito in Italia per i tipi di Adelphi nel 2016), condividendo il premio con Deborah Smith, la sua traduttrice britannica, le polemiche si concentrarono soprattutto su questioni di leggibilità e di identità culturale nei confronti della lingua originale. Secondo il parere dei detrattori, il successo di Kang in occidente dipenderebbe da una traduzione poco accurata del suo stile diafano, profondamente radicato nella tradizione letteraria coreana. Ma il tradimento della lingua madre, inteso etimologicamente come trasmettere, consegnare, risponde in modo intrinseco alla necessità di raggiungere un destinatario. La risposta a questa diatriba è già contenuta ne L’ora di greco del 2011 (pubblicato in Italia soltanto nel 2023) dove la deterritorializzazione linguistica si fa esplicita, regressiva, sottraendosi alla violenza della Storia intesa anche come connotazione etnica e culturale.

In quest’ultimo romanzo pubblicato in Italia, si fa spazio una sorta di trattazione teorica sulla lingua che proprio nel suo evolversi e diventare veicolo d’uso necessariamente si corrompe, perde le sue strutture rigide e preziose volgendo al degrado. Si tratta, tuttavia, di un degrado necessario affinché essa si plasmi trasformandosi, così, in strumento di contatto: «Dal momento in cui una lingua arriva al suo apogeo, la sua evoluzione segue un tracciato più lento e graduale, via via si modifica e diventa più facile da usare. In un certo senso declina, si contamina, ma da un altro punto di vista potremmo considerarlo un progresso. Le odierne lingue europee sono il prodotto di una lunghissima trasformazione che le ha rese meno rigide, meno accurate, meno complesse» (L’ora di greco, p. 31).

La corruzione della lingua d’uso – e di conseguenza e per esteso della comunicazione anche letteraria – rende costante in Kang l’impossibilità di un significato univoco, certo, provocando in chi legge un profondo spaesamento delle proprie possibilità interpretative. La comprensione dei fatti e dei comportamenti dei personaggi rimane sospesa, aleggia sulla narrazione a volte in modo quasi sfiancante. Il senso sembra puntualmente riconducibile a un significante che risponde a una logica “altra”, alternativa a un processo di indagine razionale. Da qui il ricorso alla polifonia, alla parcellizzazione dei punti di vista come accade proverbialmente anche in un romanzo più concreto come Atti umani (2016). Qui la ricostruzione storica non si fa indagine né recriminazione ma narrazione, al tempo stesso veritiera e verosimile, della rivolta di Gwangju del 1980. All’epoca dei fatti Kang aveva nove anni e nella sua revisione a posteriori non viene meno all’ossessione di riportare tutto a misura d’uomo anche quando la Storia appare come un gigante che travolge minuscole esistenze.

A quel punto, ogni dettaglio esistenziale viene per l’appunto ingigantito mischiandosi a una paratattica narrazione degli eventi, in un doloroso alternarsi di immagini interne ed esterne ai personaggi. Qualsiasi distinzione tra memoria storica e memoria individuale si confonde e viene in qualche modo negata. Nella definizione di letteratura minore fornita da Deleuze e Guattari, ogni gesto individuale si fa politico e collettivo. In Atti umani ogni singola vita narrata o solo accennata sembra significativamente unirsi a un coro che urla il proprio dolore in una bolla insonorizzata. Il ricordo si fa strada come un linguaggio possibile così come quello onirico, altrettanto significativo ne La vegetariana, dove il sovvertimento della logica simmetrica del sogno si fa strada, smantellando il senso delle azioni della vita quotidiana della protagonista e delle persone che la circondano, come una sorta di epidemia: «Forse a un certo punto, Yeong-hye ha semplicemente lasciato cadere l’esile filo che la teneva legata alla vita di ogni giorno! (La vegetariana, p.163).

Il rifiuto di mangiare carne e poi di mangiare del tutto rappresentano l’atto più estremo del riconoscimento del dolore che è necessariamente anche fisico: «La vita è così strana, pensa dopo aver smesso di ridere. Le persone, anche dopo che gli sono successe certe cose, non importa quanto terribili, continuano comunque a mangiare e a bere, ad andare al bagno e a lavarsi – in altre parole, a vivere. E a volte ridono perfino di gusto. E probabilmente hanno questi stessi pensieri, e quando succede si ricordano tutta la tristezza che erano riuscite per breve tempo a dimenticare» (La vegetariana, p. 164).

Come il digiunatore di Kafka, la vegetariana di Kang rimanda alla necessità di tornare all’assoluto umano, alla necessità di una scrittura così magra da far intimidire il superfluo del nostro tempo. La deterritorializzazione si fa quindi defunzionalizzazione delle azioni fisiologiche abituali, si concretizza nel rifiuto del cibo e della parola, ma si rianima nel desiderio di una compenetrazione sempre più profonda con la natura, o meglio, con una condizione vegetale, precosciente, in cui il linguaggio diventa così essenziale da trasformare mittente e destinatario in una diade. I nomi propri, infatti, sfumano spesso insieme ai volti, come sovrastrutture accessorie della conoscenza di sé, degli altri e di un destino comune che azzera sembianze e connotati.Probabilmente in questo svanire del tu e dell’io si realizza la prosa “poetica” di Kang, nella capacità di far penetrare il potenziale mimetico della poesia all’interno della plurivocità romanzesca, realizzando così la rivoluzione possibile di un’orgogliosa letteratura minore.

ARTICOLO n. 72 / 2024

TRAP E RAP: LA TRASGRESSIONE SVELA MONDI INVISIBILI

intervista di isabella de Silvestro

Don Claudio Burgio è nato a Milano e di Milano ha il fare pragmatico e solerte. Ordinato sacerdote nel 1996 dal cardinale Carlo Maria Martini, quattro anni dopo fonda Kayròs – dal greco “momento opportuno” – un’associazione che accoglie in comunità residenziali ragazzi tra i 14 e i 25 anni con procedimenti penali a proprio carico, accompagnandoli, come si dice, al reinserimento sociale, ovvero guidandoli nell’elaborazione del dolore pregresso e nella costruzione di una forma futura che sia solida e responsabile del rispetto di sé e degli altri. Da anni Don Burgio è anche il cappellano dell’istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano. Nel 2010 ha pubblicato per le Edizioni Paoline Non esistono ragazzi cattivi, testimonianza del suo operato tra il carcere e la comunità. Abbiamo parlato del mondo dei ragazzi e di quello degli adulti, di come si costruisce un dialogo fertile attraverso la musica, con curiosità, ascolto e senza moralismi.

Isabella De Silvestro: Come si è avvicinato al mondo del carcere e in particolare a quello del carcere minorile?

Don Claudio Burgio: Sono prete dal 1996 e sono stato mandato subito in una parrocchia periferica di Milano. I ragazzi che incontravo presentavano tante fragilità, sia nel rapporto con i genitori che a causa di dure esperienze di vita. Tra questi c’erano tantissimi minori stranieri non accompagnati. Da lì è nata spontaneamente l’idea di accogliere questi ragazzi in piccole case e si è avviata così l’esperienza di Kayròs. Nel tempo il progetto si è ampliato e di conseguenza il Cardinal Martini, che mi ha ordinato prete, mi ha proposto di andare al Beccaria come vice cappellano. Diciamo che le comunità e il Beccaria sono nate dal mio ministero in mezzo ai ragazzi.

I.D.S. Ad aprile sono venute alla luce torture e pestaggi da parte di alcuni agenti penitenziari nei confronti dei ragazzi detenuti al Beccaria. Di fronte a violazioni di questa gravità, è ancora possibile guardare al sistema-carcere con fiducia?

D.C.B. Quando ho iniziato al Beccaria, diciannove anni fa, potevo dire che quella fosse un’esperienza rieducativa. C’era una multidisciplinarietà dell’intervento, un metodo-Beccaria che risultava vincente in molte situazioni. Posso dire che quel paradigma, quel dispositivo funzionava. Nel tempo, a causa di tanti fattori legati nel caso del Beccaria alla mancanza di un direttore stabile, tra le altre disfunzioni, quel metodo non è stato più efficace. Come spesso accade quando manca un governo centrale le figure si chiudono in una certa autoreferenzialità e quindi gli agenti penitenziari andavano da una parte, gli educatori dall’altra, gli insegnanti da un’altra ancora: un approccio frammentato e disfunzionale. Oggi non solo il Beccaria, ma le carceri minorili in generale, purtroppo, non riescono a far fronte alle situazioni complesse a cui dovrebbero invece saper rispondere. Che dunque la galera diventi una scuola di crimine è abbastanza evidente, ancora di più nelle carceri per adulti dove il rapporto detenuti-educatori è di 300 a 1.
Il minorile, poi, ha una responsabilità ancora maggiore: dovrebbe essere un’esperienza fortemente educativa dove non sia mai la violenza a prevalere. Il carcere è per definizione un’istituzione totale, che corre il rischio costante di diventare totalitaria. 
Non posso nascondere che le figure educative di oggi, quelle che l’università italiana forma nelle facoltà di scienze dell’educazione, sono altamente impreparate ad avere a che fare con ragazzi che vengono da contesti così complessi. Anche le forze di polizia penitenziaria mancano di formazione. Un conto è tutelare la sicurezza in un carcere per adulti, un conto è avere a che fare con adolescenti. Fino al 2017-2018 era prevista una formazione specifica, poi questa formazione è stata dismessa: questi sono i risultati. Essere autorevoli ed essere autoritari sono cose diverse.

I.D.S. A proposito di autorevolezza. Quando ha capito che la musica poteva essere uno strumento efficace di dialogo e lavoro comune con i ragazzi?

D.C.B. Da sempre, perché a mia volta ho ricevuto una formazione musicale fin da bambino e come prete ho svolto ruoli di direzione musicale, composizione e studio in ambito ecclesiastico. Per cui ho sempre avuto una familiarità con la musica, ne conoscevo i riscontri e le possibilità espressive. Nella mia comunità c’è stato fin dall’inizio un laboratorio musicale, ovviamente adattato ai ragazzi, perlopiù di rap. Questo linguaggio è diventato con il tempo preponderante e alcuni di questi ragazzi ne hanno fatto un vero e proprio lavoro. Ci tengo a dire che si tratta di carriere che si sono costruiti da soli, noi li abbiamo solo messi nelle condizioni di potersi esprimere accompagnandoli negli studi di registrazione, assistendoli nel loro cammino artistico. Mettere i ragazzi nelle condizioni favorevoli per fare musica ha significato anche averli tutelati rispetto al mondo dei servizi sociali, dei tribunali per minori che diffidavano di questo genere musicale. All’inizio è stato molto difficile, la comunità si è esposta per loro perché era considerato impensabile dalle istituzioni che un cammino educativo potesse conciliarsi con i testi e i video delle loro canzoni. C’era un forte pregiudizio e una richiesta quasi di censura, cosa che invece noi non abbiamo mai abbracciato come metodo educativo. La comunità ha cercato di interagire con giudici e servizi sociali per far capire come questo progetto non dovesse essere ostacolato ma fosse invece una possibilità non solo di lavoro ma soprattutto di espressione. Negli ultimi anni qualcuno ci ha capito di più ma all’inizio è stata dura.

I.D.S. La giustizia processa i testi, tanto in senso metaforico quanto letterale?

D.C.B. Io penso di sì. Il rap e la trap erano visti come generi musicali deviati e devianti, associati alla criminalità. Io credo che questa lettura, favorita dal mondo delle istituzioni, non abbia ragion d’essere. In queste canzoni, peraltro forse mai ascoltate fino in fondo dagli uomini delle istituzioni, si poteva trovare una chiave di lettura di fenomeni complessi. Avrebbero aiutato a capire per esempio l’esistenza delle seconde e terze generazioni, permettendo all’ascoltatore di entrare in una realtà scomoda, difficile da guardare, eppure fondamentale da comprendere.
Noi non abbiamo mai avuto pregiudizio, anche quando i testi esprimevano concetti che non ci appartenevano. Abbiamo sempre pensato che un malessere vissuto debba poter essere espresso. La realtà che raccontano esiste, per quanto sgradevole possa apparirci. Quando ai ragazzi è stato evidente che li ascoltavamo, allora da lì siamo entrati in confidenza, da lì abbiamo potuto dialogare davvero. Questi ragazzi erano prima totalmente indifferenti se non ostili al mondo adulto. Io credo che tante sentenze o interventi della giustizia nei confronti di alcuni dei nostri ragazzi siano stati un accanimento che andava oltre il reato stesso o le condotte.

I.D.S. Perché per i ragazzi che hanno abitato i margini il rap e la trap hanno una presa che nessun altro genere riesce ad avere?

D.C.B. Perché permettono di descrivere la realtà di contesti sconosciuti: le periferie, le situazioni giovanili di fragilità economica, sociale, culturale che attraversano il nostro tempo. Adesso si dirà che esagero ma io credo che questo genere permetta una narrazione del reale di stampo pasoliniano. Anche lui descriveva mondi che appartenevano alla povera gente, raccontava, attraverso la poesia, un’Italia che nessuno aveva il coraggio di guardare con quegli occhi e quello sguardo.

I.D.S. Lei crede che il successo di questi ragazzi, come quello vertiginoso raggiunto da Baby Gang o Sacky, per citare due trapper di grande successo passati per la sua comunità, li abbia aiutati o ingabbiati?

D.C.B. Il successo dà alla testa a tutti, soprattutto a chi per anni è vissuto nella povertà più assoluta e di colpo si ritrova nella posizione di accedere anche ai lussi più sfrenati. Detto questo, sono ragazzi che non hanno solo buttato via. Hanno comprato la casa per i loro genitori: c’è un forte senso di responsabilità nei confronti delle famiglie. Ne parlavo spesso con loro e li trovavo esemplari.

I.D.S. Mi interessa il tema del denaro. In un servizio delle Iene sull’esperienza di Kayròs, vicino a lei appare un ragazzino straniero, poco più che bambino, che immediatamente parla di soldi. Lei dice: «soldi è la prima parola che imparano». Come lavora su questa tema?

D.C.B. La prima cosa è prendere sul serio le parole dei ragazzi. Noi in fondo facciamo riferimento a parametri, codici e valori che nascono dalle condizioni di vita nelle quali abbiamo vissuto. Quando un ragazzino con un’esperienza totalmente diversa dalla nostra dice “soldi”, innanzitutto va preso sul serio. Per molti di noi, vissuti tutto sommato nell’agio questa parola sembra non risolutoria. Invece, per chi viene da una povertà estrema, per chi addirittura non mangiava tutti i giorni, o ha vissuto interi inverni senza acqua calda in casa, questa parola ha una risonanza che non è la stessa che può avere in me o in lei, che se anche abbiamo conosciuto la povertà è una povertà di ordine diverso. Questo, dunque, è il primo passo. Dopodiché è chiaro che bisogna accompagnare i ragazzi a dare senso e valore al denaro. Quindi il secondo passo è chiedere: i soldi perché? I soldi dove vanno una volta che li guadagni? Accompagniamo i ragazzi a dare valore alle parole, prima ancora che al denaro. Molti di questi ragazzi dicono parole, ma sono parole ripetute, sono mantra. Non sono ancora parole riflettute, a cui dare un significato serio. 

I.D.S. Lei dice che i tempi giuridici non sempre corrispondono a quelli della crescita di un essere umano e che è probabile che un ragazzo sbagli ancora e ancora prima di trovare la strada giusta. Che rapporto ha con la delusione e il rammarico?

D.C.B. La parola delusione non deve esistere per un educatore. L’educatore non è quello che vive il suo ruolo con ansia da prestazione: io so benissimo che perché un ragazzo scopra e dia valore alla propria vita deve inevitabilmente passare da alcune tappe. Un cammino di crescita non è mai un cammino continuo e lineare verso il bene, è anzi sempre un cammino accidentato e discontinuo. Ci sono momenti buoni e momenti meno buoni e bisogna accompagnare i ragazzi in questo saliscendi che è la vita per aiutarli a dare senso anche al dolore, anche alla frustrazione, anche a uno sbaglio. Aiutarli a capire che uno sbaglio non è la fine di tutto ma può essere l’inizio di qualcosa di più importante.

I.D.S. Non si scandalizza mai?

D.C.B. [ride n.d.r.] In questi anni ho imparato a digerire veramente tante cose. Io, devo dire, mi scandalizzo più del nostro mondo adulto. Faccio fatica a scandalizzarmi dei ragazzi anche quando sono provocatori. Anzi, a dire il vero tutto sommato mi diverto. Trovo più scandalo in un certo modo di fare politica, e lo intendo nel senso della polis. Quando per esempio ci sono delle case che la gente mette a disposizione per fare comunità e un’amministrazione comunale si mette contro, influenzando la cittadinanza, creando allarmismo. Ecco, quello per me è un modo scandaloso di fare politica, in un momento come questo in cui l’immigrazione non è più un’emergenza ma un processo irreversibile. Più che scandalosa la trovo una politica miope, un’incapacità di capire dove si sta andando. Ma devo dire che faccio i conti anche con questo. Non sono uno che si accende, diventa ideologico o polemizza. Cerco di capire la paura della gente, di comprenderne l’origine. Mi sembra che le persone abbiano bisogno di un mostro in cella per affermare la propria bontà. Io penso che un sistema come quello del carcere debba essere superato, ma sono cosciente che è una posizione che può essere facilmente tacciata di ingenuità. Il passaggio da valori proclamati a valori vissuti è ancora un passaggio molto difficile in Italia. 

I.D.S. La trasgressione, intesa sia come possibilità della vita che come versi in una canzone, può avere un ruolo creativo e positivo?

D.C.B. Credo di sì. La trasgressione svela mondi prima invisibili. L’emergenza, io dico sempre, non è una parola negativa. Ciò che emerge, ciò che si rende visibile è già speranza: perché permette di guardare oltre. Se invece guardiamo all’emergenza solo come qualcosa da abbattere non riusciremo a fare dei passi avanti. Non basta la lamentela, la nostalgia dei tempi che furono: bisogna imparare a guardare anche al male come una possibilità, come un Kayròs.

I.D.S. Che ruolo ha la fede, quella sua e quella dei ragazzi, nel dialogo che instaurate?

D.C.B. La fede vista da dentro – dal carcere, dalle storie difficili di questi ragazzi – è una fede molto più evangelica. Il vangelo diventa drammaticamente reale. Il rischio, per noi uomini di Chiesa, è quello di diventare un po’ fideisti, il fideismo di chi si affida a Dio in maniera retorica o convenzionale. Invece, dalla prospettiva del margine, la fede non è quella della preghierina, è una fede fatta di domande aperte. Stare in carcere mi aiuta a tenere sempre accesa la domanda.

ARTICOLO n. 71 / 2024

PARANOIDI-PARANOICI

l’America, Trump e il destino del mondo

Pubblichiamo un’anticipazione dall’ultimo saggio di Alessandro Carrera, I vecchi, i giovani e gli strani. Biden, Harris, Trump e il destino del mondo (Sossella editore) in libreria dal 9 ottobre. Ringraziamo l’editore per la disponibilità

All’inizio di novembre del 1987, all’inizio del mio primo incarico negli Stati Uniti, senza sapere ancora molto di ciò che mi aspettava, venni catapultato in una giornata di studi in onore di Roberto Rossellini alla Rice University di Houston. 

Tra il 1970 e il 1974 Rossellini aveva fatto il pendolare tra Roma, Parigi e Houston per conto di John e Dominique de Menil, grandi mecenati d’arte, che alla Rice University avevano creato un centro studi di cinema e media. Rossellini però, anche se chiamato per conto del Media Center, era più interessato a parlare con gli scienziati dell’università, con i quali sperava di realizzare una serie di documentari televisivi che avessero come tema la scienza, coloro che la fanno e come la fanno. 

Conversò a lungo con biologi, astronomi, fisici, fisiologi, storici e meteorologi, filmò ore di conversazioni, visitò la NASA e l’osservatorio Arecibo di Puerto Rico, ma non ebbe mai la soddisfazione di essere preso sul serio. Non erano i tempi in cui uno scienziato provasse piacere a discutere con un umanista, se mai quei tempi sono arrivati.

Una sessione di quella giornata di studi del 1987 era appunto dedicata agli scienziati e al ricordo dei loro lunghi pranzi con Rossellini, che a quanto pare ordinava sempre due dessert. Raccontavano quell’esperienza, per loro trascurabile, con divertito fastidio. Non avevano mai capito che cosa avesse in mente quello strano signore italiano che chissà perché voleva farli “comunicare” con chi scienziato non era.

Di quella serie di documentari mai realizzati non sapevano cosa dire e non mancavano di far capire che l’intera faccenda, per quanto li riguardava, era stata una distrazione inutile. Li trovai tanto irritanti quanto ammirevoli, con quella loro spocchia scientifica stampata in faccia. Per me c’era qualcosa da imparare, visto che avrei potuto avere a che fare con qualcuno come loro anche nei corridoi della mia università, la University of Houston. 

Tra gli italiani presenti c’erano giornalisti, critici cinematografici, probabilmente funzionari della Rai o di Cinecittà. Quando gli scienziati ebbero finito di prendere in giro quel simpatico scocciatore che aveva fatto perder loro tutto quel tempo, si alzò un italiano piccolino e nervoso. Con una voce che squittiva, cantilenante e fastidiosa come ne ho sentite poche, rinfacciò a quei meschini scientisti la grandezza di Rossellini, il suo genio universale, continuazione dell’immensa tradizione culturale italiana che da Dante portava al Rinascimento e culminava nella Nazione che il neorealismo di Rossellini aveva fatto conoscere al mondo.

Niente da obiettare, se non che quella voce da topo cacciato in un angolo, quel singhiozzo che usciva a stento dalla gola, quel gesticolare ispirato con il quale il poveretto accompagnava le sua retorica da professore di ginnasio, spuntata in partenza dal freddo stupore che gli arrivava in risposta dagli imponenti scienziati americani, mi fecero capire in un momento che cosa avevo lasciato in Italia e che di sicuro non volevo più ritrovare: quell’isteria, quel vittimismo, quel continuo invocare un grande passato che è la sigla di coloro il cui momento è passato.

Sono partito da un paese di isterici, pensai. E mai e poi mai, finché rimango qui, dovrò farmi sfuggire un comportamento simile a quello che ho appena visto. Era il caso, piuttosto, di cominciare a capire che cosa avrei trovato lì dove ero arrivato. E non ci misi molto a capire che avevo lasciato una terra di isterici per entrare in una nazione nella quale il termometro, una volta per le armi, un’altra per il sesso, un’altra ancora per la religione o la politica, segnava sempre qualche linea di febbre paranoide.

Che una certa inclinazione paranoide sia un tratto ricorrente del carattere americano l’hanno argomentato in molti, americani loro stessi, e molto meglio di quanto potrei fare io. Non potevo immaginare, allora, che più di trent’anni dopo mi sarei trovato in un paese che, oltre alle ben note tensioni paranoidi, presentava anche tratti fortemente isterici.

Ciò che colpisce nel rileggere oggi il celebre saggio di Richard Hofstadter, Lo stile paranoide nella politica americana (edizione del 1965, tr. di Francesco Pacifico, Adelphi 2021) è che se confrontiamo gli scritti citati dall’autore, tratti dalla pubblicistica del Settecento e dell’Ottocento, come dai discorsi di politici del Novecento, constatiamo che dal 2008 a oggi c’è stato un rovesciamento di prospettive. Chi sosteneva che gli Stati Uniti fossero vittima di una congiura mondiale guidata di volta in volta dagli Illuminati di Baviera, massoni, gesuiti, papisti, mormoni, socialisti, anarchici, ebrei e comunisti, proclamava che il suo fine era la salvezza dello Stato o, per citare Benjamin Franklin, «una repubblica, se la sai difendere» (“a Republic, if you can keep it”), l’ordinamento politico nato dalla Dichiarazione d’Indipendenza.

Ma negli ultimi sedici anni, segnati dalla pessima conduzione della seconda guerra in Iraq, la crisi finanziaria del 2008, l’elezione alla presidenza di Barack Obama accolta con sincero terrore dall’America conservatrice,nonché la nascita del Tea Party (la frangia repubblicano-populista poi confluita nel culto di Donald Trump), lo stile paranoide è stato adottato proprio da chi afferma di voler smantellare lo stato, in modo molto, molto più radicale di come l’aveva promesso Ronald Reagan. 

L’ideologia isterica, la “domanda impossibile” che sottende a questa nuova furia mescola il risentimento del povero con l’adorazione verso il ricco, l’odio verso le classi povere (consustanziale alla piccola borghesia) con il libertarismo assoluto dei grandi tecnocrati, sovrani assoluti delle reti informatiche e delle criptovalute, e per i quali la democrazia è solo un inciampo verso il dominio del Sistema Solare. 

Lo “stile paranoide nella politica” è oggi l’essenza paranoica dell’antipolitica. Non arrivo a dire che chi pronuncia discorsi paranoici sia egli stesso paranoico, non fornisco diagnosi e non uso questi termini nel loro uso clinico. In ogni discorso teso ad aizzare la componente isterico-paranoide del proprio elettorato giace una buona dose di opportunismo, ma qualche volta mi viene davvero il sospetto che il confine tra lo stile paranoide e una qualche condizione paranoica clinicamente accertabile sia stato passato. 

Oggi, i paranoidi-paranoici per i quali il discorso isterico-complottista è la forma normale di comunicazione (“Tu mi nascondi qualcosa, e io non so cos’è, ma non te lo dico!”) non vogliono salvare l’America dai nemici che ha veramente. Anzi, ne sono innamorati persi, il che vale per la destra quanto per certe frange della sinistra. La destra non vede l’ora che la democrazia sparisca per inaugurare finalmente un’inedita dittatura American Style, impossibilmente cristiano-fondamentalista, nativista-razzista, e allo stesso tempo basata sull’assoluta libertà d’impresa – una miscela assurda, che entrerebbe in contraddizione nel momento stesso del suo trionfo. 

Si credono conservatori, ma non intendono conservare nulla. La loro politica rigetta tutto quello che l’America è stata: nel male, forse, ma anche nel bene. Dal canto suo, la sinistra identitaria, pacifista e bellicosa insieme, esalta la minoranza du jour come unica portatrice dell’umano, cade in deliquio per il diverso puro e incorrotto (non il diverso come davvero diverso) e indossa la stola dell’inquisitore supremo della cultura occidentale, giudicata l’unica nella storia del mondo a essersi macchiata di crimini imperdonabili.

Ma l’ideologia identitaria, giustizialista o cosiddetta woke non possiede una briciola del potere che ha la destra. La vera questione è la natura di quella rabbia che continuiamo a chiamare destra per non chiamarla anarco-fascismo. Perché il fascismo tradizionale adorava lo Stato, mentre da questo anarco-fascismo emerge una pura volontà di distruzione, un this is the end da disperazione tardoesistenzialista, il nichilismo terminale di chi ha concluso che il progetto americano è fallito e che si può solo por fine alle sue sofferenze. Il 26 luglio 2024, intervenendo a un evento di Christian conservatives in Florida, Trump ha detto che, se verrà eletto, per quattro anni gli americani non dovranno preoccuparsi di votare.

Significa annullare le elezioni di medio termine, il che magari sottintende che sarebbe meglio se non dovessero votare mai più. Non accadrà, la macchina elettorale è un business enorme per chi vince come per chi perde (a volte il capitalismo è una garanzia), ma nessuna obiezione si è levata, né dal Partito Repubblicano né dal popolo MAGA (“Make America Great Again”, “Fa’ l’America di nuovo grande”, lo slogan di Trump). Nessuno ha gridato al complotto contro l’America, come invece sarebbe accaduto in qualunque altra occasione.

Il complotto sono loro. Non intendono solo impadronirsi dello stato, il loro progetto è di eliminarlo. Nancy Pelosi, “Grande Anziana” del Partito Democratico (è lei, più di ogni altro, ad aver convinto Biden a ritirarsi), in una conversazione con Ezra Klein riportata dal “New York Times” il 18 agosto 2024, ha detto: «È molto difficile trovare un punto d’intesa con persone che non hanno né principi né un progetto. È difficile negoziare con qualcuno che non vuole niente». Molti hanno cercato la causa di questo rovesciamento di valori, ma forse nessuno ci è andato più vicino di Marilynne Robinson, una delle vere coscienze cristiane dell’America.

In un saggio pubblicato sulla “New York Review of Books” del 18 luglio 2024, intitolato Agreeing to Our Harm, che si potrebbe anche tradurre: “Continuiamo così, facciamoci del male”, Marylinne Robinson si chiede da dove emerge questo patriottismo da messa nera. La sua risposta, sorprendente e profonda, è che bisogna guardare allo squilibrio con il quale sono stati distribuiti tra la popolazione i pesi delle guerre che l’America ha sostenuto, dalla Corea fino a oggi.

Più che riassumere le tesi di Marylinne Robinson, le userò come una scala sulla quale salire, aggiungendoci del mio, ma la richiamerò quando ce ne sarà bisogno. Il fenomeno Trump, così si dice, riflette lo stato d’animo della popolazione che si è sentita abbandonata dalla furibonda corsa in avanti della globalizzazione e del capitalismo estremo. Ma dal movimento sorto intorno a Trump non è uscita nessuna proposta che potrebbe attenuare la disuguaglianza economica, né è stata espressa la minima simpatia nei confronti degli investimenti pubblici che l’amministrazione Biden ha messo in opera e che hanno fatto di Biden il presidente più “sociale” (non dirò socialista) che l’America abbia avuto dai tempi di F.D. Roosevelt. 

Se davvero questa popolazione si sente lasciata indietro, si chiede Robinson, perché sembra preoccuparsi soltanto di coloro che offendono il suo amato capo? Il movimento MAGA, che Trump ha creato senza neanche pianificarlo e che di fatto ha sostituito il Partito Repubblicano, non ha una visione politica, e nemmeno l’avrà finché Trump ne terrà le redini. 

Come è accaduto ad altri movimenti populisti, dal poujadismo francese al grillismo italiano, quando il fondatore si fa da parte agli altri resta solo da rimboccarsi le maniche ed entrare nel gioco. Ma una seconda presidenza Trump (che al momento appare meno sicura di quanto non lo fosse mesi fa) potrebbe portare alla fine dei giochi, o perlomeno a un periodo di caos che si rifletterebbe sul mondo intero.

Al movimento MAGA questo non interessa affatto. I suoi membri sono preda di un’identificazione dionisiaca con le sofferenze del loro dio, un satiro anziano e sovrappeso che sale sul palco a recitare la litania dei suoi dolori con il coro MAGA che gli fa eco, dimenticandosi catarticamente dei propri. È così che è nata la tragedia greca, ed è così che potrebbe finire la tragedia americana.

ARTICOLO n. 70 / 2024

DECOSTRUIRE IL PATRIARCATO CON IL BLACK METAL

intervista di marco de vidi

Un salotto curato, le pareti bianche, una famiglia abbiente come tante, madre, padre e figlia che si dedicano allo yoga, che mangiano cibo vegano, che si annoiano nella vacuità del loro benessere. Indossano tutti una maschera, i volti hanno sembianze aliene, le voci sono alterate e distorte: la normalità borghese assume una forma grottesca, esagerata, spietata. Aperta la tenda rossa, tutto avviene in un’unica stanza, in una sorta di kammerspiel iperreale e bizzarro: con l’irruzione dei Fag Fighters, un commando di terroristi gay in passamontagna rosa che terrorizza e tortura le sue vittime dopo averle interrogate sull’identità delle più importanti personalità non binarie polacche, la scena precipita ancor di più nell’ironia dissacrante, estrema, a tratti splatter.

Eccolo, il teatro di Markus Öhrn, il regista svedese di base a Berlino, che con Phobia, il lavoro presentato per la prima volta in Italia durante la Biennale Teatro a Venezia, ha dato forma scenica al mondo creato dall’artista e attivista Karol Radziszewski, che con le sue illustrazioni vuole riscrivere la storia queer del suo paese, la Polonia, in un atto di resistenza contro le politiche omofobe dei governi di estrema destra. 

«Ho visto i dipinti di Karol e gli ho chiesto se sarebbe stato interessato a realizzare una pièce in cui avrei provato ad animare i suoi personaggi», racconta Markus Öhrn. «Siamo partiti dalle sue storie e insieme agli attori lo abbiamo fatto accadere».

Lo spettacolo è nato grazie al Novy Teatr di Varsavia, con cui Öhrn collabora da diversi anni, esplorando nel suo modo provocatorio e personalissimo i temi della famiglia, dove ha anche portato in scena (stravolgendolo) un autore classico come Strindberg. Phobia ha esordito in Polonia a fine 2023, dopo le elezioni che hanno riportato al governo il liberale Donald Tusk. «Non abbiamo avuto nessun tipo di problema, di critica o di censura», spiega il regista, «perché tutti questi governi liberali di destra hanno bisogno di uno spazio in cui è permesso un po’ di tutto, per dire che non esiste la censura. E il Novy Teatr è uno di quei luoghi: hanno bisogno di quel tipo di produzioni, quindi sono fortunato a potervi lavorare».

A un certo punto, in Phobia compare l’alter ego dello stesso regista: Markus Öhrn alieno è in hotel, progetta il suo nuovo spettacolo mentre fa un’esilarante telefonata con la madre («Sì, mamma, sempre sangue e merda. No, non è colpa tua, mamma»). Accusato dai Fag Fighters di essersi appropriato furbamente, da straniero, di temi che non lo riguardano, il regista viene trucidato e smembrato, in un tripudio di urla e sangue finto. «Quella è la mia parte preferita, è l’esperienza più catartica che posso avere, quando io stesso vengo fatto a pezzi. Perché è una cosa che comprendo. Devo sempre capire la mia posizione come artista, di ogni cosa che faccio, di quando vado in un altro paese a occuparmi di un tema che è presente e che io affronto dalla mia prospettiva. Io arrivo qui in aereo, dico la mia, faccio il mio spettacolo e riparto. Tutto ciò è la versione artistica del colonialismo».

Il percorso artistico di Markus Öhrn comincia con il video, con l’installazione Magic Bullet, un lavoro che dura 49 ore e che mette in fila cronologicamente un secolo di censura, montando tutte le scene di film tagliate dai censori svedesi dal 1911 al 2011. La riflessione sulle dinamiche coloniali ancora esistenti è un tema che Öhrn affronta fin dall’inizio, con l’installazione video White ants, black ants del 2010, lavoro poi sviluppato con Bergman in Uganda, in cui mostra le reazioni del pubblico locale alla proiezione del film Persona. In We love Africa and Africa loves us i temi delle fantasie neocoloniali si intrecciano alle opprimenti relazioni famigliari, mentre nella «black metal opera» Bis zum Tod torna a esaminare, nel suo modo irriverente, la famiglia, il capitalismo, la pedofilia. 

Il suo stile originale e dissacrante comincia a piacere anche ai contesti più istituzionali, come nel caso del teatro nazionale di Stoccolma, che ha invitato Markus Öhrn a reintepretare un lavoro del celebre drammaturgo Lars Norén.

La musica è un aspetto importantissimo del lavoro di Markus Öhrn. In Phobia i brani originali suonati dal violoncellista Michal Pepol e dal pianista Bartek Wasik sottolineano le atmosfere comiche e grottesche dello spettacolo. In Azdora (ne parliamo tra poco), un contributo fondamentale è arrivato dalla direzione musicale di Stefania Alos Pedretti, cantante della band noise degli Ovo, che ha insegnato alle protagoniste a cantare in growl, le urla gutturali tipiche del metal. Markus è anche musicista e suona con un duo noise, chiamato Liikutuksia, insieme al fratello Linus Öhrn, cantante e chitarrista attivo in diverse band e collaboratore anche dei Marduk, una delle più importanti band black metal svedesi. 

È proprio a partire dal mondo del metal che Markus Öhrn ha sviluppato il suo approccio, estremo e provocatorio e sempre fortemente ironico. «Tutto ciò viene dalla mia fascinazione per il black metal», racconta. «I protagonisti di questo genere musicale si presentano con il corpse paint (un peculiare tipo di trucco in bianco e nero che fa apparire cadaverici e macabri i volti dei musicisti) e anche solo per il fatto di presentarsi in questo modo puoi diventare una persona diversa, e dunque puoi fare qualsiasi cosa tu voglia. È la stessa cosa che faccio a teatro, usando delle maschere. Per esempio, quelli che recitano in Phobia sono attori molto famosi in Polonia, che lavorano nel teatro classico e nel cinema. Io voglio creare uno spazio libero, che è davvero molto in connessione con l’idea di spazio libero che esiste nel black metal, in cui tu interpreti un personaggio, diverso da quello che sei veramente, puoi farlo e basta».

In questo modo, qualsiasi cosa avvenga sul palco può diventare anche un’affermazione politica, una presa di posizione.«Chi segue un genere come il black metal sa che tutto quel mondo è solo un gesto, una posa. Non si tratta della realtà. E la realtà, per me, non è mai il modo migliore per raccontare qualcosa. Preferisco raccontare una storia attraverso il filtro dell’arte o, ancora meglio, il filtro del corpse paint, che è il modo migliore per buttarsi fuori. È quello che ho cercato di fare qui, come in tutti gli altri miei lavori».

Questo linguaggio è diventato uno strumento utile per irridere e decostruire i concetti cardine della nostra società, dal mondo occidentale, da cui è così difficile immaginare una via d’uscita. «Io vengo da un minuscolo villaggio nel remoto nord della Svezia, da una famiglia di coltivatori di patate, un luogo dove nessuno si aspetterebbe che qualcuno possa fare l’artista», riflette Markus Öhrn. «Un mondo patriarcale in cui mio nonno era il capo, la persona a cui tutti si rivolgevano, e mia nonna era a sua disposizione. Con i miei genitori, anche se in modo più morbido, funzionava ancora allo stesso modo. Quando mi chiedevano se ero il nipote di mio nonno, io rispondevo: “No, sono il nipote di mia nonna, Eva Britt”. Perché era lei la persona che si prendeva cura di me. Non lui».

È questo il punto di partenza, il nucleo profondo da cui prende il via il percorso di Markus Öhrn, in un’incessante confronto e scontro con il villaggio in cui è cresciuto. «La mia pratica artistica, la mia intera vita, servono a guardare dentro tutto questo. Tutto quello che faccio come artista è una sorta di digestione della mia stessa educazione, un modo per capire meglio il mio vissuto. È quello che porto sul palcoscenico, ogni volta. Perché anche io sono il risultato di quella società patriarcale. Ho 51 anni, sono un uomo, faccio arte. Sto a delle regole, sono sempre collocato in una gerarchia. Sono anch’io parte di tutto questo. Ma sto cercando di distruggere, o almeno di analizzare la mia posizione in tutto ciò, e la posizione da cui provengo. È un processo che dura per tutta la vita». E poi aggiunge: «Con il mio lavoro voglio onorare mia nonna, che non è mai stata ascoltata, in tutta la sua vita».

La figura di Eva Britt, della nonna di Markus Öhrn, è al centro di uno dei suoi progetti più conosciuti, Azdora. Il lavoro, avviato nel 2015 a Santarcangelo quando l’allora curatrice Silvia Bottiroli invitò l’artista svedese in residenza, è diventato inaspettatamente longevo, tra i più rappresentativi dello stesso festival romagnolo. «È il lavoro più importante che io abbia fatto nella mia intera vita. E mi ha cambiato per sempre».

Per rendere omaggio a sua nonna, morta da poco, Öhrn decide infatti di coinvolgere una quindicina di signore della zona, anziane, legate alla casa e alla famiglia (l’azdora in Romagna era la colonna portante della casa), inizialmente senza svelare cosa avrebbero fatto. 

Truccandole con il corpse paint, le ha portate a realizzare performance che sono diventate sempre di più dei rituali di liberazione e catarsi, attirando un pubblico che si è sempre più affezionato al progetto. Le Azdora si sono esibite come band noise black metal, suonando un unico concerto e registrando un disco. In un’edizione hanno lanciato delle molotov all’interno dello Sferisterio, cantando un’inquietante ninna nanna, mentre in un’altra occasione hanno tenuto un confessionale, in cui il pubblico poteva raccontare di sé, in modo molto intimo, e chi era ritenuto all’altezza poteva venire tatuato da una delle Azdora. 

Nel 2019, le Azdora sono state invitate in Lapponia, nel villaggio della famiglia Öhrn, per dare un ultimo saluto, nel loro stile, a Eva Britt, lì sepolta. «Era come se il cerchio si fosse chiuso, per molti aspetti. Hanno incontrando il fratello di mia nonna, la mia famiglia. Le hanno reso omaggio sulla sua tomba», ricorda il regista. «Mancava ancora qualcosa però, un’ultima uscita, davanti a un pubblico».

È così che, lo scorso giugno, le Azdora sono arrivate a Stoccolma, alla Bonniers Konsthall, dove nella mostra Requiem för Eva Britt erano raccolti tutti i materiali legati a questi anni di progetto, immagini, foto, video. «Loro si sono viste per la prima volta in azione», racconta il regista, «ed erano commosse, perché non si erano mai guardate prima come Azdora». Il loro compito era di distruggere tutti i materiali presenti nella galleria, in un atto di saluto potentissimo e liberatorio, in quella che forse potrebbe essere il capitolo di chiusura di un progetto che si è rivelato quanto mai fecondo e illuminante.

«A Stoccolma, moltissime persone hanno potuto conoscere questa storia», racconta Markus Öhrn. «E improvvisamente, tutto questo non riguardava più Eva Britt, mia nonna, ma tutti si sono messi a parlare dei propri ricordi, sulle loro nonne, madri, sulle donne in casa. Tutti abbiamo un’idea un po’ romantica di una persona a cui siamo così legati, ma non le vediamo mai come persone. Con Azdora è successo».

Come ha spiegato introducendo la performance al pubblico svedese, «quando abbiamo cominciato il progetto, inizialmente queste donne sono state messe in guardia, dai mariti, dai figli: non partecipate, sarete solo dei clown. E alla fine sono diventate l’oggetto del desiderio, con i mariti nel backstage a supportarle, a fotografarle. Forse anche un oggetto sessuale. E credo che sia una cosa che meritano, come meritiamo tutti di essere persone volute, desiderate, di essere al centro dell’attenzione, per quello che fai, per l’energia che trasmetti. Sono diventate loro le star, le protagoniste. Sono queste donne che hanno reso l’azdora, la donna che lavora in casa, qualcos’altro, molto di più. È qualcosa che non mi è mai accaduto prima, che non sapevo nemmeno che potesse accadere. Non è più Markus Öhrn. Sono loro. È mia nonna. Io sono solo la persona che ha trasmesso il messaggio, da mia nonna a loro. Le Azdora sono diventate un gruppo a sé, create da quello che mia nonna pensava e insegnava. E tutto questo è qualcosa che ti cambia la vita, come artista. Nella vita, posso realizzare un solo lavoro come questo. Che riposi in pace, Eva Britt».

ARTICOLO n. 69 / 2024

AI YOGA PER INTELLIGENZE ARTISTICHE

Che tecnologia e innovazione siano sinonimi è un fraintendimento a cui ci siamo abituati, che abbiamo introiettato e ripetuto non tanto a partire dall’avvento di internet, come verrebbe istintivo dichiarare, ma ben prima, e cioè ogni volta che l’umanità si è trovata a confrontarsi con la nascita di uno strumento tecnico di cui ha avuto timore intuendone il potenziale rivoluzionario. La verità è però che la tecnologia è un fatto umano, ed è questo il primo e più importante punto di intersezione con il concetto di innovazione.

Nel contrapporre uomo e macchina, nel prodigarci per difendere il primo dalla seconda, abbiamo rischiato di dimenticare quanto ogni progresso tecnologico risponda, essenzialmente, al bisogno umano di trovare strumenti e alleati per rispondere alle domande sempre più complesse che l’uomo si pone. L’intelligenza artificiale è l’ultimo di questi avanzamenti spaventosi, e c’è stato un gran dibattere – e dibattersi – per mettere al riparo l’arte e la creatività dall’intrusione di una tecnologia che, si diceva e si dice, finirebbe per soppiantarle. Ma se fare arte significa problematizzare il reale, sollevare domande, aprire spiragli inediti e allenare sguardi inaspettati, è contradittorio pensare che questa non debba o non possa confrontarsi con l’ultima delle rivoluzioni tecnologiche. A che punto siamo nell’interazione tra arte e tecnologia? Che cosa risulta dal dialogo tra intelligenza artistica e intelligenza artificiale?Queste le domande da cui prende avvio la mostra “AI Yoga per Intelligenze Artistiche”, inaugurata a Milano il 19 settembre presso MEET Digital Culture Center – il Centro Internazionale per l’Arte e la Cultura Digitale.

Il MEET è un museo che dà spazio alle avanguardie, con una particolare attenzione al dialogo tra arte e dimensione digitale. Si trova a Porta Venezia, quartiere ibrido e difficile da incasellare, ai limiti del centro di una città irrequieta. Arrivare al Meet è dunque già un buon modo per prepararsi a ciò che si vedrà al suo interno: opere ibride, irrequiete, sperimentali, che interrogano il presente perché nel suo flusso si inseriscono, senza timori conservativi. 

La mostra “AI Yoga per Intelligenze Artistiche” nasce dal dialogo di dieci artisti italiani – Accurat, Lorenzo Bacci e Flavio Moriniello, Roberto Beragnoli, Alessandra Condello, Francesco D’Isa, Lorem (Francesco D’Abbraccio), Katsukokoiso (Eugenio Marongiu), Mauro Martino, Andrea Meregalli e Mattia Piatti – con il nuovo portatile Lenovo Yoga Slim 7x. Un dispositivo dotato di un’unità neurale in grado di processare fino a 45 trillioni di operazioni al secondo. Non so che cosa significhi e provo una sorta di timore reverenziale quando ne vedo due esemplari poggiati all’ingresso della mostra. Non temo che siano più intelligenti di me. Temo invece che, se mi capitasse di interagirci, non sarei in grado di trovare la lingua adatta per comunicare, e cioè per spiegare al dispositivo cosa penso e come intendo ciò che penso, cosa ho intenzione di creare e come potrebbe aiutarmi a farlo.

La sensazione non mi abbandona quando rivolgo l’attenzione alla prima opera: Viaggio in Italia di Roberto Beragnoli. Si tratta di un documentario in stile cinegiornale Istituto Luce, con tanto di voce narrante di Emilio Cingoli, celebre e prolifico doppiatore italiano. Qualcosa dunque di familiare, che immediatamente sollecita la memoria e ci rassicura. Dopo pochi secondi, però, accade qualcosa di inaspettato. Il riferimento che abbiamo individuato è scalzato da una sorta di disturbo difficile da definire, un bizzarro stridore tra il cinegiornale che conosciamo e il cinegiornale che stiamo vendendo si insinua in noi, emanato dall’opera. Non è facile capire a cosa sia dovuto, individuare che cosa non torni, eppure qualcosa non lo fa ed è presto evidente che quello che stiamo guardando non è ciò che nei primissimi secondi avevamo individuato. La meta del viaggio oggetto del cinegiornale non è l’Italia ma il risultato di reminiscenze non più esclusivamente umane: un’Italia hackerata, verrebbe da dire, da un intruso indefinibile, risultato del dialogo e del confronto tra uomo e macchina, tra artista e algoritmo.

Proseguendo lungo il percorso espositivo vengo catturata dall’opera Brave New World – Dancing with the Machine, installazione fotografica di Lorenzo Bacci e Flavio Moriniello che documenta tramite istantanee fotografiche una delle più durature e anarchiche forme di aggregazione sociale degli ultimi decenni, ovvero la cultura rave. Vengo di nuovo rassicurata da qualcosa che conosco, alla cui estetica e se vogliamo etica sono abituata. Di nuovo, però, un glitch si intromette, un disturbo che ricorda lo schermo grigiastro e vibrante di un vecchio televisore senza segnale. Questa volta individuo il campanello d’allarme: il volto di una delle donne gloriose e devastate fotografate a questo rave assomiglia terribilmente a Marla Singer, la protagonista femminile del film Fight Club. Le assomiglia senza essere lei, capisco a uno sguardo più attento, e allora proseguo scrutando ogni volto e riconoscendo in ogni volto me stessa, il mio amico, il vecchio cultore di musica techno che si incontra nei club berlinesi e, contemporaneamente, non riconoscendo fino in fondo nessuno. Si tratta di fotografie generate dall’Intelligenza Artificiale: vicine alla realtà e allo stesso tempo altrove, un altrove onirico e sfuggente. 

«Le opere che compongono la mostra vivono all’interno di una dimensione estremamente onirica, sembrano dei piccoli sogni» racconta Valerio Borgonuovo, curatore della mostra e ricercatore. «Questo è dovuto ad aspetti formali attraverso cui l’IA generativa costruisce e assembla le immagini in movimento. I corpi si liquefanno e osserviamo una continuità innaturale e talvolta illogica tra un’immagine e l’altra. Tutto ciò è molto simile a come funzionano le nostre fasi neurali nel sonno, per cui il risultato del dialogo tra artista e dispositivo è un ancora un dialogo tra la veglia e il sonno, al limite dello stato di coscienza». 

Proseguo il viaggio negli spazi espositivi del MEET fino ad arrivare alla sala immersiva, che ospita quella che si potrebbe definire una quadreria digitale animata dai lavori pittorici e video di Alessandra Condello, Mauro Martino, Francesco D’Isa, e Katsukokoiso (Eugenio Marongiu). Sono lavori molto diversi fra loro, a unirli però è l’inaspettata capacità di risultare pieni di grazia e insieme angoscianti. Le infinite vite possibili di ognuno di noi esplorate nell’opera Me-Me di Mauro Martino, dove il protagonista del video generato dall’IA cammina per una Milano camaleontica trasformandosi insieme a essa, convivono con il lavoro pittorico digitale di Francesco d’Isa. L’opera Erranze/Errancies dà vita a una poetica dell’errore e del vagabondaggio: i dipinti digitali sono il frutto della tendenza dell’artista ad assecondate l’errore della macchina, a dare spazio ai fraintendimenti che necessariamente avvengono quando l’uomo e il computer si trovano a dialogare. 

«L’arte non è un algoritmo, è un dialogo. Un dialogo tra l’intuizione umana e gli strumenti che la amplificano. L’intelligenza artificiale, come lo Yoga Slim 7x di Lenovo, non sostituisce l’artista, ma ne diventa il complice, il compagno di viaggio in territori inesplorati», dice Francesco D’Isa.

La domanda che rimane aperta, quando si esce, arricchiti e frastornati, dalla mostra AI Yoga per intelligenze artistiche, è come sia avvenuto questo dialogo. Perché ogni confronto con un’opera d’arte che possa dirsi tale richiede di arrendersi alla difficoltà, quando non all’impossibilità di tradurre a parole ciò a cui si è assistito. Come si dice un’opera d’arte? Come si spiega? 
A dire il vero in questo caso la domanda è capovolta. E cioè: che cosa hanno detto questi artisti alla loro macchina per raggiungere il risultato che abbiamo visto? Quale lingua hanno usato, quale chiarezza intima e poi espositiva hanno dovuto allenare perché l’opera risultasse come è risultata? E ancora: quante rinegoziazioni, errori e fraintendimenti sono stati parte del processo creativo, arricchendolo? 

«Dovresti vedere quanto sono brutte le cose che creo io quando provo a usare questi strumenti. Questo dimostra che il risultato varia enormemente in base a chi li utilizza. Ci sarà sempre un’intelligenza artistica capace di padroneggiare ogni nuovo strumento, proprio come uno scultore sa usare lo scalpello o un pittore il pennello», conclude Borgonuovo. 

Torniamo all’inizio: tecnologia e innovazione non sono sinonimi. Tuttavia, quando l’intelligenza artistica entra in dialogo con la tecnologia, senza timore e consapevole del proprio valore insostituibile, innovare diventa un esito possibile, e la tecnologia può smettere di essere antagonista per farsi strumento utile e vitale. 

ARTICOLO n. 68 / 2024

ABORTO

La prima volta che ho accompagnato un’amica in consultorio per ricorrere a un contraccettivo di emergenza, la “pillola del giorno dopo”, era il 2004 e avevamo entrambe diciassette anni. Lei aveva avuto un rapporto sessuale con un ragazzo conosciuto da poco ma qualcosa era andato storto e il preservativo si era rotto. La mattina successiva l’accompagnai in ospedale, dove all’epoca il consultorio aveva sede, per parlare con un’operatrice e prendere la ricetta con cui acquistare il farmaco, evitando così di passare per il medico di famiglia. Ricordo lunghi tempi d’attesa, le occhiate cariche di ostilità e commiserazione – tipiche delle persone adulte quando giudicano la condotta delle ragazze – le domande che avevano il sapore di un interrogatorio, la ritrosia a consegnare una banale prescrizione.

Quest’episodio, risalente ormai a vent’anni fa, mi è tornato in mente spesso nelle ultime settimane. L’approvazione al disegno di legge per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) che legittima a livello nazionale la presenza delle associazioni antiabortiste nei consultori ha sollevato infatti una forte ondata di indignazione, in particolare da parte di chi osserva il tentativo di smantellare, un pezzetto alla volta, una legge importante come la 194, a cui nel 1978 si arrivò non senza conflitti e tentativi di mediazione. Nel viaggio che ci porta a ripercorrere i miti su cui si è costruita e sedimentata una certa idea di femminilità, dunque, non potevamo esimerci dall’affrontare il grande tema dell’aborto, la cui narrazione, ancora una volta, è funzionale a negare alle donne la possibilità di autodeterminarsi.

Nel volume L’aborto, le studiose Alessandra Gissi e Paola Stelliferi sottolineano come la legge che ha depenalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza sia stata costruita su una dicotomia: da una parte l’idea di maternità come scelta libera e gioiosa, dall’altra quella dell’aborto come decisione sofferta e traumatica. Se così non fosse, per intraprendere la procedura non sarebbe necessario sedersi a un tavolo con un’operatrice e analizzare le possibili soluzioni alternative (di natura economica, assistenziale, sociale ecc.) che permetterebbero di riconsiderare la scelta, né questa fase di anamnesi si concluderebbe con un “invito a soprassedere” per sette giorni allo scopo di riflettere bene sulla decisione da prendere. 

Come ha ricordato la giornalista Jennifer Guerra, le organizzazioni antiabortiste attraversano le corsie dei nostri ospedali e le stanze dei consultori almeno da una trentina d’anni, ma solo da qualche tempo hanno beneficiato di un solido appoggio istituzionale e di fondi pubblici a sostegno delle loro iniziative. A luglio 2023, per esempio, è stato istituito presso L’ospedale Sant’Orsola di Torino un accordo con il Movimento per la vita che ha portato all’apertura della “stanza per l’ascolto” salutata dall’Assessore alle politiche sociali della Regione Piemonte Maurizio Marrone come un passo importante, “soprattutto in questa stagione di preoccupante inverno demografico”.

Uno dei miti che è andato sedimentandosi intorno all’aborto è, infatti, l’idea che esso contribuisca al fenomeno della denatalità, colpevolizzando di fatto le donne che vorrebbero compiere una scelta legittima. La colpevolizzazione avviene da tempo e in molti modi. In Gendertech, Laura Tripaldi rispolvera un documentario del 1984 intitolato The silent scream. Il video si apre con un’immagine poco chiara, forse quella di un’ecografia in bianco e nero, mentre la voce narrante maschile afferma «possiamo riconoscere l‘agghiacciante grido silenzioso sulla faccia di questo bambino, che sta fronteggiando la sua imminente estinzione». Il filmato racconta l’aborto di un feto di dodici settimane e alterna fotogrammi in cui si mostrano procedure mediche invasive a spezzoni registrati nello studio del medico pro-life Bernard Nathanson, attore e regista della pellicola, che illustra l’anatomia del feto servendosi di gigantografie e modellini 3D. 

Nel suo libro, in cui si occupa di raccontare come le interfacce tecnologiche – dallo speculum alle app per monitorare il ciclo mestruale – abbiano contribuito a modificare non solo il rapporto delle donne con il proprio corpo ma anche quello con il potere che ne limita la libertà, Tripaldi sottolinea come l’ecografia abbia prodotto una rivoluzione epocale, svelando per la prima volta ciò che avviene dentro al corpo della gestante. Dal punto di vista di Nathanson e di molti antiabortisti, essa permette di rivelare «l’aborto dal punto di vista della vittima». 

A partire da questa posizione sono stati prodotti molti contenuti che cercano, da una parte, di fare “formazione” raccontando l’aborto come un omicidio, dall’altro di giudicare implicitamente ogni donna che vi ricorre. L’articolo pubblicato nel 2021 sul blog di Provita e Famiglia risponde perfettamente a questa funzione. «Non è ideologia. È qui: un embrione che diviene bambino» sono le parole con cui si apre un lungo pezzo in cui le immagini occupano la totalità dello spazio a disposizione. A quelle, oniriche, tratte da ecografie che mostrano cellule che si moltiplicano fino ad assumere poco per volta forme umane, seguono quelle dell’operazione chirurgica in cui feti ed embrioni vengono smembrati per mostrare da vicino quanto quelle ossa, quelle teste e quelle piccole mani assomiglino alle nostre.

Un’operazione analoga era stata compiuta molti anni prima, precisamente nel 1965, quando, sulla copertina della rivista Life, comparve un’immagine destinata a fare storia. Con il titolo Drama of life before birth (lo spettacolo della vita prima della nascita) il giornale accoglie un reportage del fotografo Lennart Nilsson, un lavoro che a suo dire lo impegna per più di dieci anni. Come ricorda la studiosa Alessandra Piontelli ne Il culto del feto, le foto mostravano, per la prima volta, la vita intrauterina dal concepimento alla formazione del feto. Ricorda Piontelli: «chiamandolo “bambino”, “neonato”, “vita” o “miracolo della vita”, Nilsson cambia di fatto la terminologia usata per descrivere la gravidanza. Anche l’utero diventa “grembo” o “ambiente” (…)». Queste parole in effetti non sono casuali: il fotografo aveva raccontato di aver ottenuto le immagini avvalendosi di strumenti sofisticatissimi, necessari per poter osservare il feto in utero, tuttavia si scoprì successivamente che le foto furono scattate impiegando feti abortiti o nati morti, messi in posa (per esempio con il pollice in bocca) in veri set cinematografici in grado, attraverso la giusta illuminazione, di dare l’idea che fluttuassero beati in ambienti onirici.

Le immagini su Life sono significative non solo perché ci fanno assistere, forse per la prima volta, a un’opera di mistificazione (impiegare feti abortiti e abbelliti per rimarcare il concetto di “miracolo della vita”) ma anche perché segnano il punto di svolta rispetto al rapporto tra gestante e concepito. La donna scompare dal discorso e, per estensione, anche i suoi diritti, la sua volontà, i suoi desideri. L’unica cosa che conta è “il miracolo della vita”.

La narrazione che porta a focalizzarsi esclusivamente sulla bellezza della vita che nasce – e quindi a biasimare tutte le donne che, nonostante ne abbiano la possibilità, rifiutano questa “chiamata” – non è l’unica strategia impiegata da chi vorrebbe limitare il diritto all’aborto. L’altra ha a che fare con le false informazioni che vengono veicolate al fine di scoraggiare chi vorrebbe ricorrervi. Non ci sono prove che l’interruzione di gravidanza aumenti il rischio di incorrere in un cancro al seno, né che sia correlata all’insorgere di malattie mentali, tuttavia questo genere di informazioni vengono ancora date per vere.

Se un rischio le donne che vogliono abortire lo corrono davvero, è quello che segnala la psicologa Federica Di Martino, attivista e fondatrice della community online “IVG. Ho abortito e sto benissimo”: la stigmatizzazione. Incappare in medici che si rifiutano di praticare l’intervento, essere costrette ad ascoltare il battito del feto, raccontare l’esperienza dell’aborto come un trauma le cui conseguenze dureranno per tutta la vita, descrivere chi vi ricorre come “poverine” o – anche peggio – come delle assassine in potenza sono strategie utili solo a impedire alle donne di autodeterminarsi. Come ricorda Di Martino in un’intervista: «l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sottolineato che l’aborto, laddove è reso accessibile dallo Stato, è un’esperienza positiva di benessere e di salute nella vita di una donna, anche se ad oggi in Italia rimane uno dei più grandi tabù».

Per cambiare la narrazione intorno all’aborto servono altre prospettive. Una è quella che propone Gabrielle Blair, designer, blogger e autrice di Eiaculate responsabilmente. Nel volume, diventato un bestseller nel giro di poco tempo, propone una chiave di lettura semplicissima e cioè «che il 99% degli aborti siano il risultato di una gravidanza indesiderata e che i responsabili di tutte le gravidanze indesiderate siano gli uomini». Prima di passare sotto la lente di ingrandimento il comportamento delle donne, pertanto, sarebbe opportuno osservare anche quello degli uomini: «la società ha addossato la responsabilità di prevenire le gravidanze al genere che è fertile ventiquattro ore al mese, anziché a quello che lo è ventiquattro ore al giorno». Quando si parla di aborto nessuna stigmatizzazione colpisce gli uomini semplicemente perché sembra che quel discorso non li riguardi. L’altra prospettiva, oggi particolarmente difficile da perseguire, dovrebbe andare al cuore della 194, che ancora interpreta l’aborto come “pratica sanitaria” quando in realtà è qualcosa di molto diverso: è una pratica di libertà e come tale andrebbe salvaguardata.

ARTICOLO n. 67 / 2024

IL POPULISMO AL TEMPO DELL’EPISTEMOCRAZIA

intervista di Antonio sgobba

«Il populismo, più che un’etichetta per (mal)qualificare gli altri, è un segno generale del nostro tempo, una risorsa facile per fare politica nella nuova costellazione sociale e politica, che assume molte forme». Lo dice Daniel Innerarity, filosofo e sociologo spagnolo di cui Castelvecchi ha da poco pubblicato La società dell’ignoranza: Sapere e potere nell’epoca dell’incertezza (traduzione di Matteo Anastasio). In questo saggio Innerarity si occupa di una particolare forma di populismo, forse tra le più sottovalutate, quella che definisce «demagogia gnoseologica» o «populismo tecnocratico». 

Antonio Sgobba: Partiamo da qui: che cos’è oggi il populismo tecnocratico?

Daniel Innerarity: La forma più comune di populismo è quella che si oppone alla tecnocrazia, ma ce n’è anche un’altra che alimenta nella società una fiducia cieca nella tecnologia, che si suppone abbia l’ultima parola anche nella soluzione di problemi che non sono esclusivamente tecnici.

A.S. Per questo lei parla di “epistemocrazia”.

D.I. Se è vero che gran parte dei nostri problemi richiedono una grande mobilitazione di conoscenze, quella che io chiamo epistemocrazia è la convinzione (peraltro non scientifica) che siano semplicemente problemi di conoscenza, che non abbiano altre dimensioni e che quindi possano essere risolti da scienziati ed esperti, o da politici che terrebbero conto solo dell’opinione di questi ultimi.

A.S. Lei scrive invece: «Non vi è dubbio che la scienza espanda il sapere, ma aumenta anche l’incertezza e l’ignoranza nella società». Come possiamo reagire a questo paradosso?

D.I. Ci sono due tipi di ignoranza che crescono più velocemente della scienza e che sono in gran parte causati da essa: quella dei rischi legati all’uso delle tecnologie e quella della crescente complessità del mondo.Possiamo dire che i nostri predecessori ne sapevano meno di noi, ma viviamo con maggiore preoccupazione il gap tra ciò che sappiamo e ciò che dovremmo sapere per affrontare i problemi che abbiamo di fronte. Questo divario spiega in gran parte il nostro atteggiamento ambiguo nei confronti della conoscenza, a volte ingenuamente speranzoso e a volte eccessivamente timoroso.

A.S. Invece lei scrive che l’ignoranza può essere anche una risorsa. In che senso?

D.I. Nel senso che il potere non è legittimato solo dalla conoscenza disponibile e accreditata, ma anche dall’ignoranza riconosciuta e comunicata in modo adeguato. Il Ministro della Salute tedesco della Merkel ha tenuto una conferenza stampa in cui ha saputo comunicare alla popolazione non solo le cose di cui erano certi nel bel mezzo della pandemia, ma ha anche elencato le incertezze che non erano state chiarite. In questo modo si è resa più affidabile che se avesse finto una certezza che non aveva e che avrebbe potuto erodere ulteriormente la sua autorità se la sua ignoranza fosse poi diventata evidente al pubblico.

A.S. Ci ritroviamo così a fare i conti allora con due paradossi: il sapere non sa, il potere non può. Quali sono le conseguenze di queste due debolezze?

D.I. Che invece di essere pensati come due momenti diversi o opposti del nostro processo decisionale, dovremmo metterli al servizio della soluzione dei problemi che dobbiamo affrontare. Il rapporto tra conoscenza e decisione è la grande sfida delle società contemporanee, una volta che siamo consapevoli dei limiti democratici del modello tecnocratico e dei limiti epistemici del modello decisionista, dei limiti della conoscenza e del potere considerati isolatamente.

A.S. Se viviamo in un società dell’ignoranza, che ruolo può avere l’istruzione in una società come questa?

D.I. In quella che ho definito la società dell’ignoranza è necessario sviluppare una cultura riflessiva dell’insicurezza. Ciò che non si conosce, la conoscenza insicura, le forme di conoscenza meramente plausibili e non scientifiche e l’ignoranza non devono essere considerate come fenomeni imperfetti, ma come risorse. Ci sono questioni in cui, in assenza di conoscenze certe e prive di rischi, è necessario sviluppare strategie cognitive per agire nell’incertezza. Bisogna imparare a muoversi in un ambiente che non è più caratterizzato da chiare relazioni di causa-effetto, ma sfocato e caotico».

A.S. In un ambiente così caratterizzato quale può essere il ruolo degli intellettuali?

D.I. La figura dell’intellettuale in politica è impallidita per varie ragioni, che hanno a che fare con le trasformazioni della società e anche con l’avanzamento e la specializzazione delle scienze, in particolare di quelle sociali. La divisione del lavoro e la specializzazione scientifica o la configurazione di una società di intelligenze distribuite non rendono superflue le panoramiche, ma rendono ridicola la superiorità dell’intellettuale che pontifica su questioni morali o politiche senza conoscere i principali dibattiti che si sono svolti tra gli scienziati sociali. Il prestigio degli intellettuali funziona se sono pochi e il sapere è scarso, ma si orizzontalizza e si condivide quando sono molti quelli che sanno e con visioni della realtà che non sempre coincidono e spesso si contraddicono. L’intellettuale oggi ha un rapporto meno verticale con la società, che non è una massa di incompetenti disinformati, e condivide l’autorità con un gran numero di specialisti di ogni tipo che sono più avanti di lui nella conoscenza esperta, così rilevante per il mondo complesso in cui viviamo.

A.S. Alla fine quale può essere una strategia efficace per raggiungere un equilibrio tra fiducia e diffidenza?

D.I. La fiducia è una relazione che sostituisce l’inaffidabilità delle cose (perché non ci sono prove o non è possibile la conoscenza di sé) con l’affidabilità delle persone. Il problema è che spesso non abbiamo prove sufficienti, non possiamo fidarci degli altri, ma nemmeno di noi stessi. La sfiducia negli altri ci protegge dall’inganno altrui, ma non ci restituisce alcuna certezza.

ARTICOLO n. 66 / 2024

LA DEGLUTIZIONE

Pubblichiamo un’anticipazione da Cinquantun giorni (La nave di Teseo), il nuovo romanzo di Andrea Moro in libreria dal 17 settembre

“Ci si sporca di più a nascere o a morire?” A questo stava pensando Pietro Raphèl, uomo di pochi libri, mentre, ostinatamente, ma invano, con la punta della lingua cercava di spostare Dio dal palato.

Per quanta saliva le mucose producessero, il Verbo, sustanziato nell’ostia, se ne stava appiattito e appiccicato in quel punto esatto nel quale il palato si inarca sensibilmente, poco prima che l’osso finisca e inizi la parte molle, dove normalmente per qualche istante sosta il cibo prima che il movimento ascendente e retrogrado della lingua, seguito da una contrazione della faringe, lo accompagni nel tubo dell’esofago. “Ci si sporca di più a nascere o a morire?” ripeté cercando di ignorare quell’ingombro fastidioso ancorché sacro e si rese conto di come quella domanda fosse per lui ineludibile, dopo quello che nei cinquantun giorni precedenti la vita gli aveva riservato. Certo, gli era già capitato di provare vergogna, di sentirsi giudicato per come appariva: per quel taglio di capelli esagerato, per non aver detto la cosa giusta alla cena importante, per non essere all’altezza delle aspettative dei colleghi, per quel particolare del suo corpo che più cercava di nascondere più gli pareva attirare l’attenzione di tutti. 

Ma quelle erano vergogne puntuali, intermittenti semmai, come ponfi di zanzare estive: prima intensi, poi scemano, poi rincalzano arrossendo e poi svaniscono come sono venuti. Ora invece la vergogna l’aveva inzuppato tutto; inghiottito, fagocitato: non si salvava niente di lui e senza intermittenze. Cosa aveva fatto di male per provarla, per sentirsi così irrimediabilmente sporco, dall’inizio alla fine?

Chiuse gli occhi e rimase inginocchiato mentre l’incenso e il silenzio si miscelavano nell’aria fredda della chiesa e ricadevano densi, oscillando come piume, sul legno delle panche allineate nella penombra di quel piccolo edificio barocco, nascosto nel centro di Milano, quasi deserto, dove un prete giovane si preparava a impartire la benedizione alla fine della messa.

Pietro Raphèl si era trasferito a Milano ben prima di quell’ottobre del 1978. Arrivò che era poco più di un ragazzo con la sua prima scrittura teatrale e una valigia piccola di pelle scura, regalo del padre. La sua ascesa come principe del palcoscenico fu inarrestabile e rapida ma non del tutto imprevista, almeno non in cuor suo: la sua capacità di rendere credibile ogni battuta, modulando l’intonazione delle frasi in modo che sembrassero sgorgare spontanee dalla mente, come fosse la prima volta che venivano pronunciate, senza mai una ripetizione di toni, restituendo freschezza al testo dei giganti, così come la sua statura fisica, il suo portamento, quella sua voce così calda e bassa che fluiva spandendosi dalla bocca ben disegnata, incorniciata dalla barba fitta, nerissima, gli occhi taglienti e distanti in armonia con un naso dritto e corto, lo fecero emergere su tutti gli altri attori come il migliore. Qualunque fosse la parte, qualunque fosse la compagnia, qualunque fosse il costume e il prestigio del teatro, Pietro Raphèl era sempre il migliore. 

Gli spettacoli, quando recitava lui, non si concludevano veramente con il calare del sipario: l’eccitazione proseguiva elettrica lungo processioni di spettatori che andavano a stanarlo in camerino svolgendosi tra i corridoi angusti del teatro fino a raggiungerlo e incastrarlo per il saluto vis-à-vis. Perfino gli applausi finali, tanto deflagranti quanto interminabili, sembravano più sfoghi isterici dovuti al desiderio di mitigare la tristezza del congedo che un omaggio alla sua bravura.

Quell’ottobre del 1978, però, lo spettacolo per il quale stava lavorando sarebbe passato completamente in secondo piano nella sua vita.

A essere onesti, quella catastrofe non gli era capitata senza che lui l’avesse – come dire – se non proprio invitata almeno inconsapevolmente evocata, perché malgrado tutti i suoi successi, malgrado il suo prestigio, la ricchezza accumulata, l’accesso ai circoli più esclusivi di tutta Italia e d’Europa e le frequenti interviste su giornali e televisioni per pareri su tutti i temi possibili, Pietro Raphèl si trovava in un momento della sua vita che si sarebbe definito “morto” se non che della morte, quella vera, in quei giorni se ne erano dimenticati tutti.

A Pietro, in realtà, mancavano i desideri. Anzi, peggio, ne individuava sempre di marginali; cercava la soddisfazione in desideri che finivano col trovarsi solamente vicini a quelli cui puntava davvero. Diceva di sé, infatti, di vivere “di bolina”: finiva col dover navigare contro il flusso delle forze naturali nelle quali era immerso per raggiungere la sua destinazione, e quindi non ci arrivava mai direttamente.

Puntava sempre ad approdi intermedi, scostati, sia pure di poco, da quello cui ambiva veramente, ed era dunque costretto a cambiare di continuo direzione, riaggiustando la rotta. Alla meta, tuttavia, non ci arrivava mai, perché ogni volta si rendeva conto di aver sostanzialmente mancato il bersaglio.

Pietro avrebbe volentieri seguito l’ostia nel viaggio all’interno del suo corpo, inghiottendo di conseguenza anche se stesso come in un quadro di Escher o in una bottiglia di Klein, se solo fosse riuscito a staccarla lavorando di lingua: sciolta dalla saliva, accompagnata nell’esofago, si sarebbe poi impastata nei succhi dello stomaco, e giù nel tenue dove finalmente sarebbe stata quasi completamente assimilata dalla sua carne, salvo – ci si immagina – un’inezia irrisoria di scarto. Questo avrebbe voluto percepire: Dio che veniva assorbito dal suo corpo per diventare parte di sé.

Imbrigliato nella ruminazione di quei pensieri ad andamento ciclonico, sentì inaspettata una forza contraria iniziare a crescere improvvisa; una violenta contrazione nel basso ventre gli dava netta la sensazione di dover veramente, subito, velocemente, subito, senza aspettare, subito: evacuare. Dio piantato in bocca che doveva entrare, la merda dentro che spingeva in direzione opposta per uscire e lui – per così dire – in mezzo.

Milano era allora una città in bianco e nero, come d’altronde tutte le città degli anni Settanta, così impegnate nel dichiararsi lontane dall’ultima guerra, immerse in una pace poco più che maggiorenne, e così schiacciate in realtà da tutti i problemi sociali ed economici che l’immeritata cuccagna dei pochi anni precedenti non solo non aveva risolto ma anzi aveva generato e accumulato e continuava ad accumulare. 

Il flusso della storia si era intasato, come un fiume dove l’onda della piena aveva ammassato tronchi d’albero e detriti contro le arcate dei ponti rendendoli impraticabili: quasi tutti sulle sponde fermi a guardare, non senza un certo gusto del macabro, quasi tutti inermi.

Milano poi aveva gli occhi addosso perché ci si aspettava di veder fiorire la ricchezza frutto del lavoro e dell’organizzazione e invece si aveva paura anche a uscire di casa. Non per il freddo, non per la nebbia, non per l’aria sporca, né per certi agosti roventi con la radiolina nel parco, ma perché ci si sentiva delle prede: cortei, agguati, ma anche banalmente il gonfiarsi del traffico incontrollato intorno e dentro la città davano la sensazione di poter essere presi di mira ed essere puniti, senza avere alcuna colpa che quella di trovarsi lì per caso. Eppure, si usciva, eppure ci si affezionava anche alle luci ancora fioche di certe vie del centro. E si guardavano le vetrine, quelle dei vestiti, soprattutto, ma senza farlo capire troppo: una generazione alacre di sarti e di sarte, unici sopravvissuti all’esercito di poeti e santi, che di eroi certi non ce ne sono mai stati, si preparava in quegli anni al salto che li avrebbe portati nel giro di un decennio alla devozione incondizionata della società civile. 

Poi si fumava molto e ovunque, tant’è che forse la memoria della prevalenza del grigio di quegli anni – a pensarci bene – più che la nebbia poteva essere anche solo l’effetto del fumo delle sigarette: nelle case, in ufficio, nei bar, nei cinema, sui tram. Ma se anche non ci fossero state quelle, i colori sarebbero stati comunque pochi: i palazzi del centro, alcuni ricostruiti da poco, erano lerci, incatramati, e gli unici sprazzi di rosso e blu e verde e arancione venivano dai manifesti delle pubblicità, affissi ovunque e periodicamente rimossi da mani, per fortuna, così frettolose che strappandoli regalavano spicchi di involontaria allegria sia lungo strade che, soprattutto, sottoterra, alle fermate della metropolitana. 

A Milano, di sicuro, Pietro aveva trovato il successo, quello che, visto da fuori, ti mette nella categoria delle persone riuscite, ma quei cinquantun giorni appena trascorsi avevano davvero cambiato tutto in lui e quello stesso successo, apparentemente così solido e imperituro, si sarebbe rivelato per lui della stessa consistenza di un carrozzone di carnevale. Nel groviglio disordinato di quei pensieri, il suo cuore si fece allora più rapido del suo respiro e sfociò in un nome e tutto quello che ad esso era ancorato: Lucia. La sua Lucia, tutto era iniziato da lei. Anzi, dalla sua perdita.

“Ci si sporca di più a nascere o a morire?” La domanda non lo aveva abbandonato, anzi si era fatta ancora più cogente, schiacciata com’era da quelle sensazioni contrastanti. “Certo, nascere non deve essere meno spaventoso di morire – pensò – solo che non ce lo ricordiamo. Quel primo respiro che ti fa ingoiare aria per sostituirla a quell’acqua tiepida che fino ad allora aveva occupato la gola non deve essere stato meno angosciante di quanto sarà quell’ultimo, quando l’aria la si sputa fuori per l’ultima volta.” Così si disse pensando di mettere in quel modo ordine alla domanda e di capire, quietandosi, come rispondere. “D’altronde, non ci ricorderemo nemmeno della morte,” pensò di controcanto. 

Si era di nuovo incastrato: “Siamo fortunati noi esseri umani perché gli unici due eventi sicuri della nostra esistenza sono divorati dall’oblio, vero custode della mente e in entrambi, di sicuro, non siamo affatto puliti: si viene al mondo facendosi largo tra sangue e liquido amniotico, sempre che la madre trattenga gli sfinteri, e quando si va via, per lo più, ci si smonta liberando umori non più nobili di questi.”

Spalancò d’improvviso gli occhi, che teneva stretti più nel tentativo di scacciare i dolori addominali, o forse almeno di rallentare l’urgenza, che in quello di concentrarsi nella preghiera, e vide che il prete si stava preparando per la benedizione finale. In quella chiesa, che pareva arredata con i residui di scena di una tragedia elisabettiana, il ricordo dell’inizio di quei cinquantun giorni riaffiorò allora in lui come un sogno vivido sul fare del mattino, di quelli che non vorresti avere ma che non puoi spegnere, e si sostituì alla percezione della realtà. 

Tentò di scacciarlo con l’unico pensiero che poteva competere: la consapevolezza di dover scontare una colpa profonda, assoluta, dolorosa. Non rievocava quei peccati dozzinali che commettiamo pentendoci e sapendo al contempo che li ricommetteremo di sicuro, ripentendoci; pensò al peccato dei peccati, il peccato che precede tutti gli altri e che non si ripete: il peccato originale. Il tentativo di cancellare il ricordo di quei giorni sovrastandolo con quel pensiero sembrò dapprima funzionare ma presto si rivelò del tutto controproducente: l’idea stessa di un peccato originale lo sgomentò ancora di più. “Come si fa a essere colpevoli di un atto non commesso?” – si disse – “e se è stato commesso da altri, di cosa è mai fatto quel peccato perché possa essere trasmesso?”

Cinquantun giorni prima, Pietro aveva fatto ritorno nella sua casa di Milano. Non viveva più in città da tempo. Da qualche anno aveva acquistato un palazzotto seicentesco, nella campagna che da Milano arriva a lambire il Ticino, quella piatta e insapore, quella che i turisti scartano, e anche gli uccelli migratori tollerano solo per una sosta. Il palazzotto manifestava un’architettura sobria ma non sciatta, dalle proporzioni talmente regolari che l’avresti detto sfuggito da un manuale di architettura; a pianta rettangolare, una facciata di tre piani, disegnata rispettando la proporzione aurea: i tre ordini di finestre, sei al primo per far spazio al portone e sette per gli altri due piani, in ordine decrescente di altezza a partire dal basso, erano contornate da un accenno di timpano in travertino chiaro e corredate da persiane massicce di un bel verde scuro. 

Il tetto di tegole rosse, forse un po’ più grosse del normale, sporgeva dalla facciata in modo insolito, come fanno le costruzioni toscane, fino a circondare il palazzo di una fascia dove le persone potessero rimanere a parlare senza essere infastidite nei momenti di pioggia. L’edificio, intonacato con i colori della terra di fiume, chiari e fragili, sfuggenti quasi, si erigeva solitario in mezzo a campi di riso, curiosamente affiancato da un bosco di pioppi di coltivazione. Pur sovrastando il palazzotto, il bosco ne aveva la stessa proporzione, quasi che volesse limitare il timore che sapeva di incutere, che tutti i boschi incutono, ma forse ancora di più quelli regolari, duplicando la struttura armoniosa del palazzo con la disposizione regolare degli alberi, che rassicurava chi gli venisse incontro. 

In tarda primavera, poi, le distese ampie d’acqua delle risaie, riflettendo, raddoppiavano nuvola a nuvola, filare a filare, generando simmetrie ipnotiche: allora i rari stormi che si alzavano verso il cielo facevano da contrappunto a quelli che, riflessi nell’acqua, sembravano volare invece verso il basso. Solo le nuvole, quelle grandi, bianche e spumose, così insolite e buffe nei cieli bassi di pianura, sdrammatizzavano con ironia queste partiture solenni. 

A Pietro piacevano comunque questi raddoppi primaverili perché vedeva le stesse cose da una nuova prospettiva, che consentiva al cervello più che all’occhio di notare particolari che l’abitudine aveva smerigliato e reso quasi invisibili. D’inverno, invece, per lo più, la nebbia, frequentissima e compattissima in quelle zone, regalava l’effetto opposto e non permetteva di cogliere i confini delle cose: il bosco sembrava il palazzo e il palazzo dava l’impressione di una siepe alta, tant’è che bisognava avvicinarsi al palazzo e al bosco, quasi a toccarli, per essere sicuri di quello che si vedeva. 

Qualcuno, forse un filosofo, sosteneva che la nebbia, in fondo, per questo conferma ed esalta la vera natura delle cose. Insomma, era chiaro che la nebbia fosse per Pietro essenzialmente un setaccio metafisico, salvo quelle rare volte in cui alle cose ti portava troppo vicino, come in certi fossi maleodoranti, quando si sbagliava a guidare l’automobile finendo fuori strada.

Provò a richiuderli, gli occhi, come in un ultimo tentativo di nascondersi ma, come sempre capita a chi non vede, ogni cosa divenne allora molto più chiara e invece di sparire dalla percezione gli fu sbattuta addosso come uno schiaffo meritato. Senza volerlo, senza sperarlo, si trovò catapultato a quella sera di ottobre di cinquantuno giorni prima nella quale, rispondendo a un invito di Anna Rérere, si era presentato a un ricevimento del quale non poteva assolutamente immaginare il motivo e che gli avrebbe fatto scattare la vita a un nuovo livello di difficoltà di gioco.

ARTICOLO n. 65 / 2024

CHAMELEON: UNA CREATURA MUTANTE NEL CUORE DI VENEZIA

intervista di francesco d'isa

Matt Pyke, fondatore e direttore dello studio Universal Everything, è un artista noto per il suo approccio innovativo all’arte digitale. Per la Fondazione Cini ha di recente creato Chameleon, un’opera site-specific ambientata nella bellissima isola di San Giorgio Maggiore a Venezia. Pyke ha sempre esplorato la relazione tra la figura umana e il movimento nelle sue opere, ma con Chameleon sposta l’attenzione sull’interazione dinamica tra la figura e l’ambiente circostante. Ho avuto modo di intervistare l’artista per approfondire il suo lavoro, e ne ho approfittato anche per chiedergli un’opinione su come e quanto le AI influenzeranno l’arte e quale sarà la risposta dell’arte digitale alla nascita e la diffusione tra il grande pubblico di queste nuove tecnologie.

Francesco D’Isa: Nel tuo lavoro con lo studio Universal Everything c’è un’attenzione ricorrente verso la figura umana in movimento, come in opere come Run Forever e Future You. Tuttavia, in Chameleon lo sfondo gioca un ruolo da protagonista tanto quanto la figura stessa. Potresti raccontarci come questo doppio focus ha influenzato la creazione di Chameleon?

Matt PykeChameleon è una creatura che si trasforma mutando materia, colore e texture. Si aggira nell’Isola di San Giorgio Maggiore in una sorta di passeggiata visionaria ad altissima definizione, accompagnando gli spettatori per dodici minuti attraverso ambienti che un tempo erano monasteri e che oggi ospitano gli istituti, i centri studi, e le biblioteche della Fondazione. La figura entra nella Sala degli Arazzi, contempla le Nozze di Cana, attraversa il bosco con le Vatican Chapels. Diversamente da altri lavori in cui la figura che cammina era la protagonista, qui Chameleon si trasfigura mentre è in movimento, adattandosi ai colori, ai giardini, ai chiostri e agli arazzi che incontra lungo il suo percorso.

Questo lavoro è stato concepito come un’opera site-specific. Volevamo esplorare nuove possibilità offerte dalla tecnologia, investigando la figura umana in un modo nuovo, mescolando realtà e digitale per creare una forma vivente digitale che fosse in armonia con il contesto circostante. Abbiamo cercato di far dialogare la figura con l’ambiente, creando qualcosa che fosse al tempo stesso parte del luogo e unica nel suo genere.

F.D. In Chameleon avete sviluppato una tecnica per mappare gli ambienti su una figura umana, creando texture con rilievi e contorni. Potresti approfondire questo interessante processo? In che modo questo approccio si differenzia dai tuoi lavori precedenti?

M.P. Per creare Chameleon abbiamo utilizzato un nuovo software di intelligenza artificiale estremamente interessante. Questo software traccia il movimento dell’attore che cammina nello spazio, estrae i dati e li rimuove dall’ambiente, per poi sostituirli con una figura CGI (Computer Generated Imagery). Il risultato è un movimento umano realistico che attraversa lo spazio. Successivamente, ci siamo concentrati sulla mappatura delle texture in tempo reale, una cosa che fino a poco tempo fa sarebbe stata impossibile.

Abbiamo sviluppato una tecnica di estrusione dell’ambiente che ci ha permesso di creare una figura tridimensionale in metamorfosi continua, basata sui luoghi che attraversa. Inizialmente, tutto è stato realizzato in tempo reale, per poter posizionare la figura negli ambienti e vedere come il contesto influenzasse le texture del corpo. Poi abbiamo utilizzato un software per tracciare la scena e ottenere la prospettiva, la luce e le ombre corrette, prima di inserire la figura nelle scene.

Si tratta di una scultura digitale moderna, una scultura impossibile che non potrebbe esistere al di fuori del mondo digitale, una scultura in movimento. Per fare l’estrusione e il rilievo abbiamo lavorato sui pixel più chiari e più scuri, che ci hanno aiutato a percepire e restituire la profondità.

F.D. Quest’anno ricorre il decimo anniversario del riconoscimento di Universal Everything al Festival Ars Electronica con Walking City. Poiché l’arte digitale è una disciplina relativamente giovane e strettamente legata alle tecnologie emergenti, come vedi l’evoluzione di questo campo? Come è cambiato il tuo approccio all’arte digitale nel corso degli anni, e quali cambiamenti prevedi per il futuro di questo medium?

M.P. La prima cosa che è cambiata è la velocità. Oggi possiamo lavorare in tempo reale con il computer, cosa che prima era impensabile. Anni fa, per ottenere un rendering realistico ci volevano due o tre settimane; ora, grazie a tecnologie simili a quelle utilizzate nel gaming, possiamo ottenere risultati molto realistici in tempo reale.

Anche dal punto di vista del display delle opere è cambiato molto. Un tempo avevamo solo schermi rettangolari, ma ora abbiamo schermi più grandi e di forme diverse, che si adattano agli edifici e ad altre superfici. Le superfici su cui proiettiamo le nostre opere sono più flessibili, più grandi e più varie in termini di forma.

Dal punto di vista concettuale, ciò che sta cambiando e cambierà rapidamente è l’estetica. In passato si cercava di presentare visioni impossibili; ora, con l’AI, questo è diventato relativamente facile per chiunque. Quindi, la sfida è trovare un’estetica che non sia già stata esplorata o che vada oltre ciò che è facilmente ottenibile con l’AI. Dobbiamo andare oltre l’estetica standard, perché l’AI è bravissima a fare remix, ma trovare qualcosa di veramente unico sarà sempre più difficile.

Adesso inoltre esistono nuovi formati di display, come i visori VR, per esempio Apple Vision, e la realtà aumentata immersiva. Questi strumenti offrono nuovi modi per entrare negli spazi privati e offrire esperienze collettive. Con la VR, l’arte digitale diventa più partecipativa. Possiamo anche creare video immersivi in spazi molto versatili, come pavimenti e soffitti, con proiezioni interattive. E non si tratta più solo di loop video; possiamo creare opere che si evolvono e cambiano con ogni visitatore, offrendo ogni volta un’estetica o un’esperienza diversa.

F.D. Come artista e filosofo che lavora a stretto contatto con l’AI, sono molto interessato a come l’intelligenza artificiale stia trasformando il mondo dell’arte. Nella tua esperienza, come vedi l’AI influenzare il futuro della creazione artistica? Alcuni artisti esprimono preoccupazioni sul fatto che l’AI possa minare l’autenticità dell’espressione artistica. Considerando il tuo lavoro con l’AI, qual è la tua prospettiva in merito?

M.P. Lavorare con nuovi strumenti è, per me, parte del piacere di fare arte. Mettere il proprio talento al servizio della scoperta, utilizzando strumenti nuovi in modi innovativi, è sempre stato fondamentale per il mio processo creativo. Ora, l’intelligenza artificiale rende tutto questo accessibile a tutti, forse persino troppo facile, e questo è un fenomeno interessante. Oggi, chiunque con un iPhone può fare cose incredibili. La tua è una domanda interessante: bisogna trovare strade nuove per restituire l’unicità, per creare cose mai viste prima, e sarà più difficile andare oltre l’estetica standard, sia per l’esistenza delle AI che per la loro capacità di fare remix.

Negli ultimi anni, gli strumenti AI sono diventati più accessibili al grande pubblico, permettendo a molte più persone di sperimentare senza richiedere un grande investimento di tempo o denaro. Questo ha generato scompiglio. La reazione dei pittori all’arrivo della fotografia è stata simile, portando alle avanguardie del ‘900. Penso che sia fondamentale creare strumenti unici per generare nuove forme. Come nella musica, c’è chi manipola i propri strumenti e chi segue certi standard; per fare cose nuove, servono strumenti nuovi, e nel nostro studio vogliamo sempre costruire nuovi strumenti, così da mantenere la nostra visione unica e indipendente. La personalizzazione delle tecnologie sarà essenziale.

F.D. Il processo di creazione di Chameleon ha coinvolto non solo le tecnologie, ma anche una collaborazione con la Fondazione Giorgio Cini. Come ha influenzato questa collaborazione il risultato finale del progetto? 

La Fondazione Giorgio Cini è un luogo bellissimo e molto vario, e per noi è stato essenziale studiare le transizioni tra gli ambienti. Chameleon cerca di catturare l’unicità della Fondazione, illuminando alcune delle aree meno conosciute di questo luogo. Abbiamo filmato i chiostri, la Biblioteca del Longhena, la Manica Lunga, il bosco, le Vatican Chapels e altro ancora. Si tratta di arte digitale, ma in questo caso è stata pensata con uno scopo specifico: invitare il pubblico a immergersi nell’ambiente e a scoprire alcuni degli aspetti e dei dettagli unici di un luogo così speciale.

Uno dei nostri interessi principali, da lungo tempo, è la creazione di nuove forme di immagini in movimento. Ci siamo naturalmente ispirati anche al lavoro di scansione e archiviazione svolto dalla Fondazione Giorgio Cini. Ci è piaciuta l’idea di combinare queste due cose attorno a una figura che cammina, esplora l’ambiente, ma scansiona e assorbe anche i materiali, le trame e le superfici circostanti. L’architettura classica, combinata con i chiostri, i corridoi interni, gli arazzi e il bosco, ci ha fornito tantissime texture interessanti con cui lavorare. Come materiale di partenza, è stato strutturalmente diverso da ciò a cui siamo abituati, e proprio per questo molto stimolante e ideale in termini di creazione con le nuove tecnologie.

Chameleon comunque è solo il primo di una serie di opere. Vogliamo usare “Chameleon” per rivelare spazi nascosti in tutto il mondo e ne stiamo già realizzando altri, uno a Londra e uno in Corea, in un ambiente naturale. È affascinante vedere come la figura reagisce a diversi contesti; lo abbiamo persino provato in un supermercato ed è stato molto strano!

ARTICOLO n. 64 / 2024

VIVERE IN FLORIDA

Pubblichiamo un estratto da Paradiso terrestre (Mercurio, traduzione di Marta Olivi). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

La casa di mia madre è storta. Nemmeno questa è una metafora. Un pomeriggio rovente mio marito mi fa notare che il pavimento della cucina è in discesa. Per dimostrarlo, riempie un bicchiere d’acqua, si inginocchia, e fa gocciolare l’acqua a terra. Porta ancora i pantaloncini e le scarpe da corsa, è senza maglietta, è abbronzato e luccica di sudore. 

Guardiamo le gocce d’acqua scivolare giù come se fossero attratte da una forza invisibile. Approfondiamo la questione e scopriamo che anche il pavimento del soggiorno è inclinato, e anche le camere di sopra. Perfino la porta d’ingresso non è centrata. Ci chiediamo se non sia un segno che la casa di mia madre sta per crollare. 

Per tutta la nostra vita adulta siamo state persone da appartamento; le case per noi sono un immenso, insondabile mistero. Un sacco di spazio. Un sacco di cose che possono andare storte. «Le cose si spostano», è tutto quello che mia madre ha da dire quando glielo facciamo notare. Ci ricorda che la maggior parte della Florida poggia su uno strato di pietra calcarea, porosa; che tutto quanto intorno a noi è una specie di schema piramidale, perfino la terra sotto i nostri piedi. 

Il riferimento alla pietra calcarea mi fa pensare ai sinkhole – un pensiero tutt’altro che rassicurante. Qualche giorno dopo, portiamo il cane in un parco statale e nel bel mezzo di un prato troviamo un cratere circondato da transenne gialle. Un cartello spiega che è un sinkhole apparso la scorsa estate.

All’inizio i commissari di contea avevano pensato che poteva essere una nuova sorgente d’acqua, teoria che si è poi rivelata falsa. Il buco ha continuato a crescere, allargandosi fino a diventare una bocca profonda e inquietante. Il Dipartimento Parchi Pubblici ha ipotizzato che potrebbero esserci delle caverne lì sotto; hanno chiamato dei geologi per investigare.

Ci affacciamo alle transenne per guardare dentro il cratere, osserviamo lo scintillio nero della terra bagnata. Il nostro cane, indifferente, mangia l’erba. 

Tornati a casa, cerco “sinkhole” su Internet e leggo un articolo dal titolo Perché i sinkhole stanno inghiottendo la Florida. Leggo di un uomo di Tampa che è morto dopo che un sinkhole si è aperto sotto casa sua. Non dico a mio marito di quel poveretto, dell’orrore di venire divorati dalla terra mentre guardi Maury seduto sul divano. Non gli dico che, per colpa del rapido aumento della popolazione, la Florida ha esaurito le sue riserve d’acqua sotterranee, destabilizzando ulteriormente lo strato di pietra calcarea. O che ho iniziato a guardare il cortile di mia madre con un’attenzione nuova. Dicono che si vede la terra tremare leggermente poco prima che si spalanchi un sinkhole.

La casa di mia madre è stata costruita nel 1902, è una casa in stile Queen Anne con un comignolo di mattoni rossi perché il tipo che l’ha fatta costruire era di New York e si era trasferito nel Sud per arricchirsi con il commercio di sedano. Quando mia madre l’ha comprata, la casa era un rudere. La vegetazione sul retro era così incolta che impediva di vedere dove finisse la proprietà. Ma era proprio accanto alla villetta in stile Craftsman che mia sorella, all’epoca incinta, e suo marito avevano passato anni a rimettere a nuovo. 

Mia madre invece ha lavorato alla ristrutturazione per sei mesi e poi si è stancata, quindi casa sua rimane un progetto che non sarà mai completato. Per esempio, l’impianto elettrico è un po’ strano. A volte mentre sono sul divano a leggere saltano le luci, tutte, come se una mano invisibile fosse arrivata a spegnere gli interruttori.

Come siamo finiti quaggiù, naufragati a casa di mia madre? In Florida, è una domanda che mi faccio ogni giorno. Siamo venuti qui all’inizio dell’anno per prenderci cura di mio padre, che stava morendo già da un po’ e che ora è morto. Dopodiché io e mio marito pensavamo di tornare alle nostre vite, ma è arrivata la pandemia e non siamo potuti andare da nessuna parte.

Mio marito era un visiting professor nel Dipartimento di Storia di una città nell’Upstate New York, ma durante la pandemia il budget del Dipartimento è stato tagliato e non avevano più bisogno di visite di nessun tipo.

Mio marito crede che per trovare un nuovo lavoro deve prima finire il suo libro sui pellegrinaggi. Nel frattempo, io smaltisco pian piano la mia montagna di thriller. Per tutto quest’anno mi è sembrato di vivere sotto una gigantesca coperta, nascosta agli occhi del mondo esterno, ma sotto questa coperta esiste un intero universo di ricordi e associazioni ed esperienze. Non sono mai sola. Sotto la coperta ho, con mio assoluto orrore, tutte le mie me passate a farmi compagnia.

Quando vivevamo nell’Upstate New York abitavamo in una casa dell’università, quindi non abbiamo un posto che possiamo dire nostro. «Ma con tutte le cose brutte che ci sono in giro», mi dice mia sorella quando mi lamento della nostra situazione. «Meglio restare vicino a casa, è più sicuro». Mia sorella è un perito assicurativo e le piace credere di avere uno spiccato senso del pericolo. Le ricordo che quaggiù circola un’energia molto strana. Il giornale locale, per esempio, è pieno di annunci di persone scomparse.

Nextdoor è pieno di appelli e numeri di telefono da chiamare nel caso si sapesse qualcosa su qualcuno che è sparito. Non avevo mai visto così tante foto di facce che urlano dagli abissi. Sedute su due sedie a sdraio nel cortile sul retro di casa di mia sorella, guardiamo mia nipote che gioca a parlare con ogni foglia d’erba, e ogni foglia d’erba le risponde. Mia nipote ha quattro anni e ha un’immaginazione sconfinata e sregolata. Del tipo che è convinta di avere un fantasma come animale da compagnia. «È tutta la vita che sei lontana. Cosa c’è di male a stare qua per un po’, visto che c’è bisogno di te?», mi dice mia sorella, incrociando le braccia abbronzate. Non è mai uscita dalla Florida, né ha mai desiderato farlo. È una delle grandi differenze tra di noi. Eccone un’altra: durante la pandemia anche lei si è ammalata ma sostiene di essere assolutamente uguale a prima, come se non mi fossi accorta che i suoi occhi blu oltremare sono diventati di un verde dorato, felino. I traumi ci cambiano nei modi più inaspettati.

Ho lasciato la Florida quando avevo ventidue anni e ora ne ho trentasei. «Metà della vita», la correggo. A casa di mia madre, nella mansarda, c’è una camera da letto con il soffitto inclinato e una sola finestra rotonda che si affaccia sulla strada. Le pareti sono ricoperte di scatoloni e contenitori di plastica. Contengono cose tipo bambole con un occhio solo o tovaglie con macchie di senape che non andranno mai via, perché mia madre non crede nel buttare le cose. Secondo lei, non avere lungimiranza è l’errore più grave che si possa commettere.

Di fronte alla finestra a oblò c’è una vecchia scrivania in stile marina. È in radica di noce e ha tre cassetti su entrambi i lati con pomelli dorati a forma di teste di leone. Ci metto di fronte uno sgabello. Mi siedo. Traballa, quindi ondeggio un po’ e mi sembra che la mansarda sia davvero su una barca. A volte di sera sento una sirena che va avanti per ore. C’è qualcosa che si è rotto e l’allarme non smette di suonare. 

Il mio fratellastro vive nel Panhandle, dove gestisce una compagnia di turismo sostenibile; di recente un gruppo di uomini in tuta mimetica ha prenotato uno dei suoi tour sperando di trovare un’isola deserta dove accamparsi. Non ci credi davvero a tutte quelle scemenze sul cambiamento climatico, vero?, ha chiesto uno di loro al mio fratellastro. Non sai che le ondate di calore e le alluvioni fanno parte di un ciclo? È così dai tempi biblici. Mai sentito parlare di Noè? Decido che verrò in mansarda per il ghostwriting, sì, ma anche per pensare ad altro. Tipo a cosa voglio dalla Florida e a cosa vuole la Florida da me. A com’è successo che questo posto si sia infilato dentro di noi facendosi spazio in mezzo a tutto il resto, e a come è successo che anche noi abbiamo fatto lo stesso dentro di lui. Se è giusto credere alle voci che ci parlano in sogno. Quali siano i voti di silenzio da mantenere per sempre, e quali vadano infranti.

Nel Chiedilo ad Ava di oggi un uomo scrive di sua madre, che è scomparsa di recente. Viveva a casa di suo figlio, in una piccola stanza degli ospiti che dava sulla cucina. Una volta passava il tempo guardando telenovelas e chiacchierando con le amiche al telefono, ma durante la pandemia ha iniziato a usare il minds eye. Si metteva a letto e si infilava il visore e restava così per ore, il corpo inerte ma la mente piena di energie. La madre dell’autore della lettera ha smesso di seguire le trame intricate delle telenovelas, ha smesso di chiamare le amiche. Lui ha iniziato a pensare che avrebbe dovuto farle un discorso serio al riguardo, ma un giorno ha aperto la porta della sua camera e lei non c’era più. Il resto della camera era normale. A parte la madre, l’unica altra cosa scomparsa era il visore bianco. Lei non era in casa, non era nel cortile sul retro, non era sul vialetto. È in pensione; non guida. Lui ha chiamato tutte le sue amiche. Ha chiamato la polizia, che ha risposto in tono brusco, indifferente. Ha la minima idea di quante denunce riceviamo ogni giorno? Tra un po’ ci saranno più persone scomparse che ritrovate. 

L’ha cercata in tutti i posti dove avrebbe potuto essere; ha appeso cartelli; ha scritto post su Nextdoor. Ha avuto la tentazione di prendere in prestito il mind’s eye di qualche vicino di casa, per capire che tipo di vita conduceva sua madre lì dentro – ma proprio non ci riesce. L’electra lo mette a disagio. E se il dispositivo facesse inceppare qualcosa dentro i suoi utenti, un po’ come i messaggi subliminali nella musica che deviano i percorsi neurali del cervello? 

Vai dove devi, ci dicono, ma come fa una compagnia tech a sapere dove devo andare?, scrive lui. Un’altra cosa: se non dovessi trovarla, o se non volesse essere trovata, secondo te sarebbe una cosa poco etica affittare camera sua a qualcuno?

ARTICOLO n. 63 / 2024

LETTERE SOLTANTO IMMAGINATE

Giorgio Manganelli. Lettere familiari

Pubblichiamo un estratto dal testo di Giorgio Vasta che introduce la nuova edizione di Giorgio Manganelli, Lettere familiari (nottetempo) da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Iniziamo a leggere una scrittura personale – per esempio un diario o un epistolario – accompagnati da quel senso di curiosità e di sgomento con cui varchiamo la soglia di una casa che non è stata costruita per noi e nella quale non siamo stati invitati.

Proprio perché sappiamo che non dovremmo essere lì, proviamo a valutare una serie di giustificazioni. Ci diciamo che abbiamo varcato quella soglia come il pellegrino che intravista la porta socchiusa di un casolare ha deciso di trascorrere la notte lì dentro – è una congettura un po’ balzana e medievaleggiante, ma ci piace immaginarci come chierici vaganti della lettura, un po’ sapienti un po’ goliardi, autorizzati dal desiderio di conoscenza a superare ogni confine. 

In alternativa raccontiamo a noi stessi di essere il vicino che non sentendo più da giorni nessun rumore provenire dal piano di sopra, temendo il peggio è salito a dare un’occhiata; dunque siamo lì perché siamo solleciti se non affettuosi: entriamo in casa d’altri perché gli altri, ci diciamo, hanno bisogno di noi – della nostra attenzione: della nostra magnifica indiscrezione. 

Oppure, su questa falsariga, ci raccontiamo di essere l’ispettore appena convocato proprio perché il peggio è avvenuto e il vicino ha prontamente telefonato alla polizia, e adesso ci muoviamo cauti e tecnici per le stanze cercando ovunque tutto ciò che può essere indizio, persuasi che il testo sia sempre il teatro di un delitto e quindi il luogo di un’indagine, il testo è una camera ermeticamente chiusa dall’interno, nessuno è entrato e nessuno è uscito eppure lì dentro è avvenuto un crimine – l’enigma può essere risolto, prima o poi il testo si deciderà a confessare.

Volendo però essere spietati dovremmo riconoscere che se siamo lì dove non dovremmo è perché siamo il ladro: nessun altro se non il ladro: colui che scava una buca e poi un tunnel e poi spacca il pavimento e fa capolino nel testo, il furfante equilibrista che si arrampica lungo la grondaia e poi forza la porta o la finestra oppure si cala giù da un lucernario o da un abbaino o dalla canna fumaria; nell’inoltrarci in quello spazio intimo che sono le lettere familiari di Giorgio Manganelli, noi stiamo compiendo una violazione di domicilio.

Ho letto dunque questo libro sapendo che qui dentro dimorano parole che non sono per me. Qui dentro io sono l’intruso. Colui che ficca il naso in un discorso che non lo riguarda. Ho letto questo libro disobbedendo all’interdizione che fisiologicamente governa l’esistenza delle scritture personali: ogni riferimento, ogni allusione, ogni confessione, ogni lamentazione – e i rimbrotti, le confidenze, le esortazioni, le implorazioni: tutto

ciò che è detto palesemente così come tutto ciò che è cifrato o implicito o anche soltanto limpidamente taciuto – è solo di quei due: è loro; e dunque non è lì per noi. 

L’ho letto così, questo libro, e so che non è la prima volta che succede. Perché le scritture personali vengono recuperate dai fondi, da armadi e cassetti, e pubblicate. E lette. Se lecitamente o illecitamente non lo so – nel caso specifico, negli ultimi tre decenni l’editoria italiana è alla ricerca di un Manganelli ulteriore, dunque anteriore, il più possibile originario, retrostante, a priori, fetale, un Manganelli di fianco, di tre quarti, di spalle, tra virgolette o tra parentesi, estemporaneo, distratto, svagato, addirittura inconsapevole: un Manganelli a oltranza; è una specie di vizio, quello di voler pubblicare, di qualcuno, tutto, ma nonostante a volte si possa avere la sensazione di una forzatura, questa pulsione editoriale è logica e utile: dove cercare la scrittura di Giorgio Manganelli – di uno scrittore che scrive sempre, qualsiasi cosa scriva, a oltranza – se non in ogni sua scrittura?

Quando leggo testi che non hanno previsto la mia esistenza – se il mittente seduto al tavolo a scrivere o il destinatario in piedi a leggere mi avessero visto avvicinarmi, avrebbero fatto una mezza torsione su se stessi per proteggere la scrittura dal mio sguardo –, in faccia mi compare il ceffo del gatto quando gli viene detto di non infilarsi nel vaso e lui si infila nel vaso e scava: No, gli viene detto, non si fa, e il gatto ascolta il rimprovero e scappa e si nasconde e dopo un poco torna nel vaso e ricomincia a rovistare; ho letto questo libro così, furtivo, sentendomi ingiusto e allo stesso tempo non riuscendo a non rinfilarmi nel vaso e a scavare – ancora mille volte mi si potrà rimproverare e ancora mille volte fuggirò intuendo che non si fa e ancora mille volte tornerò nel vaso a zampettare rovesciando fuori la terra: perché nel leggere furtivamente c’è qualcosa di osceno e di bellissimo: nel leggere rubando c’è un senso di colpa che non si distingue dall’euforia.

E allora meglio non subire la natura felinamente canagliesca di questa lettura ma rivendicarla. Meglio dichiarare che si legge anche da clandestini, senza nessuna giustificazione. Dandosi giustificazioni. Si legge intromettendosi tra i bisbigli degli innamorati o dei fratelli, risalendo lungo la spirale che lega un figlio a una madre, il respiro di un padre a quello della figlia. Si legge di ciò che è stato il quotidiano degli altri, che a volte fiorisce improvviso e a volte se ne resta legnoso, un quotidiano che è progetto, problema, fantasticazione, ricerca, inciampo, delusione, e dunque si leggono le circostanze minute delle giornate, le attese, i preparativi, i presentimenti e i dispiaceri, tutte le piccole vicende del corpo – le eccitazioni, i disturbi –, si leggono i desideri, i tormenti, le ambizioni, le frustrazioni, tutti i farò e dirai e andremo e saremo: l’esistenza che mentre accade è sempre un po’ baldanzosa un po’ patetica, cieca e sorda, timida, famelica, simultaneamente vulnerabile e indistruttibile; e ancora, continuando a fare irruzione nella dimora delle confabulazioni private si legge di come a un certo punto la morte smaglia il tempo, separando il tempo dal tempo e insieme umiliandolo, e allora la scrittura tenta di farsi consolazione per provare a stare dentro la scomparsa.

Nel fluire delle lettere che danno forma a un epistolario c’è una costante: ciò che non dà tregua al mittente e al destinatario è il presentimento di un equivoco; ogni lettera è il luogo di un dubbio: ho la sensazione che tu non abbia capito che, forse non ti ho adeguatamente chiarito in che modo, ti avevo chiesto se per cortesia… e invece tu non; nelle lettere che mittente e destinatario si scambiano c’è sempre qualcosa che dovrebbe avvenire, una risposta auspicata che non arriva, un chiarimento in sé necessario ma che proprio per questo latita: qualcosa, l’oggetto di questo equivoco, che a tratti dà la sensazione di farsi emblema di ogni possibile senso, sempre però permanendo indefinito; ogni informazione intesa come fondamentale, e quindi incessantemente sollecitata, non può che venire procrastinata fino a essere omessa, ogni richiesta all’apparenza elementare si rivela misteriosa e irrealizzabile, tutto quello che dovrebbe accadere – facilmente e a stretto giro, pressoché sotto i propri occhi – non accade e addirittura si rifiuta di accadere: ogni singola lettera diventa allora un luogo in cui l’irrequietezza slitta in dispetto, a dominare la scrittura compaiono il disorientamento, il sarcasmo e la recriminazione: null’altro esiste – questo il sottotesto – se non l’equivoco, e venirne a capo è solo una superstizione perché ciò di cui a poco a poco ci rendiamo conto è che nonostante la nostra certezza che il discorso epistolare faccia parte della cosiddetta realtà, e quindi di una cosa descrivibile e persino logica e addomesticabile, invece il discorso epistolare è onirico, il mittente e il destinatario si stanno sempre parlando in sogno, anche quando condividono informazioni radicalmente terrestri e sembrano coinvolti nella realtà più materiale, ciò che si dicono è incerto, ciò che si dicono sembra avere a che fare col movimento e invece è immobile, o meglio ha a che fare con il movimento per come si manifesta nei sogni, quando si corre senza avanzare di un millimetro, frenetici e cristallizzati, brancolando; negli epistolari ci si parla come si parlano Vladimiro ed Estragone, non facendo altro che equivocare e trasformando l’equivoco nell’unica cosa che è possibile dire; ciò che il mittente e il destinatario si dicono è un rêve à deux, dunque una magnifica indistruttibile folie à deux: una confusione di ogni giorno che sconvolge e terrorizza e commuove; non ci siamo capiti, dice ogni lettera, non c’è proprio modo di capirci: comprendersi somiglierebbe a un miracolo – eppure, ed è la condizione più struggente di un epistolario, questo non poter fare altro che equivocare è il nostro unico patrimonio, è il nostro giacimento: il senso del legame; nient’altro c’è da attendere se non un altro equivoco – e non c’è da arrabbiarsi o da patire: questo continuo rinnovarsi dell’equivoco, questo suo caparbio e sempre nuovo inverarsi, non è un’anomalia bensì struttura; e dunque, dice una lettera all’altra, ti prego, sfuggimi ancora, concedimi ancora il privilegio di equivocarti e, così, di equivocarmi, lasciami la possibilità di immaginare che il senso esista e che semplicemente finora ci è sfuggito ma prima o poi riusciremo a prenderlo; intanto, nell’attesa del nostro prossimo equivoco, carissime cose a te e famiglia.

ARTICOLO n. 62 / 2024

MELONI, PISTA E FICHI

Differenze tra propaganda e comunicazione

“Piaccia o no, Meloni dà una pista a tutti”. Questo è un estratto dall’intervista a Cathy La Torre, avvocata paladina dei diritti LGBTQ+ e delle istanze progressiste, su Il Foglio

Cerco di capire cosa non vada in questo trafiletto che profuma di endorsement al Presidente del Consiglio, che fino a qualche settimana fa sembrava essere nemica (nemico? Meloni mi perdoni il misgendering, ma la scelta dei pronomi qui non è ancora molto chiara) giurata numero uno degli ideali a cui anche La Torre si ispira per il proprio lavoro di content creator.

Gli avvocati di Avvocathy (cit. @Odiodiclasse) mi perdoneranno in questo mio esercizio del diritto di critica (e satira, non so essere troppo seria in questo mio incipit), ma non posso davvero credere alla buonafede della loro assistita nel rilasciare tale intervista. Infatti, il risultato della chiacchierata con Gottardi su Il Foglio è un chiarissimo esempio di cerchiobottismo liberale che fa più danno che altro e che arriva talmente all’improvviso da lasciare di stucco perfino il giornalista, che finisce egli stesso per perculare La Torre, cito: “Fermiamoci un attimo prima che l’avvocata La Torre si iscriva a Fratelli d’Italia”.

Nel breve pezzo, le quattromila battute più autosabotanti dell’anno, La Torre elogia la capacità comunicativa di Giorgia Meloni, che sarebbe una “fuoriclasse” dell’ars oratoria della politica nostrana. Per La Torre infatti, Meloni sarebbe un esempio per moltissime persone e la sua parlantina sarebbe magnetica ed efficace. Vabbè che gli standard di professionalità in ambito politico qui in Italia sono bassi, ma manco a far così. 

Credo infatti sia opportuno fare un piccolo approfondimento proprio sulla scelta politica delle parole (dalla campagna elettorale in poi) adottata da Meloni e dal suo partito, per comprendere appieno quanto queste poco abbiano a che fare con la “comunicazione” e quanto invece abbiano il sapore inconfondibile della propaganda di regime. Già, perché se non fosse chiaro, quello del governo Meloni ha tutti i connotati per chiamarsi in questo modo: criminalizzazione del dissenso, uso della forza tramite il braccio armato dello Stato, cancellazione delle marginalità con limitazione dei diritti fondamentali di intere comunità, controllo dei corpi, controllo dei mezzi di comunicazione, finanziamento dell’esercito israeliano, accordi con la cosiddetta guardia costiera libica, silenzio stampa su vicende al retrogusto di MSI e una spietata quanto irriverente apologia di fascismo commessa a giorni alterni.

In questo quadro che ha qualcosa dell’autarchia e qualcosa dell’assolutismo, la comunicazione non basta per sedare gli animi dei cittadini. Serve invece la propaganda, ovvero una serie di espedienti tesi a ribaltare l’ovvietà dei fatti mistificando la realtà e i reali interessi che ha questo governo, per convincere l’elettorato attivo e smuovere quello potenzialmente passivo. Per vedere rinnovato con legalità un incarico, una fiducia in un modus operandi che non potrebbe mai passare come innocuo se raccontato con la spietatezza che invece lo contraddistingue.

La propaganda viene dunque in soccorso di Meloni, che già in campagna elettorale aveva cercato di mitigare l’estremismo post-fascista delle sue intenzioni usando la triade rassicurante per eccellenza: mamma / donna / cristiana.

Con questo motivetto amabile, FdI ha raggiunto anche gli elettori più restii nell’abbracciare istanze violente e discriminatorie, rassicurati da una parvenza di cura che poi avrebbe ritirato fuori all’occorrenza per stemperare le critiche all’operato del primo partito nazionale: Meloni-madre è stata ed è un personaggio propagandistico centrale nello sviluppo e nella radicalizzazione delle politiche sempre più estreme di questo governo.

Mentre in Italia la premier sceglieva questo andazzo rassicurante, ospite in Spagna per i fratelli di Vox si lasciava andare invece a dichiarazioni ben più frizzantine quali “Sì alla famiglia naturale, no alla lobby LGBT, sì all’identità sessuale, no all’ideologia di genere, sì alla cultura della vita, no a quella della morte”. E ancora, mentre in Italia lasciava fare il lavoro sporco ai suoi scagnozzi, da Roccella ai vari parenti inseriti nell’esecutivo, bloccava con il sorriso rassicurante di una madre il diritto di due madri di poter riconoscere i propri figli. O ancora, di poter accedere alla maternità surrogata.

Mentre sfilava diritti e inaspriva le pene, ci raccontava una storia che non corrisponde al reale: Meloni non è mai stata una che, come invece dichiara La Torre, condanna con fermezza gli attacchi omolesbobitransfobici. Meloni è una che DEVE farlo, non che vuole. E mentre lo fa, impedisce la transizione a centinaia di giovani ragazzi, firma leggi che controllano i corpi della comunità, disconosce l’omogenitorialità, promuove il razzismo, dirotta navi di ONG in porti lontani centinaia di chilometri per giocare partite a braccio di ferro con l’Europa sulla pelle delle persone migranti, fa presidiare tramite i suoi fedelissimi di Pro Vita e famiglia i consultori del paese rendendo spesso impraticabile l’interruzione volontaria di gravidanza, ignora i fondi destinati alla prevenzione della violenza maschile contro le donne, accusa pubblicamente una pugile di non essere ciò che è contrapponendo le “vere donne” a tutte le altre, criminalizza le ONG che salvano vite in mare mentre stringe accordi con chi tortura e uccide.

Mentre questo piano di orbanizzazione con la camicia nera va avanti, si confeziona insieme al suo sapiente ufficio stampa un pacchetto di informazioni falsate e perentorie, frasi fatte e facilmente memorizzabili che possono essere rese tormentone, che nessuno verifica mai, complice anche un analfabetismo funzionale devastante, sia a destra che a sinistra.

Fa leva sulle paure ataviche delle società capitaliste, instillando il dubbio nel diverso, allontanando l’arricchimento e il progresso rievocando un passato che dolce non è mai stato, ma che ci vuol far credere sia così.

Meloni e i suoi hanno capito esattamente come far breccia nelle fragili convinzioni di un elettorato – anziano e lontano dalla velocità e attualità delle nuove generazioni – che si trova a votare chi tra i vari politici fa la voce più grossa. 

La propaganda fa leva sulla paura del diverso, sulla punizione e sulla promessa di un futuro florido che non verrà mai mantenuta.

La propaganda di per sé non è una comunicazione politica canonica ed efficace proprio perché è il mezzo che hanno i regimi per convincere che tutto quello che avviene sotto al loro dominio sia giusto e rassicurante. Mentre, nella pratica, si va esattamente nella direzione opposta.

La differenza tra comunicare politicamente qualcosa di reale e fare propaganda sta tutta qui: delle parole vuote noi categorie marginalizzate ce ne sbattiamo il cazzo, soprattutto se queste sono accompagnate da provvedimenti che ci limitano la libertà a esistere.

Per questo mi fa incazzare da morire che si faccia un endorsement di questo tipo a un personaggio come Meloni, che del soffitto di cristallo fa suo rigidissimo scudo. 

Non c’è niente di autentico in quello che il Presidente ci comunica ogni giorno, e che a non rendersene conto siano persone che mi aspetto abbiano gli strumenti per riconoscere questo meccanismo disumano mi spaventa non poco.

Se poi questo sia un tentativo di mettere piede in qualche progetto o programma ministeriale a me non interessa, ognuno di noi si vende a chi preferisce almeno una volta nella vita. 

Ma che lo si faccia con tanta scelleratezza, passando sopra la sofferenza di intere categorie che probabilmente si sentivano rappresentate e al sicuro nel leggere le parole scritte da La Torre ogni giorno sui suoi social, mi disturba.

Perché queste sviolinate me le aspetto da Silvia Grilli, non da chi mette i diritti davanti a ogni cosa.

Volevo e ci tenevo a esprimermi su questo argomento perché ora più che mai dovremmo avere chiari sia gli intenti del governo Meloni che l’inadeguatezza del liberalismo del PD. 

E mi duole vedere che anziché reagire con una radicalizzazione si voglia invece finire a tutti i costi nel buonismo anche davanti all’evidenza. Evidenza che fa schifo e soprattutto paura. 

Ci tenevo a esprimermi perché penso che a volte mettere le cose nero su bianco e fare un’analisi un po’ più approfondita in risposta ai vari “non mi avete capita” e del “parlavo di comunicazione, non di politica” possa servire davvero a non reiterare questi terrificanti autogol in un momento così delicato per chi vive o sosta in Italia.

Ci tenevo a esprimermi qui, perché posso ancora farlo. E in un regime mica è scontato.

E finché potremo farlo, dovremmo ribadirlo con rinnovato orgoglio: la propaganda meloniana è roba da fascisti, non da fini comunicatori. 

Non vederlo è marchetta, o semplicemente liberalismo.

Non mi esprimerò invece sulla scelta di quella foto con la maglietta di Murgia, perché se dovessi davvero dire cosa penso del personal branding fatto con i morti dovrei bestemmiare. E so che questo, a Murgia, avrebbe dato molto fastidio.

ARTICOLO n. 61 / 2024

EROS

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

«Non vedi come soffrono le coppie legate dal piacere? Anche quando l’amore è felice e i corpi si congiungono e sono vicini a godere e Venere inonda la femmina, i due si avviluppano, mescolano la saliva con la lingua, premono le labbra contro i denti, ma è inutile: non riescono a saldarsi, a confondersi in un solo essere», diceva Lucrezio (De rerum natura, IV, vv. 1105-1111). 

Ma se, scriveva tre secoli prima Platone nel Simposio, Efesto il fabbro, il dio del fuoco e delle fucine, apparisse in quel momento ai due amanti con i suoi strumenti e chiedesse: cosa volete? forse volete fondervi? Io potrei farvi diventare da due uno solo, finché sarete in vita e poi ancora nel mondo dei morti, loro stupiti e imbarazzati direbbero di sì, che è proprio quello che da tempo desideravano, da due diventare uno, congiungendosi e confondendosi (192d). 

Sempre nel Simposio Aristofane racconta che in origine gli esseri umani avevano quattro braccia e quattro gambe e due facce rivolte all’opposto su un’unica testa, e quando volevano muoversi velocemente rotolavano come una palla. Fu Zeus, per moderare la pretesa di perfezione di queste creature sferiche, a dividerle in due, incaricando Apollo di girare i loro volti in modo che guardassero di fronte. Ma gli esseri umani così scissi sentivano una terribile mancanza dell’intero originario e ognuno andava cercando la metà perduta e la abbracciava e cercava di fondersi con lei, fino a morire di inedia e di inazione. Perciò Zeus, impietosito, inventò l’unione sessuale e da allora ogni essere umano cerca di ritrovare così l’unità antica e di riunirsi alla metà mancante (189d-191d). 

«Ma coloro che trascorrono insieme tutta la vita — cito ancora — non saprebbero neppure dire che cosa vogliono ottenere l’uno dall’altro. Nessuno potrà credere che si tratti solo del piacere sessuale. È evidente che l’anima di entrambi vuole qualcos’altro che non è capace di esprimere. Di ciò che vuole ha un presentimento, e parla per enigmi».

 «La verità, vi prego, sull’amore», invocava Wystan Hugh Auden. Non c’è nulla di più beffardo del discorso di Aristofane nel Simposio e del suo mito degli uomini palla. Chi può dire di conoscerlo, l’amore?

Eros stesso è l’unico dio che non è né sapiente né ignorante. Nel Simposio c’è il famoso discorso di Diotima, dove dice (203e): «Eros non è mai sprovvisto né ricco, e d’altro canto sta in mezzo tra la sapienza e l’ignoranza». Segue spiegazione: «Gli è propria la tensione verso la sapienza, dunque è più ignorante dei sapienti; ma d’altra parte non è ignorante, perché gli ignoranti non desiderano diventare sapienti». 

Il fatto è che Eros è figlio di una mancanza: sua madre è Penìa, Povertà, che durante il banchetto per la nascita di Afrodite chiede l’elemosina alla porta degli dèi. Lì si imbatte in Pòros, figlio della dea Mètis, Intelligenza. Lui è ubriaco e lei lo seduce mentre è semincosciente. Dal connubio nasce Eros, che contiene in sé un’assenza, un’indigenza (penia), ma proprio da questa è spinto a cercare ogni via, sotterfugio, espediente (poros) per raggiungere ciò cui tende: così Platone, Simposio, 203b-e. In questo senso per Diotima Eros, non essendo né mortale né immortale, in una stessa giornata ora vive, quando trova una nuova strada (poros), ora muore ma ritorna di nuovo alla vita grazie alla natura del padre; ma ciò che si è procurato è poco e scorre sempre via (203e). 

Perché è vero che l’amore è una manìa, ossia una forma di follia in senso tecnico, classificata come tale dalla medicina dei greci oltre che dalla loro filosofia, per esempio nel Fedro di Platone. È vero che, come diceva Omero, l’amore fa perdere la ragione anche ai più saggi. È vero che scrolla la mente come una ventata che si abbatte sulle querce, come diceva Saffo. Che suscita nella psiche un’affezione bipolare: «Amo. Non amo. Sono pazzo. Non sono pazzo», come diceva Anacreonte. Che sgomenta chi dopo anni riconosce il suo «sguardo struggente sotto le palpebre scure», come Ibico: «Io tremo quando lo vedo venire / come un cavallo già vecchio / allenato a molte vittorie / controvoglia / si avvia alla gara dei carri veloci».

Ma è anche vero che solo attraverso questa emozione che “scioglie le membra” proprio come la morte al guerriero omerico (la formula omerica: «Si sciolsero le membra, e la vita volò via»), attraverso questa vana macina di ricchezza e miseria – tutto ciò che Eros accumula scorre via, per questo non è mai né povero né ricco –, di sapienza e ignoranza, questo continuo sperpero che chi ama fa di sé, l’amore crea quello stato di vuoto, di penuria assoluta, di vanificazione dei fini materiali di cui affolliamo la nostra esistenza per superficialità, per horror vacui, per orrore del vuoto, o semplicemente per conformistica, depressa accettazione delle regole della tribù. 

Eros sgombra il campo: procura un’alienazione mentale che ci salva dall’alienazione sociale, ci mette in contatto con l’assoluto, ci rende indifferenti a ogni status aleatorio, a ogni ricchezza illusoria, ci spinge a raggiungerne un’altra più profonda. Eros «ci svuota dell’estraneità e ci riempie di intimità» (Platone, Simposio, 197d).         

Per questo l’amante è più caro al dio e più divino dell’amato (180b). Il desiderio alimentato dalla mancanza fa sì che l’amante continuamente si ravvivi e la passione diventi tensione verso la ricerca di un inesprimibile bene e faccia di lui «un uomo destinato a vivere in modo bello» (178c) e a «creare nel bello, col corpo ma soprattutto con l’anima», come dice la maestra d’amore di Socrate, Diotima (206b-c).

Così, come nella fiaba di Amore e Psiche, Eros è il misterioso tramite dell’unica possibile conoscenza umana, il mezzo dell’unico possibile miglioramento individuale, il veicolo dell’unica possibile sintonia della psiche con il cosmo. Perché l’una e l’altro, per i greci, sono generati e permeati da Eros. 

Già per i presocratici Eros promuove la nascita di ogni cosa. Nella Teogonia di Esiodo emerge direttamente dal caos, nelle cosmogonie orfiche si identifica con la stessa energia cosmica: come racconta Aristofane negli Uccelli (693-699), dal seno sconfinato dello spazio primordiale, da Caos, Notte, Erebo, Tartaro, che ospitavano la materia senza che ci fossero ancora terra né aria né cielo, «la Notte dalle ali di tenebra generò un uovo pieno di vento, e da questo uscì Eros, sul cui dorso splendevano ali d’oro, ed era simile alla tempesta, e congiunto a Chaos nella vastità del Tartaro covò la nostra stirpe e questa fu la prima che venne alla luce».

Ed è così che gli umani, per citare Cole Porter, begin the beguine, cominciano la danza — una danza estenuante, come appunto la beguine. Nessun essere umano può essere defraudato della sua energia. È una forza che porta ordine al cosmo e un apparente disordine all’anima. Ma se raccogliendo la sapienza greca si contempla nel microcosmo dell’anima il processo ciclico di desiderio e tensione, unione e creazione, distacco e mancanza, sconvolgimento e rinnovamento che governa il grande cosmo, se ci si immerge nel suo vuoto e ci si specchia nel suo  caos, se ci si scioglie dalla sofferenza dell’io per cogliere nelle vicissitudini della psiche individuale il riflesso dell’anima del mondo, si può come i greci avere il dono di avvertire, nella beguine di Eros, il rumore di fondo dell’universo.

ARTICOLO n. 60 / 2024

CONTROLLO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

Potrebbe sembrare scontato legare il tema del controllo a quello delle tecnologie digitali ma forse non lo è così tanto, considerato che c’è chi si indigna anche solo all’idea di accostare i due termini.

Eppure non solo da tanti punti di vista la cosa può aver senso, ma c’è anche una buona biografia a sostenere un simile approccio. Certo, forse una biografia non troppo accademica, probabilmente eterodossa, ma certamente di un certo rilievo.

Volendo però fornire qualche elemento per un ipotetico sommario si potrebbe cominciare nominando la creazione della cibernetica, la nascita e lo sviluppo della rete internet, le intuizioni visionarie di Burroughs e le riflessioni di Deleuze sulle società del controllo, certi scritti un po’ dimenticati del Critical Art Ensamble e di Tiqqun, passando per le analisi di Stiegler e del Comitato invisibile per arrivare alla gran quantità di studi dedicati all’argomento degli ultimi quindici anni. E come tralasciare tutto il dibattito intorno alla sorveglianza, la trasparenza, la biometria e la privacy?

Da questi pochi elementi dovrebbe già essere chiaro il motivo per il quale appare oggi del tutto in cattiva fede tenere separato il discorso sulle tecnologie digitali da quello sul controllo, i due sono infatti il medesimo.

Andando dritto al punto: questi decenni e i prossimi si configurano sempre più come un era nella quale la governance delle popolazioni – che ha sostituito il governo democratico degli stati amministrando i flussi delle risorse invece di sviluppare una politica per i loro cittadini – si attua sempre più per via digitale – algoritmica – dando vita a società del controllo che si configurano mimeticamente come sistemi di sorveglianza e tracciamento diffusi e capillari.

La premessa indispensabile per questo scenario è la fusione della vita off-line con quella on-line, nella dimensione nota come on-life. Lo strumento che sigilla questo passaggio e lo rende possibile è attualmente lo smartphone, ma nuovi device potranno prenderne presto il posto. Già adesso questo strumento non è che una parte di un apparato più grande, e funzionando di fatto come un terminale di una serie di calcolatori “server” allocati in remoti datacenter, ma anche elaborando e scambiando informazioni con altri dispositivi, dallo smartwatch ai sistemi di pagamento digitale fino ai sistemi di domotica.

Considerato poi gli investimenti in settori quali l’intelligenza artificiale, i computer quantistici e la nanotecnologia è certo che, presto o tardi, la loro diffusione ridefinirà ulteriormente dinamiche, soglie, campi d’azione, possibilità.

Due sono le direttrici del controllo, quella attiva e quella passiva, che sono però strettamente intrecciate tra loro. La prima ha a che vedere con la presenza e l’attività sulle piattaforme di messaggistica e dei social media, ossia con l’esposizione di sé, del proprio corpo e dei propri pensieri, con l’espressione di like e in generale gli indicatori per la numerificazione dell’esperienza digitale. L’altra si riferisce a tutti quei momenti nei quali la nostra attività è tracciata senza che ce ne rendiamo conto – antenne dati e wi-fi, tempi di connessione, uso di app, siti visitati, profili seguiti, abitudini di consumo eccetera.

Entrambe queste direttrici si muovono però su un sostrato comune, la quantificazione del sé, la biometria. 

Se quest’ultimo elemento, com’è noto, ha subito prima un’accelerazione dalla teorizzazione dei sistemi cibernetici e poi una sua normalizzazione nell’industria dei dati, propria delle tecnologie digitali dei social media commerciali e delle altre piattaforme di comunicazione e consumo, è però in buona parte ignorata la sua genealogia che ne fonda i presupposti culturali. E passa dall’organizzazione dei corpi dei lavoratori nelle fabbriche della modernità.

Per la studiosa Simone Browne questa genealogia si può retrodatare ai registri compilati sulle navi schiaviste che servivano per tracciare, identificare e certificare la proprietà delle persone deportate.

Già da qui si possono indicare alcuni concetti fondamentali: l’identificazione, la profilazione, la proprietà, ma anche la previsione, la pianificazione, la programmazione. Sono questi i tasselli fondamentali da cui sorge la logica del controllo delle tecnologie digitali. E sembra avere sempre a che vedere con la gestione dei corpi altrui, corpi subalterni, corpi su cui si pretende la proprietà, oppure inseriti in una ben definita gerarchia, corpi di cui avvantaggiarsi per il proprio tornaconto privato.

Veri demoni dell’età cibernetica, profilazione e previsione sono ossessivamente presenti, dal calcolo balistico degli ordigni alle indicazioni di consumo della prossima primavera, dalla proposta di contenuti, contatti, prodotti, intrattenimento, alla gestione dello sviluppo di povertà e ricchezza nelle aree metropolitane, fino all’identificazione degli obiettivi da bombardare nelle zone di guerra. La guerra torna sempre, sembra essere il basso continuo della logica del controllo.

Questo legame con la violenza potrebbe sembrare paradossale ma non lo è. Se è vero che nelle società di controllo il potere esercita il suo lato “morbido” perché la governance pratica la gestione della vita attraverso la persuasione, l’intrattenimento, il consumo culturale, l’economia dell’attenzione, ossia attraverso il controllo del tempo delle coscienze e dei corpi quale valore economicamente calcolabile, è altrettanto vero che è sempre presente, quando necessario, il suo rovesciamento, il suo “lato ombra”, dove domina la coercizione e la forza bruta. Questo rovesciamento, questo “lato ombra” avviene quando la reificazione di soggetti e ambienti è completa e totale – come già prefigurato da Burroughs – ossia quando la numerificazione e la possibilità di uso che permette non lascia spazio a nessuna alterità possibile, configurando così la pura “società strumentale”. In entrambe – come ci invitava a riflettere Caronia – assistiamo al passaggio dalla tecnologia come protesi alla tecnologia come mondo, non solo per la dimensione dell’on-life richiamata inizialmente o per la pervasività delle tecnologie digitali nella vita quotidiana ma per la capacità dell’informazione di farsi mondo e di farsi interiorità. 

È in virtù della potenza dell’informazione di dare forma a soggettività che hanno interiorizzato un sistema di valori e una razionalità della vita sociale conformi al discorso del capitale che oggi possiamo dire che la logica del controllo è interiorizzata.  Ed è il carattere storico e culturale di questa logica che deve essere affrontato dietro e al di là delle tecnologie digitali.

In questo scenario dove l’esterno si fa interno e l’interno si fa esterno, il controllo è un vettore che parte da più lontano nel tempo e che produce, più che esserne plasmato, la cultura cibernetica. Essa è però l’incarnazione teorica di questa logica, mentre la tecnologia digitale ne è quella pratica.

ARTICOLO n. 59 / 2024

MEDITAZIONE

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

La parola del futuro è la parola che non ci sarà mai nel futuro: è la parola meditazione. La parola meditazione è la parola che non ci sarà mai, o che ci sarà sempre di più, ma stravolta, contorta, scaraventata giù, sotto un dirupo, la parola fatta bandiera, esposta come vessillo in ogni angolo della città, confusa, usata come slogan, perennemente fraintesa.

La parola del futuro che auspico è la parola senza parole, la parola in cui scompare la parola, la parola che prende una parola e la porta via, la fa cadere giù, non si vede più niente, non si sente più niente, neanche la parola, neanche il vuoto.

La parola del futuro deve essere la parola meditazione, e non lo sarà. Deve essere la parola che se ne va, la parola che sta per un attimo in silenzio. La parola che se ne sta in silenzio per una vita intera e anche di più.

«Yoga Chitta Vritti Nirodha» scrive Patanjali, e significa che lo yoga estingue le modificazioni mentali. E allora voglio immaginare un futuro che non ci sarà, un futuro senza parole, in cui cadiamo, tutti insieme, in uno spazio vuoto luminoso.

Un futuro dove stare proprio tutti lì, in quello spazio vuoto luminoso, insieme, a respirare insieme, ogni respiro è un respiro che non ho mai respirato, e quindi a co-spirare insieme, un futuro dove cospirare tutti insieme, uno dopo l’altro, un futuro senza vritti.

Ho scritto a un amico che ero felice, e che lo ero in quel preciso istante, e lui mi ha risposto che sto diventando un prete, e io gli ho chiesto da quando la felicità è di proprietà della religione cattolica, e poi ho scritto che se è così non si può che essere preti, preti per sempre, andare incontro alla felicità, andare incontro al mondo, essere intramati di mondo. 

Sei troppo spirituale, parlami della tua svolta mistica, mi hanno detto, sei diventato buddista, hanno detto ancora, e ho detto che non ho detto niente, che c’è il silenzio, che la parola del futuro non è il silenzio, è dentro il silenzio, la parola del futuro non è neanche più tra gli spazi bianchi, tra una lettera e l’altra, la parola del futuro è tutto uno spazio bianco, uno spazio vuoto luminoso.

E mi hanno detto ancora sei sufista, da quando segui il sufismo sei diverso, e hanno detto ancora che hanno detto ancora che sono meno mondano, non sei mai stato mondano, mi hanno detto, ma così è troppo, così stai esagerando, sei anche dimagrito, avrai perso quindici chili hanno detto, abbiamo detto, ho detto. 

Mi hanno detto che con il lavoro che fai dovresti tessere più relazioni, potresti conoscere il mondo intero, invece tu…

Mi hanno detto che con il lavoro che fai puoi farti tanti amici, che ti saranno utili, eppure tu non lo sai fare, mi hanno detto che si fanno anche tanti nemici.

La parola del futuro, allora, è benevolenza, la pratica di metta bhavana, spargere amore nel mondo, spargere amore a chi ti odia, a chi hai odiato, dare amore a chi non lo saprà mai, eroso da ciò che siamo, non ti nutrire di invidia e gelosia, ma anche sii consapevole di invidia e gelosia, lasciale andare, non sei tu a essere gelosoè la gelosia che passa, è lei che passa di qua, salutala e falla andare

Ecco, la parola del futuro è meditazione cioè meditare cioè medicare, cioè respirare, cioè co-spirare, cioè cospirare insieme, in uno spazio vuoto luminoso.

Eccola questa parola, la parola “meditazione”, anche lei vilipesa come tutte le parole, frullata dagli algoritmi, impacchettata e spedita da Amazon Prime in sole 24 ore, la parola che si porta dietro mondi immensi, la parola che è fuori dalla parola, l’unica parola che è fuori dalla parola, ma è dentro TikTok, è dentro Instagram, la parola che viene usata come un’Aspirina, marchio registrato. 

Eccola, la parola che viene bombardata giorno dopo giorno, ora dopo ora, la parola che viene uccisa negli ospedali pediatrici bombardati, la parola che si è nascosta nell’oblio delle guerre dimenticate, dell’invasione cinese del Tibet e in infinite altre guerre, negli imperi che vogliono mangiarsi le religioni, negli imperi che vogliono mangiarsi le meditazioni. 

Mi hanno detto Sei diventato troppo idealista, pensi ancora a quello che succede nel mondo, mi hanno detto che non si può empatizzare con chi è così lontano da te, mi hanno detto che non puoi piangere per una donna nera morta ammazzata perché non sei donna e non sei nera, mi hanno detto che è facile piangere dalla mia posizione, mi hanno detto che non puoi piangere perché non sei morta, solo i morti devono piangere, mi hanno detto, i vivi devono solo soffrire. 

Mi hanno detto che quello che scrivo non lo legge nessuno, che non si capisce come mai non metto a frutto le relazioni, mi hanno detto che proprio non lo so fare, mi hanno detto che non si sa perché non mi interessa, che se hai un ruolo di potere, mi hanno detto, lo devi sfruttare, mi hanno detto che è tutta una questione di essere presenti. 

Mi hanno detto che bisogna esserci, e non si sa perché io non ci sono, non sono mai dove dovrei essere, mi hanno detto, non vado alle cene. 

Mi hanno detto che vado a dormire troppo presto.

Mi hanno detto che sono diventato taoista, mi hanno detto che però mi vesto come un prete, mi hanno detto che mi vesto queer, mi hanno detto che prima ero elegante e adesso sembro pazzo, mi hanno detto che attraverso la classica crisi di mezza età, è normale, a quarant’anni ci si intenerisce, ma non ti preoccupare, poi passa, mi hanno detto, poi si torna a fare quello che si deve fare, a essere come si deve essere, a non pensare a tutto il resto, a odiare chi ti odia, a sfidare chi ti sfida, a gareggiare, poi si torna a fare quello che bisogna fare, mi hanno detto che bisogna pensare al futuro, sì, al conto in banca, mi hanno detto che sì, ne ho passate tante, ed è per questo che sono in questo e quest’altro modo, mi hanno detto che da un po’ parlo troppo poco, che anno dopo anno i dialoghi con me sono sempre più monologhi degli altri, che un tempo parlavo tanto, ero simpatico, adesso voglio stare lì, ad ascoltare. 

Mi hanno detto che la parola del futuro non sarà mai meditazione, saranno tutt’altre le parole del futuro, per esempio io, per esempio io, per esempio io-io-io, e poi c’è un’altra parola tutta nuova ma così antica, la parola algoritmo per eccellenza, la parola io-mioio-mioio-mio.

Io-mio sì che è una parola, altro che meditazione. 

Una parola vera, una parola che non puoi fraintendere, reinterpretare, confondere.

E allora voglio immaginare un futuro che non ci sarà, un futuro senza parole, senza parole vere, senza parole false, un futuro in cui cadiamo, tutti insieme, in uno spazio vuoto luminoso. 

Un futuro dove stare proprio tutti lì, in quello spazio vuoto luminoso, insieme, a respirare insieme, ogni respiro è un respiro che non ho mai respirato, e quindi a co-spirare insieme, un futuro dove cospirare tutti insieme. 

Un futuro dove respirare, ed essere tutto ciò che c’è attorno, noi tutte, noi tutti. 

Un futuro dove essere come alberi, come acque, come respiri, come montagne.

Un futuro dove essere le nuvole che volano via, sempre più in alto, poi si tuffano giù, per abbracciarci quando siamo sotto le lenzuola. 

Un futuro dove essere la brina del mattino, quei piccoli aghi di ghiaccio che sembrano mandati dal cielo per ricordarci che siamo tutti ancora qui.

Un futuro dove essere ciò che chiamate vigilia: il giorno prima. 

Voglio essere la veglia prima del momento, l’esitazione felice e malinconica del tempo dell’attesa, il momento che arriva, trema, e non vuole andare via. 

Il momento che spinge quel momento ad andare via.

Il presente da rincorrere, il futuro da rinchiudere, il passato da stringere forte. 

Voglio essere la crepa che c’è in ogni cosa, e la luce che entra in quella crepa. 

Voglio essere la rupe e tutto ciò che la rupe ha inghiottito nel lungo corso di questi lunghi secoli.

Voglio essere questo secolo. 

Quell’altro secolo, che è come quello che verrà.

Voglio essere i denti che battono per la paura, la pelle delle mani che raggrinzisce quando è gonfia d’acqua, il bordo dell’unghia del piede che penetra dentro la pelle, si incarna, si fa carne.

Voglio essere la carne.

Voglio essere il collo compresso con violenza, e strozzato da mani nemiche che non credevo nemiche. 

Il respiro, l’ultimo respiro, il respiro che deve ancora venire. 

Voglio essere le mani amiche che strozzano il collo nemico. 

Il nemico e l’amico. Quello che divide il mondo in nemici e amici. 

Voglio essere quel momento in cui, per un attimo, tutto questo finisce, finiscono i nemici, finiscono i pensieri, e noi, tutti, splendiamo della nostra stessa luce, abitiamo soltanto dentro noi stessi. 

Voglio essere l’unità che non siamo in grado di vedere, l’energia creatrice che trascende ogni tempo, ogni spazio.

Voglio essere il germoglio brucato dalla vacca in un punto sperduto dell’universo. 

Tutto ciò che nel mondo si disperde, dagli acari alle stelle. 

Voglio essere il lombrico mangiato dal rospo, e il rospo che mangia il lombrico.

L’onda che cresce, risale il fondale e si solleva fino a rompersi a riva. 

Voglio essere la riva e il fondale, la conchiglia spazzata via dall’onda, trascinata sulla sabbia.

La sabbia che arriva e che copre la conchiglia, che copre altra sabbia. 

Essere la sabbia che è alla luce e la sabbia che è all’ombra. 

Essere l’ombra che ci segue nel bosco, e ci fa compagnia tra i canti delle allodole.

La luce che certe mattine sembra ululare.

L’aratro che dissoda il terreno e il terreno dissodato, la formica uccisa dal passaggio dell’aratro, i muscoli delle zampe del cavallo che traina l’aratro, il contadino che ara: voglio essere l’aratro fermo, abbandonato, quando tutto è finito. 

Voglio essere il legno marcito dalla pioggia, la pioggia che marcisce, la bambina che piange, la mamma che picchia, il sangue che scende, la ferita che ricuce la pelle, la cenere che se ne va e che si fa dimenticare.

Voglio essere tutte le guerre dimenticate, le paci da dimenticare.

Voglio essere tutto ciò che finisce nell’immenso deposito sotterraneo delle dimenticanze, tutto ciò che dimentichiamo ogni giorno, noi tutti, che siamo passati da questo pianeta. 

Voglio essere la vetta della montagna, che congiunge il cielo e la terra. 

Voglio essere il trattino che unisce cielo e terra, montagna e mare, est e ovest, vita e morte, noi e loro, io e te, e abbatte ogni parola, abbatte ogni confine. 

Voglio essere una parola nuova, fatta di tutte le parole pronunciate da tutti gli esseri che sono vissuti sul nostro pianeta e su tutti gli altri pianeti.

Voglio essere la parola non pronunciata, quella silenziosa, quella detta da un salice, da un alligatore, da una salamandra.

Voglio essere una parola infinita, fatta di trattini, una parola unica che non ha più bisogno di trattini.

Voglio essere una parola così lunga che sarà pronunciata per intera, finalmente, solo quando sarà dimenticata.

ARTICOLO n. 58 / 2024

INTELLIGENZA ARTIFICIALE

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

“Intelligenza artificiale” è un’espressione che ormai è venuta a noia anche a chi si occupa di queste tecnologie. Con il trascorrere del tempo, l’hype verso un prodotto dai costi miliardari che promette o minaccia di salvare o distruggere l’umanità comincia a suonare credibile come i timori del millennium bug dopo il duemila. Alcune persone restano timorose e diffidenti, altre non rinuncerebbero più a queste innovazioni, ma nei grandi poteri economici – dove si prendono le decisioni – continuano movimenti di assestamento tra accordi e minacce.

Di recente, Apple ha siglato un accordo con OpenAI per l’utilizzo di ChatGPT; poco prima, Samsung aveva fatto lo stesso con Google per l’utilizzo di Gemini, tra i più celebri concorrenti a ChatGPT; Microsoft integra l’AI (powered by OpenAI) nel suo nuovo sistema operativo. Queste tecnologie entreranno presto anche nelle abitudini dei più scettici: sarà possibile rifiutarle? Ovviamente sì, nessuno ci ha mai obbligato a comprare uno smartphone, eppure lo abbiamo fatto, un po’ per moda, ma soprattutto perché è comodo. Non solo per le mappe, ma anche per le traduzioni, le foto, i treni, le informazioni, la banca, i giochi, gli appunti, le notizie… persino i social network sono utili. Le giuste critiche a queste reti capitaliste di controllo e persuasione non devono farci dimenticare che, se paghiamo un prezzo così caro, non è solo per dipendenza, ma anche perché troviamo utile conoscere persone e condividere esperienze e informazioni. Così come lo smartphone, anche l’AI scivolerà nelle nostre vite perché, banalmente, è utile.

“Intelligenza artificiale” non è solo un’espressione troppo diffusa, ma anche inaccurata. Non abbiamo una nozione chiara di “intelligenza” – anzi, la cambiamo via via che una mente non umana o una tecnologia ci supera in qualche ambito – e non sappiamo se e secondo quali criteri possiamo definire intelligenti queste macchine. Una calcolatrice è senza dubbio più abile di me nel fare i calcoli, un’ape vola e coordina i suoi movimenti meglio di me, le piante sanno comunicare tra loro attraverso i miceli. Il mondo vivente è pieno di intelligenze che ci superano, tanto che, come suggeriva Stanislaw Lem in Summa Technologiae, anche l’evoluzione è un’intelligenza sorprendentemente efficace, che opera attraverso il tempo e la statistica. La natura lo fa meglio e prima insomma, come suggerisce il recente libro di Giorgio Volpi (Aboca edizioni). Lenta e priva di un’intenzione consapevole, riesce a produrre una straordinaria varietà di soluzioni viventi con risultati che spesso superano quelli di un disegno intelligente e intenzionale. Nel ristretto ambito della manipolazione di simboli, è già innegabile che ChatGPT sia spesso più intelligente di noi, considerato che scrive e parla meglio di molti umani; tuttavia, come la calcolatrice, resta molto meno versatile, non essendo in grado di cose come muoversi nello spazio o di assimilare informazioni per il proprio apprendimento in tempo reale e con cinque sensi.

“Artificiale” è un termine ancor più sbagliato. Ogni tecnologia nasce e si sviluppa in una rete di conoscenze culturali e ambienti sociali, rendendo artificiosa l’idea che siano degli oggetti neutrali o separati dall’uomo. Nel caso delle AI, questa neutralità è ancora più fantasmatica, perché si tratta di strumenti la cui stessa materia prima sono i dati e i feedback forniti dagli umani. Miliardi di immagini e testi vengono dati in pasto agli algoritmi, grazie a un complesso e capillare lavoro di annotazione e di feedback fornito da umani, spesso sottopagati. Come scrive Josh Dzieza per The Verge, il ruolo dei lavoratori dell’annotazione dei dati è cruciale ma invisibile. Questi lavoratori, spesso situati in paesi con salari più bassi come il Kenya, svolgono compiti ripetitivi e tediosi. 

Joe, un laureato di Nairobi, etichettava riprese per auto a guida autonoma, un lavoro che richiede ore di annotazione per pochi secondi di filmato, pagato solo $10 ogni otto ore di lavoro. L’annotazione dei dati è essenziale per la funzionalità dei sistemi AI, specialmente per gestire i casi limite che i modelli di machine learning incontrano nel mondo reale. Un incidente con un’auto a guida autonoma di Uber ha evidenziato tragicamente la necessità di un’accurata annotazione dei dati. Nonostante l’importanza di questo lavoro per il funzionamento delle AI, i lavoratori sono spesso pagati poco e non hanno consapevolezza del valore del loro contributo. In altri casi, come quello di Surge AI, le aziende svolgono compiti di labeling più complessi e specializzati, che richiedono competenze specifiche, con paghe tra $15 e $30 all’ora, con alcuni lavori specialistici che raggiungono i $50 all’ora o più. Considerando tutto questo lavoro umano e l’importanza dei dati, l’AI non è poi così artificiale.

Nonostante l’hype eccessivo, le paure esagerate e il nome sbagliato, l’intelligenza artificiale è qualcosa che farà senza dubbio parte del nostro futuro, così come fa già parte del nostro presente. Di recente un’artista americana nota per la sua posizione contro le AI, Jingna Zhang, ha fondato Cara, un social network per artisti sul modello dei più grandi Behance o DeviantArt. La peculiarità principale di questo nuovo social è che filtra le immagini generate dall’AI, proibendone la presenza nel network. L’aspetto più interessante è osservare il walldi Cara e confrontarlo con, per esempio, quello di Civit Ai, un social dedicato solo ad arte prodotta con AI generativa: al netto della tecnica risultano spesso indistinguibili. Si tratta per lo più di ottime realizzazioni ma stilisticamente di maniera, molto simili tra loro, di frequente kitsch. Nulla di male in questo, anzi, sono spesso gradevoli se non eccellenti nel loro ambito, ma testimoniano come probabilmente, nonostante la resistenza di molti illustratori e illustratrici, queste tecnologie faranno parte degli strumenti degli stessi artisti che oggi le criticano, così come accadde con i software di computer graphics, una volta osteggiati dalla medesima categoria (forse con meno forza, ma va detto che ancora non esistevano i social).

L’esplosione di questa sempre più gonfia e meno credibile bolla sulle potenzialità dell’AI aiuterà senz’altro a integrare questi strumenti in molti ambiti lavorativi, che però non saranno in grado di sostituire l’operatore umano senza importanti nuove rivoluzioni, al momento non all’orizzonte. Questo ovviamente non significa che non avranno impatto sul mondo del lavoro, laddove un umano che usa le AI potrà sostituirne due che non le usano. Di recente girava una battuta di qualcuno che diceva che voleva AI per lavare i piatti e fare il bucato, non per creare opere d’arte. Ma a dirla tutta, come scrivono Helen Hester e Nick Srnicek, anche tecnologie come lavatrici e lavastoviglie non sono riuscite ad alleggerire il carico di lavoro delle donne a cui erano in origine destinate, che si è solo ingrossato di nuove mansioni casalinghe. Il problema insomma è politico e in ogni caso siamo lontani dalla meta.

ARTICOLO n. 57 / 2024

DONNA

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

A cavallo tra la realtà fisica e una dimensione per lo più ignota, apro gli occhi. Non so dove sono, ma tutto intorno a me vedo un caleidoscopio di colori vividi e sfumature delicate in cui macchie di selva si mescolano a prati dorati e colline che sfiorano il cielo.

Una giovane donna è immersa in una danza vorticosa. I lunghi capelli neri, dritti e pesanti, sono raccolti in un milione di trecce spettinate e nastri impreziositi da fiori di diverse dimensioni. Il suo vestito, simile a un tradizionale huipil messicano, riflette figure straordinariamente geometriche dai colori accesi lasciando intravedere i suoi seni sodi, e a ogni movimento della donna, a ogni sua piroetta, i colori si mescolano tra loro a cascata creando un’orgia di luce. Tutto intorno a lei è vivo e non ha contorni. La sua danza è libera, spudorata, sensuale e il suo canto per un attimo mi riporta ad alcuni vecchi sogni di emancipazione.  

La donna si muove avvolta in un velo trasparente, i suoi occhi brillano. Mi guarda, sorride, mi invita a raggiungerla. Chiedo allora alla donna chi è, ma lei non risponde. Continua a volteggiare con lo sguardo fisso sull’immagine di sé stessa che ora uno specchio davanti a lei riflette. “Sono bella”, dice. “Non ho catene”. Muove le dita lunghe e nodose, e nella vertigine della sua gonna vaporosa lascio che si perda per un po’ il mio sguardo sognante. 

A un tratto però i nostri occhi si incrociano e un’ombra sinistra si affaccia tra le sue pupille. Intravedo qualcosa che la tormenta e che, al suo primo sussulto, incomincia a turbare anche me. La stanza si dipinge di un blu tetro, e a poco a poco, cala un’oscurità profonda e inquietante. Mi sembra che il ritmo della musica rallenti, che le note si diradino, che inesorabilmente la giostra intorno a noi incominci a fermarsi. Allungo la mano per provare a toccare la donna, ma le sue dita al contatto con le mie prendono a sgretolarsi.

All’improvviso il suo volto si deforma, il sorriso diventa grido, e a poco a poco I colori si sciolgono, si dissolvono. Adesso la donna è illuminata solo dal rosso e dal giallo di una fiamma vivace: sta ardendo viva. Legata a un grande pezzo legno asciutto e avvolta a una veste nera, pesante come il piombo, si dimena come una bestia impazzita che vorrebbe sottrarsi al suo destino, ma le sue lunghe dita sono state usate come corde che la mantengono salda al suo patibolo. Centinaia di occhi la inchiodano accompagnandola spietatamente nella bocca della morte. Sento un brusio in sottofondo, un bisbiglio che si fa sempre più fragoroso. Qualcuno strilla “puttana”, qualcuno ride, qualcun altro sputa sui suoi piedi scalzi. 

È un’immagine spaventosa, a tratti angosciante. La fiamma ha già ustionato pelle, i capelli sono lingue di fuoco, vedo brandelli di carne schizzare. Apro la bocca come per urlare ma non esce nulla. Vorrei salvarla, ma già presagisco la sua triste sorte e mi sento inerme. Una lacrima mi riga il viso mentre sfumano i lineamenti di quella donna troppo libera, e di lei rimangono solo le braci di un corpo represso e carbonizzato.


Esco dalla stanza di corsa, trafelata. Sono madida di sudore, il cuore mi esce dal petto. Ciò che ho visto mi perturba. Forse sto sognando? Mi prendo un momento per contare i secondi in cui l’ossigeno fresco risale le mie narici fischiando e poi tiepido le abbandona. Dove sono? 

Alzo gli occhi e capisco che sono arrivata nel bosco. Ci sono rami e foglie immersi in un manto di stelle e nel fruscio della notte. Una fronda ciondola, mi fa un cenno di saluto, ma io ho perso la strada per tornare e, invece di ricambiare, mi lascio andare ad un lamento. Continuo a pensare a quel ballo soffocato e a quell’odio spietato di cui non posso accettare l’esistenza. Che cosa spinge, mi chiedo, gli uomini a godere dell’annientamento?

La gentile fronda richiama la mia attenzione. Mi accarezza la testa, mi fa cenno di voltarmi e proprio lì, a cavalcioni tra il cielo e mantelli di felci giganti, intravedo il lembo di una lunga sottana a cui mi aggrappo con tutta la forza, come una bimba impaurita e bisognosa di rassicurazione. Risalgo velocemente l’alta figura passando attraverso i suoi orli di pizzo, la peluria delle sue cosce, i solchi delle sue natiche, e man mano che mi arrampico, sento una sensazione di crescente tranquillità e pace farsi spazio dentro di me. Raggiungo la cima. 

Il volto della donna è rugoso, ma bello. I suoi occhi sono brillanti incastonati tra il naso e la fronte, e sulla bocca indossa un sorriso radioso che risveglia in me alcune sensazioni familiari. Assomiglia un poco a mia nonna, penso, eppure è viva. Vorrei poterla abbracciare e accarezzare, e invece resto lì imbambolata senza sapere bene che dire. La donna mi osserva teneramente, poi sussurrando con voce lontana ma carezzevole mi chiede di avvicinarmi ancora un poco a lei. Mi accomodo così sul palmo della sua mano, lasciando che mi trasporti lontano dai ricordi più dolorosi. 

Arriviamo insieme nei pressi di un laghetto in cui scorgo il riflesso della luna, nuvole in corsa e grandi rami di pino. Siamo sole e delle fiamme di prima ormai sembra non esserci più traccia. Scruto la donna nei suoi occhi verdi e cristallini, e attraverso quello specchio distinguo il movimento di cerchi concentrici che si allargano nell’acqua. Il mio sguardo si rivolge di nuovo alla superficie del lago che ora gioca a nascondino con le fronde degli alberi, e il tempo mi sembra irrimediabilmente sospeso tra passato, presente e futuro. 

Chi è questa donna e che cosa mi vuole mostrare? Ruminando tra i miei ricordi confusi mi rammento di tradizioni ancestrali di cui mi è stato narrato, e ricordo in particolare di aver sentito a lungo ciarlare dei poteri magici della curandera. Ella è una madre, una figlia, una strega, una santa. Peccatrice e guaritrice di ogni ferita dell’anima, è colei che traghetta oltre le limitazioni del presente per abbracciare senza ansie l’infinità del futuro. La riconosco appena un fioco fascio di luce illumina le sue gote opache.

La curandera impugna un grosso bastone come fosse una matita e traccia cerchi nel lago che si tramutano in figure inizialmente smarginate. Guardo meglio nel riflesso dell’acqua e sobbalzando vedo il mio volto contorcersi fino a diventare quello di mia madre, poi quello di mia sorella, poi quello della danzatrice arsa sul rogo delle puttane. Tutto d’un tratto, donne di ogni forma, colore e dimensione si moltiplicano sotto ai miei occhi ruggendo all’unisono. Cantando, si prendono per mano fino a formare un cerchio compatto tra le sfumature, tra le stelle e le ombre, incarnando le forze contrastanti che plasmano il destino. Non ci sono corde né occhi giudicanti attorno a loro. I loro corpi nudi ora ruotano in un’unione sinuosa e simbiotica che mi appare invincibile. 

Alcune di loro mi tendono la mano, mi fanno cenno di unirmi. “Portaci con te”, mi esortano. “Ti serviremo per illuminare l’oscurità del presente”.

Scuoto la testa. È un’allucinazione, un’illusione, forse un’utopia. Eppure, finalmente capisco di non essere in un luogo fisico ma in uno stato d’animo, in un’esperienza di libertà e potenziale in cui ogni respiro porta con sé la promessa di un nuovo inizio o la magia di un sogno che può ancora diventare reale. 

La curandera mi ha donato il potere di scrutare il tempo. Dinnanzi, mi si stagliano infinite possibilità e fantasie non ancora realizzate. Non è solo una visione di ciò che potrebbe essere, ma un vero e proprio invito a creare e credere nel potenziale illimitato dell’essenza femminile. Uno sguardo su quel che verrà, non come qualcosa di predeterminato, ma come un arazzo in continua evoluzione, tessuto solo dalle nostre decisioni, dai nostri desideri e dalla nostra voglia di offrire visioni e ideali alternativi.   

Sta di nuovo sorgendo il sole. Mi volto ancora una volta a guardare la mia curandera prima di vederla evaporare per sempre in un pulviscolo dorato. Prima di andare mi strizza un occhio e da lontano bisbiglia: “Ogni volta che avrai paura, ora sai dove cercare”. 

ARTICOLO n. 56 / 2024

ANONIMO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

Qualcuno, presumo un uomo, a un certo punto ha sentito il bisogno di scrivere il proprio nome dietro un vaso in terracotta che aveva appena realizzato, uno lo ha guardato, un terzo lo ha imitato. Qualche tempo dopo, qualcun altro ha pensato di poter rivendicare un valore economico discendente da quel nome; altri poi hanno fatto in modo che quei nomi valessero di più degli oggetti che firmavano. Su ogni idea che apparisse minimamente nuova ci si è affannati a mettere ciascuno la propria bandierina: i nostri bisnonni hanno inventato la proprietà intellettuale, i brevetti come “combustibili dell’interesse sul fuoco dell’ingegno”; i nostri figli hanno la cenere firmata.

Una delle critiche che sento fare più spesso da chi osserva i progetti è la mancanza di originalità di qualcosa; e parallelamente una delle ossessioni che riscontro di più nelle generazioni più giovani dei progettisti è l’ostinazione a inventare qualcosa di nuovo e immediatamente dopo trovare il modo per proteggere quella cosa dalla possibilità che qualcun altro la copi: non solo dare il proprio nome, ma evitare che qualcun altro metta il suo. E nel frattempo non succede assolutamente niente: abbiamo tantissime bandierine e pochissime idee nuove su cui metterle. Da una parte infatti l’accesso ai mezzi di produzione aperto a tutti ha messo sempre più persone nella condizione di poter fare. Dall’altra questo fare, produrre, immettere cose nel mondo con il proprio nome, che forse doveva servire come dispositivo inconscio per lasciare tracce di sé, rimandare i conti con la nostra inevitabile mortalità, ha accelerato lo schianto contro il limite delle risorse, forse non solo strettamente materiali, e così sono finite, prima di noi. Viviamo in un tempo storico fatto di linguaggi, prodotti, progetti, interventi ma anche ideali premasticati dal Novecento. Prendiamone atto: è molto più comune liberarci di cose, ma anche pensieri, idee, fedi, ideali, amori, stili appena nati, che non di quelli che abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto. Ma a meno di non volerci condannare alla noia del già visto, alla frustrazione del già pensato, all’infelicità del già fatto, se qualcosa di radicalmente nuovo non è possibile e non è immaginabile, forse dev’essere possibile immaginare almeno di rinunciare al “nuovo” come sinonimo di buono, interessante, degno. Decolonizzare l’approccio al fare. Liberare il fare dall’essere, avere, apparire. E, qui la dico grossa: ripensare quello che esiste fuori dal codice della paternità tradizionale. Togliere i nomi propri alle cose. Portiamo l’anonimo nel futuro.

Ora, voler portare “l’anonimo” nel futuro, fin qui, potrebbe sembrare più una reazione al dilagare di facce e nomi e firme e loghi e storie di sé ovunque, e un po’ effettivamente lo è. Ma non è solo un manifesto contro, è credo anche un antidoto per provare a salvarci dall’infelicità in cui ci schiacciano le unità di misura che abbiamo utilizzato finora per raccontare quello che abbiamo intorno: elenchi, novità, sapere, produzione, profitto, eroi, geni, protagonisti, artefici, successo, lenti attraverso cui ci arriva ogni cosa, anzi peggio, attraverso cui ogni cosa esiste oppure no.

Abbiamo compilato cataloghi di nomi, abbiamo fatto mostre intorno ai nomi, abbiamo scritto storie che sono elenchi di nomi, più o meno illustri, abbiamo raccontato i picchi della linea continua che li produceva, abbiamo registrato quello che stonava più del rumore bianco di sottofondo che lo faceva risuonare; abbiamo sostituito le immagini delle cose con le gigantografie dei loro autori; l’io, l’io, l’io, la messa in mostra della propria biografia. Bruno Munari, che proveniendo dall’avanguardia futurista se ne intendeva di vertigini dell’io, si era spinto a formulare la proposta di dare il prestigioso premio “Il Compasso d’Oro” a ignoti, ovvero a tutti quei tecnici, ingegneri, designer anonimi che avessero progettato cose d’uso non migliorabili, sensate, cioè pensate, semplici, pratiche, accessibili, intelligenti, spontanee, disintermediate. Riccardo Dialisi, che era stato tra i fondatori del movimento radicale di Global Tools, tra i primi e gli unici a rilanciare davvero l’artigianato non solo come espressione mondana, e a generare nella periferia napoletana alcune delle più interessanti espressioni di design dal basso, proponeva di sostituire il premio con il Compasso di Latta. Io dico: lasciamo perdere i premi. E lasciamo perdere pure i soggetti.  

Quando parlo di “anonimo”, infatti, io mi spingo un po’ più in là. Non è tanto questione di persona singolare o plurale, perché – a meno delle cose in natura, per le quali, infatti, pur di dare un autore, ci siamo dovuti inventare che sono creazioni di Dio – ogni cosa ha sempre almeno un io, un tu o un lui o in alcuni casi una stratificazione di interventi di noi, voi, essi all’origine della sua storia, e che spesso è un limite nostro non conoscere o riconoscere (o se non nostra, è colpa delle didascalie a non trasferirceli nel modo debito e corretto). Con “anonimo” non mi riferisco al soggetto, che proprio vorrei ci disinteressasse, ma all’oggetto, e indico quella produzione della cultura materiale o visiva per la quali Gio Ponti aveva trovato una definizione bellissima e contraddittoria: perché “anonimi” è un aggettivo delle cose per dire che sono cose senza aggettivi: cose che sembrano essere sempre state lì e che danno l’idea che lo saranno per sempre, cose senza segni, senza tempo e senza geografia, eppure al tempo stesso assolutamente generate in una storia e in uno spazio a volte molto precisi. Macchine minime, si dice con un’altra espressione felice: derivate direttamente dalle ragioni della loro materia, della loro pratica, della propria storia produttiva. Cose che non hanno un nome proprio, o ne hanno assorbiti molti e diversi a seconda del tempo e delle latitudini in cui sono nate. Cose senza bandierine.

L’“anonimo” non necessariamente è l’“archetipo”, e nemmeno il “prototipo” o l’“oggetto primo” o “platonico”, perché all’anonimo non interessa il primato, sta in terra e non nell’aria, non è un simbolo, né un segno, né un segnaposto, non è una cosa che sta al posto di un chi

Ma soprattutto l’anonimo non è l’anonimato. Non è la negazione del proprio nome o la volontà di tenerlo nascosto, è il nessuna volontà del nome. Non è la maschera attraverso cui lasciare segni, è il non segno. Non è la firma che dichiara “non mi troverai mai”, è l’oggetto che dice di “non perdere tempo a cercare la firma”. Non è l’io, è il noi. Non è il prima, è l’oltre. Quindi, ripensandoci, forse non è nemmeno da portare nel futuro, perché lo troveremo già lì.

ARTICOLO n. 55 / 2024

SMISURATO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

Bologna. Sono qui da qualche giorno in prova con Motus, la compagnia con cui lavoro da quasi vent’anni: stiamo per debuttare in città con il nuovo spettacolo, Frankenstein (a love story). In realtà non è la prima volta che lo mettiamo in scena ma i nuovi lavori, che iniziano acerbi a stare nel mondo, hanno bisogno di tempo per prendere sicurezza e imparare le leggi interne che li governano. Per questo mi piace pensare che ogni città è un nuovo debutto. È tarda mattinata, in teatro Theo e Daniela stanno finendo i puntamenti delle luci mentre Martina ed Enrico equalizzano i microfoni. Io non servo a niente dunque, dopo aver messo a posto i costumi, prendo qualche ora di stacco. Saluto Alexia in camerino e ancora con la tuta da training indosso il marsupio ed esco. E dal nero del teatro, ancora con l’eco del maniglione antipanico che sbatte dietro di me, divento tutta pupilla contratta dalla luce del sole. 

C’è un bel tepore, cammino sotto i portici vampireggiando e facendomi trasportare dalle scie della gente, aspetto che gli occhi si adattino al reale e io con loro. Faccio giusto in tempo a smettere di lacrimare che li vedo arrivare in due sulla stessa bicicletta: Eva e Omero, che coppia incredibile. È passato del tempo dall’ultima volta che ci siamo incontrate, i loro capelli sono molto più lunghi. Non mi hanno ancora vista, sono concentrati nel loro passo a due: è così disarmante la loro confidenza. 

Li osservo nella parentesi di tempo prima che il loro sguardo mi intercetti e mi godo la mia invisibilità sovrannaturale. Poi mi vedono e la mia apparizione riordina tutto. 

Ci abbracciamo, Eva lega la bici, ci sediamo a un tavolino del bar e ordiniamo un caffè. Facciamo sempre, come minimo, due cose contemporaneamente. Un dialogo serrato come se l’avessimo interrotto la sera prima ci possiede: non ci vediamo da mesi ma fanno così le amiche, lasciano i convenevoli sul tavolo ed entrano come due razzi nella materia profonda, negli aggiornamenti di vita, in questo come stiamo che è matrice di ogni cosa. Un torrente di parole che scavalla il caffè, scavalla la passeggiata, scavalla la spesa dal fruttivendolo e ci teletrasporta in un camminare balordo mano nella mano nella mano in tre, in direzione di una stamperia in via Ugo Bassi.

Bologna è stracolma di gente, di bar, di stuzzicherie, di cibo. E nel tempo di questi discorsi appassionati mi accorgo come le vie soffrano di un blocco intestinale. Sature, gonfie, sudate, unte, strabordanti di grassi.

“È ok per te se entro in stamperia dieci minuti mentre rimani fuori con Omero?”

Omero è una delle poche persone che conosco che esulta di felicità ogni volta che nel suo campo visivo entra una Fiat Panda, corridore instancabile con una spiccata passione nel confezionare gelati alla sabbia bagnata. 

“Nessun problema, stiamo qui sotto i portici, facciamo un giretto”.

Omero ha un grande dono, si sposta continuamente e mentre lo fa anche le cose e le persone che ha attorno si spostano con lui in una ristrutturazione continua dell’ambiente circostante. Ignora le regole dello spazio urbano muovendosi a un ritmo imprevedibile in qualsiasi direzione, risignificando segnali stradali, marciapiedi, semafori, flussi cittadini, auto, biciclette che sfrecciano veloci. È beatamente dentro il mio stesso mondo ma è lui a disegnarlo, piedino dopo piedino. Ogni stimolo diventa direzione, ogni oggetto abbandonato diventa vettore irresistibile verso il pavimento. Mischia con coraggio il camminare con il correre, il saltare con lo sdraiarsi a terra, le lacrime con lo sputo. Straborda di entusiasmo per la città che misteriosamente controricambia dimostrando d’avere abbastanza spazio per contenerlo. Fino a che in un preciso istante di questo scarabocchio cinetico, si ferma per sempre, immobile, incastrato in un mistero. 

“A cosa pensi?”
Mi verrebbe da chiedergli. 

È concentrato su ogni sua distrazione, una collezione infinita di false partenze. Omero quando si alza sulle punte dei piedi non arriva all’altezza del mio coccige e questo mi commuove.

Si sfila continuamente dalla mia mano mentre provo a serrare la presa, al contrario rimane manina docile quando la lascio respirare e in questo assaggio di anarchia mi trovo anche io incastrata in un mistero. E Bologna diventa Parigi a metà del Novecento e Omero diventa il mio Guy Debord. C’è tutto: stabilire una relazione particolare con la città, abitarla come se fosse la propria casa. Disegnare percorsi che non coincidono con il resto della moltitudine, inciampare nelle buste della spesa cariche di Parmigiano e verdure biologiche, sfrecciare tra i cammini premeditati e assopiti dei passanti. La metropoli è un labirinto e Omero cambia forma a ogni suo passo: si lascia condurre dalla città che lo prende, lo guida e per un attimo, la città stessa riprende fiato. Flâneur senza bisogno di teorizzarlo, Omero è un piccolo dandy a zonzo, in deriva. 

Dentro questa moltitudine di eventi indipendenti, con il cuore in gola, temo per ogni suo passo: immagino che sparisce dietro all’angolo, che cade e sbatte il mento e si taglia con una bottiglia affilata, che si punge con una siringa rimasta lì dagli anni Ottanta, che viene investito da ogni bici, ogni auto, ogni autobus, che viene sbranato da ogni cane che passa. Che viene rapito dagli alieni, seriamente. Nonostante queste visioni terrificanti mi trattengo per non anticiparlo su ogni sua mossa e all’improvviso, dentro questo mio esitare, respiro e mi faccio guidare da questo piccolo caleidoscopio dotato di coscienza. Tramite lui mi ritrovo a godere pienamente dello spettacolo che la città offre, lasciando spazio nella mia partitura visiva a ogni continuo urto di cui Omero fa esperienza camminando per la città. 

Eva esce dal negozio tenendo tra le braccia una busta piena di fotocopie. 
“Cosa ne dite di andare a prendere la bici e fare una passeggiata fino a Gare de l’Est?”

ARTICOLO n. 54 / 2024

UMORISMO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

“Capacità di rilevare e rappresentare l’aspetto comico della realtà”.

Bene, lo scopro ora. Non mi ero mai posto il dubbio in precedenza. Non sapevo cosa fosse o forse lo sapevo senza saperlo, come tutti.

Qualche giorno fa stavo facendo un caffè con una macchinetta simil-Nespresso a casa della mia ragazza. Normalmente quando carico la cartuccia e sono insieme a lei fingo di essere in un ufficio milanese e mi metto a fare l’imitazione di un fantomatico capo ufficio fluido sui cinquanta anni che importuna in modo uguale giovani donne e giovani uomini, facendo valere il peso della sua innata simpatia.

“Avete letto quella pazza su Magazine coso? Ma quella è da internare o no?”
“No raga… io non ce la faccio!”
“Come va con la casa? Trovato qualcosa?”
“Ah, solo zone terribili? Cazzo con quel che ti paghiamo… Ahhahaha…”
“Come va con il pezzo per Gucci? Venuto figo? Camicetta top oggi eh… ahahahah”
“Mi Ami? Andati? Flop? Top? Droga?”
“Raga le cialde sono finite, facciamo la solita raccolta?”

Ma quel giorno ero stanco, ormai è un mese che mi trascino come uno zombie fra Milano e Roma fingendo di avere energie che non ho più. Ho terminato un tour bellissimo e molto intenso che mi ha portato in giro per l’Italia con il mio ultimo spettacolo. Sessantadue date in sette mesi. È stato esaltante, emozionante e stupendo, ma l’energia è completamente terminata e con essa anche la voglia di scherzare, ossia il desiderio di “rilevare e rappresentare l’aspetto comico della realtà”.

Quando mi capita di parlare con qualcuno, non apprezzo più le battute su di me, sono estremamente paranoico rispetto al mio aspetto fisico, non sopporto le persone che fanno ridere, vorrei stare in campagna circondato dagli animali per un mese.

Sia chiaro: non mi sto lamentando. Sono felice di fare il lavoro più bello del mondo. Essere pagato per dire barzellette piuttosto complesse – questo è di fatto il mio lavoro – è qualcosa che va al di là dei miei sogni più vividi. Ma per farlo con enorme sincerità bisogna per prima cosa cercare di essere sinceri con se stessi. E se proprio devo esserlo, ora mi sembra difficile cavare umorismo dalla realtà che mi circonda.

Come sempre succede in questi casi è bene fare il punto della situazione e cercare di ripartire provando a decifrare cosa sia l’umorismo per me. Provo quindi a buttare giù una sorta di elenco, di punti, di idee, di leggi che seguo quando provo a scrivere qualcosa di divertente.

Vediamo se tornano utili a qualcuno. Non è un decalogo, non è nulla, solo una serie di pensieri sulla risata, l’umorismo che cerco di tenere a mente sia quando lavoro, che nella vita di tutti i giorni.

– “È molto simpatico/a” è una bellissima cosa da dire di una persona.

– “È un coglione/una cogliona” è la stessa identica cosa, detta da qualcun altro.

– Il lavoro di un umorista è surfare come una lumaca sul filo di un rasoio o sulla lama di un coltello, questa similitudine è mia non di Marlon Brando/Colonnello Kurz in Apocalypse now.

– A cosa punti una persona che sceglie di guadagnare facendo ridere, non si sa. Così è. I traumi infantili, essere stato bullizzato, non avere altre forma di difesa se non quella dell’ironia; non saprei, mi sembrano tutte idiozie. È un fuoco che arde? Non ne ho idea né mi interessa ormai. Ma è un desiderio difficile da spegnere.

– Non esiste applauso, risata, commento, di chicchessia che possa anche solo lontanamente avvicinare l’istante in cui, camminando per strada e ripensando a qualcosa, porta alla risata fra sé e sé. Le battute migliori, le piccole fratture della realtà in cui infilare le dita per provare ad arrampicarsi su una parete che con un po’ di tecnica porta alla scrittura di un monologo che sia divertente per sé e poi, se si ha fortuna, anche per gli altri. Quelle spaccature hanno a che fare con l’infinito dialogo che si ha con se stessi.

– Depositato quel seme, con la tecnica (banalmente segnandoselo su un taccuino), si può pensare di far crescere qualcosa che verrà prima o poi presentato al pubblico. Se avrà senso e sarà condivisibile dalle persone in ascolto, non sta certo all’autore deciderlo.

– Non è mai un monologo, ma sempre un dialogo. Prima con sé stessi, poi con il pubblico.

– “Quella cosa non fa ridere”, come dicono alcuni, è una frase che non ha senso. La risata non è oggettiva. È soggettiva. “Quella cosa non fa ridere me, adesso, perché ho i cazzi miei”.“Come me adesso”: così va bene, così si può dire.

– Per il palco: bisogna scrivere come si parla. Non c’è nulla di meno umoristico della forma mancata, della forma fittizia. Se – come spesso succede – un comico parla in modo eccessivamente forbito o distante dal suo vero modo di masticare la lingua ci si stacca immediatamente.

– Dimenticare il punto precedente. C’è chi riesce benissimo a parlare in modo diverso sul palco. Ognuno ha il suo stile. La comicità non ha regole, ma solo effetti. Chiunque provi a dare delle regole o dei voti se ne deve andare a fare in culo.

– Stare sul palco e scrivere sono due lavori differenti.

– Ci sono grandi autori e grandi perfomer, non sempre le due cose coincidono.

– Per trovare qualcosa di divertente da raccontare bisogna non ascoltare chi si ha davanti. Non è facile da spiegare né da accettare, ma è fondamentale ascoltare con mezzo orecchio. Con l’altro è necessario stare concentrati su se stessi. È doloroso perché può allontanare le persone, ma almeno per me funziona così. Se cerco qualcosa di divertente non posso ascoltare veramente chi ho di fronte.

– Di sicuro sono abbastanza abituato a cercare il pensiero laterale rispetto a tutto quello che accade intorno a me. Non saprei contare le volte che mi è stato rinfacciato il fatto di aver preferito una battuta di fronte alla possibilità di ascoltare il momento in cui mi trovavo, per il puro gusto di dire qualcosa di divertente. Da questo punto di vista non mi considero un artista, gli artisti veri sono quelli che sanno ferire gli altri, io qua e là potrei averlo anche fatto, ma ora come ora non saprei.

– Detto questo, amen. C’è di peggio.

– Ridere è sempre bello e giusto. Nessuno si è mai lamentato di aver riso per un’ora, era la frase con cui chiudevo le prime sere che organizzavo a Milano qualche anno fa. Non penso di aver mai detto nulla di più sincero sull’umorismo in vita mia.

– Niente ha senso finché non si trova qualcuno a cui raccontare di sé. Se non si ha qualcuno a cui raccontarlo è bene tenere un diario, una chat fittizia. Qualcosa per cui si possano mettere in fila delle immagini, dei momenti, una traccia. Più sono struggenti, più c’è lo spazio per ridere, solo che magari sarà qualcun altro a farlo notare. Fa niente. Esistiamo solo in base ai rapporti con gli altri. Anche questa frase è mia!

– Non esiste nulla finché non lo si racconta e finché non si cerca il lato divertente di qualsiasi storia, sennò quella storia rischia di essere solo una lamentela.

– Il tempo per una battuta è l’unica cosa che non si può insegnare. È qualcosa di magico, di inafferrabile. È una partitura scritta con l’inchiostro invisibile. Qualcuno la sa scrivere, ma solo per se stesso. Altri non lo sanno fare. È brutale da dire, ma così è.

– C’è sempre spazio per un aneddoto divertente, c’è sempre spazio per il ricordo di una storia. Chi non ha tempo o voglia di ascoltarli non merita la compagnia che gli viene regalata. Non sto parlando di palco, sto parlando di vita. Per fortuna esistono tante persone fra cui cercare ed esiste, se uno vuole, a un certo punto anche il palco.

– Non esistono momenti divertenti della propria vita che nel ricordarli non feriscano con la nostalgia. Quando si finisce di ridere e il rinculo degli ultimi singulti si spegne – magari a cena fra amici – e si afferra il bicchiere in tavola e si passa ad altro – a un amaro, al caffè, al conto – il sorriso si schiude sapendo che la storia è finita e si torna alla realtà. Come una folata di vento che fa sbattere la finestra. Il ricordo è passato, la storia anche e la vita anche. Quell’istante è per me struggente e dolorosissimo. Ma ce ne saranno altri, magari anche di più belli.

– Io diffido anche da chi mangia troppo in fretta, non mi piace che qualcuno ordini per il tavolo a cena, non amo chi parla di sesso senza che ci sia confidenza estrema. Non sopporto chi guida veloce in macchina o in generale si vanta di imprese esagerate al volante. Non sopporto chi parla di evasione fiscale o chi parla di soldi in generale. Non sopporto chi urla il proprio giudizio su un film mentre è ancora in sala o peggio a teatro.Ma soprattutto non sopporto chi non ride o ci tiene a dare l’impressione di non ridere mai, di non perdere tempo con l’umorismo. Non le persone che ridono poco o hanno una risata difficile. Parlo proprio delle persone sempre serie. Inculatevi! Trovatevi fra di voi al circolo degli inutili e andatevene a fare in culo tutti insieme.

– L’umorismo è come una carie nei denti. Fa male, ma senza non si possono espiare i propri peccati.

Quando si fa ridere qualcuno per qualcosa è una soddisfazione enorme. Non c’è nulla di più convincente a livello umano dell’ascoltare una risata, ma non bisogna dimenticarsi che la prima da ascoltare e da non dimenticare è la propria risata. Perché ridiamo solo per un motivo: per sentirci meno soli.

ARTICOLO n. 53 / 2024

GRAMSCI AL SUGO

Ricette di destra e riappropriazione culturale

Un “Gramsci di destra” non esiste. È un anti-gramscismo, cioè la negazione dell’autore dei Quaderni del Carcere, fondatore del partito comunista italiano e de L’UnitàEppure, la trovata è diventata popolare in un ceto intellettuale che è andato al potere in Italia. Nel governo Meloni c’è chi ha evocato la sua ombra dal Ministero della Cultura. Dopo Dante, Gramsci farebbe parte di una “cultura della destra”. Proprio lui che ha fatto a pezzi un’altra invenzione del moderatismo liberale: la linea ideologica De Sanctis-Croce-Gentile. Proprio lui che è stato ucciso nelle carceri dei fascisti, oggi si ritrova involontario protagonista del nazionalismo culturale dei loro eredi. Gramsci è pronto a essere venduto come un pacchetto vacanze. Oltre ai centri storici trasformati in luna park da turisti, tocca vendergli anche le primizie nostrane. Gramsci è la merce culturale che sta tra il fungo cardoncello e il resort ballardiano costruito per i VIP del G7 in vacanza in Puglia.

Gramsci teorico del consenso delle classi dominanti 
Voci su un Gramsci “di destra” sono arrivate in televisione anche da chi è stato nominato in posti di sotto-governo. Nei musei, per esempio. È stato scritto un libro, poco più di una collezione di testi improvvisati, sul fatto che Gramsci è vivo. Più che soffermarsi su pagine modeste è più interessante notare come uno dei pensatori che ha cambiato la teoria della rivoluzione comunista in occidente sia stato ridotto a un insignificante pensatore “liberal-democratico”. Non è la prima volta che accade. Tempo fa, ci hanno provato i liberal-liberisti della “sinistra”. Quelli che, dalla svolta della Bolognina in poi, hanno trasfigurato Gramsci in un filosofo funzionale al progetto di integrazione dei resti dell’ex partito comunista nell’establishment che ha co-gestito la drammatica transizione al neoliberalismo dagli anni Novanta.

Il lavoro di neutralizzazione e di reinvenzione di Gramsci è servito a giustificare il passaggio dalla Chiesa comunista a quella liberista. Così gli ex comunisti sono diventati gli ultras del nuovo verbo capitalista. Da subalterni e convertiti hanno usato Gramsci come un teorico del consenso che spinge le masse ad accettare le politiche neoliberali contrarie ai loro interessi: aziendalizzazione della sanità e della scuola, precarizzazione del lavoro e della vita, dismissione di un welfare già caricaturale, spostamento della ricchezza pubblica verso quella privata.

È questo Gramsci teorico del consenso delle classi dominanti e del ceto politico di turno che interessa al personale intellettuale che ha fatto carriera nella destra di governo. Dalla sinistra liberista alla destra nazionalista: l’appropriazione di Gramsci è una ricetta preparata in salse diverse. Ieri, come oggi, avviene in nome del moderatismo, dell’opportunismo, dell’indifferentismo e del morfinismo politico. Le pratiche criticate da Gramsci nella storia italiana. Oggi sono usate per sussumerlo nell’egemonia dominante. 

“Egemonia senza lotta di classe”
Il concetto più gettonato dal “Gramsci di destra” è l’“egemonia culturale”. Di questa idea importante è fatto un uso derisorio. Viene cioè intesa come il sinonimo di una narrazione pubblicitaria e televisiva che stabilisce la legittimità di chi può parlare nei talk show della sera. Questa idea non va banalizzata più di quello che già fanno i suoi sostenitori. Va intesa nell’ambito di un’operazione sistematica, realizzata ai danni di Gramsci, dal neofascismo e dal pensiero della cosiddetta “Nuova destra”, in particolare quella francese, a partire dagli anni Settanta del XX secolo. 

Una traccia di questo lavoro culturale è stata fornita in questo video da Marion Maréchal-Le Pen, la nipotina ex ribelle di Marine Le Pen da poco rientrata nei ranghi del Rassemblement National in Francia per ragioni di convenienza politica. Con il partito della zia alle soglie del potere non ha senso fare la fronda in un partito razzista collaterale. In una serata culturale organizzata in Liguria nell’estate 2018 Maréchal-Le Pen ha esplicitato chiaramente il senso per Gramsci delle “nuove” destre. A loro non interessa “la sua ideologia di sinistra”. Interessa “un Gramsci senza la lotta di classe”. Gramsci sarebbe colui che ha creato “il metodo di conquista del potere”. “Prima di sperare di vincere politicamente ed elettoralmente – ha continuato Maréchal-Le Pen – dobbiamo vincere sul fronte culturale. Bisogna fornire una risposta culturale da parte dei conservatori, non per un partito politico, non per ragioni elettorali, ma per la società nel suo complesso”.

L’idea di separare Gramsci dalla lotta di classe risponde a una strategia più ampia, quella dell’anticomunismo. Tanto più in effetti manca una politica comunista, tanto più forte è il suo fantasma usato contro le “sinistre”, anche quelle più moderate e ignare della stessa opera di Gramsci. Sull’anticomunismo si innesta la strategia del rovesciamento delle destre contemporanee. Si prendono le idee dell’avversario e le si rovesciano nel loro opposto. Così facendo si sostiene in modo ingannevole di essere dalla parte dell’avversario, attingendo elementi parziali ed errati dalle sue analisi al fine di creare confusione e togliere la credibilità alla parola della “sinistra” che non sa più di cosa parlare, con chi e perché. Soprattutto da quando ha rinunciato al rapporto tra teoria e prassi e ritiene che una politica può esistere se va in televisione o su Internet e non organizza la lotta a partire dai quartieri popolari, nei luoghi di lavoro e in quelli della festa e della produzione culturale dal basso. 

L’egemonia alla quale pensano Maréchal Le Pen e le altre destre reazionarie euro-americane può essere allora sintetizzata in una formula: anti-comunismo che si salda con l’idea proprietaria e capitalista della libertà, con l’odio dell’uguaglianza, il familismo eteronormativo e il razzismo culturalista e etnodifferenzialista, a cominciare da quello anti-arabo e anti-musulmano. 

“Guerra delle idee”: un’inchiesta
Diversamente da quanto si crede, la “guerra delle idee” è solo alla lontana riferibile all’idea gramsciana di “egemonia culturale”. Si tratta invece di un’allusione a una teoria del sociologo americano James Davinson Hunter. Ad avviso di Hunter la “battaglia delle idee” sarebbe una riattualizzazione delle guerre di religione in società secolarizzate dove il conflitto di classe sembra essere stato sostituito da quello sull’identità personale, culturale, religiosa o sociale.

La variante di “destra” di questo ragionamento, oggi prevalente, consiste nell’interpretare gli orientamenti di una maggioranza virtuosa e morale, non più “silenziosa” ma molto loquace grazie ai social network, che prende parola contro la cultura “elitaria” di una sinistra “borghese” ostile al «popolo». C’è anche una variante “di sinistra” di questa lettura riduttiva dell’egemonia culturale gramsciana adattata all’insipida minestrina dei pubblicitari che hanno fatto carriera tra i sondaggisti e tra i narratologi prestati alla propaganda elettorale. Questa “sinistra” ha inizialmente preferito l’identità – di sesso, razza o genere – alla moralità delle condotte prescritte dalla destra e ha pensato di liberare le minoranze oppresse dal giogo del potere maschile bianco.

L’affermazione dell’egemonia neoliberale tra gli anni Settanta e Novanta del Novecento ha complicato questo progetto al punto che si è iniziato a contrapporre i diritti delle persone mettendo in secondo piano, o rinunciando del tutto in altri casi, alla loro connessione con la lotta di classe. Questa compagine “di sinistra” si è ritrovata in ostaggio di uno scontro tra identità culturali essenzializzate, costruite su criteri normativi impenetrabili e fortemente polarizzanti. A questo scontro collaborano anche coloro che evocano la priorità dei diritti “sociali” su quelli “civili”, ma non hanno un’idea di classe e così stabiliscono una gerarchia dei diritti dove al vertice si trova un’identità più “universale”, quella di un “popolo” idealizzato rispetto alle altre considerate parziali.

L’egemonia culturale per i “gramsciani di destra” consisterebbe nell’appropriazione e nel rovesciamento nell’opposto dei valori dell’avversario. Si prendono cioè i valori liberali dell’autonomia o della libertà di parola e quelli “sociali” della protezione paternalistica e autoritaria dello Stato che si occupa della famiglia eteronormativa. E li si brandisce contro l’avversario: una “sinistra” neoliberale fantasmatica, generica e senza distinzioni. Contro di essa è stata scagliata l’accusa di “totalitarismo” poiché intenderebbe determinare cosa può essere pensato e come le opinioni possano essere espresse. 

Contro la nuova polizia di questa cosiddetta “sinistra” gli “anti–autoritari” di destra hanno valorizzato il personaggio del moralista trasgressore, un’individualità eroica già presente nella tradizione avanguardista delle destre fasciste. Questo personaggio si palesa preferibilmente sui social network dove usa una finta ironia passivo–aggressiva, accompagnata da meme, immagini e video. Esibisce una cultura del non–conformismo, della trasgressione e dell’irriverenza fine a se stessa. Non si tratta solo di uno stile comunicativo, ma di una cultura politica che si è forgiata nel limbo dei forum e delle piattaforme digitali dove si usano i linguaggi oggi prevalenti su Internet: l’aggressione verbale fino all’istigazione al crimine, le fantasie di stupro o omicidio contro le donne, in particolare quelle impegnate nelle lotte femministe, rese oggetto di odio e di disprezzo. 

Molti degli “intellettuali” di destra perbenisti o liberal-conservatori potrebbero anche inorridire davanti agli orrori e alle violenze del vero fascismo digitale. Non è escluso che l’ondata politica di cui oggi loro sono le comparse non liberi soltanto la parola sessista e razzista, ma anche le pratiche della violenza fascista organizzata. 

Cos’è l’egemonia
L’egemonia per Gramsci è irriducibile a qualsiasi teoria del potere imposta più o meno surrettiziamente. Non è né una microfisica elettoralistica del potere, né un dominio puro e semplice esercitato dallo Stato attraverso la polizia, né un indottrinamento attraverso i suoi apparati ideologici. L’egemonia non è nemmeno un semplice rapporto pedagogico tra il potere, gli intellettuali e le masse amorfe. Non ha nulla a che vedere con il rapporto commerciale tra il venditore di merci e il consumatore di “offerte politiche”, né con quell’altro gerarchico tra maestro e allievo. In entrambi i casi, i consumatori come gli allievi, sono trattati come bambini che non capiscono le “riforme” ma che devono essere soddisfatti perché altrimenti abbassano il ranking del gradimento dei partiti nelle elezioni politiche. 

Il consenso democratico che sta alla base dell’egemonia gramsciana non può essere equiparato né al consenso passivo né al consenso mediatico. Invece è un consenso attivo, la costruzione di un’intesa, di una volontà collettiva fondata sull’unità tra governati e governanti, attraverso un costante passaggio da una condizione all’altra. Creare l’egemonia significa cioè riflettere sulle condizioni di possibilità e di realizzazione del futuro intellettuale, politico ed etico di tutti. 

L’egemonia è lo sviluppo intellettuale di qualsiasi persona nel dirigere la società e nell’autodeterminare la propria esistenza.

“Guerra di posizione”
Tutto questo avviene attraverso la lotta di classe con la quale il partito – il “Nuovo principe” di Gramsci – si rapporta, organizza, rilancia, ma non determina dall’alto. Il partito segue la lotta di classe, come quelle ambientaliste anti-razziste e anti-sessiste, cerca di valorizzare la loro autonomia, prova a collegarle insieme a tutte le organizzazioni indipendenti della “società civile” che si formano in queste lotte. Estende la loro organizzazione in tutta la società, oltre che nei luoghi di lavoro, in maniera non gerarchica e alla luce di una strategia trasversale della convergenza e dell’insorgenza. 

Ripensato con Gramsci il dibattito magmatico che si svolge oggi sulla “intersezionalità” delle lotte e sulle loro “alleanze” assume un interesse ulteriore. A queste pratiche, infatti, Gramsci può dare l’idea di “guerra di posizione”. Questo tipo di “guerra” coincide con l’egemonia politica. Bisogna però fare attenzione a non intendere la definizione nei termini solo ed esclusivamente militaristi o di occupazione delle istituzioni.  L’egemonia è il contrario: è l’azione di direzione della società e di autodeterminazione degli individui. Questa azione serve a “riassorbire la società politica nella società civile” e a riarticolarla attraverso la disseminazione dei poteri tra i mille fuochi dell’autonomia popolare e soggettiva presenti nelle società contemporanee. 

In questo obiettivo si riconosce quello marxista dell’“estinzione dello Stato” completamente sconosciuto alle destre. La “presa del potere” al quale esse inneggiano è invece per Gramsci la fine del potere capitalista, e di Stato, sulle masse. Gramsci pensava a un sistema di principi, e dunque a una egemonia, di una democrazia comunista che escludeva “accuratamente ogni appoggio anche solo apparente alle tendenze “assolutiste”. Ieri il gramscismo si opponeva allo stalinismo trionfante, oggi potrebbe farlo contro il neoliberalismo senza democrazia al quale si stanno riducendo i liberalismi “democratici”.

Tabù
Perché allora le destre postfasciste e i conservatori neoliberali scartano la lotta di classe da Gramsci? Perché sono subalterni alla vera egemonia del nostro tempo: il neoliberalismo. Quella che parte dall’assunto per cui la lotta di classe sarebbe morta con quel capitalismo totalitario e omicida che è stato lo stalinismo sovietico e oggi vivremmo nella società del “libero mercato” che coincide con l’“occidente”. Non è vero, e mai lo sarà. Il problema è che la lotta di classe non ha direzione, e si svolge al contrario. Cioè è una guerra tra i penultimi e gli ultimi. Parliamo di un conflitto regressivo che segue la linea del colore ed è basato sulla paura. I neoliberali conservatori, e le destre razziste, lo usano come strumento di persecuzione dei migranti e per segmentare la società attraverso un’apartheid flessibile e spietata.

Gramsci allora lo vorrebbero mettere al lavoro con l’obiettivo di prendere possesso delle leve del potere per realizzare, senza freni, una strategia avviata da tempo da altre forze politiche. All’esterno, e con la complicità di una borghesia senza scrupoli che ha perso ogni rapporto con l’idea di democrazia, ciò permetterebbe alle “nuove” destre di guidare in maniera autoritaria la complessa macchina neoliberale “occidentale” che sta affrontando una nuova guerra con i capitalismi neoliberali concorrenti (cinesi, russi ecc.). All’interno, Gramsci servirebbe a queste destre a fare la guerra contro i subalterni. Un paradosso, in effetti. Ma questo significa neutralizzare il suo pensiero sottraendolo a una sinistra politica e sindacale che lo ha sostanzialmente dimenticato, almeno in Europa. Non certo altrove dove Gramsci conosce, da 40 anni, un grandissimo ritorno di interesse pieno di originali declinazioni. 

Un Gramsci globale contro le riappropriazioni nazionalistiche per di più sconnesse. La riappropriazione, tra l’altro, risponde a una logica coloniale e scambia il potere per un dominio. Non è un caso che il Gramsci globale sia usato anche da coloro che pensano le strategie decolonizzatrici e si pongono il problema di come i subalterni residenti, immigrati o oppressi ed esclusi possano liberarsi.

La “cultura” che le destre vogliono imporre è una parodia del “lavoro culturale” attraverso il quale Gramsci invitava gli intellettuali e i subalterni a liberarsi delle catene e a distruggere il potere che li opprime. In tal caso il potere servirebbe per opprimere i loro simili e trasformare la “guerra di posizione” nel suo opposto di “guerra civile”. La lotta di classe, cioè la presa di parola da parte dei subalterni, in cui si inserisce l’egemonia gramsciana intesa come guerra di posizione, dovrebbe invece spaccare un simile progetto terrificante e organizzare la resistenza, già dall’interno di ciascun paese. Di questo scontro si vedono le prime scintille.

ARTICOLO n. 52 / 2024

SE NON RICORDI NON SEI NULLA

intervista di Fabio bozzato

Per più di un’ora e mezza Julio Llamazares ha firmato copie, all’uscita del suo incontro a Incroci di Civiltà, il festival letterario promosso dall’Università Ca’ Foscari di Venezia. Prima di mettere la firma sul suo Diversi modi di guardare l’acqua (Il Saggiatore, 2024, pagg.170, traduzione di Denise Zani) si è chinato centinaia di volte per chiedere qualcosa a chi gli si parava di fronte, finendo per ascoltare una quantità di piccole storie, anche solo un ricordo o un aneddoto, con negli occhi la stessa incontenibile curiosità. 
Julio Llamazares, poeta, scrittore e sceneggiatore, è nato nel 1955 a Vegamián, un paesino spagnolo che da bambino ha visto inondare per far posto a una diga. Quella vicenda è tornata più e più volte nella sua lunga e ricca produzione letteraria, compreso questo libro che è venuto a presentare in laguna. Il fatto è, come dice uno dei suoi personaggi, che «ci sono diversi modi di guardare l’acqua. Dipende da cosa stai cercando». E da qui, Spritz in mano, abbiamo cominciato a chiacchierare.

Fabio Bozzato: Lei è un grande narratore della memoria. C’è da chiedersi cosa sia per lei la memoria.

Julio Llamazares: Io credo nella personalità della memoria. Ognuno di noi è quello che ricorda. O meglio, siamo allo stesso tempo quello che ricordiamo, quello che abbiamo vissuto e quello che ricordiamo di aver vissuto. Per questo l’Alzheimer è la malattia più crudele, perché ti annulla non solo il fisico, ma anche la personalità. Perché se non ricordi, non sei nulla. Diventi un automa, un manichino da vetrina, una figura di cera. Dunque, potremmo dire che tutta la letteratura, perlomeno come io la concepisco, si costruisce sulla memoria, sull’esperienza della vita già vissuta, non solo personale ma soprattutto collettiva. Ecco perché è così importante per me la memoria, molto più che i singoli ricordi, perché le nostre complicate radici sono il fondamento della nostra identità.

F.B. In realtà, nei suoi testi sembra sempre volerci fermare sugli strappi della memoria. Ha accennato ora all’Alzheimer, si dice spesso sia anche una metafora del contemporaneo: pensa sia così?

J.L. Oggi possiamo dire che l’Alzheimer è davvero una delle malattie di cui soffre l’Europa. Altrimenti non si spiega perché siano ritornate certe ideologie e persino certe parole che credevamo esserci lasciati alle spalle un secolo fa e a volte molto più di un secolo. Se ricordassimo, come europei, se avessimo una memoria funzionante e non crepata o interrotta, non torneremmo a ripetere certe cose. Il fatto che si ripetano ha a che vedere con questa perdita di memoria. E così ci troviamo divisi, una parte ammalata di questo Alzheimer collettivo e una parte che affronta le conseguenze. Oggi siamo in mezzo a questa battaglia.

F.B. Nel suo libro i personaggi raccontano gli stessi fatti, tutti hanno di fronte la stessa scena ma ognuno vede cose diverse. 

J.L. In quel momento tutti hanno di fronte lo stesso specchio: è il bacino d’acqua. Quell’acqua, che è stata la causa dello sradicamento e della distruzione di un mondo, è lo stesso specchio su cui tutti si riflettono. Succede così in tutta la nostra esperienza quotidiana. Lo stesso paesaggio significa per ciascuno di noi qualcosa di diverso, c’è chi l’ha abitato e chi lo vede per la prima volta, chi ha lavorato la terra e chi ci viene per turismo. Io posso rivedermi in quella scena di fronte al bacino d’acqua della diga, là in quel piccolo paese dove sono nato. Mi è capitato spesso di fermarmi in un punto panoramico, assorto nei miei ricordi, e sentire gente venuta da lontano osservare quel luogo e rimanere sbalordita dalla meraviglia del paesaggio: «Che bello, sembra di stare in un lago delle Alpi».  
Con i libri è la stessa cosa. Ogni libro è uno specchio e non ci sono due lettori al mondo che vivano quell’esperienza letteraria allo stesso modo. E così con la musica: ad ascoltare la stessa canzone, c’è chi ricorda un giorno quando è stato felice e c’è chi sentirà tristezza perché magari la associa a un dolore o una perdita. Si dice che non si dovrebbe tornare dove si è stati felici ed è quello che vivono i personaggi del libro. Perché è vero che è una storia sullo sradicamento, ma è anche il racconto sulla relatività delle emozioni e delle reazioni alla vita. 

F.B. Di tutti i personaggi l’ultimo che fa parlare è Agustín. È come se per tutto il libro stessimo aspettando la sua voce. È il personaggio taciturno, isolato, considerato da tutti problematico e non autonomo, eppure ci sorprende.

J.L. Agustín ha uno sguardo di lucidità che gli altri non hanno. Ed è il personaggio che più mi è stato difficile scrivere. È quello a cui nessuno fa caso, su cui tutti sentono commiserazione; eppure, ha dentro di sé sentimenti più profondi di tutti gli altri. A volte tendiamo a disprezzare qualcuno, soprattutto se è abituato a restare in secondo piano e a non verbalizzare ciò che sente o ciò che desidera. È la voce che stona nel coro eppure lo completa. Perché in realtà questo libro è una tragedia greca: ogni maschera dice quello che deve dire e se ne va o tace. 

F.B. In questo coro di voci familiari, ognuna finisce per raccontare due perdite irreparabili: un paesino fatto affondare nell’acqua e la morte del patriarca. La perdita, questa perdita ineluttabile, è un personaggio in più del romanzo?

J.L. È proprio così, quella perdita è davvero una presenza ingombrante che parla per sé. Questo romanzo è una elegia attorno a una persona le cui ceneri vengono gettate nell’acqua nel momento in cui muore, anche se era già morto cinquant’anni prima, ancora vivo, quando il suo paese è stato inondato con la costruzione della diga. Quell’uomo si è spento quando gli hanno sottratto il suo paesaggio. Il paesaggio è la sua memoria. E quando si perde paesaggio e memoria si muore. Un pensatore australiano, Glenn Albrecht, ha coniato un neologismo: “solastalgia”. È il trauma che viviamo di fronte alla distruzione del paesaggio. Nella mia storia, non è solo un bacino d’acqua che sommerge questi piccoli paesi, no, è tutta la tua vita che viene spazzata via. D’improvviso tutto cambia, si forma un nuovo paesaggio così come la tua vita ricomincia da capo in modo inaspettato. E continuerai sempre a sentire tutto il dolore dello sradicamento della tua memoria. Non solo è uno sradicamento fisico, ma è uno strappo dell’intera tua memoria. E questo produce un tale smarrimento da sommergerti nella malinconia.


F.B. I suoi libri sono sempre ambientati in questi piccoli paesi della Spagna profonda. Anche in Italia si parla molto dei borghi, antichi e spesso spopolati, che ora sono riscoperti come una risorsa. Lei crede che possano essere anche un terreno nuovo su cui ricostruire un sentimento comune europeo?

J.L. Credo sia un mondo estremamente importante, ricco, vitale. Di fatto, dopo la sbornia della globalizzazione e i suoi effetti di omogenizzazione economica e di livellamento culturale, credo che la gente senta la necessità di cercare qualcosa di perduto, di trovare un senso alla propria identità e per farlo è un movimento inevitabile rivolgersi alle proprie origini. Così assistiamo a un movimento sociale e filosofico di ricerca delle radici, come reazione proprio a una perdita di identità. Ora sono qui a Venezia. È una città unica, certo, ma se mi guardo attorno è uguale a qualsiasi altro posto, ci sono gli stessi negozi, la gente è vestita allo stesso modo. Le città non sono altro che una enorme rete in franchising. L’insoddisfazione e lo smarrimento che vive tanta gente derivano dalla sensazione di essere un prodotto in più nella società dei consumi. Non solo siamo consumatori ma noi stessi prodotti, la nostra stessa vita è venduta in questo modo. Così si spiega, credo, la tensione verso le origini. E si finisce per idealizzare un mondo delle origini, come sono i piccoli borghi. Attenzione, è un movimento confuso, pieno di rischi.

F.B. Perché finisce per incrociare e alimentare un’onda di nostalgia conservatrice.

J.L. Certo! Il rischio è che questa tensione alle origini diventi il brodo dei nazionalismi e delle piccole patrie, che è qualcosa di escludente ed egoista. Voglio dire che la ricerca delle proprie origini, delle radici, finché resta una filosofia di vita ha un suo senso, ma diventa pericolosa quando si fa ideologia. 

F.B. A leggere i suoi libri, viene in mente Pasolini e il suo sguardo struggente sul mondo rurale. Lei stesso ha scritto un libro che si chiama Vagalume, lucciola, ed è famoso di Pasolini il testo sulla scomparsa delle lucciole come catastrofe antropologica ed ecologica. Lui aveva una risposta di rabbia e furia. Lei no, sembra essere solo profondamente malinconico.

J.L. Lo confesso, provo molta rabbia anch’io. Ma è una rabbia rassegnata. Perché sento sempre la sensazione di essere uno straniero nel mio stesso Paese. Sento che tutto va in una direzione che non condivido e che mi mette a disagio. Ho sempre in mente le parole del filosofo spagnolo Ortega Y Gasset: «Lo sforzo inutile porta alla malinconia». 
Così, puoi scrivere tutto quello che vuoi ma sempre sentirai che non servirà a nulla. Non parlo di me, ma di chiunque. E tutto finisce macinato nella ruota del progresso o della vita, sotto i denti dell’economia. Allora davvero tutti gli sforzi che fai di scrivere sembrano uno sforzo inutile in senso sociale. È da qui che mi viene quella mia rabbia rassegnata che porta da un lato a una grande malinconia e dall’altro a qualcosa che ha a che fare con l’ironia o il sarcasmo. A questo punto, mentre scrivo mi sento come uno di quei naufraghi che lasciano messaggi in bottiglia. Non cambio il mondo scrivendo, ma mi serve per continuare a vivere. Sì, penso che scriviamo per sopravvivere.

ARTICOLO n. 51 / 2024

COME MI SONO AVVICINATO ALL’ACQUA

Una conversazione con Luca Massimo Barbero

Luca Massimo Barbero: Venezia è un luogo ineffabile e leggendario, associato alla pittura e soprattutto all’acqua. L’acqua in tutte le sue forme: la bruma, la laguna, il costante dialogo fra l’isola e i canali, e la potenza del mare che preme alle porte della città e talvolta la sommerge. Se pensiamo al titolo di una delle sue mostre, Unfamiliar Images, l’acqua potrebbe non essere il tema che associamo immediatamente alla produzione artistica di Alex Katz. Ci viene in soccorso, tuttavia, la recente analisi delle sue opere sviluppata da Éric de Chassey nel saggio Les Mondes Flottants [“I mondi galleggianti”, NdT], primo lavoro dedicato a Red Sails nonché introduzione a un collage decisamente straordinario, Sea, Land, Sky: niente potrebbe essere più adatto a un ritorno a Venezia, una città sospesa proprio fra questi tre elementi, mare, terra e cielo. Nei suoi dipinti, l’acqua come superficie riflettente è un soggetto che ricorre con frequenza. Qui, alla Fondazione Giorgio Cini, sarà esposta in un’unica spettacolare sala una raccolta di tele di grande formato dedicate all’oceano. Spesso i critici fanno riferimento alle onde di Manet, e al mondo galleggiante dell’imprescindibile, ossessivo e straordinario Monet. Qual è stato negli anni il suo approccio al paesaggio marino e alla figura immersa nell’acqua, che si tratti di un’anonima bagnante o di un personaggio riconoscibile? Cosa l’ha portata a riunire questi oceani straordinari, la loro profondità e tutta la luce e la vitalità di un mondo in costante rinnovamento?

Alex Katz: Mi sono avvicinato all’acqua quando facevo il guardiano notturno per la Jamaica Railroad di New York. Di mattina, la superficie dell’acqua di Jamaica Bay a New York diventava di porcellana, di tutti i colori più disparati, proprio come succede a Venezia. E mi chiedevo se fosse possibile dipingere una cosa del genere. Allora avevo sedici anni. Poi ho passato diversi anni nel Maine a cercare di dipingere la luce sull’acqua. Guardavo i dipinti di altri artisti e pensavo: “Che cosa non hanno colto?” Quali sono le qualità dell’acqua? Per dipingerla perfettamente devi mostrarne la trasparenza, il peso e il movimento, sono questi i tre elementi principali. Ricordo di aver osservato i dipinti di Winslow Homer. Era tutto giusto, ma l’acqua non aveva alcuna energia. L’artista che preferivo in termini di raffigurazione dell’acqua era Manet.

L.M.B. L’isola di San Giorgio e il grandioso Bacino di San Marco, come Venezia tutta, sono stati l’ambientazione che ha ispirato artisti da Tiziano a Tintoretto a Veronese, che per secoli hanno rappresentato un’intera iconografia della pittura figurativa. Che cosa pensa di questi artisti? Hanno mai suscitato il suo interesse? Come li definirebbe in relazione alle tematiche che hanno esplorato nelle loro opere?

A.K. Per mantenermi come artista intagliavo cornici tre giorni alla settimana. Gli intagli veneziani erano i più difficili perché le forme sono estremamente fluide. Tiziano, Tintoretto e Veronese: sono loro lo stile di Venezia, uno stile ampio e fluido. Quando ho visto per la prima volta le opere del Veronese al Louvre, a 35 anni, ero strabiliato. Davvero impeccabili. L’enorme ovale verticale di Giove che fulmina i vizi, inteso originariamente per il soffitto, ha un movimento e una potenza incredibili. Ha avuto un enorme impatto su di me.

L.M.B. Vorrei chiederle di parlarmi di una cosa che ha detto a proposito del grande maestro Jacob van Ruisdael: «Jacob van Ruisdael è un artista indiscusso, e le sue opere sono tutte paesaggi». Qual è stata la sua esperienza rispetto alla storia della paesaggistica, e come è giunto a realizzare i paesaggi monumentali che sono esposti qui, alla Fondazione Cini?

A.K. La maggior parte dei paesaggi sono come un buco nel muro: forniscono prospettiva. Mi sono ritrovato a creare un’opera paesaggistica ambientale, in cui il paesaggio ti avvolge. Quindi avevo bisogno di un certo formato per ottenere l’energia giusta, e ora sto cercando di ricreare la stessa cosa in un dipinto più piccolo.

L.M.B. Il Maine è incastonato fra l’oceano e la natura. Qual è la genesi di opere di grandi dimensioni come Maine Field 3 o degli avvolgenti dipinti della serie Grass, che verranno esposti qui insieme per la prima volta? Quale interpretazione dovrebbe darne il pubblico?

A.K. Realizzare un grande quadro che raffigura l’erba è stata una grossa sfida. Si rimuove il soggetto dal dipinto. Nella pittura narrativa, il soggetto è importante quanto il quadro stesso. Quando dipingi erba, invece, elimini l’idea del soggetto. Si tratta dell’atto del vedere, di quella percezione che scaturisce a livello individuale in base a come si vive il dipinto dell’erba, da cosa significa per l’osservatore trovarsi al suo interno. Per gli intenditori, è il dipinto stesso. Quanto agli altri artisti, per me possono anche rodersi il fegato.

L.M.B. La natura è un mondo in cui i francesi hanno riscoperto la filosofia, gli inglesi il romanticismo, e gli italiani il piacere. Come si manifesta e si sviluppa il piacere all’interno della sua opera? Come viene sintetizzato nella serie Flowers, ossia i dipinti precursori dei grandi paesaggi che verranno esposti qui?

A.K. Ho iniziato a interessarmi ai fiori negli anni ‘50, perché l’atmosfera era impregnata di machismo. Facevamo delle mostre collettive, e a me piaceva inserirci un fiore e annientare tutti gli artisti macho. È così che è cominciato, che ho cominciato. Anche i dipinti di fiori sono difficilissimi da realizzare, al pari dei dipinti raffiguranti l’acqua. Si può descrivere un fiore, ma il colore è davvero giusto? La descrizione distrugge il colore. E se il colore è giusto, lo sono anche i volumi? Insomma, è molto complicato. Per non parlare della superficie del fiore. Renoir ha realizzato delle magnifiche tele di fiori, ce n’è una a Boston. Ho sempre pensato, invece, che quelle di Mondrian fossero prive di superficie. È estremamente complesso ritrarre un fiore in modo non formulativo. Come artista, sei obbligato a dipingere qualcosa di nuovo. E stai discutendo con l’artista che dice che il nuovo può solo provenire dal presente immediato, poiché questa è l’idea di modernismo. Quindi dici: qualunque esperienza io abbia fatto è al tempo presente. Nefertiti per me è sempre nuova, perché sono là assieme a Nefertiti, assieme alla scultura.

L.M.B. Non posso non chiederle del suo rapporto indelebile e costante con la ritrattistica. In tutta la sua opera sono evidenti decenni di ricerca e un fascino perenne: «Io perseguo il presente immediato», ha dichiarato una volta. Quando ha fatto la scelta radicale di concentrarsi sui ritratti, in particolare rispetto ad altri artisti americani contemporanei, sia espressionisti astratti che realisti?

A.K. Tutto è iniziato alla scuola d’arte. Ho ottenuto una borsa di studio per la pittura presso la Skowhegan, dove si dipingeva all’aperto sostenendo che quella era pittura realista. Io stavo facendo un quadro che sembrava un Bonnard, guardo in su e vedo un tizio sopra un tetto, con il sole che lo illumina. È stata una sensazione straordinaria, e per me era una sensazione nuova, diversa da qualsiasi altra cosa. Quella che ti fa capire che è questo che vuoi fare. È da quando l’ho provata per la prima volta nel 1949 che continuo a inseguire quella sensazione.

L.M.B. Una volta l’indimenticabile David Sylvester le ha fatto una domanda molto diretta: «Va bene Giotto, e Piero allora?» Qual è il suo rapporto in termini di figura, soggetto e carattere (vorrei quasi dire postura) con Piero della Francesca, di cui fra l’altro è esposto un quadro proprio a Palazzo Cini?

A.K. Piero mi è sempre sembrato straordinario. Assolutamente formidabile, eppure controllato. Non assomiglia a nessun altro. Ha una marcia in più, senza dubbio. Giotto è il massimo. È capace di prendere un sentimento personale e dipingerlo in uno stile impersonale. Nessun altro riesce a farlo. Il colore è come uno spettacolo di luci, e le forme sono incredibili. Ma la cosa più importante per me è che nel suo modo classico è in grado di avere emozioni interiori. La Vergine soffre realmente per la morte di Cristo. Percepisci la sua sofferenza, e questo non sminuisce il dipinto. È fantastico. La sua generalizzazione delle forme mi ricorda il dipinto marino di Albert Pinkham Ryder, Moonlight Marine, esposto al Metropolitan Museum of Art. È la stessa cosa. E il quadro di Ryder è uno dei migliori che l’America abbia mai prodotto.

L.M.B. Per usare un’espressione paradossale coniata da Vincenzo Agnetti alla fine degli anni ‘60: la storia dell’arte dovrebbe essere “dimenticata a memoria”? Ossia, dovrebbe essere assimilata in modo così profondo da essere trasformata in qualcos’altro? Lo consiglierebbe ai giovani artisti di oggi?

A.K. Credo che questo signore abbia avuto un’idea legittima, ma non ne apprezzo l’espressione. La storia dell’arte fa parte dell’arte, e dovrebbe scomparire nel tempo presente. Fa parte del subconscio. Dipingere il subconscio, per me, è l’unica cosa positiva del surrealismo.

L.M.B. La moda, un sistema grandioso, è forse una delle tematiche più profondamente associate all’esistenza quotidiana delle persone famose. Leggo: «L’attrazione di Katz nei confronti delle apparenze, delle superfici, è particolarmente evidente nel suo ritratto di Anna Wintour, caporedattrice di Vogue e direttrice creativa di Condé Nast». Come vede il processo creativo e comunicativo della moda? Qual è la sua opinione sui suoi sviluppi nel corso dei decenni, nell’ambito dell’immaginario collettivo nonché della sua opera?

A.K. L’idea della moda è cercare di creare qualcosa nel presente, e questo è ciò che dovrebbe essere un dipinto. Ci sono soluzioni diverse per la moda e per la pittura. Non può esistere lo stile senza la moda. Lo stile esiste in questo rapporto con la moda. E se un designer riunisce in sé stile e moda, il suo lavoro non perde valore dopo 20 anni. Una donna può indossare un Charles James o un Balenciaga di 20 anni prima e fare una bella figura.

L.M.B. Qual è l’origine della serie di opere dedicate alla stilista Claire McCardell?

A.K. L’origine della serie di Claire McCardell mi è spuntata dal subconscio. Stavo uscendo dalla vasca e un segno mi ha detto: “Claire McCardell”. Era con me da tutti quegli anni. La serie si collega all’arte e alle idee di Claire McCardell sulla forma generica. In altre parole, è come i Levi’s. Puoi portare i Levi’s con una maglietta oppure con una giacca da 2.000 dollari, non fa differenza. I Levi’s sono del tutto generici. La biancheria intima di Calvin Klein è generica, e indossarla ti fa sentire socialmente accettabile. Come stilista sociale, merita un 10. Un altro stilista che ha lo stesso effetto sul pubblico è Ralph Lauren, che crea capi per le fantasie della gente. Non c’è molto in termini di design, ma c’è molto in termini di ragionamento.

L.M.B. Qual è il suo rapporto con Claire McCardell e con il mondo che rappresentava in un momento molto particolare della moda americana e internazionale?

A.K. Claire McCardell ha sostituito la moda francese durante la guerra, quando non potevamo avervi accesso. Si basava su un’idea molto radicale, quella di rendere la moda accessibile a chiunque e di vendere i capi a prezzi accessibili. Ha avuto molto successo per due anni, fino alla fine della guerra.

L.M.B. Come sono stati concepiti e strutturati i singoli dipinti, oltre a quello che ritengo essere il suo ritratto? Come narra la storia della grande avventura di questa donna in ciascuna tela della serie?

A.K. I materiali di partenza erano delle fotografie. Lei vestiva le modelle in diverse tonalità di grigio, quindi ho pensato, tanto vale metterle in fila. I toni del grigio risultavano fastidiosi sulla tela, e non volevo che sviassero l’attenzione dall’impatto immediato delle creazioni stesse. I dipinti sono virtuosismi che hanno l’energia delle sue creazioni di moda. Quei quadri non erano che un’invenzione, e ci vuole bravura per farli apparire tali. Se li osservi da vicino, scopri che lì non c’è proprio nulla.

L.M.B. Concludiamo con un aforisma: cosa vorrebbe che il pubblico capisse dalle sue opere, in termini di stile?

A.K. Vorrei che il pubblico giungesse alla conclusione che è plausibile.

Intervista estratta dal catalogo dell’esposizione alla Fondazione Cini presso l’isola di San Giorgio a Venezia in corso fino al 29 settembre. Ringraziamo il Direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte Luca Massimo Barbero della Fondazione Cini per la disponibilità.

ARTICOLO n. 50 / 2024

IL MITO DELL’ORGASMO PERFETTO

breve storia della clitoride

In una celebre scena di Palombella rossa, film del 1989 di Nanni Moretti, il protagonista Michele Apicella si ritrova a urlare “le parole sono importanti!” a una giornalista che, a bordo piscina, lo assedia con affermazioni retoriche e un lessico vuoto e fastidioso.

Nel nostro viaggio che ripercorre i miti intorno a cui si è costruito, nel corso del tempo, un certo ideale di femminilità, l’attenzione al linguaggio costituisce un punto di osservazione  imprescindibile, utile per comprendere i meccanismi che hanno dato vita a molte delle ingiunzioni intorno alla sessualità delle donne.

Nel volume Sesso, la docente Kate Lister osserva come esistano centinaia e centinaia di parole per riferirsi, in toni più o meno coloriti, agli organi genitali maschili e solo una manciata di termini per definire quelli femminili. Non solo: la maggioranza di questi lemmi descrivono vulva e vagina in ottica passiva, strumenti utili più per procurare piacere all’altro (il maschile è voluto) che non a chi quegli organi li possiede. 

La quantità di parole a disposizione, l’accezione con cui sono impiegate e i significati cui alludono, quindi, non sono neutri, ma rimandano a uno specifico modo di intendere la sessualità. Assumendo questa prospettiva è facile capire perché, per tanto tempo, di clitoride non si è parlato affatto. Nell’edizione del 2013 del Roger’s Profanisaurus, l’enciclopedia delle volgarità pubblicata per la prima volta nel Regno Unito nel 1998, Lister conta solo cinque voci riferite a quest’organo. D’altronde, la prima ecografia tridimensionale era stata ottenuta dai ricercatori Odile Buisson e Pierre Foldès solo qualche anno prima, nel 2009. È sempre grazie a loro se, dal 2016, disponiamo di un modello 3D, indispensabile nei testi di anatomia ma anche per i corsi di educazione sessuale.

La filosofa Catherine Malabou rintraccia il primo uso anatomico del termine nei testi di Rufo di Efeso, medico greco vissuto tra il I e il II secolo. Galeno, medico romano coevo, definiva questa parte del corpo femminile “nymphe”, termine che sarà ripreso anche dagli anatomisti di epoche successive, per esempio dal francese George Cuvier che, in un testo di medicina del 1805, scrive: «(…) due specie di piccole labbra chiamate ninfe, perché hanno  la funzione di dirigere il flusso dell’urina, delimitano la metà superiore della vulva all’interno delle grandi labbra». Come ricorda la studiosa, “ninfa” è passato progressivamente da parola con cui definire la clitoride a lemma con cui sussumere l’intero genere femminile e, a suo modo di vedere, non è un caso: «C’è un tratto che unisce tutte queste ninfe (…). Si dice non raggiungano mai il piacere. Rimane prigioniero della sua crisalide. La ninfa, non godendo, è il fantasma erotico per eccellenza. La donna ideale non ha una clitoride». Nella visione del mondo degli uomini, quindi, la sessualità femminile è silenziosa e pudica, si nasconde e non reclama attenzioni; in pratica, non esiste.

Fino al XVI secolo, “clitoride” era una parola considerata oscena. Tuttavia, nonostante fosse ancora incerta la sua funzione, era noto il fatto che quest’organo fosse strettamente funzionale al piacere sessuale. Ricorda Lister: «Si pensava che le clitoridi eccessivamente grandi fossero simili a un piccolo pene, e quindi causa di lesbismo e appetiti sessuali anormali». Va da sé che l’unica cura possibile fosse la loro rimozione: dall’antichità al Medioevo, in tutti testi di anatomia compaiono indicazioni precise su come asportarle e cauterizzare le ferite.

È solo nel periodo rinascimentale che si scopre che la clitoride non è “solo” un lembo di pelle in eccesso ma un vero e proprio organo, funzionale al piacere e alla sessualità. Queste nuove consapevolezze, lungi dal mettere in discussione le pratiche agite fino a quel momento, potrebbero al contrario averle rafforzate. A partire dal Seicento, infatti, il tentativo di disciplinare la sessualità femminile si fa ancora più evidente. L’anatomista olandese Thomas Bartholdin definisce la clitoride “disprezzo per l’umanità”, ricordando a tutte le donne che il suo eccessivo sfregamento le avrebbe rese lesbiche. Il filosofo Rousseau mette in guardia genitori ed educatori dal pericolo della masturbazione, in particolare quella femminile, invitandoli a non lasciare mai sole le ragazze, a vestirle con abiti che rendessero più difficile lo strofinamento e a correggere il modo in cui si sedevano, facendo attenzione che tra le loro gambe vi fosse sempre un po’ di spazio per evitare spiacevoli stimolazioni indirette. 

Se la medicina continua la sua battaglia contro questo piccolo organo del piacere, è la letteratura pornografica del XVIII secolo ad accoglierlo e liberarlo, rendendolo protagonista di molti racconti e libri erotici. Da De Sade ai testi noti come “Merryland books”, si moltiplicano le pagine dedicate alla clitoride e al piacere che può provocare. Ciò nonostante, il tentativo da parte della medicina di disciplinare la sessualità continua: «Alcuni medici credevano che una clitoride ipertrofica fosse causata dalla masturbazione, altri il contrario» ricorda Lister. Per tutti la soluzione a un problema concreto o solo paventato era sempre la stessa: la clitoridectomia.

Con l’avvento del Novecento la rimozione della clitoride passa dal piano medico a quello simbolico. Nei Tre saggi sulla teoria della sessualità, Freud sostiene che le donne maturino una sessualità sana, adulta e pienamente femminile «una volta che si sia verificato il transfer dell’eccitabilità erotica dalla clitoride all’ingresso della vagina». Mentre la crescita sessuale maschile non prevede una variazione della “zona direttiva erogena”, il padre della psicanalisi ritiene che quella femminile cambi: quella clitoridea, parziale e limitata, lascia il posto a quella vaginale, autentica perché funzionale ai fini procreativi. 

Se fino all’800 la clitoride era causa di una sessualità senza freni, pericolosamente vorace – come quella che caratterizzava le ninfomani – a partire dal Novecento diventa sinonimo di frigidità. Marie Bonaparte, pronipote dell’Imperatore Napoleone e paziente illustre del medico viennese, arrivò addirittura a farsi operare per riposizionarla, illudendosi che solo in questo modo sarebbe riuscita a ottenere un orgasmo vaginale. 

Per tutto il secolo scorso, quindi, le donne hanno inseguito il mito dell’orgasmo vaginale che per i medici dell’epoca costituiva l’unica garanzia di una sessualità sana ed equilibrata. È solo grazie al femminismo della seconda ondata che si assiste a una netta inversione di tendenza. Ciò avviene anzitutto con Simone De Beauvoir, che ne Il secondo sesso sposta l’analisi della sessualità dando risalto al corpo, al soggetto desiderante. Come ricorda Malabou: «Non possiamo capire cos’è la sessualità se prima non vediamo che è un fenomeno, una manifestazione». Pur prendendo le distanze dall’etichetta “clitoridea” o “vaginale”, De Beauvoir non si discosta totalmente dalla logica duale che caratterizzava il pensiero freudiano. Bisogna attendere Carla Lonzi per il superamento di questa dicotomia. Nel suo Sputiamo su Hegel, la clitoride diventa emblema di una differenza che nessuna dialettica potrà mai risolvere. Non solo: essa costituisce la resistenza all’ideale eterosessuale, procreativo e pertanto penetrativo imposto a ogni donna.

Rimossa simbolicamente dalla teoria psicanalitica, la clitoride ritorna sul finire del Novecento e diventa, grazie al pensiero di Lonzi, il terreno su cui fondare ontologicamente l’identità femminile. Lungi dall’essere sintomo di una sessualità parziale, infantile o peggio ancora malata, con l’avvento del “femminismo della differenza” la clitoride segna, secondo Malabou, «lo scarto irriducibile tra sottomissione e responsabilità». Riconoscere il piacere clitorideo significa prendere le distanze dal modello femminile promosso dalla cultura patriarcale che concepisce la donna subordinata al desiderio maschile. «Per godere pienamente dell’orgasmo clitorideo – scrive Lonzi – la donna deve trovare autonomia psichica dall’uomo»: il femminismo diventa allora lo spazio, antitetico alla psicanalisi, in cui «elaborare i termini della sua liberazione». 

L’attuale ondata femminista è lontana, non solo temporalmente, da quella vissuta da Lonzi negli anni Settanta, tuttavia l’attenzione intorno alla sessualità che il femminismo della differenza ha contribuito a sollevare non accenna a diminuire (per fortuna, aggiungerei). Dal 2009 a oggi abbiamo potuto conoscere molto della clitoride: sappiamo che è l’unico organo privo di altri scopi se non quello di procurare piacere e che ha più di 8.000 terminazioni nervose, il doppio di quelle presenti nel glande maschile. Della clitoride, oggi, conosciamo la sua struttura anatomica: sappiamo che si estende in profondità, ben oltre ciò che possiamo vedere esternamente, e ciò rende assolutamente risibile la distinzione tra orgasmo clitorideo o vaginale per il semplice fatto che tutti sono ascrivibili al primo

Tutto ciò di cui la clitoride è stata accusata – di portare alla ninfomania ma anche alla frigidità, di rappresentare una sessualità infantile o di fomentare il lesbismo – racconta della paura del genere maschile di perdere quel potere che è stato, per secoli, conferito al pene anche attraverso il linguaggio. Conoscerne la storia e ricordarla, pertanto, è un atto di liberazione per le donne che ancora oggi si interrogano sulla propria sessualità. Non c’è nulla di sbagliato nel nostro piacere, in qualsiasi forma in cui si manifesti; l’unica cosa sbagliata è la sua repressione.

ARTICOLO n. 49 / 2024

DECLINO CHE PASSIONE

anatomia del mito "era meglio prima"

Era meglio prima. Oggi non va bene niente. Siamo in declino. Il declino è diventato un genere: il declinismo. È più che una moda. In effetti, non esistono mode che durano in eterno. Il declinismo è un pensiero retrospettivo che spiega il presente a partire da un’origine perduta o dalla degradazione di una potenza organica, industriale, personale, militare.Questo pensiero è basato sulla psicologia collettiva, sulla condizione sociale di chi si sente personalmente in declino, sull’idea di progresso lineare ma anche sull’idea di società organica, gerarchica, automatica.

Nostalgia e risentimento

Il declino è una questione di prospettive. Non è solo il rimpianto di un’epoca. È anche la proiezione del presente in direzione di un’idea del passato da riattualizzare nel futuro. Questo doppio movimento sfugge all’attenzione. Di solito, infatti, si pensa che il declinista rimpianga il tempo della sua giovinezza, sia vittima della Caduta dal paradiso terrestre, rimpianga l’Età dell’Oro. È vero, ma non è tutto. 

La passione del declino è la nostalgia. La nostalgia può ribaltarsi in risentimento. Il declinismo è, in fondo, un idealismo. Il mondo è la degradazione dell’Idea, va riportato all’origine. E se il mondo va da un’altra parte, e non si lascia correggere, né risponde al bisogno di mettere ordine, allora si scatena l’apocalisse, il misantropismo, l’odio per chi non capisce la necessità di salvare la storia da se stessa e imporre la storia come dovrebbe essere ma non sarà. 

Non c’è un unico declino. Ce ne sono tanti quanti sono i declinisti per generazione, che siano della politica, dell’ideologia o della storia. Ciascuno ha il proprio modo di essere passivo, e di reagire. Il declino, in fondo, risponde a un’economia delle passioni. Oggi, nel cuore della controffensiva reazionaria, queste passioni sono spietate.  

Il declino inizia su Tik Tok

Ci sono i declinisti aggiornati. Quelli che si occupano di provocazioni scrivendo libri contro la scuola pubblica di massa, colpevole a loro dire di diseducare e non essere “meritocratica”. Dicono che il declino è iniziato con l’avvento di Internet e poi dei social network. Oggi i ragazzi non sanno scrivere, né parlare. Hanno la soglia di attenzione di un video su TikTok. È una catastrofe, signora mia. È la fine dell’età dell’oro, quando tutto sembrava più grande, gli alberi del paradiso terrestre erano gravidi di frutti promettenti. Tutto allora sembrava possibile. Oggi, quando abbiamo in effetti un problema con le mezze stagioni, ci troviamo sul piano inclinato verso il nulla. Se non reagiamo, il declino ci sommergerà.

C’era una volta: i “trent’anni gloriosi”

Il tempo delle mele è quello della giovinezza perduta. Se il declinista è di sinistra, la giovinezza coincide con i “trent’anni gloriosi” (1945-1973), cioè con il periodo del boom del neocapitalismo e di una narrazione mitologica di un Welfare idealizzato, una classe operaia eroica, un partito comunista frizzante, l’altra Chiesa che accoglieva e dava identità. Non occorre avere vissuto quegli anni. Si tramanda la loro idea. Oggi il declinista rimpiange quella idea di comunità, più che di classe. E in subordine il maggio ’68. I conflitti allora c’erano. Erano più vivi, tondi, sensati. Si capiva chi era il nemico. Bisogna salvare quella memoria ora che è finito tutto.

Io li capisco questi declinisti. Mi sento vicino a loro. Come dargli torto. Allora c’era la musica tra le più belle, un rito liberatorio, un’immaginazione politica. A un concerto dei Pink Floyd psichedelici ci sarei andato. Li ascolto oggi e sono favoleggianti. La scena finale di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni è una bomba, letteralmente. E avrei fatto un viaggio avventuroso. Non so se in India però.

Scrivo per un giornale che si chiama Il Manifesto. Una delle creature del Sessantotto. Spesso vado in archivio a leggere il quotidiano che facevano le madri e i padri fondatori e gli altri che li hanno seguiti. I primi furono espulsi dal PCI perché, tra l’altro, scrissero: “Praga è sola”. Denunciavano lo stalinismo che invase la Cecoslovacchia nel ‘68. Altro che riconciliazione. Altro che passato ideale. Violenza, repressione, negazione. La critica al Partito Comunista italiano era ruvida. La ricerca di un’altra rivoluzione era difficile. C’era allora però un’intuizione di fondo che dura ancora oggi. Gli studenti, gli operai, le donne, i movimenti di liberazione dal colonialismo e dall’imperialismo a cui si rivolgeva quel giornale formavano allora la parte emersa di un altro tipo di rivoluzione. Questa è la politica che resta da pensare, e da fare, ancora oggi. È il futuro. Si direbbe che il “declino” sia stato inventato per cancellare la sua intuizione. E per annegarla nella nostalgia del presente. Il genealogista vede invece la realtà in prospettiva. Le rivoluzioni, quando ci sono, lasciano il segno. 

All’origine dei guai

Tra i declinisti di “destra”, ma le parti si confondono perché sono in molti a pensare lo stesso a sinistra, si pensa che il “Sessantotto” sia stato l’inizio della decadenza e della perdita di autorità. A pensarlo c’è sia chi ha partecipato a qualche collettivo in quegli anni e poi si è messo a scrivere libri, trovando una popolarità tra i “nuovi filosofi”, sia i qualunquisti, populisti o fascisti veri e propri. In cinquant’anni di odio per il Sessantotto hanno trovato un’idea comune: chi allora si è opposto – i movimenti della contestazione studentesca e della protesta operaia, il femminismo – sarebbe stato un agente del capitalismo. Gli anti-autoritari avrebbero desiderato in realtà più autorità sostituendo i loro padri al potere e gli anti-capitalisti avrebbero desiderato più capitale auspicando una società liberata. 

L’esempio di questa posizione è la credenza basata su una considerazione ingenua della critica: se Karl Marx si è occupato di capitalismo, questo significa che è un sociologo capitalista; se Michel Foucault ha parlato di neoliberalismo, allora è un neoliberale. E Herbert Marcuse? Era l’ideologo di un movimento neo-capitalista composto da anarchici pulsionali che volevano godere dei privilegi della società dei consumi. La criticavano? Erano schiavi del capitale. Gilles Deleuze e Félix Guattari? Figuriamoci: teorici dei fondatori di Google e Facebook. Al di là delle stupidaggini che si scrivono alla base di questa idea del declino della critica c’è l’immaginazione di un soggetto pieno, bello e fatto, che si trova in natura. Uno nasce e, se è fortunato, lo trova nella culla. Dipende però dove e quando. Se nasce nel paese e nel movimento sbagliato non godrà della stessa fortuna. 

“Riarmamento demografico della popolazione”

Ci sono i declinisti natalisti. Un agghiacciante capolavoro di retorica declinista è stato realizzato dal presidente francese Emmanuel Macron quando ha detto che «bisogna riarmare demograficamente la nazione». Non lo ha detto Giorgia Meloni, o Viktor Orbán, di solito considerati tra i campioni dell’estrema destra europea al potere. Lo ha detto il liberal-qualcosa Macron che, quanto ad autoritarismo, non scherza nella civilissima Francia. Basta parlare con chi ha perso un occhio a causa dei flash ball sparati dalla sua polizia in piazza. Discorso patriarcale, guerriero, machista, teso a militarizzare il corpo delle donne, considerandolo una risorsa della nazione nella guerra, pardon nella competizione. 

L’ossessione contemporanea per la demografia implica l’idea inconfessabile che le donne producono forza lavoro. La Nazione ha bisogno dei loro grembi per riarmarsi. Se le donne non fanno figli, la colpa è loro. Non delle condizioni materiali che impediscono anche di amare un figlio. È la popolazione che non reagisce al proprio declino, non i suoi leader che invitano a riprodursi. Se le donne non fanno figli disertano dall’esercito della Nazione. Le metafore hanno una logica atroce. Macron, nella sua stupida brutalità, ha esplicitato ciò che è stato osservato a suo tempo da Michel Foucault: esiste un discorso che attraversa le teorie del capitale umano, l’economia della famiglia, la storia sociale, la geografia e altre discipline. Oggi il posto di questo discorso è occupato dal declinismo. E serve a disciplinare e controllare la popolazione.

Dietro la natalità, l’ossessione xenofoba

Ci sono i declinisti razzisti. Il demografo Hervé Le Bras lo aveva osservato nel 1998 nel libro  Le Démon des origines. Démographie et extrême droite: «La demografia sta diventando un mezzo per esprimere il razzismo». “Grande sostituzione” o “sostituzione etnica” sono i concetti in cui tale processo si è condensato. Questa espressione è stata importata anche in Italia. Ce ne siamo accorti quando il Ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, cognato della Presidente del Consiglio Meloni, ha parlato di “sostituzione etnica” e della necessità di “incentivare le nascite”. 

Idea-guida dellestrema destra, la grande sostituzione” è un pilastro anche del discorso declinista. Uno dei suoi ispiratori è il francese Renaud Camus. In un libro omonimo ha parlato della Francia, e per estensione l’Occidente, che stanno subendo un “cambiamento di popolo” a causa dell’immigrazione. Gli “autoctoni” saranno “sostituiti” da persone provenienti dall’Africa, in particolare dal Maghreb. Lo stesso dice oggi Trump a proposito dell’immigrazione dal centro e dal Sud America. Questo processo di “sostituzione” è paragonato da Camus a una “occupazione del territorio”, persino a una “colonizzazione”. Chi vive nelle periferie delle città, e del mondo, è un “soldato” del campo nemico che punta sulla “demografia” che è “uno degli strumenti di questa conquista”, “il suo braccio armato”. L’obiettivo è la “conquista attraverso l’utero”. Deriverebbe da un aumento del tasso di fertilità delle donne che non sono “autoctone”, ma cittadine acquisite di fede musulmana. 

Questo discorso permette di comprendere l’orizzonte coloniale in cui si muovono in discorsi che parlano di “reagire” a un “declino” calcolato in base all’uso natalista delle statistiche. In questa prospettiva un problema ricorrente in tutti i paesi del capitalismo in crisi è vincolato all’evocazione di un aumento della produttività dei corpi delle donne, alla divisione razzista tra le donne autoctone e quelle immigrate, alla gerarchia tra donne “cristiane” e donne “musulmane”, alla divisione tra donne “bianche” contro “donne nere”, e così via. “Reagire al declino” implica il potenziamento di queste tecniche di governo, e di oppressione, in un discorso trasversale.

L’apocalisse

Il declinismo è un racconto fondato sull’apocalisse. Quello delle nascite, rappresentato per Renaud Camus dalla “grande sostituzione”, sarebbe «il fenomeno più cataclismatico nella storia della Francia da 15 secoli». 

C’è poi l’apocalisse ambientale. Se oggi nei paesi capitalisti ci si concentra sul calo delle nascite “bianche”, fuori da essi si parla della sovrappopolazione del pianeta. E si evoca la necessità di una “denatalità”. I due discorsi non sono estranei. Stanno in un rapporto stabilito dal neomalthusianesimo in cui si sviluppa il declinismo. L’ecologista Jason W. Moore ha ricostruito questo nesso nella sua critica radicale al concetto di Antropocene e ha evidenziato come la riduzione dell’ecopolitica al problema del governo della popolazione sia stato un modo per rendere l’ambientalismo compatibile con il capitalismo. Se un problema esiste, allora è quello del modo in cui si produce e della distribuzione più equa della ricchezza. Visto che vivremo in dieci miliardi sulla Terra, allora come minimo bisognerebbe evitare che 2.400 miliardari e 100.000 milionari possiedano la stragrande maggioranza della ricchezza impedendo che le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche siano messe al servizio di tutti, compreso il mondo animale, vegetale e minerale. Il declinismo invece serve a giustificare l’estrattivismo (non c’è tempo, arriva la fine, troviamo i rimedi!). E poi ad accelerare la “crescita”, a rafforzare il fascismo fossile, radicando le divisioni e l’ostilità. In questa prospettiva dire che stiamo vivendo l’apocalisse, o dire che l’apocalisse c’è già stata, significa rafforzare lo schema prevalente, non profetizzare una rivoluzione che non c’è.

C’è l’apocalisse dell’identità nazionale. L’Italia, per esempio. Un caso di scuola. Si potrebbe dire che lo Stato unitario non era ancora nato e già si parlava del suo declino. Non sono riusciti a fare gli italiani. In compenso hanno creato e rinvigorito un paese disfunzionale, depredato, i servizi a pezzi, con i salari al palo da trent’anni e una totale sfiducia in tutti e in tutto. Il declinismo è il lato oscuro della Nazione. Un concetto, quest’ultimo, caro agli eredi del Movimento Sociale Italiano al governo. La Nazione la mettono dappertutto. È come il tofu. Sta bene con tutto. Insapore, prende quello del piatto che condisce. La usano come il crocefisso contro i vampiri. E tuttavia ciò non basta ad allentare il declino. Quest’ultimo è uno spettro. Insegue la Nazione. E smentisce i suoi protettori.

Lo strano caso del debito pubblico

Il declinismo è una costante nel racconto del debito pubblico in Italia. Ne Lo strano caso del debito pubblico italiano, Danilo Corradi e Marco Bertorello hanno spiegato un mito diffuso nella storiografia post-risorgimentale: l’Italia anello debole dello sviluppo capitalistico, eccezione incorreggibile, cicala e spendacciona, ostaggio di imprenditori levantini, di uno Stato inefficiente in un paese dove la «modernizzazione» è stata mancata. Il debito pubblico, e l’incapacità di governarlo, sarebbero la prova di una storia arcaica che non passa. Al contrario l’Italia è un paese moderno, e non solo perché altri paesi europei come la Francia oggi sono avviati a produrre un debito paragonabile. 

Il record italiano non è stato tanto generato da apprendisti stregoni senza cultura economica, ma da un progetto politico che ha usato il debito pubblico per garantire un modello di sviluppo profondamente ingiusto e radicato sulla bassa pressione fiscale sui capitali che ha favorito, già dagli anni Ottanta del XX secolo, il blocco sociale dell’individualismo proprietario composto da professionisti, commercianti, piccole e grandi aziende che non investono, risparmiano sui salari, non fanno innovazione, evadono o eludono il fisco. 

Certo, errori enormi ne sono stati fatti. Certo, c’è la corruzione e il clientelismo. Ma il grosso dell’aumento è stato una risposta pragmatica all’esaurimento del modello keynesiano-fordista, quello dei rimpianti “Trenta gloriosi” che ha associato l’aumento della produttività con quello dei salari, ma non ha garantito una crescita sociale coerente con le sue premesse moderatamente riformistiche. L’uso compensativo del debito pubblico ha posticipato le contraddizioni che si ritrovano immutate nel nuovo modello, il “keynesismo finanziario”. Il declino è una giustificazione a posteriori di un modello economico ingiusto che continua ad essere applicato in condizioni diverse. 

Di cosa, allora, il declino è il nome? Dell’estenuazione di un paradigma economico fondato sulla centralità della finanza: bassa crescita e aumento delle diseguaglianze pagate da lavoratori precari e cittadini senza tutele.

Il rinvio a un futuro negato

I declinisti sono una famiglia. Ci sono i progressisti, i reazionari e i conservatori. I primi pensano di tornare indietro per fare due passi in avanti. I secondi voltano le spalle al presente e in sostanza rimpiangono il tempo quando le donne erano disuguali rispetto agli uomini, quando il mondo era diviso tra colonie e imperialismo, o l’omosessualità era criminalizzata. Gli ultimi, i conservatori, vogliono conservare il meglio che la storia per loro ha tramandato. Tutti hanno una memoria selettiva. Per loro la storia è la discesa in un pozzo.

Il declinismo è una delle formule che sono riemerse in un nuovo campo di battaglia. Quello dell’egemonia neoliberale il cui scopo è assorbire e canalizzare le richieste di una profonda discontinuità politica in una progressiva, continua e flessibile restaurazione di un ordine senza giustizia. Da quasi mezzo secolo le controriforme che hanno costellato la storia di questa egemonia non hanno riformato nulla se non le condizioni che rendono praticabile la vita dei dominanti e spingono gli oppressi ad adattarsi a una vita parossistica e servile in una crisi senza sbocchi né alternative. Nella rivoluzione al contrario in cui viviamo, la vita è un rinvio a un futuro negato, a una pratica separata dalle sue potenze e dalla concreta possibilità di esercitarle in maniera democratica e generativa, al ricordo di un’epoca dell’età dell’oro che non è mai stata tale.

ARTICOLO n. 48 / 2024

CALASSO SENZA NOME

una lunghissima storia

Spesso le ragazze d’oggi principiano le proprie storie d’amore nella velata convinzione che ben presto tutto andrà storto. Lo storto non è più una tragedia bensì una meta sardonica: bisogna saperci arrivare. Raggiungere lo storto può essere gustoso o almeno utile a pagare qualcosa di più grazioso che un modulo F24.  

Ad alcune di noi capita talvolta un errore di sistema: lo storto non si presenta, l’amato ci ama, il plot cade. Nessuna è pronta a che le cose vadano bene.

Un simile attentato alla mia fidata isteria è stato giocato da Roberto Calasso (1941-2021). Bigino per chi ancora non è un suo lettore: Calasso ha scritto ventisei libri. Tra questi, undici titoli compongono l’Opera senza nome e sono stati pubblicati da Adelphi dal 1983 al 2020. Essi sono: La rovina di Kash (1983), Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), Ka (1996), K. (2002), Il rosa Tiepolo (2006), La Folie Baudelaire (2008), L’ardore(2010), Il Cacciatore Celeste (2016), L’innominabile attuale (2017), Il libro di tutti i libri (2019) e La Tavoletta dei Destini (2020). Per dirla in soldoni (che mi sarebbero valsi un’occhiata di disprezzo post-storico da parte di Calasso), i protagonisti di questi libri sono Zeus e i suoi dèi, il sistema vedico descritto nei Brāhmaṇa, il Progenitore e svariati patriarchi, Utnapishitim, Tiepolo, Talleyrand, Baudelaire, Kafka, Homo saecularis.

Come lettrice nata nel ’90 ho iniziato da Il rosa Tiepolo, recuperando a mano a mano i primi titoli, e posso testimoniare quanto l’uscita de “il nuovo libro di Calasso” fosse di anno in anno un evento atteso con curiosità e un velo di apprensione da parte mia e di mio padre, voraci e ammirati lettori che alla fine si chiedevano l’un l’altra perché Calasso avesse scritto proprio di “questa cosa qui”. In ogni autore solitamente si coglie una certa sincronicità con l’attuale, nella letteratura di Calasso invece regna una logica narrativa e temporale antica, esodata, vagamente irrecuperabile. 

Per una vita ho letto i suoi enigmatici libri sapendo che non sarei mai arrivata alla Verità, anzi, certa che lui non avrebbe mai voluto condividerla con alcun lettore. Due o tre volte mi è stato permesso di pubblicare recensioni alle sue opere, due o tre volte recensioni a Calasso mi sono state cassate (a ragione, erano più criptiche dei libri stessi). In quelle occasioni gli inviavo i testi via e-mail e lui scendeva dal Primo Mobile per rispondermi “Cara Sofia Silva…”. 

Che dire? Coup de théâtre: nel giugno del 2024 persino questo plot, quello in cui le parole di Calasso entrano nelle nari come il fumo di un rito che invade senza richiedere meccaniche dell’intelletto, è caduto. Adelphi pubblica il saggio di autocritica letteraria Opera senza nome; post-mortem Calasso spiega per filo e per segno la propria ambizione da scrittore svelando i più strategici espedienti. Non solo, rivela il disegno escatologico di tutto ciò che ha pubblicato. Rimango allibita. Se nessuna è pronta a che le cose vadano bene, tantomeno si è pronte a che le cose abbiano un senso.

Prima rivelazione contenuta in Opera senza nome: Calasso scrittore ha ambito alla “primavoltità” nella forma, a una letteratura nuova nata da una concezione “sinottica e simultanea” (Léon Bloy) della storia – e dunque del testo – e redatta tramite l’uso di accorgimenti specifici come l’eliminazione degli esponenti di nota o la predilezione di immagini in carta-testo prive di riferimento (spoiler: Calasso rivela di essere stato in questo d’ispirazione per Sebald). «Inventare qualcosa che prima non esistesse […] ma che accogliesse occasionalmente frammenti di forme esistenti». La penultima citazione di Calasso è nientemeno che lo scriba Khakheperraseneb, un grintoso del 1900 a.C: «Che io possa disporre di espressioni ignote, di formule originali, fatte di parole nuove». 

La seconda rivelazione che ho rintracciato si concentra più specificamente sul poter leggere la storia affidandosi alla simultaneità. «Mrs. Procter, quale appare in poche righe dei Taccuini di Henry James, appartiene alla profonda preistoria così come la profonda preistoria converge con la macchina di Turing». Ogni volta che Calasso ha citato venti nomi provenienti da diversi secoli e civiltà all’interno di una stessa pagina cartacea non stava, come ho creduto per molti anni, tessendo un poema per una ristretta cerchia di eruditi con cui prima o poi avrei sbevacchiato Opollo di Lissa, ma stava – diciamola così – trasportando l’algoritmo in Mesopotamia, sottraendo la paratassi al nostro dataismo per applicarla al passato statuendo che in essa esiste senso. Nel legame tra esistenze e fatti umani e sovrumani che non si sono nemmeno sfiorati nel tempo, noi viviamo. E se smettiamo di collegarli, se smettiamo di concepire Ṛta, l’ordine cosmico, come un tappeto di cui tutti i fili sono intrecciabili l’un l’altro, è perché stiamo passando dall’essere una civiltà all’essere una società. (A breve illustro la differenza).

Quindi attenzione, adolescenti in lettura: Calasso vi sta autorizzando a zittire i docenti che lamentano citazioni improprie. Tutto è pertinente; al prossimo tema su Pirandello andate pure giù duro di teatro elisabettiano.

Terza rivelazione: intravedo l’ammissione da parte di Calasso di aver sempre scritto su un unico tema, sul rito di sostituzione per eccellenza, il sacrificio. «Il sacrificio è la colpa, l’unica colpa.  […] Qualcosa di cui il pensiero non riesce mai a sbarazzarsi». «La civiltà è il luogo del sacrificio». Civiltà è stata sostituita da società. «Escludendo da sé qualsiasi cosa che non sia la società, la società ha escluso un rito ricorrente ovunque, sotto varie forme del mondo: il rito sacrificale». Nella propria «bigotteria laica», «la società rende ragione solo a se stessa e considera la natura un po’ come un parco all’interno di una grande città». Rinunciando alla rinuncia, eliminando il sacrificio, si è perso il simbolico come legame universale.

Stremata dalle rivelazioni che mi pare di aver colto, mangio cereali impiastricciati di burro di arachidi, e il mio pensiero subito vola a un titolo degli undici che costituiscono l’OperaIl libro di tutti i libri, 555 pagine dure e inesorabili come il dio che raccontano. Analisi della Bibbia che mai sfocia in esegesi biblica; non ordinata comprensione di significato quanto piuttosto perpetua creazione di hyperlink di verità e crudeltà tra la Bibbia e ciò che di essa non ha mai smesso di riguardare l’inconscio individuale e sociale.

La lettura del Il libro di tutti i libri opera una immissione di storicità in pagine che spesso si è abituati a leggere con un pensiero aperto alla metafora; questo ritorno del testo sacro nella storia – primitiva, nomadica – non toglie sacralità come si è spesso temuto, ma ne aggiunge. Prodezza di Roberto Calasso: nel sublime, ricordarci che siamo stati frugivori, saprofagi e, talvolta, sacri.

«Non deve meravigliare se, risalendo fino agli inizi del pensiero, si incontrano immancabilmente parole che indicano un ordine cosmico e mentale: ṛtá, asha, ma’at, me, díkē, śimāti, dao, torah. […] Ciò che alla fine si è inteso sotto il nome di scienza non è che l’ultimo tentativo di articolare quell’ordine che già era stato indicato sotto molti nomi. Tutti inesauribili, tutti alla fine provvisori e inconclusi. Tutti indispensabili perché una qualche forma di vita prosegua. La figura del Messia è l’ombra che si intravede dietro la perenne lacuna dell’ordine».

In questi quattro decenni Calasso ha fornito ai suoi lettori una lunghissima storia, ibrida, sincretica, paritaria, in cui tutte le vite e i fatti del mondo sono intrecciati nelle civiltà sapienti, sfaldati nelle società laiche e reintrecciati nei glitch di un mondo post-laico, nel terrorismo, nella “religiosità” dell’algoritmo, nelle riapparizioni del senso in un randomico talk show. 

ARTICOLO n. 47 / 2024

LA GENTRIFICAZIONE È DISUMANA

una conversazione di elisa teneggi

Alcune sensazioni rimangono addosso: il profumo di una madeleine, la crema cruda uova-zucchero sbattuta per merenda da una nonna di provincia, il sale incrostato sulla punta delle dita nella spiaggia dell’infanzia. La letteratura (e la scienza) ci hanno spiegato che il gusto è un senso strano, che ha a che vedere con la memoria. Ricordarci che cosa ci ha fatto stare bene una volta ingerito è questione di sopravvivenza primordiale: questo sì, questo no, questo meglio di quell’altro, così da non confonderci mai tra le bacche di una giungla inesplorata. Nei contesti urbani, però, spesso deleghiamo questo istinto di conservazione a un altro senso, la vista. La usiamo per identificare una facciata ben ristrutturata (e che conservi comunque quel je ne sais quoi di vissuto), il riflesso delle lucine calde usate per decorare un appartamento, l’insegna di un cafè che propone panini con pollo allevato a terra e opzioni plant-based.

Il sapore ci riporta a esperienze puntuali, a momenti scolpiti nel tempo. La vista, in questo caso, a una nozione: quella del “carino”. Che, come scrive Giovanni Semi in Breve manuale per una gentrificazione carina, è il futuro, e ci dovremo abituare alla sua presenza sia che ci vada bene, sia che non. «A meno che tu [il lettore, ndr] non voglia startene tra i tuoi simili in periferia, ma mi sembri troppo sveglio, nonostante tutto, per volere una cosa del genere». Perché i “simili” sono i “poveri”, i nemici del carino. E verranno spazzati via dalla gentrificazione, che è «una cosa bella, ma soprattutto giusta».

Giovanni Semi è Professore Ordinario all’Università di Torino, in cui insegna Sociologia delle culture urbane e Sociologia generale. Nel 2015 ha pubblicato per Il Mulino Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, saggio a oggi considerato il testo canonico sulla gentrificazione scritto in Italia (e dalla prospettiva dell’Italia). Nel 2022, il Breve manuale era uscito in edizione digitale, inserito nei Quanti di Einaudi. E, nel 2023, il testo è arrivato anche in formato cartaceo grazie a Mimesis. Si deve dedurre che, negli otto anni trascorsi tra le due pubblicazioni, Semi abbia invertito completamente il proprio punto di vista rispetto al tema della gentrificazione, o meglio, della gentrification?

Naturalmente no. «Gentrification è un testo su cui ho lavorato nel 2014, dopo una decina d’anni di ricerca. Porta ancora, secondo me, delle argomentazioni valide anche a otto anni di distanza, poi certo, andrebbe aggiornato in alcune sue parti, prendendo in considerazione, per esempio, l’esplosione delle piattaforme. Però le dinamiche di fondo osservate a quel tempo per i processi legati alla gentrificazione sono le stesse, oggi le cose si muovono solo più velocemente, è tutto più compresso». Il Breve manuale non è, dunque, una ritrattazione, ma un testo satirico. Non ne fa, peraltro, mistero. Queste le sue righe d’apertura: «Ne ho visto uno, l’altro giorno. Alto, barba incolta ma non completamente lasciata andare, una camicia tre o quattro taglie più grande, un giaccone che sembrava un bomber ma non lo era (una cinesata). Ciondolava per una via del centro, davanti a un negozio di cucine con delle isole in legno non trattato davvero splendide. Di quelle con la doppia vasca in Corian in cui non si vedono manco gli schizzi e che, se cucini un pad thai saltandolo nel wok giusto, non si macchiano con la salsa d’ostriche o di soia (senza sale, mi raccomando)».

Il momento giusto per pubblicarlo arriva in acque relativamente calme dopo l’emergenza pandemica da Covid-19. «Infatti», continua Semi, «la pandemia ha aperto uno squarcio, ci siamo guardati dentro senza più riconoscerci. Abbiamo reagito come qualunque specie animale farebbe: ricucendo in fretta, mettendoci in salvo, e ricominciando sulla stessa rotta su cui eravamo prima, e il più in fretta possibile. Il che spesso vuol dire perpetrare comportamenti folli. Eppure andiamo avanti, anzi, sarebbe più corretto dire che siamo tornati indietro. Davanti a questa evidenza serve, credo, un ribaltamento di prospettiva temporaneo. Prendiamo Gentrification: ha circolato nell’ambiente degli interessati ai temi dell’abitare e dell’urbano, credo abbia fatto bene al discorso su questi punti. Però, se fai una nuova operazione su quella falsariga, ti rivolgerai sempre allo stesso tipo di pubblico, che sono o chi appunto legge per interesse, o chi ne è esterno, si incuriosisce, e chiude dopo cinque pagine perché dice “ho capito la solfa, i soliti professori di sinistra”. Allora ho pensato di affidarmi all’arma più appuntita, la satira».

Operazione particolarmente riuscita: il mondo che dipinge Semi nel Breve manuale fa accapponare la pelle, non tanto perché distopico, anzi, proprio per la verosimiglianza del tratto. Oltre al contrasto tra vetrine limpide, materiali splendenti e persone trasandate presentato nell’incipit, nel testo si trovano invocazioni alla Dea Bellezza – «Il tuo quartiere è in preda al degrado? Un panorama desolante fatto di scritte sui muri, esseri umani ciondolanti, bottiglie per terra lo caratterizza? Dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo intervenire, è ora di Basta! Quello che ci serve è la Bellezza®. […] La chiave di volta del successo di ogni iniziativa, dal transito del proprio corpo per la città al transito della città attraverso i nostri corpi, è la bellezza. Abbiamo bisogno di gente bella in posti belli, perché solo la bellezza ci salverà dalla sfacciataggine della Bruttezza®, del Degrado®, dei Poveri®» – corredate di comode istruzioni su come “farla accadere” anche nel proprio quartiere. Ovvero: cambiarne il nome (pensare in questo all’esempio milanese di NoLo, North of Loreto, primo quartiere brandizzato della città), parlare con la gente, lasciar fare agli esperti, fare dei disegnini carini sui muri (che dicano, per esempio: Cities Are Mental Weapons, Fight White Privilege, Surrender To Art), mettere i ragazzini a spazzare le strade assieme a cooperative di richiedenti asilo. Azioni da effettuare rigorosamente dall’alto, quando verranno erogati i fondi, facendo capire alle persone che cosa vogliono, insomma in stile coloniale. Quando finalmente si raggiungerà l’unanime grido “questo quartiere è davvero carino”, la missione sarà completata. Parlate con i vostri amici urbani, se non ci credete, seguite le loro storie Instagram: saranno pieni di posticini carini, oppure bruttissimi ma fotografati bene, che è solo carino alla meno uno (e, soprattutto, molto cool e urban). Forse preferite non pensarci, ma tutto quello che vedete in questa modalità è gentrificato, e, scorrendo attentamente il Breve manuale, potrete ravvisare come molti degli step fondanti della gentrificazione stiano avvenendo (o continuando ad avvenire) tutto intorno a voi.

Spazio per una presa di coscienza collettiva, insomma, lo si avrebbe. Oltre a questo, però, possiamo sperare anche in spiragli di azione politica? Ancora Semi: «Non credo sia più possibile convincere la politica a rivedere il corso delle azioni intraprese. Storicamente, in Italia la proprietà immobiliare è un bene sacro e inviolabile. Questo perché la trasmissione intergenerazionale è ancora il primo mezzo con cui si acquisisce una casa di proprietà, e questo si lega al fatto che la popolazione è meno mobile, geograficamente parlando, nel senso che molto spesso si nasce in un posto e ci si rimane a passare la vita. E abbiamo tasse sulla casa che, per i proprietari naturalmente, sono irrisorie se comparate a quelle di paesi molto più neoliberali di noi, Regno Unito e Stati Uniti, per esempio [in Italia non ci sono tasse sulla prima casa, ndr]. Invece in Italia è dagli Anni ’50 che si spinge sull’allargamento della proprietà immobiliare, ormai è un dato di fatto, e toccare le politiche legate alla casa è un suicidio, politicamente parlando. Tanto nelle grandi città quanto ancor più nei piccoli centri, dove i politici hanno nomi e cognomi che a volte troviamo sul campanello di fianco a casa nostra. È una situazione molto difficile da smuovere, se non con, forse, un accordo di larghe intese, o un intervento costituzionale».

A questo si aggiunge l’atteggiamento di tolleranza-zero relativo alle forme di abitare informale come, per esempio, le occupazioni di immobili dismessi. Emblematico, nel luglio 2023, il caso dello sgombero dell’occupazione di un palazzo in via Fortezza (a Milano), in cui l’intervento delle forze dell’ordine è arrivato a meno di un giorno dall’insediamento degli occupanti. Dunque, senza un reale interesse a ripensare la conformazione dell’abitare nel paese, dobbiamo aspettarci che le logiche omologanti, replicabili con lo stampino, carinissime della gentrificazione continuino a trainare lo sviluppo urbano, attraendo verso quartieri un tempo grigi e popolari nuove coppie di hipster “molto berlinesi”?

Conclude Semi: «Io credo di sì. Non è ragionevole supporre, visti i dati che abbiamo, che il processo si esaurirà spontaneamente. Anzi, temo che presto le conseguenze classiste della gentrificazione si allargheranno ulteriormente, tra crisi climatica e rischio reale di nuove pandemie. Ipotizziamo che tra dieci anni giunga un nuovo Covid-19, una nuova emergenza sanitaria, già le città saranno meno vivibili a causa dell’aumento globale delle temperature, unendoci la necessità di fuggire dalla massa ci troveremo in una polarizzazione fortissima: un numero davvero esiguo di persone “che potranno”, e magari si dirigeranno a colonizzare borghi e villaggi tra montagna e campagna; tutti gli altri saranno bloccati e non avranno un “altrove” a cui potersi rivolgere. La gentrificazione dovrebbe allargare l’esperienza urbana, e invece la sta rendendo sempre più stretta».

Terminato il chiarissimo (e non carinissimoBreve manuale, in realtà la domanda che rimane da fare è una sola: quali possono essere i principi di una s-gentrificazione non solo carina, ma anche efficace? «Bisogna, innanzitutto, agire sulla rendita immobiliare, che è un elemento violento, inutile persino dal punto di vista del tardo-capitalismo, e parassitario. Sul versante sociale, invece, dovremmo mettere l’accento sul conflitto, cioè tornare a considerarlo come una forza motrice in positivo della società. Non intendo naturalmente il conflitto armato, ma lo scambio di idee tra persone che la pensano diversamente. Infine, sul lato politico e culturale, dobbiamo metterci in testa che la gentrificazione distrugge la qualità principe della vita: la sua diversità, in quanto ragiona per omologazione e ripetizione del già visto». Una gentrificazione non solo ingiusta, dunque, ma anche dis-umana. Chissà se, con un po’ di ironia e con l’aiuto del Breve manuale per una gentrificazione carina, riusciremo finalmente a mettercelo in testa.

ARTICOLO n. 46 / 2024

L’ILLUSIONE FEBBRICITANTE DELL’AMERICAN DREAM

La favola realista di Steven Millhauser

Il mondo di Steven Millhauser è un mondo di creatori e sognatori. Quanto più è forte la coscienza del sogno, tanto più è determinata l’azione che li proietta dentro la concretezza del reale. E quanto più quest’ultima si arricchisce, tanto più i confini del sogno si dilatano. Martin Dressler è un sognatore perché agisce, fa, crea. È, come esplicita il sottotitolo, un “sognatore americano”, ma al contempo, eccentrico com’è rispetto all’epica del self-made man, rappresenta una singolare disfatta del proverbiale american dream

Millhauser è un autore legato a una sua molto personale idea di realismo e di letteratura fantastica. È autore dominato, non meno dei personaggi che è venuto creando, da una generosa ossessione che dà luogo a modalità diegetiche, a tensioni psicologiche, a spinte e controspinte strutturali, e soprattutto a un bagaglio iconico che si dispone puntualmente intorno allo stringersi di un nodo drammatico e al manifestarsi di una significativa contraddizione: l’ambizione del sognatore muove la realtà, ma la realtà risponde solo fino a quando quell’ambizione è contenibile dentro una logica che cede alla norma.

Da quando esordisce nel 1977 con Portrait of a Romantic alla raccolta di novelle The King in the Trees del 2003, Millhauser ha saputo rimanere fedele alla sua “favola” realista. E dico favola per cercare di rendere ragione di quella singolare tonalità di racconto che sembra iscrivere le storie dentro un loro allarmante e spiazzante «c’era una volta». Per lo più infatti Millhauser rivolge lo sguardo al passato, un passato mai generico, ma più definito dalla concretezza figurale dei paesaggi urbani e suburbani che dalla Storia in senso stretto. E anche quando si avvicina di più al presente (la cittadina del Connecticut de La notte dellincanto, 2022) o se ne allontana drasticamente (il Medioevo, per esempio, de La principessa, il nano e la segreta del castello, 1993) ciò avviene tenendo fede agli stessi criteri di favola realistica. 

«There once lived a man named Martin Dressler», così l’incipit del romanzo. Un attacco tradizionale, caro soprattutto alla forma della ballata che tanta parte ha avuto nella formazione della cultura popolare americana. Il fatto che di lì a poco ci rendiamo conto che l’azione è situata negli anni a cavallo fra Otto e Novecento non incrina – anzi semmai rafforza – un senso di vertigine temporale funzionale allo svolgersi della vicenda. 

È come se si stabilisse da subito un fecondo rapporto tra la concretezza visiva delle cose del secolo e la lontananza di esistenze che dobbiamo considerare strappate a leggende orali, ad apparati semi-documentali, a repertori mitologici attivi solo nel patto di verosimiglianza imposto dall’autore. E non è un caso che Millhauser faccia molto sovente uso di nomi e cognomi, quasi a invocare un’esistenza non fittizia: Martin Dressler ma anche Edwin Mullhouse del romanzo eponimo (1979), John Franklin Payne e Edmund Moorash delle novelle di Little Kingdoms (1993). Quelle che abbiamo chiamato le “cose del secolo” sono, in questo romanzo, New York e l’entusiasmo della modernità, la frenesia dell’eclettismo che si traduce, sulla pagina, in appassionati cataloghi descrittivi.

La città di Millhauser è innanzitutto la percezione di un bazar, di una galleria di meraviglie, di una fiera delle «novità» che si moltiplicano e si allineano orizzontalmente come nell’American Sales Catalogue (o come in quel circo Barnum che ricorre a dar spessore alla molteplicità e alla varietà della meraviglia: The Barnum Museum, 1990).

Lo si avverte distintamente quando Dressler incontra Rudolf Arning, scenografo e architetto: «Quella attuale, spiegò l’architetto, era l’epoca dell’eclettismo esteriore, come chiunque aveva modo di constatare: bastava osservare gli edifici in ferro e marmo carichi di volute e decori pseudo-rinascimentali, che catturavano lo sguardo in ogni via di New York, ma, ancor più di questo, era l’epoca dell’eclettismo interiore o da interni, definizione con la quale Arning non si riferiva alla solita combinazione di stili antiquati e tecnologia moderna, come ascensori o telefoni, bensì alla tendenza delle strutture a contenere e racchiudere il maggior numero di elementi possibile». E cita come esempio massimo «… quella meraviglia del mondo moderno, quel modello di ingegnosità e sapere, che era il catalogo di vendita a domicilio nordamericano, con la sua multipla offerta di colli per camicie staccabili e aratri in acciaio, giocattoli di latta e carrozzine per poppanti e sacchi di noccioline, il tutto racchiuso nelle pagine di uno stesso libro: un libro più onnicomprensivo di qualsiasi epopea. Quella tendenza all’eclettismo interiore era una nota che Arning aveva sentito risuonare nelle parole di Martin riguardo a un grande albergo per famiglie…». 

Il grande albergo per famiglie è solo il nucleo originario del progetto prometeico, del sogno, della scommessa, della sfida che occupa da sempre l’immaginazione di Martin Dressler e che prenderà forma nel Grande Cosmo. Un edificio destinato in parte a tendere verso l’alto come un grattacielo, in parte a svilupparsi sottoterra, e a replicare, sopra e sotto, tutto lo spazio del vissuto, sincronicamente e diacronicamente, a “rifare” insomma la città e in qualche modo a cancellarla. Teatro, museo, grande magazzino, il Grande Cosmo si rivela tutto meno che un hotel. 

Martin Dressler è il figlio di un negoziante di sigari che viene illuminato sulla via di Damasco il giorno in cui entra per la prima volta in un grand hotel: da fattorino a direttore, da imprenditore a “inventore” di alberghi, egli sente in quella forma particolare dell’abitare che coincide con l’ospitalità alberghiera una potenzialità di espressione prima confusamente illuminata da rivoluzionarie concezioni della “comodità”, poi sempre più nettamente fusa con l’agonistico progetto di sottrarre vita alla comunità reale per farla rifluire in un’altra comunità, in tutto simile alla prima, ma separata e onnicomprensiva. 

Va da sé che il sogno di Dressler nasce nella New York in piena trasformazione della fine dell’Ottocento, e può nascere solo lì, ma è pur anche vero che la spinta onirica finisce con il coincidere con una drammatica, tragica sospensione del tempo. Tutto quello che si muove, come sviluppo, come invenzione, come trionfo di un capitalismo dinamico e onnivoro, è riassorbito, metamorfizzato nel disegno di un altro sviluppo, di un’altra frenesia inventiva, di un altro dinamismo, tanto luminoso nel suo ardire, quanto oscuro nelle sue componenti di lucido delirio, di deriva onirica.

Come Millhauser ben fa dire a Harwinton, il nuovo genio della pubblicità, interprete e “comunicatore” dei progetti di Dressler e Arling, i nuovi alberghi incarnano il bisogno «attuale» di stare nel cuore delle cose (la città), ma di poter contemporaneamente dar seguito a quei “riti bucolici” di allontanamento che ruscelli e prati più veri del vero consentono all’interno di uno spazio concepito all’uopo e raggiungibile con un taxi. 

Nel Nuovo Dressler, seconda tappa della prometeica avventura del nostro eroe, il dodicesimo piano è tutto intitolato Museo dei Mondi Esotici con «… scrupolose riproduzioni di località come un villaggio eschimese, una valle scozzese, i giardini delle Tuiléries, i canali di Venezia (con acqua e gondole vere), uno scavo archeologico nella valle tra il Tigri e l’Eufrate, il luogo natale di Shakespeare e la giungla amazzonica, ciascuna illuminata da luci di scena multicolori e popolata di attori in costumi autentici, cosicché il visitatore aveva la sensazione parallela di trovarsi in un luogo reale, ma anche di godersi un ingegnoso effetto scenico». 

La favola che Millhauser racconta qui – e anche nel resto della sua opera – è la favola dell’adolescente, del bambino che compulsivamente continua il suo gioco per impedire alla luce dell’età adulta di scoprire il trucco. Più il gioco produce illusione, più l’illusione difende il suo trucco. Ma più l’illusione è opera, più è – contemporaneamente – approssimazione infinita alla perfezione ed esposizione al fallimento.

La nozione di american dream contiene un aspetto di forte tensione ideologica che fa dipendere il sostantivo dall’aggettivo. Nelle storie di Steven Millhauser si assiste a un ribaltamento che inverte l’ordine di dipendenza. L’americanità è inglobata e quasi divorata dal sogno. La storia del cartoonist John Franklin Payne (prima novella della trilogia Little Kingdoms) non diversamente fa perno intorno a un’idea di progresso e perfezione, a un confronto con la modernità che tuttavia si contrae intorno alla necessità della bellezza, all’esaustività promessa dall’accanimento della fantasia e dalla messa a fuoco delle tecniche espressive: lì, addirittura, l’artista-artigiano combatte la sua solitaria, sempre più solitaria, battaglia per ottenere un film d’animazione perfetto che non ha bisogno degli sviluppi ulteriori della tecnologia. E anche lì c’è New York, ci sono i piloni dei ponti inchiodati nell’oscurità della terra, i cunicoli sotterranei della metropolitana, le redazioni dei giornali, il clima eccitato degli anni Venti. C’è insomma un mondo figurale da cui discende una sorta di febbre che accende l’immaginazione.

Gli eroi di Millhauser sono di fatto febbricitanti – spesso in senso stretto –, soffrono di crisi psichiche che si traducono in alterazioni dell’equilibrio fisico: sono visionari à la Nerval, e quello che vedono sono manifestazioni molto, molto veritiere della realtà. La loro “favola” è quella di una Cenerentola che si ferma a contemplare la magia o se si vuole la magica bellezza delle scarpe da ballo, della carrozza, dei cavalli sorti dal nulla, del palazzo del principe, della notte incantata che precede l’incontro e lì si ferma, perdendo l’occasione e sviando il corso dei fatti dal lieto fine.

Non a caso, Millhauser si perde e fa perdere i suoi personaggi nella contemplazione della “macchina” che produce trucchi e illusioni: i luna park, i giardini delle meraviglie, i manichini e le marionette, gli effetti di luce, le smaglianti opere (siano esse macchinari o edifici) della tecnologia. Martin Dressler ha uno spiccato senso degli affari e lo usa, ma proprio mentre costruisce la sua fortuna si rende conto che se il successo dipende dalla capacità di dar forma a persuasive illusioni, queste illusioni sono anche il vero unico obiettivo, la poesia dell’esistente, e in quanto tale ostile alla normalizzazione e, di conseguenza, allo stesso successo, quale che sia il senso che si voglia dare a questa parola. 

Uno dei sintomi in cui viene puntualmente a rivelarsi la natura controversa dello streben dei suoi personaggi è l’eros, l’attrazione e più in generale il confronto con l’area del femminino. È lì che, con una specie di presago anticipo, comincia a manifestarsi la febbre morbosa di un equilibrio che non tiene. Il desiderio si palesa come una forza imprevista e l’amore si insinua come una domanda di alleanza o una minaccia. Il giovane Martin è sì sedotto da una donna più grande di lui, ma è solo quando diventa, nolente, oggetto delle attenzioni di una bambina che si manifesta formicolante e vertiginoso lo stordimento dell’eros dando forma a una sorta di allucinata visione: «… si accorgeva a un tratto del fruscio lieve delle sottovesti, degli scricchiolii prodotti dai corsetti, dello sfregamento delle calze di seta, un cupo e seducente suono di sete e di merletti in sottofondo, l’improvviso lampo scuro delle occhiate; intanto, passandogli accanto o sprofondando con un sospiro in divani soffici, le signore dell’atrio cominciarono a sfilarsi i lunghi abiti, a slacciarsi i bustini stretti, a lanciare in aria camiciole come palle di neve, gettando all’indietro la testa e respirando forte con le vene che pulsavano nel collo…». Come un uomo che sa di dover obbedire a un solo pensiero dominante (il lavoro, la creazione, il sogno), decide di «prendere provvedimenti per quella parte della vita alla quale aveva raramente prestato attenzione» e comincia a frequentare un bordello sulla Venticinquesima Ovest, alle spalle della Sesta Avenue, «la casa dalle finestre che vibrano». Ma non basta. Quando entrano in scena le sorelle Vernon, Caroline ed Emmeline, si instaura un rapporto complesso, misterioso, fuor di squadra, che corre parallelo alla febbre creativa (e che si apre ad ancora più intricati sviluppi attraverso gli amori ancillari). Anche qui la dipendenza amorosa scatta attraverso un processo semi-allucinatorio (un capello biondo immaginato su un divano vuoto e poi penetrato in un sogno notturno come una guizzante verminosa creatura) e somma il silenzio della svagata sonnambulica Caroline con la grazia confidente di Emmeline. Il matrimonio con Caroline coincide in realtà con la comunanza intellettuale e spirituale con Emmeline. Febbre nella febbre, il rapporto con le sorelle Vernon duplica e complica la tensione onirica di Martin Dressler, riproponendo la nervosa intesa sentimentale che Millhauser ha già evocato in Catalogo di una esposizione: larte di Edmund Moorash 1810-1846 (in Little Kingdoms). 

Là la figura fittizia di un pittore americano visionario, qui l’altrettanto visionario creatore di alberghi-mondo, e per entrambi la sofferta corona di una devozione femminile, il confronto agonistico con una tensione erotica letale, con la gravità caotica del desiderio e la sua negazione forzata. 

Molto romanticamente quello dei sognatori di Millhauser è un destino che sfocia in solitudine; nondimeno le figure femminili che li accompagnano virano dalla rapacità ansiosa della femme fatale alla specularità nevrotica dell’assenza-presenza e del tradimento. Quando Caroline si ritira, fisicamente, nelle sue stanze, in preda a una sorta di cupa regressione fra veglia e sonno, e lascia il posto alla sorella, non fa che obbedire al “progetto” nevrotico di Martin Dressler, sdoppiando ed enfatizzando i vettori tragici del sogno. Castellana («a princess in a castle») prigioniera in un maniero che quanto più cresce tanto più isola, Caroline è il sintomo di uno squilibrio e la inconsapevole battistrada del fallimento: «… Caroline era proprio come la principessa delle fiabe, sposata con il principe potente». 

Attraverso il ruolo delle figure femminili risulta evidente come Steven Millhauser abbia fatto, a suo modo, i conti con il gotico e con il racconto fantastico: creature umbratili, dominatrici e sorelle-in-spirito, le sue donne hanno una qualità di abisso o, per contro, di antidoto all’abisso. Affondano le radici nelle muliebri ossessioni di un Poe, ma guardano come di sguincio verso quelle kafkiane. Portano addosso il languore tardo-romantico di una sensibilità morbosa, ma entrano nella pagina come figure che, spiccandosi da un arazzo, mettono in scena, nel loro pallore, nei loro trasalimenti, nella stessa vitalità nervosa, una distanza che è insieme letteraria e di un realismo che attinge all’incubo.

Distanza e vicinanza. Siamo ancora lì. Millhauser è autore che porta consapevolmente in sé questi due tratti e, sommandoli, ne trae una cifra di originalità che lo consegna a una posizione difficilmente classificabile nella letteratura americana contemporanea. Leggibile come un tardo erede della post-modern fiction (dei Barth, dei Barthelme, dei Coover), Millhauser rivela tuttavia una spiccata tendenza al tragico, o quantomeno al conflitto di opposti, che attenua o addirittura spegne la dimensione ironica che è parte integrante di quella narrativa: i suoi personaggi assumono il peso del sogno con drastica determinazione e lo lasciano cadere sulla superficie liquida dell’accadere. Ne discende un racconto come progressiva immersione e dilatazione di eventi, che, mentre procede, fa percepire la tensione di uno scontro insolubile. Se per certi versi la sua opera suona “restaurativa” (il romanzo, il racconto a tutto tondo), d’altro canto la ricchezza immaginativa, la giostra del meraviglioso, la seduzione del catalogo, l’esibizione della ricostruzione (che, va sottolineato, non è mai “storica” nel senso stretto del termine) spingono l’attenzione del lettore sugli snodi, sulle giunture, sulla macchina piuttosto che sulla rotondità della narrazione. 

La “leggenda” che i suoi personaggi tendono a incarnare è sempre compresa in un orizzonte percettivo che soverchia lo stesso svolgersi della vicenda: la luce e il buio, la sfera diurna e la sfera notturna, l’emerso e il sommerso. È come se la sua ispirazione venisse, piuttosto che da un apparato documentale, da una forma mediata di oralità (voci di voci, racconti di racconti, immagini di immagini) che dilata l’esperienza convulsa del visitatore di piacevoli orrori e sgomentanti meraviglie (e in ciò verrebbe voglia di accostare lo scrittore americano all’Italo Calvino delle Città invisibili). In realtà non sappiamo mai con esattezza a quale distanza temporale e figurale le sue storie si dispongano (anche quando sono così situate come in Martin Dressler) rispetto a noi. 

Nella novella La principessa, il nano e la segreta del castello piace a Millhauser ricondurre la varietà del racconto leggendario alla molteplicità delle fonti, ma soprattutto alla duplicità del tono con cui la narrazione è stata tramandata: «Ciascuno di noi ha sentito innumerevoli versioni del racconto della Principessa. […] Il proliferare di versioni scartate, scadenti e tuttavia mai dimenticate confluiscono in un repertorio noto come “racconti del sottosuolo”, poiché nascono dalle tenebre, misteriosi come tuberi o elfi. […] Benché i racconti del sottosuolo non siano mai compresi nel ciclo principale dei racconti del castello, nondimeno son ben lontani dall’esaurirsi, anzi si moltiplicano instancabilmente, lasciando sugli altri racconti i loro ignoti colori, esercitando una misteriosa influenza. C’è chi dice che verrà un giorno in cui i racconti diuturni si sfibreranno per mancanza di nutrimento e allora i racconti del sottosuolo si leveranno dai loro luoghi di tenebra e invaderanno la terra». (La principessa, il nano e la segreta del castello, trad. di Alberto Rollo, Einaudi, Torino 1993, p. 51.)

Dunque la tenebra e il giorno. Non è un caso che, con addestratissimo senso pittorico, Millhauser accompagni questi scavalcamenti narrativi con una gamma di sostantivi e aggettivazioni relativi alla qualità della luce, alla sua intensità e all’intensità delle varianti che connotano l’oscurità. Come costantemente compresi fra il sonno e la veglia, i suoi personaggi passano la soglia dei due mondi o addirittura, come accade in Martin Dressler, quella soglia la si crea artificialmente, acciocché finalmente sia patrimonio di tutti. Dressler e i suoi collaboratori, che vivono in era pre-televisiva, pre-virtuale, pre-informatica, costruiscono, facendo sentire il rumore e la perizia delle maestranze, i mondi finti che noi – e con noi, l’autore – abbiamo imparato a riconoscere come possibili. 

Eppure lì – come in Vathek e nella vicenda biografica di William Beckford, un classico del gotico – è l’ardore dell’impresa a dare spessore all’immaginazione. Vathek e William Beckford hanno molto in comune con Martin Dressler. Il primo fa ampliare il palazzo di famiglia facendo costruire cinque palazzi che siano, ciascuno, la risposta ai sensi dai quali dipende il piacere di esistere (L’eterno e inconsumabile banchetto, Il tempio della melodia o il nettare dell’anima, La delizia degli occhi o il conforto della memoria, Il palazzo dei profumi o L’incentivo dei piaceri, Il rifugio dell’allegria o l’insidioso), a cui aggiunge una torre di millecinquecento gradini; il secondo ingaggia l’architetto James Wyatt perché trasformi la proprietà di famiglia, Fonthill, in un palazzo dominato, anch’esso, da una torre così alta che, costruita troppo velocemente, crolla e fa sì che tutta la residenza sia presto venduta. Lo scrittore William Hazlitt ebbe accesso a Fonthill dopo che era stata venduta e la descrisse come «una cattedrale trasformata in un negozio di giocattoli». 

Ed è qui che l’immaginazione di Beckford sembra allacciarsi a quella di Dressler e dunque di Millhauser. Come Vathek-Beckford, Dressler-Millhauser vede crescere il suo teatro-mondo come offerta di uno «stile di vita». La storia, la geografia, la natura e l’opera dell’uomo: tutto riunito in un solo luogo, perché il fanciullo non cresca più e possa fermarsi – nel non luogo che l’albergo può diventare – con tutto il sogno intatto prima che il giorno ridistribuisca la vita nel tempo e nello spazio. Qualcosa di analogo accade anche nel romanzo La notte dellincanto, ambientato nel Connecticut contemporaneo: una chiamata notturna di tutti i dreamers per le strade di una cittadina sprofondata nel sonno. 

Ha detto Steven Millhauser a proposito di quest’opera: «Mi piace attirare il mio lettore lontano dalla realtà convenzionale, verso un mondo parallelo che solitamente definiamo, semplificandolo, come fantastico ma che io preferisco chiamare il mondo segreto, il mondo che eclissa il reale. Questo mondo parallelo mette il primo con le spalle al muro, lo rimette in questione e impone la sua forma specifica di realtà. In generale, preferisco che il mio lettore resti là, sul sottile confine compreso tra l’uno e l’altro, gli occhi rivolti di qua e di là, contemporaneamente». 

Un tunnel. Steven Millhauser è scrittore di tunnel. Scavati fra il possibile e il terribile. Fra la Storia e l’estatica immobilità dell’incantamento. C’è in Martin Dressler qualcosa che potremmo chiamare “epica dell’impossibile”, che, in forza della sua dettagliata declinazione, in forza della ostinata pazienza con cui la scrittura la sostiene e la sfida, ci lascia inquieti e stupiti come se un “mondo segreto” ci fosse sfuggito, continuasse a sfuggirci, e Millhauser fosse lì a evocarlo, fantasma del tempo, da un passato mai trascorso, che ci riguarda.

Postfazione di Alberto Rollo a Martin Dressler, di Steven Millhauser
© 2024 Mondadori Libri S.p.A., Milano

ARTICOLO n. 45 / 2024

IL MESSICO COME TRAUMA

intervista di Fabio bozzato

Cosa succede quando due mondi alieni si incontrano? Quando un evento si può considerare così importante da cambiare il corso della Storia? E cos’è la Storia quando incontra la letteratura? Per provare a orientarci, ci è di aiuto Álvaro Enrigue, lo scrittore messicano che su questo materiale scivoloso si è cimentato in quattro romanzi e due raccolte di racconti. Lo incontriamo in occasione di Incroci di Civiltà, il festival letterario promosso a Venezia dall’Università Ca’ Foscari. Classe 1969, premio Elena Poniatowska 2014, Álvaro Enrigue ha lavorato a lungo come giornalista per poi approdare a New York, dove insegna alla Hofstra University. In Italia, Feltrinelli ha pubblicato Morte improvvisa (2015), Adesso mi arrendo e questo è tutto (2021), mentre di recente uscita è Il sogno (2024, tradotto da Pino Cacucci). Qui Enrigue mette in scena il famoso incontro fra l’imperatore Montezuma e Hernán Cortés, avvenuto l’8 novembre 1519 nella città flottante di Tenochtitlán, la capitale dell’Impero mexica, da cui è nata Città del Messico.

Fabio Bozzato: Il sogno è un testo di fiction, però lei ha lavorato su una grande quantità di archivi storici. Dunque, di quali parti o dettagli di questa storia possiamo fidarci, nel momento in cui slitta continuamente tra verità e finzione? E di cosa possiamo fidarci invece della storiografia?

Álvaro Enrigue: È una domanda che sembra una trappola [ride]. Sì, è un romanzo basato su un archivio enorme e una quantità di persone che ho interpellato. Dunque, di cosa può fidarsi il lettore? Potrei dire innanzitutto dei dettagli della vita quotidiana, il cibo, gli odori, la forma della città e delle costruzioni. Tutto questo è dettagliato grazie alle conoscenze in nostro possesso. Bisogna ricordare che la capitale dell’Impero venne distrutta nel 1521 e poi ricostruita e ci siamo abituati a pensare che d’improvviso l’antica Tenochtitlán sia diventata l’attuale Città del Messico come per miracolo. In realtà è stato un processo lento. Il grande lago dove sorgeva, per esempio, è rimasto in vita fino al Novecento e a distruggerlo non sono stati gli spagnoli, ma la Repubblica. È vero che gli spagnoli hanno compiuto uno dei più grandi genocidi della Storia, ma nei primi cento anni che si insediarono qui hanno fatto convivere le autorità e le tradizioni native con le nuove, perché di fronte avevano una cultura e una struttura statale troppo grandi e potenti e sapevano di dover avere pazienza e non irritare troppo le autorità locali. Così, nei primi cento anni, un’autorità locale governava i popoli indigeni e un viceré governava gli spagnoli, che peraltro erano pochissimi, almeno per un secolo. Tenochtitlán rimase una città sull’acqua per due-trecento anni. Ma il problema è che a tutt’oggi restano molte domande aperte e le stesse ricostruzioni storiche si fondano sì su ricerche rigorose, ma vanno a tentoni e immaginano, a loro modo, delle storie. 

F.B. Potremmo dire che la stessa forma del romanzo è una prova della conoscenza precaria della Storia.

A.E. In qualche modo sì. È curioso che, da quando ho cominciato a scrivere il romanzo a quando l’ho finito, ho dovuto cambiare molte pagine, perché si susseguono sempre nuove scoperte archeologiche. Prima di chiudere il libro l’ho mandato in lettura a un famoso archeologo. E mi ha fatto riscrivere intere parti, anzi mi ha dato appuntamento un giorno allo Zócalo, il cuore della capitale, e da un palazzo mi ha fatto scendere nel sottosuolo, dove hanno portato alla luce templi, costruzioni e camminamenti: è impressionante. Gli storici e gli archeologici stanno ridisegnando le mappe e riposizionando pezzi di città. 

F.B. In un’ntervista alla rivista Letras Libres, lei ha detto: «La Storia in realtà non esiste. Esistono degli archivi che noi interpretiamo secondo le nostre convenienze». Dunque, cos’è la grande Storia? Come si collega a quello che intendiamo per reale?

A.E. Io credo che la Storia si costruisca, come il linguaggio, attraverso un processo continuo di messa in discussione e di cambiamento. È interpretazione, scrittura. È la messa a fuoco di una narrazione partendo dai frammenti che abbiamo: rovine, reperti, documenti. E questi ultimi sono ulteriormente vulnerabili e appartengono a una sfera del discorso politico. Perché la scrittura è sempre politica: se mi mostrassi la tua lista per il supermercato, ti potrei dire per chi voti [ride]. E quello che facciamo è di articolare una narrazione attorno a ogni cosa. Per questo penso che il lavoro di un romanziere e quello di uno storico siano molto simili, salvo per una cosa: lo storico è chiamato a dimostrare ciò che scrive e il romanziere no. Ma sono convinto che un romanziere abbia molto da dire sul passato, anche se lo fa come un racconto di fantasia.

F.B. Lei descrive l’incontro fra Montezuma e Cortés con grande maestria psicologica: sono due uomini onnipotenti, ma di cui lei tira fuori paure e dubbi; ciascuno osserva il mondo dell’altro con meraviglia e incomprensione e ognuno ritiene l’altro un barbaro.

A.E. Nessuno sa veramente cosa sia successo in quell’incontro, eppure sappiamo che è stato un fatto epocale, perché si può dire ormai con certezza che è stato uno dei detonatori della modernità. Per la prima volta una lingua europea esce dall’Europa e si radica in un altro continente; per la prima volta il sistema economico europeo concepisce e pratica una economia estrattiva su larga scala; per la prima volta quella diventerà la prima città non europea ad avere un aspetto europeo ed essere popolata per la maggior parte da europei e africani. E ancora, per la prima volta gli europei capiscono che da là possono proiettarsi nel Pacifico, che era la vera ragione per cui erano arrivati: nel 1565 sbarca per la prima volta al porto di Barra de Navidad una nave piena di mercanzie proveniente dalla Cina che poi torna in patria carica di argento, di cui aveva fame per coniare monete.

Da quell’incontro inizia un flusso umano senza precedenti, forzato o meno: schiavi e migranti, non solo dall’Africa ma anche dall’Oriente. Il mondo, insomma, comincia a girare attorno a una nuova modernità globale. Ma cosa sia successo davvero in quell’incontro nessuno lo sa. In mano abbiamo solo due testimonianze, uno dello stesso Hernán Cortés e uno di un semplice soldato, Bernal Díaz del Castillo, ma ormai sappiamo che ci servono a poco, non hanno raccontato la verità, ma hanno manipolato la storia per giustificare quello che poi hanno tragicamente fatto. Peraltro, raccontano solo i primi quattro giorni degli otto lunghi mesi che vissero a Tenochtitlán. Perché? Forse perché se la facevano addosso dalla paura ed erano sbalorditi dalla bellezza e dalla potenza di quella città e di quella civiltà. Gli spagnoli erano solo duecentosessanta con venti cavalli e un piccolo cannoncino. È stato dopo, quando arrivano in tremila ben armati, che non hanno più paura e non abbattono l’Impero da soli, ma con tutte le nazioni indigene che si sono alleate a loro. Ma a questo punto so bene che quel racconto sulle paure di Cortés e del suo manipolo di uomini lo può scrivere solo un romanziere, non uno storico.

F.B. Possiamo dire che è anche il trauma originale da cui è nato il Messico attuale?

A.E. Metaforicamente sì, ma è stato un lungo percorso, lento, complicato, brutale e meraviglioso, ricco di molte più storie. Ma è vero che il Messico nasce da un mondo perduto, certo. E da una violenza incalcolabile, inimmaginabile. Però non mi spaventa il fatto che un paese abbia un trauma con cui fa i conti continuamente; magari mi spaventa di più chi crede di non avere un trauma da affrontare, come potrebbero essere gli Stati Uniti o l’Argentina. Mi impressiona che gli Stati Uniti comincino a raccontare la loro storia dal 1700 come se prima non ci sia stato niente. Noi messicani abbiamo la memoria di quegli eventi traumatici e in qualche modo continuiamo a rigurgitare il verbo di quello che è successo, in un processo storico di digestione tutt’ora in corso. So anche che non esisterebbe la pasta alla bolognese senza quel trauma: per inventarla e metterla sui piatti degli italiani c’è stato bisogno del mais, della carne quando le mucche qui scarseggiavano, dei pomodori, tutte cose messicane; e per fare quella pasta c’è stato bisogno di appropriarsi degli spaghetti cinesi, che arrivarono in Messico e poi in Spagna e infine in Italia. Come si vede la Storia è complicata, ma anche sorprendentemente familiare.

F.B. Il presidente del Messico, Andrés Manuel Lopez Obrador, ha fatto scalpore per una lettera inviata al Re di Spagna e al Pontefice invitandoli a chiedere perdono per la Conquista. Come è possibile per l’Europa contemporanea affrontare a così lunga distanza una matassa storica? Come è possibile che un gesto simile possa risolvere la questione?

A.E. Abbiamo un presidente che usa toni, parole e gesti molto populisti, nazionalisti, rudi. Questo è certo. E la sua lettera, peraltro filtrata dalla stampa, suona grottesca. Ma poi pensi: ogni dieci persone che vivevano nelle Americhe prima della Conquista, nove sono scomparse, uccise, falciate via. Abbiamo sofferto un genocidio senza precedenti, cui si è aggiunta una colossale tratta di esseri umani come mai si era visto. Allora ti dici che un gesto è necessario. Il Papa è riuscito a farlo, perché non ci riesce la famiglia reale di Spagna? Di cosa ha paura l’Europa?

ARTICOLO n. 44 / 2024

I LIBRI DI ADRIANO OLIVETTI

Pubblichiamo un’anticipazione dall’ultimo libro di Chiara Faggiolani, Il problema del tempo umano. Le biblioteche di Adriano Olivetti: storia di un’idea rivoluzionaria (Edizioni di Comunità) da domani in tutte le librerie. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la disponibilità.

I libri sono un elemento fondamentale della vita di Adriano, nella sua infanzia e nella sua educazione: i libri non da possedere, non come oggetto, ma considerati per ciò che essi incarnavano nella loro funzionalità. La conoscenza, l’ispirazione, la visione alla base dei suoi “progetti di rigenerazione totale del mondo”.

Per questo forse non è azzardato dire che ad Adriano i libri non bastavano: aveva bisogno di ascoltare, di capire interagendo, di investigare e di intercettare nuove idee aprendosi soprattutto ai giovani, che andava a cercare e da cui riusciva a tirare fuori il meglio, spesso aiutandoli a capire e scoprire la loro vocazione «dietro lo sportello di una banca come Barolini, fra gli studiosi impegnati nel terzo mondo, come Meister, tra i banchi della scuola come Pampaloni, tra gli ultimi anarchici come Doglio e Fedeli, tra i perseguitati politici come Tulli, tra i reduci di Nomadelfia come Perego, tra pasticcieri come Strobbia o tra i ceramisti come Giorda. Parlava loro con grande umanità, ma, soprattutto, con estremo “pudore”, dimostrando molto interesse per il messaggio, piccolo o grande che fosse, di cui ogni uomo è portatore. Tutto ciò che era intelligente lo attraeva».

Adriano Olivetti non era un intellettuale o meglio non lo era con l’accezione che attribuiamo oggi a questa espressione. Era un industriale. Era un ingegnere di Ivrea. La sua terra condiziona il suo modo di vedere le cose: una società in cui individui e comunità si trovano in equilibrio, in cui l’individuo si trova realizzato nel suo essere parte della comunità e la comunità è la risultante dell’incontro di individui liberi che si esprimono sulla base di idee che sono state elaborate e informate. Idee e azioni.

Anche se amava circondarsi di volumi, di opere d’arte, rimarrà per tutta la vita un uomo di pochi libri, che però assimilava, faceva suoi al punto di provare un vivo bisogno di dividere con gli altri quella scoperta che gli aveva spalancato nuovi orizzonti, gli aveva suggerito idee feconde. La casa editrice Comunità nacque proprio per far divenire patrimonio comune le sue “scoperte”. Si pensi all’opera di Mumford da cui trarrà, come da una ghiotta miniera, tante “illuminazioni” sul valore

educativo, culturale dell’architettura, dell’urbanistica, sulla necessità di fondere armonicamente l’ambiente rurale e quello

urbano, di decentrare le facoltà universitarie nelle cittadine di provincia, di legarle finanziariamente alla Comunità e all’industria, e tante altre cose ancora. Tra i suoi libri cercheresti invano quelli storici, oppure il romanzo (che non fosse quello romantico francese). Non amava la musica più di quanto lo attraessero le arti figurative (anche se ne intuiva il valore rasserenante e formativo per altri, che riteneva più fortunati di lui). L’oggetto che più polarizzava la sua attenzione era sempre l’uomo: il suo destino, il suo futuro, il suo progresso, il modo di migliorare la condizione delle masse attraverso l’industria (non l’agricoltura tradizionale), magica creatrice e dispensatrice di ricchezza, che aveva fatto sì che, nel giro di pochi decenni, l’ultimo dei manovali delle sue officine si nutrisse meglio di un principe medioevale, abitasse in case confortevoli e venisse a lavorare con l’auto. Tutte cose che mezzo secolo prima “era follia sperar”. Non era raro il caso che Adriano convocasse un suo collaboratore solo per comunicargli di avere scoperto un libro “illuminante”. Tale fu il destino di quello di Bergson Le due sorgenti. (Vico Avalle, Ugo Aluffi, Pino Ferlito, cit.)

La sua relazione con i libri è mediata da esperienze completamente diverse. Ne individuo quattro che possiamo considerare la stratificazione dei suoi paradigmi ancestrali:

1. l’educazione alla lettura in famiglia condivisa con i genitori e i fratelli;

2. la lettura tecnica, volta alla fabbrica, nelle biblioteche americane durante il viaggio del 1925-1926;

3. l’inizio di una fase di lettura onnivora e asistematica che porterà alla formazione della biblioteca privata;

4. la lente dell’editoria, ovvero il supporto a numerose iniziative editoriali, la progettazione delle Edizioni di Comunità per portare in Italia ciò che non c’era. La consideriamo la costruzione della sua biblioteca ideale fuori da tracciati delineati e sentieri già percorsi per il rinnovamento culturale di cui il Paese aveva bisogno.

Questi quattro momenti rappresentano diverse fasi che raccontano una sorta di sedimentazione e di travaso e tutte e quattro concorrono alla definizione della sua idea di biblioteca come infrastruttura per lo sviluppo umano.

L’ambiente familiare influenza moltissimo lo stile e la personalità di Adriano. Influenza anche il suo rapporto con

i libri. La prima fase si concretizza proprio con il modo di leggere insieme trasmessogli in famiglia, l’abitudine di commentare i libri con i fratelli – Elena, nata l’anno prima di Adriano, nel 1900, Massimo più piccolo di un anno, del 1902, Silvia del 1904, Lalla del 1906 e Dino del 1912 – e di condividerne le suggestioni ricevute.

Il padre Camillo e la madre Luisa Revel così avevano formato i fratelli Olivetti. Questa attitudine fa sì che Adriano sia ben poco legato al libro come oggetto e aperto alle sollecitazioni più disparate.

La sera non si va più a letto alle nove e si parla di letture. È ancora Elena, la primogenita, a far spicco, a guidare il discorso.

È lei a buttarsi sulla letteratura russa, appena esce una nuova traduzione dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Ma si parla anche di Freud e di psicoanalisi, che già appassiona Elena, accanto all’occulto, al misterico. Gira anche un libro di interpretazione dei sogni e di astrologia. Adriano continua a subire il fascino della sorella maggiore, anche se mostra poco interesse per la letteratura. È da Elena che gli viene, o è alimentata nel momento determinante dell’adolescenza, quando i sentimenti prima che le idee si radicano fortemente, quella curiosità esoterica che lo accompagnerà per la vita, e che ha lasciato consistenti tracce nella biblioteca, nell’archivio personale, nel ricordo dei testimoni. Adriano leggerà presto il libro di Rudolf Steiner, I punti essenziali della questione sociale, critica spiritualista del capitalismo e, con il tempo, collezionerà una

trentina di libri dello stesso autore. Massimo, neppure di un anno più giovane di Adriano, più di Adriano è vivace: ama la letteratura, la musica, i divertimenti, suona il violino, anche se è assai mutevole di carattere e di salute. Lalla, la più graziosa,

diventerà la più egualitaria di tutti: sarà lei a introdurre i primi libri sulla rivoluzione sovietica, a sostenere che bisogna viaggiare assolutamente in terza classe. Dino, ancora bambino, ha altri orari e altri interessi. Di Silvia non parlo, perché da

lei vengono questi ricordi e per un senso di grande modestia non ha voluto dirmi di sé. Si sa però che ci teneva a far bene le cose, con puntiglio, a essere la prima della classe. Adriano e Massimo, il “fratello Max”, che allora sono molto vicini, fanno anche altre letture. Si passano la Fisiologia dellamore e alcuni libri di Paolo Mantegazza, ma la madre li requisisce e li brucia nella stufa. Camillo mette invece fra le loro mani il Self-Help di Samuel Smiles, una galleria di personaggi che si sono formati con una virile disciplina interiore. (Valerio Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia)

Se prendiamo come riferimento un altro rapporto familiare fortemente incentrato sulla condivisione del libro quale è quello di Giulio Einaudi con suo padre, il Presidente Luigi Einaudi, appassionato bibliofilo, qui siamo di fronte a uno scenario completamente diverso. Non è il libro nella sua oggettualità che interessa, ma lo scambio che esso rende possibile come oggetto relazionale e di crescita: la lettura.

Dunque, un primo strato che influenza il rapporto di Adriano Olivetti con i libri è l’ambiente nel quale cresce, l’atmosfera culturale di una famiglia doppiamente minoritaria, padre ebreo e madre valdese, dove domina un fortissimo spiritualismo.

Aveva ereditato la sensibilità religiosa ebraica da suo padre, sebbene Camillo non fosse praticante, e quella valdese da sua madre. Dopo la conversione al cattolicesimo, avvenuta in età adulta, ogni sera, prima di addormentarsi, leggeva qualche pagina del Vangelo, così come nei momenti di difficoltà ne apriva a caso una per trarne ispirazione […].

È dal padre Camillo, personalità colta ed eclettica, geniale, che Adriano eredita la visione della fabbrica come attività economica al servizio della vita sociale. Non dimentichiamo che nell’affidare ad Adriano l’organizzazione della fabbrica, Camillo gli aveva dato la precisa indicazione di poter fare qualunque cosa tranne licenziare qualcuno a motivo dell’introduzione dei nuovi metodi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia. È Camillo a introdurre nel nucleo sicuro e famigliare l’idea che, se il cuore di un uomo cambia il suo volto, tanti cuori e tante menti possono cambiare il mondo.

ARTICOLO n. 43 / 2024

PUNTUALI COME UN OROLOGIO

il mito delle mestruazioni

Nel 1945 lo scultore Abram Belskie, supportato dal ginecologo Robert L. Dickinson, realizzò due statue destinate a diventare famose. Le sculture, che vennero battezzate Normman e Norma, dovevano rappresentare le caratteristiche tipiche degli uomini e delle donne americane. Detto in altre parole, erano chiamate a raffigurare quei tratti – altezza, peso, conformazione fisica, muscolatura – che costituivano la media statistica della popolazione degli Stati Uniti, una sorta di rappresentazione visiva di ciò che voleva dire, in quel periodo e in quella zona del mondo, essere “di sana e robusta costituzione”. Non è un caso, infatti, che alla loro creazione contribuirono solo le misure prese su una certa popolazione, quella con la pelle bianca, senza disabilità o altre caratteristiche considerate devianti o non desiderabili. 

Quando, nello stesso anno, le due statue furono trasferite al Cleveland Health Museum, sul principale quotidiano dell’Ohio campeggiava un titolo: «are you Norma, typical woman?». Il giornale invitava le donne americane che si sentivano “vicine” alle forme di Norma a partecipare a un concorso: la concorrente con le caratteristiche più somiglianti a quelle della statua si sarebbe aggiudicata il primo premio. Come ricorda Sarah Chaney nel suo Sono Normale?, furono più di quattromila le donne che si iscrissero ma nessuna di loro, neppure la vincitrice Martha Skidmore, possedevano esattamente le forme o le misure di Norma. 

Gli standard di bellezza incombono sulla vita delle donne da secoli e, come la storia di Norma ci ricorda, sono nella maggior parte dei casi irrealistici. Essi non hanno a che fare solo con l’esteriorità ma diventano così pervasivi da inserirsi anche nei discorsi apparentemente più lontani, come quello sulle mestruazioni. Nel nostro viaggio intorno ai miti su cui si è costruito un certo ideale di femminilità non possiamo quindi non soffermarci sul rapporto – stretto, intricato e quasi sempre sbagliato – tra il concetto di normalità e quello di ciclo mestruale.

All’età di quindici anni il ginecologo da cui mia mamma mi aveva portato a causa di un ciclo irregolare e doloroso mi prescrisse la pillola contraccettiva. Quel giorno e in tutte le visite successive, il medico si affrettava a ricordarci che la “terapia” aveva una funzione regolarizzante: sarebbe servita, cioè, non solo a prevenire gravidanze indesiderate ma anche a curare uno dei sintomi più noti della sindrome dell’ovaio policistico, le mestruazioni scombinate. Assumendo regolarmente quei confetti colorati, ventotto giorni dopo si manifestò quello che per me, abituata a cicli quadrimestrali, aveva tutta l’aria di essere un miracolo: un flusso regolare. Dopo anni di disagio e dolore, quelle mestruazioni rappresentavano la svolta. Nessuno mi aveva detto, però, che non erano affatto delle mestruazioni ma un semplice “sanguinamento da sospensione”. Che cosa sia, un sanguinamento da sospensione, lo spiega bene Laura Tripaldi inGender tech: «Esistono varie tipologie di pillole contraccettive ma tutte (…) agiscono attraverso una soppressione del processo di ovulazione. Questo significa che, per una persona che prende la pillola, non esiste alcun “ciclo mestruale” da regolarizzare: l’assunzione sopprime la variazione ciclica degli ormoni che determina tanto l’ovulazione quanto la mestruazione». Il medico che mi spiegava i benefici della pillola nella regolarizzazione del ciclo mi aveva detto una falsità, ma ho potuto scoprirlo solo molti anni dopo anche grazie agli studi compiuti in autonomia. Tante donne, oggi, ricevono ancora la stessa informazione sbagliata, e non da amiche o dottori disinformati: tra le FAQ del sito del Ministero della Salute è riportato chiaramente che la regolarizzazione del ciclo «rappresenta uno degli effetti positivi che svolge la pillola».

Le mestruazioni sono, oggi, forse l’unico tabù rimasto. Se è vero che possiamo parlare praticamente di tutto, dal porno alla morte (non importa, in questa sede, in che termini se ne discute), è altrettanto vero che il tema del sanguinamento mestruale resta fuori da qualsiasi discorso, come se non riguardasse direttamente circa la metà della popolazione mondiale. Nel volume Ciclo, la docente Kate Clancy ripercorre le tante credenze che si sono via via sedimentate intorno alle mestruazioni. Se, per Aristotele, esse costituivano la materia – inerte, fredda e passiva – che gli spermatozoi “attivavano” nel momento del concepimento, durante il Medioevo diventano il pretesto per accusare le donne di essere pericolose: si raccontava, per esempio, che le persone mestruanti fossero in grado, a causa dei vapori esalati, di avvelenare i bambini in culla. Non è un caso che proprio in quegli anni la visione intorno al potere “mostruoso”, contenuto in ciascuna donna, si radicalizzi, costituendo il pretesto per fomentare la paura della stregoneria, ma su questo torneremo poi.

L’idea che le mestruazioni possano essere pericolose è radicata nel concetto di tabù, che ancora connota la discussione intorno a questo argomento, a qualsiasi latitudine. Per la giornalista Élise Thiébaut, autrice di Questo è il sangue, la parola “tabù” sembra essere stata coniata a partire da due termini polinesiani che significano “marchiare” e “intensità”. Il termine rimanda quindi a un segnale, a un tratto distintivo che indica un pericolo. Thiebaut fa notare la natura ambivalente del concetto, «dato che designa sia ciò che è proibito e impuro sia ciò che è sacro, misterioso, investito da un potere divino». Clancy, che nel testo già citato riprende queste considerazioni, osserva come gli antropologi occidentali, nel riportare il significato di questa parola, che deriva dal termine polinesiano indigeno “tabu” o “tapu”, si siano concentrati soltanto sull’idea di pericolo e proibizione, ignorando il suo legame con la sacralità.

La versione parziale del concetto di tabù, unita a un approccio scientifico che ha guardato alla fisiologia della donna con disprezzo o diffidenza, ha contribuito a portare quelle bizzarre teorie sulle mestruazioni fino ai giorni nostri. Negli anni Venti del secolo scorso, il Dottor Schick teorizzò la presenza di una tossina particolarmente tossica, la menotossina. Il luminare arrivò a provare la sua ipotesi mediante un esperimento. Pose due fiori in due vasi diversi, entrambi riempiti con acqua distillata, ma in uno diluì una piccola quantità di sangue venoso, nell’altro la medesima concentrazione di sangue mestruale. Nonostante i fiori fossero stati recisi e immersi nel vaso nello stesso preciso momento, quello a bagno nella soluzione contenente sangue mestruale appassì velocemente. Il medico aveva trovato una motivazione in grado di spiegare perché fosse opportuno, per le mestruanti, non evitare contatti con il resto della comunità.

Ben prima dell’esperimento del dottor Schick, l’atavica paura nei confronti del sangue mestruale aveva portato alla creazione di pratiche misogine e dannose, come quella del Chhaupadi, in Nepal, che consiste nell’isolare le donne in apposite capanne, molte delle quali senza servizi igienici o coperte, perché si crede che il sangue espulso sia nocivo. Si tratta di tradizioni dichiarate fuorilegge, ma che nei fatti continuano a essere osservate, esattamente come, in Occidente, si ritiene ancora che chi ha le mestruazioni faccia impazzire la maionese o non possa lavarsi per evitare di incorrere in emorragie.

Oggi questi stereotipi sono in larga parte superati, quello che resta ancora da fare è fuoriuscire dall’idea che le mestruazioni debbano essere “normali” per essere accettate. Come ricorda Clancy, non sappiamo ancora perché si manifestino indicativamente una volta al mese, considerando il dispendio di energie che il cervello deve impiegare per gestire le complesse pratiche di cui il ciclo si compone, come monitorare i livelli ormonali, formare e sfaldare l’endometrio, ecc. Molti studi dimostrano come il sangue mestruale «possieda importanti proprietà di cura e riparazione quando si trova in utero». Tuttavia, il ciclo, nella sua durata e nelle sue manifestazioni, è fortemente influenzato da fattoriindividuali – sia fisici, come l’età di arrivo del menarca, che psicologici, come la relazione con i caregivers – e sociali. Essere esposte a esperienze sfavorevoli infantili, far parte di categorie marginalizzate e discriminate, subire lo stigma grassofobico o gli stereotipi che ancora si associano alla cosiddetta “sindrome premestruale” influisce negativamente sul modo in cui il ciclo si manifesta.

Presentare il ciclo mestruale (che, come ci ricorda la studiosa Anna Buzzoni in Questo è il ciclo, è solo uno dei tanti cicli che gli esseri umani sperimentano nell’arco della vita) come qualcosa di monolitico, che accade regolarmente a tutte le persone assegnate femmine alla nascita, avulso dal altre esperienze endogene o esogene, significa contribuire a costruire una specifica idea di cosa voglia dire essere una donna… una donna “sana”, cioè “normale”.

Nel suo funzionamento, la pillola contraccettiva sopprime il ciclo mestruale ma mantiene l’esperienza del sanguinamento, in realtà totalmente inutile, per dare la percezione che esso si manifesti secondo i ritmi dettati dalla natura. Rubricare tutte le altre modalità in cui il ciclo accade definendole “irregolari”, anche in assenza di particolari condizioni mediche, rappresenta il tentativo di normare un certo ideale di femminilità, che risponde ai consueti dettami culturali: fertile, controllabile e innocuo. Tutte le soggettività che non rientrano in questi parametri sono mostruose (esattamente come lo erano i corpi delle streghe, tema intorno al quale la studiosa Francesca Matteoni dedica gran parte della sua ricerca) e pertanto da ammaestrare o punire. 

Riflettere sulle mestruazioni, normalizzando la loro presenza nei nostri discorsi, non significa solo liberarsi di preconcetti e tabù: significa anche accogliere l’estrema variabilità di cui la natura sa rendersi portatrice.

ARTICOLO n. 42 / 2024

CIÒ CHE MI MANCA. L’OASI, LA GIUNGLA, LA LETTERATURA

I

In Harry a pezzi (1997), mentre Woody Allen scende in ascensore verso il fondo dell’inferno, una voce registrata dice: «Quinto piano: borseggiatori della metropolitana, mendicanti aggressivi, critici letterari».

E io non so se sia vero, ma anni dopo, durante una cena a margine delle riprese di To Rome with Love (2012) cui era stato invitato, un critico letterario di mia conoscenza sostiene di aver chiesto conto ad Allen di questa battuta. Il mio conoscente trovava che quell’umorismo fosse intollerabile, perché la critica letteraria («Almeno quella fatta bene») sarebbe a suo dire più o meno l’opposto della malafede, il contrario dell’inganno, addirittura «l’unica forma di discorso in cui la cattiveria coincide con la pietà».

Woody Allen, stando a questo resoconto, nemmeno ricordava di aver fatto quella battuta, ma incalzato riconobbe che, se anche aveva esagerato, comunque il suo bersaglio non era la disciplina in sé e per sé, ma i suoi atleti – non la critica letteraria, ma i critici: almeno alcuni, e specie gli assenti.

Il critico letterario gli chiese di essere più preciso.

Allen bevve a garganella un calice di vino, sorrise con garbo, cambiò argomento: «Perché siamo qui?», chiese imbarazzato. «Di cosa parliamo veramente quando parliamo di libri? Il pistacchio di Bronte è poi così diverso dal pistacchio comune?»

Vera o falsa che sia, questa storiella penso dica qualcosa di importante sul posto che chi fa critica letteraria ricopre oggi nella società. È il posto del prete ubriacone: se puoi non lo inviti, se parla non lo ascolti, e ti dà l’impressione di predicare ai convertiti anche quando si lancia in imprese missionarie. «Se questi sono i preti», ti fa pensare, «allora forse sarebbe meglio che restassero nelle chiese».

Appena esce dai luoghi in cui la sua legittimità non è posta in questione – università, pagine dedicate sui quotidiani, riviste di settore, alcuni blog, qualche profilo social –, la critica letteraria viene insomma mal sopportata. La si ignora, la si fraintende, la si spernacchia senza indugi. Perché?

La prima risposta è senz’altro nella marginalità in cui, prima della critica, versa oggi la letteratura. Quando ci viene voglia di scrivere pubblicamente, le strade sembrano tre: rivolgersi a una nicchia, svilire il messaggio, tacere. La cosa suscita talvolta una specie di compiacimento della decadenza, sembra quasi dolce non importare a nessuno, e inevitabile (se non virtuoso) anteporre il marketing a tutto il resto, ma forse l’accento andrebbe posto su ciò che ognuno può fare per cambiare questa situazione.

Letteratura e critica sono più marginali di quanto potrebbero.

Ciò che mi manca è un margine – angusto, inestimabile – su cui lavorare: riuscire ad affermare che no, non sono un prete, né vorrei esserlo, ma credo valga la pena di parlare di letteratura con semplice serietà.

Dov’è che sbaglio? Perché?

Ne parlo spesso con un’amica più esperta di me, una critica letteraria dell’università che ogni tanto scrive anche sui giornali. Io ho ventisei anni, lei una sessantina. La vado a trovare una volta a settimana. Ordiniamo una maxi-pizza, due birre, una coca, e mangiamo chiacchierando sulla penisola di marmo: poi ci spostiamo sul divano di pelle. Accendiamo la consolle e passiamo ai discorsi seri.

L’altra sera abbiamo provato EA FC 24 sulla Playstation 5 che si è regalata per il compleanno. Io le ho chiesto com’è che siamo arrivati a questa situazione. Lei mi ha esposto la teoria delle tre morti.

«Il problema, Anto, è che negli ultimi trent’anni siamo morti tre volte, e chi se ne accorge cerca di agonizzare con dignità», ha detto la mia amica guardando entrare in campo la mia Juventus e il suo Real Madrid. «Mentre gli altri, tutti gli altri, parlano a una piazza vuota».

«Però chi muore poi rinasce, a quanto pare», ho detto rincorrendo Brahim Díaz.

Vlahovic per Chiesa, sponda a Rabiot, doppio passo, lancio verso Cambiaso – fuori. Peccato.

«La prima volta siamo morti negli anni Novanta. Non sapevamo più in cosa credere, a che titolo parlare. Quando non sai cosa dire né come dirlo l’industria ha campo libero. Era finita la Storia, figurati la critica: restavamo noi. Gli specialisti disorientati di una specialità di cui nessuno sentiva più il bisogno… ‘fanculo!»

Uno a zero per me. Danilo su ribattuta.

«Era fuorigioco».

«Avanti: qual è la seconda morte?»

Silenzio. Una partita sporca, tutta falli a centrocampo.

«Embè?», ho detto dopo un po’, cercando di marcare Vinicius Jr. con Rugani.

«I blog, Anto – i blog. Che sembravano un fermento inaudito, e poi era una guerra tra bande. Quando il conflitto non si fa nell’interesse generale, l’industria ha campo lib– tie’, sotto il sette! Palla al centro».

«… dicevi?»

«Dicevo che le tue sono banalizzazioni. Tu vuoi fare il risotto con la nutella, e non si può».

La partita è finita 4 a 1 per lei, e comunque la terza morte sarebbero i social network: se tutti parlano è come non parlasse nessuno, la critica si riduce a pubblicità, eccetera. Tutto giusto, ma mi sembra che la mia amica – da critica universitaria piena d’esperienza quale è – abbia un po’ nostalgia dell’autorevolezza che ha dovuto rispettare nei suoi maestri. Trovo che la nostalgia sia quasi sempre sospetta. E secondo me essere ritenuti autorevoli a prescindere è persino più brutto che restare sconosciuti ingiustamente.

Di queste cose mi capita di parlare anche con un mio coetaneo che fa l’influencer di libri (28.000 follower). Ci incrociamo in biblioteca e, anche se siamo molto indaffarati – io leggo perché devo, lui perché gli va –, ogni tanto ci prendiamo un momento per noi. Mi invita nel suo bilocale. Mangiamo insieme.

«Ma quindi non vivi in una stanza damascata con i micetti e le tisane?», dico per sfotterlo un po’.

Poi, dondolandomi sul sedile da gamer che mi presta per pranzare, gli infliggo la mia idea.

“Tutto fumo e niente arrosto” sarà pure lo slogan dell’impostura, dico, ma “tutto arrosto e niente fumo” rischia di diventare l’epitaffio dell’intelligenza mal spesa. Ciò che mi manca è una quantità di fumo commisurata al peso dell’arrosto: una scrittura che faccia i conti con il fatto che nessuno è tenuto ad ascoltarla, e proprio per questo cerchi di non annoiare (o impressionare) nemmeno chi la seguirebbe in ogni caso; un discorso che non abbia paura di essere interessante, ma si imponga di esserlo (si consenta di esistere) solo quando può cogliere le cose alla radice. Ben venga il fumo che valorizza l’arrosto!

Appena pronuncio questo strambo motto, il mio amico mi interrompe a bocca piena.

«’tto wronzo, ’ta’ wiwi-hando i’ wio wavo’o!», dice sputacchiando risotto e funghi.

«Eh?!»

Inghiotte, mi guarda infastidito. «“Tutto fumo e niente arrosto”, dici? Stai criticando il mio lavoro!»

«Ma va’…»

Ehm ok forse un pochino, penso tra me. Ma ti prego, non chiedermi di argomentare!

«Sì invece. Qual è il punto? Né con i tromboni, né con i televenditori. Io, per te, sarei il televenditore».

Silenzio. Non ce l’ho con lui, però in effetti la penso all’incirca così.

«Bah» dico però. «Una volta tanto sarei per la via di mezzo…»

«Non c’è una via di mezzo. Lo sai che ci sono piccole fabbriche di bulloni che fatturano più delle maggiori case editrici? O l’oasi protetta o la giungla: non c’è altro. O il privilegio o il mercato: se tutti ragionassero come voi, domanda e offerta si ignorerebbero a vicenda».

Voi chi?, vorrei chiedere, ma il risotto ai funghi non mi è mai sembrato così triste. Non so più cosa dire.

Sono nato nel 1998, sto per finire un dottorato in letteratura italiana tra Università di Pisa e Sorbonne Université, scrivo su riviste cartacee e online, il mio primo romanzo uscirà per Einaudi a settembre del 2024. Quando ho invitato a cena la mia amica accademica e il mio amico influencer, le cose sono andate più o meno come all’inizio di Kill Bill volume 1: mazzate, mobili all’aria, pause sornione quando mi affacciavo dalla cucina. Eppure, senza saperlo, concordano su un punto: entrambe credono che non ci sia alternativa alla condizione del prete ubriacone. Solo che poi l’accademica si chiude in convento, e l’influencer spretato scarica Tinder. Ciò che mi manca è un modo per non fare né una cosa né l’altra.

II

Due volte, nell’ultimo anno, per via della critica letteraria mi sono trovato coinvolto in risse social violente e inaspettate. La prima volta avevo analizzato criticamente Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi (Laurana 2022); la seconda avevo espresso perplessità su come si discute a RicercaBO, storica rassegna dedicata agli scrittori emergenti cui ero stato invitato per leggere un estratto del mio romanzo.

In entrambi i casi ho fatto come mi diceva il mister quando giocavo a pallone: no al fallo, sì al contrasto. Mi mancava la possibilità di dire che le cose belle possono anche avere dei difetti. L’ho detto con tutta la mia parzialità, senza presumere di avere ragione: perché stiamo celebrando un capolavoro che – secondo me, e per questi motivi – non c’è? Perché ribadiamo stanche ortodossie anziché valutare i testi per quel che sono? Non volevo essere scorretto, ma neppure ero disposto a tirare indietro la gamba.

«Se così tanta gente reagisse ai miei lavori potrei anche vomitare», mi ha detto la mia amica accademica.

E l’influencer di libri: «Bello, bravo. Ma eravate quarantaquattro gatti in fila per tre con il resto di zero. Sicuro che non ti stai rivolgendo ai due liocorni?»

Le discussioni che ho suscitato, per me, sono state in gran parte infruttuose, simili com’erano allo scandalo per la lesa maestà. Ma credo che sia valsa la pena di suscitarle: c’è stato anche un dibattito più serio, grazie al quale ho avuto una piccola conferma del fatto che, per quanto sarebbe ragionevole lamentarsi della propria marginalità o arroccarsi su di essa, un margine scomodo ma prezioso c’è ed è abitabile – ci sono persone che, se solo riesco a raggiungerle, mi parlano e ascoltano, mi mettono in crisi.

Per raggiungerle in modo sensato, però, mi sembra che occorra rifiutare tanto il privilegio quanto il mercato, cioè tendere a un’idea di normalità che includa il conflitto come una cosa scontata, doverosa, e rifiuti di agire sulla base della prudenza strategica o del tornaconto privato.

Ci vuole conflitto, ecco, e deve essere disinteressato.

Avete presente le frecciatine sui social, le recensioni d’opportunismo o di cortesia, gli sfoghi, le lagne, i deliri culturalistici spacciati per avanguardia, il carrierismo mascherato da meticolosità, le raffinatezze che sanno di polvere e muffa, l’enfasi che nasconde il vuoto di contenuto, l’intransigenza così ostentata da somigliare al settarismo, la licenza autobiografica che diventa prigionia ombelicale?

Ecco: anch’io talvolta rischio di fare molte di queste cose, ma ci vorrebbe (credo) l’esatto contrario – e dirlo mi sembra tanto ingenuo quanto necessario.

Perché il punto, secondo me, è che non dovremmo mai essere noi che scriviamo o studiamo, ma sempre e soltanto ciò di cui proviamo a parlare: perché i libri non sono un monumento a chi li scrive (o a chi li pubblica, o a chi ne parla), ma uno dei più preziosi terreni comuni che abbiamo.

III

E insomma. Io provo a dire queste cose, ma in realtà non ho ancora trovato una mia misura: lavoro per l’università, ma non credo che ciò che finora ho prodotto faccia di me un buon critico accademico; cerco di scrivere sulle riviste, ma tendo spesso a complicare indebitamente le cose. La mia certezza è che, più di tutto, mi interessa scrivere romanzi (non tanto fabbricare risposte, quindi, se non esprimendo delle contraddizioni); e per il resto, di solito, uno dei miei limiti è non saper fare molto di meglio che rivendicare inappartenenza e disorientamento.

L’altra notte, però, il folletto che si siede sulle pance degli indisposti – le orecchie a punta, le dita nodose – è venuto a trovare anche me. Mi ha sorriso, mi ha accarezzato. Provavo a scacciarlo ma non lo raggiungevo. E lui, saltellando sul mio stomaco, mi ha lasciato sul lenzuolo un foglietto piegato in quattro. L’ho aperto al mattino: era una specie di strana ricetta.

Risotto con la nutella (una terza via tra l’oasi e la giungla):

  • Riso 500g;
  • Nutella qb;
  • Analisi scanzonata e parziale del campo letterario.

Be’, la Nutella ce l’ho, il riso pure… e così il quadro, semplificando a tremolaterra, mi sembra questo: la critica universitaria è autorevole, ma spesso respinge perché non sa (e a volte non può) uscire dai propri codici; la critica sui giornali è interessante, ma spesso superficiale e d’occasione; la critica sui blog è libera, ma troppo contenta di rivolgersi a una nicchia; la critica sui social è divertente, ma spesso – anche a malincuore – si limita a dire «Va’ che bello, garantisco!». Non voglio straparlare, so di fare un torto alle eccezioni meritevoli e me ne scuso, ma mi sembra che le tendenze egemoniche siano più o meno queste. (il folletto sorride, sorride, mi approva e mi spalleggia).

Poi certo, parlare a tutti non si può, i lettori sono pochi… ma il problema è che, in contesti anche molto diversi tra loro, io stesso alle difficoltà oggettive rispondo troppo di frequente con scelte di comodo, anche se ogni esempio ha poi un controcanto. Di seguito racconto tre aneddoti che mi sono realmente capitati – uno sui giornali cartacei, uno sull’università, uno sui blog; se non vi interessano, saltateli pure.

Primo aneddoto. Il romanziere in rampa di lancio e la mangrovia bonsai

Io: «Ciao caro, ti scrivo perché ho letto il tuo articolo sulle rappresentazioni letterarie dell’inquinamento a Kuala Lumpur e non sono d’accordo con la tua tesi. Come fai a dire “basta coi romanzi d’invenzione sfrenata, ma documentati come inchieste” e “dateci più polizieschi erotico-esotizzanti”? Non capisco!»

… passano ore…

Io: «Ci sei? Non volevo essere aggressivo, scusami, però è una questione a cui tengo molto».

Lui: «Galetta, ciao! Sono opinioni: rispettiamocele a vicenda. Davvero dobbiamo litigare per dei libri?»

… non passa mezzo minuto…

Io: «Certo che dobbiamo litigare! E proprio perché sono opinioni».

Lui: «Senti, non mi ritengo responsabile di ciò che ho scritto. La redazione mi ha commissionato l’articolo e mi ha detto che tesi sostenere. Tra l’altro quei polizieschi fanno schifo anche a me…»

(Qui, leggendo, penso: “Ma se li scrivi anche tu!”, e poi mi vergogno perché non è vero: mi fa comodo pensarlo, ma in realtà il romanziere in rampa di lancio è un artista che stimo)

Sempre lui: «… mi interessa stare su quel giornale. Fa bene ai miei libri, e intanto guadagno due spicci. Non credo che della letteratura importi una mangrovia bonsai a qualcuno, quindi ciccia».

Controcanto

Diverse persone di mia conoscenza non sono più state contattate dai quotidiani nazionali dopo aver difeso o rifiutato di esprimere un’idea.

Ipotesi e domanda

Sui quotidiani nazionali la critica letteraria può essere condizionata da interessi aziendali o privati, dalla linea editoriale o da valutazioni d’opportunità. Qual è la giusta misura del compromesso?

Secondo aneddoto. La dottoranda e la prudenza

Convegno all’Università della Transnistria del Nord, cena sociale. Sono molto incuriosito dal progetto di ricerca di una dottoranda che non conoscevo, sulle rappresentazioni della caccia nella letteratura scandinava del XII secolo. Domando, domando, fingo di saperne qualcosa. Mi sembra assurdo e meraviglioso che un argomento così astruso possa nascondere tanta complessità.

«… e quindi so che è un po’ palloso, ma la spartizione della selvaggina, secondo me, è un topos non tanto lontano dal nostro… dal nostro… oh. No, niente. Lasciamo stare. Chi hai detto che è il tuo tutor?»

La dottoranda guarda il piatto come avesse appena commesso un errore stupido e grave. «Scusa, non è il caso», dice poi. «Questa cosa non l’ho mai detta a nessuno. Preferisco conservarla per la tesi».

«E va be’, ma io studio il romanzo italiano di oggi, figurati se…»

«Non mi va. Ho paura che qualcuno mi rubi l’idea e la pubblichi prima di me. Non tu, eh! Ma ho paura».

Controcanto

Una persona di mia conoscenza ha inviato la propria tesi di laurea a studiosi più esperti per averne un parere. Gli studiosi più esperti l’hanno plagiata senza citarla.

Ipotesi e domanda

L’università chiede di produrre a ciclo continuo una critica letteraria che rispetti molti vincoli formali, e di custodire i propri lavori inediti come un’azienda assediata dalla concorrenza custodisce le invenzioni non ancora brevettate – ma le pubblicazioni richiedono mesi (se non anni), e spesso hanno una circolazione che tanto valeva mandare una mail agli interessati. Qual è la soglia oltre la quale la prudenza degenera in paranoia, e il desiderio (la necessità) di confronto diventa sventatezza autolesionista?

Terzo aneddoto. Incagli e disincagli su sfondo blu cobalto

«Anto, forse non dovrei dirtelo, però Blogger mi sta troppo sul culo. Sai Scrittore Inedito? Blogger ha rifiutato di pubblicargli un racconto».

«Aspe’, dici Incagli e disincagli su sfondo blu cobalto? L’ho letto, mi è piaciuto».

«E certo! Blogger è il primo fan di Scrittore Inedito, solo che ora è in rotta con Controblogger: teme che se pubblica Scrittore Inedito (autore storico di Controblog), Controblogger monti un altro casino».

«Be’, che monti ciò che vuole. Qual è il problema? Già non pagano una lira…»

Silenzio. Vengo guardato con compassione e ironia.

«Blogger ha paura di essere delegittimato a forza di retorica. Un po’ lo capisco, ma Incagli e disincagli è un mezzo capolavoro – ci metterebbe niente a finire sul podio annuale di Rivistina Neglettuccia! E Blog, al di là di tutto, sarebbe la sede perfetta: è un peccato che finisca altrove per paura della critica…»

«Mmh. Perché non ne parli con Blogger?»

«Io? Ma di questa storia non dovrei sapere niente! Me l’ha detta il Viceblogger di Blog, in confidenza…»

Controcanto

Blogger e Controblogger svolgono un lavoro fondamentale e impagabile di selezione e pubblicità. Senza di loro, la letteratura italiana sarebbe un’altra cosa: forse meno plurale, di certo più istituzionalizzata.

Ipotesi e domanda

Sui blog i giudizi di valore sono spesso in odore di lite tra paesani. Come bucare questa bolla?

Cos’altro? Mi ricordo di quando, durante una riunione di redazione di uno dei principali periodici nazionali dedicati alla letteratura, un articolista chiese «Ma a chi ci stiamo rivolgendo?», e la direzione rispose «Non lo sappiamo». Mi viene in mente quel che dice la (secondo me) più brava scrittrice della mia generazione: che niente, per chi scrive, è difficile quanto ricevere un parere sincero sui suoi sforzi.

Tra la letteratura e la società, insomma, c’è di mezzo la società letteraria, ma il problema di questo gruppo intermedio è che chi ne fa parte spesso non vede le persone diverse da sé: parliamo a noi stessi o a target più merceologici o astrattamente culturalistici che umani, non sappiamo mediare con chi non condivide i nostri codici, e anche per questo siamo più marginali di quanto potremmo.

Il punto, però, è che a fare le spese di questa situazione non sono soltanto (né principalmente) gli scrittori, i critici universitari, i recensori, i blogger, gli influencer o i cosiddetti lettori forti.

Sono, piuttosto, le persone simili a quella che io stesso ero ancora pochissimi anni fa, e che in parte sono ancora oggi: è chi avrebbe anche certe curiosità, certe domande, e forse più entusiasmo che mezzi, e una disponibilità genuina e acerba a vivere la letteratura come un’occasione per conoscere il mondo e arricchire o mettere in crisi la propria esperienza, ma non possiede gli strumenti necessari a decodificare certi linguaggi, non ha avuto il tempo di mettere a fuoco la ragion d’essere di certi problemi o i retroscena di certi cinismi. Io ho avuto la fortuna di andare all’università e di frequentare persone più lucide di me, ma sono cresciuto lontano da ogni metodo e quasi da ogni libro: da un certo punto in poi non ho fatto altro che scrivere e leggere, ma se fossi stato solo un po’ più sfortunato non avrei capito granché di ciò che sia oggi in Italia la letteratura – avrei continuato, più che altro, ad avere l’impressione di un deserto dove ci si ammazza per la sabbia, di un vuoto coperto dall’ego ancora più vacuo degli scrittori, di una corsa senza senso a chi sparisce più in fretta dalle librerie.

Queste immagini così comuni sono desolanti quanto superficiali (oltre che false in buona misura), e che circolino così tanto è un vero peccato: ciò che mi manca è una critica rigorosa ma interessante, delle voci umili quanto intransigenti, un dibattito che almeno provi a suggerire anche a chi non ne sa niente che la letteratura attuale esiste ed è viva anche al di là delle pressioni del mercato e dell’autopromozione di chi la scrive.

Di questa vitalità provo a parlare in concreto ogni giorno nei modi che posso, e qui parlo in astratto – e obbedendo al folletto – di ciò che secondo me la ostacola e la nasconde. Poi vabbe’: è ora di pranzo. Accendo il gas, verso la cannella nel burro. Peso il riso e lecco la crema di nocciola dal mignolo. Mezz’ora dopo ho rovinato una padella. Mi sa che la mia analisi era tutta sbagliata.

IV

Balzac, da qualche parte, scrive che la felicità è poter dire ogni cosa con la certezza di essere compresi.

Questa frase mi commuove. So che il diritto di dire tutto e la garanzia di non parlare a vuoto non piovono dal cielo, e so che non basta protestare contro un linguaggio per creare di colpo un contesto comunicativo diverso. Ma credo anche che chi scrive o studia la letteratura sia un membro della società come gli altri (non deve mettersene al di sotto, non può porsene al di sopra, muore ogni volta che scarta di lato); e quando ci penso capisco una cosa: ciò che mi manca più di tutto è la capacità di ricominciare ogni volta da capo, in ogni testo e ogni frase. Vorrei saper sempre parlare come se ci incontrassimo per la prima volta al bar e stessimo per morire di lì a poco – mi piacciono gli aperitivi, d’accordo, e soffro un po’ di horror vacui; ma magari, in punto di morte, mentire e sproloquiare mi verrebbe più difficile.

Che bello sarebbe! Hai due minuti per dire le cose fondamentali a un altro essere umano… provi a dirle con seria semplicità… ti sbagli, vieni frainteso e (diciamo che) va bene così.

Poi muori e tutto si fa più distante, manca la voce. Lo sfondo diventa scena e la scena diventa sfondo. Non è che ti dissolvi: aleggi. E non è che scompari: ti rarefai. Premi ovunque e tutto preme su di te. Ti sembra che ciò che ti è sempre mancato sia un modo per essere intero. Ti accorgi che, malgrado i buoni propositi, sei caduto ora nel sussiego ora nella sciatteria, ora negli opportunismi ora nell’ortodossia, e tanto hai rincorso la tua libertà che alla fine sei diventato schiavo della tua rincorsa.

E poi lo senti, lo sai. Presto precipiterai per conficcarti nel tuo posto: al quinto piano dell’inferno, tra mendicanti aggressivi e borseggiatori del metrò.

Satana sorride, il risotto con la nutella è quasi pronto.

«La morte sua», ti dice sghignazzando tra palme e liane, «è una spolverata di pistacchio comune».

ARTICOLO n. 41 / 2024

SALVARSI IN TEMPI OSTILI

Antonio donghi a palazzo merulana

Prima di raggiungere Palazzo Merulana, andrebbe attraversata per quasi tutta la sua lunghezza l’omonima via nel cuore dell’Esquilino. Partendo dal teatro Brancaccio giù verso piazza San Giovanni, via Merulana appare infatti come una strada autenticamente romana, ma al tempo stesso profondamente distante da ogni forma di retorica romanità. Al centro di un’infinita aneddotica storico-artistica, via Merulana è un chiassoso e confuso viale dentro al quale i destini dei suoi abitanti e di chi la attraversa s’incastrano di continuo, in un movimento fatto di ritmi diversissimi: facile inciampare l’uno nell’altro. 

Tra attraversamenti impavidi, frenate improvvise, sirene che sembrano casuali e prive dell’urgenza di un malessere reale, prende corpo metro dopo metro l’idea di un rumore ossessivo e impossibile da arginare. Un caos naturale che vive in uno spazio ampio e ventoso come solo certe strade in discesa fatte di corsa sembrano poter presagire. Una regolarità topografica, un viale alberato elegante che non stride però con il confuso flusso vitale che con rassicurante placidità viene invece affettuosamente accolto. 

Un rumore e un’ampiezza che si esauriscono una volta all’interno della piccola e intima esposizione dedicata, al secondo piano di Palazzo Merulana, ad Antonio Donghi. Poco più di trenta opere, un silenzio icastico rotto solo da un gruppo in gita che subito però si muta, colto alla sprovvista dagli sguardi insistiti dei personaggi donghiani, ma anche dalle richieste di un paio di puntuali custodi. Antonio Donghi. La magia del silenzio curata da Fabio Benzi è un’occasione rarissima e preziosa per poter ammirare il grande artista romano che fu tra i più apprezzati della sua epoca, quando i suoi quadri, esposti a New York alla fine degli anni Venti, venivano contesi nelle aste americane e appesi nei salotti dei più illustri collezionisti d’oltreoceano. 

Priva di ogni forma di solerte nostalgia, la mostra è una riflessione attorno alla forza di quel realismo magico che vide Donghi tra i più brillanti esponenti della corrente pittorica. Una tensione fortemente attraversata da ironia, come si può cogliere nell’emblematico dipinto Mussolini a cavallo del 1937, in cui a vincere, più che l’imperio, è il ridicolo di un dittatore dal pretenzioso profilo statuario. Lo spazio del museo è a tratti claustrofobico, si passa a pochi centimetri dalle opere. E questo, invece che predisporre al caos, offre una possibilità inedita di cura e attenzione. Ci si guarda rapidamente negli occhi con gli altri visitatori, si porge il passo per restare poi attoniti davanti alla grazia e all’insistenza degli occhi che, bucando le tele di Donghi, dagli anni Trenta arrivano fino a noi. Figure che rivelano un sentimento di malcelato abbandono, lo stesso che coglie evidentemente noi e loro in un tempo per quanto ormai post, eternamente moderno e quindi infinitamente tecnico e sfuggevole. La modernità di Antonio Donghi sta proprio nell’inganno di prodursi in una ricca ritrattistica del popolare: lavori umili, semplici, che rivelano però l’attenzione per uno stato psichico inedito. 

Siamo nel pieno splendore di una rivoluzione industriale compiuta, ma solo ora la tecnologia sta mutando da mero strumento a elemento portante dell’umano. E l’ironia dello sguardo, e il suo imbarazzo, sembrano così far dialogare a distanza di circa cento anni generazioni diverse, nipoti e trisavoli. Uno sguardo difficile, peraltro, da sostenere. In questo aiuta la misura della mostra, i suoi spazi raccolti e il desiderio compulsivo che si genera di tornare e ritornare sulle opere. Vedere e poi rivedere ancora, ricercare nei particolari un motivo, una possibile scusa per salvarsi, noi con loro, in un tempo così profondamente ostile. 

Le opportunità si confondono con i pericoli, allora come oggi, quasi un unico tableau vivant in cui rispecchiarsi a figura intera, trattenendo il respiro. Gli oggetti sono quelli d’uso comune, un paio di forbici abbandonate, una canna da pesca, un vaso di fiori e un cilindro, tutto è ben disposto come a disposizione di un’indagine. Anche i bellissimi dipinti di paesaggi infatti offrono una prospettiva precisa ed elegante, che va al di là di un’esigenza di composizione e che diviene vero e proprio strumento d’analisi di ciò che resta negli occhi dopo tanto obbligato silenzio. 

Così avviene in uno dei più famosi dipinti di Donghi, Il giocoliere del 1936, che ferma lo sguardo in perenne sospensione. Il giocoliere è ritratto di profilo, in surplace mentre sostiene un cappello a cilindro con una canna serrata tra le labbra. Il palmo della mano, totalmente aperto al centro del quadro, diviene il punto focale oltre che d’equilibrio di un gesto che permane, offrendo forse la parte più erotica e umana in perfetta simmetria con la forma affusolata di un vaso di fiori. Una specie di doppia natura morta, in cui solo la mano tesa sembra poter decidere l’equilibrio finale o il suo possibile ribaltamento. Si vorrebbe non smettere di fissare, per raggiungere possibilmente quell’istante perenne che sembra offrire un’immortalità sicura. 

Anche le figure femminili appaiono ferme e stabilissime: puntano gli occhi sui visitatori invece impacciati, se non imbarazzati. Stupende le Lavandaie del 1922, così come le due donne ritratte in Gita in barca del 1934. In entrambi i casi colpisce l’assolutezza degli occhi, la consapevolezza acquisita, segno di un’emancipazione che contiene in nuce un’idea matriarcale avvolgente e inclusiva. Si resta spogliati da se stessi, in una visione che incanta e al tempo stesso addolora, parentesi tra la ferocia che richiede protezione e armamenti e un silenzio che vorrebbe solo un lungo e delicato abbandono. 

Nato a Roma negli ultimi scampoli dell’Ottocento e morto sempre a Roma nel 1963, quando il mondo occidentale si gode gli anni Sessanta e l’Italia vive il boom economico sotto forma di misticheggiante miracolo dalla cui retorica probabilmente mai si riavrà, Antonio Donghi resta forse il primo tra gli artisti italiani contemporanei a vivere una fama internazionale, restando però al tempo stesso confinato negli anni precedenti la Repubblica. Non tanto e non solo per la sua equivoca convivenza con il regime fascista, ma per una convinzione appartata della pittura e dell’arte, che poco si adatta alle esigenze sociali e culturali del secondo dopoguerra. 

Una qualità estetica capace di cogliere l’umano nella sua discreta e a volte anche mediocre intimità: il tinello, un lavoro umile, una gita fuori porta. Gesti quotidiani che, isolati dal rumore che ritorna prepotentemente una volta tornati lungo i marciapiedi di via Merulana, rivelano il loro infinito valore: quello del tempo vissuto, dei gesti compiuti, magari all’ombra di un pensiero distratto, ma che restano fortemente nei palmi di una mano ancor più che nelle convinzioni di una testa. Sempre più troppo distratta, e abbandonata al pensiero (impossibile) di un rassicurante presente.

ARTICOLO n. 40 / 2024

MANGIARE CRITICAMENTE

intervista di isabella de Silvestro

Peter Singer, filosofo australiano, è vegano da più di cinquant’anni. Nel 1975 ha pubblicato Liberazione Animale, un saggio tradotto e venduto in tutto il mondo che ha contribuito alla nascita del movimento per i diritti degli animali. Singer è un filosofo utilitarista e si definisce consequenzialista: crede che le azioni debbano essere giudicate dalle loro conseguenze. L’azione giusta è quella che porta il beneficio più grande al maggior numero di persone e animali non umani. 

Nuova liberazione animale (Il Saggiatore, 2024) è dunque il ritorno, in edizione aggiornata, di uno dei saggi più influenti del secondo Novecento: un’opera che ha cambiato per sempre il nostro modo di guardare agli animali, ai loro diritti e alle nostre scelte come individui e società.

Isabella De Silvestro: Perché è così difficile passare dall’accettazione razionale del fatto che uccidere gli animali e sottoporli a condizioni di vita orribili per nutrirsi sia sbagliato, alla pratica di smettere di consumare prodotti animali?

Peter Singer: Credo che la ragione principale sia che ciò che mangiamo ha radici culturali molto profonde e per di più è una pratica sociale, qualcosa che in genere non facciamo da soli. Questo rende difficile un cambiamento, soprattutto se motivato eticamente. Se immaginiamo un cambiamento motivato dalla salute, per esempio da un’intolleranza al glutine, siamo sicuri che la gente lo accetterà e non avrà alcun problema nell’offrire alternative gluten free. Quando invece si smette di mangiare carne perché si pensa che sia sbagliato trattare gli animali nel modo in cui vengono trattati, si tratta di una scelta che implica una critica a chi sceglie di continuare a mangiare carne. È già abbastanza difficile cambiare qualcosa che si mangia da molti anni, ma è ancora più difficile farlo se ciò implica una critica sociale.

I.D.S. Ha iniziato a battersi per i diritti degli animali sulla base di argomenti razionali e intellettuali o di una spontanea empatia e compassione?

P.S. Si è trattato senza dubbio di una presa di posizione filosofica. Non provo emozioni particolari nei confronti degli animali. Non mi considero un amante degli animali, non ho e non voglio avere animali domestici. Credo sia stata una decisione razionale che ho preso dopo essermi reso conto dello stato delle cose. Ho approfondito le condizioni di vita degli animali non umani negli allevamenti intensivi e mi sono chiesto se ci fosse un modo per giustificare tutto ciò: ho deciso che non c’era. È facile pensare che si debba avere un legame speciale con gli animali per decidere di non mangiarli, perché chiunque non sente quel legame può sentirsi esonerato dal prendersi certe responsabilità.

I.D.S. Anti-specismo e ambientalismo vanno necessariamente di pari passo? In particolare, crede che l’ambiente abbia un valore intrinseco o solo in quanto habitat di esseri capaci di provare dolore?

P.S. Non credo che l’ambiente abbia valore intrinseco. Ha un grande valore strumentale e pratico per sostenere la vita degli animali umani e non umani, ma non attribuisco valore di per sé a qualcosa che non è in grado di avere coscienza. C’è certamente un potenziale conflitto tra l’attivismo ambientalista e l’attivismo antispecista, ma in termini pratici di solito collaborano senza problemi. Se si parla di dibattito filosofico, le persone con la mia posizione avranno di che discutere con chi pensa che l’ambiente abbia un valore in sé: ho sostenuto questo genere di dibattito e se ne trova testimonianza in alcuni miei libri. Ma in termini pratici stiamo lavorando insieme perché proteggere le foreste e ridurre il cambiamento climatico è un obiettivo che fa bene alla causa anti-specista e viceversa.

I.D.S. Quanto è stretto il legame tra sfruttamento degli animali e capitalismo? Lei parla di case farmaceutiche che conducono test sugli animali non necessariamente per il progresso scientifico o medico, ma per il profitto. Perché la parola “capitalismo” è assente nel suo saggio?

P.S. Certamente il capitalismo è un sistema che, se messo in atto in una società che ha un atteggiamento specista e tratta gli animali come oggetti e non come esseri senzienti, espande enormemente le sofferenze di questi perché è un sistema altamente produttivo ed efficiente ed è guidato dal profitto, quindi farà di tutto per produrre beni al minor costo possibile. Ma la radice del problema non è il capitalismo. Lo stesso accadrà in una società socialista se avrà il medesimo atteggiamento nei confronti degli animali. L’Unione Sovietica trattava gli animali proprio come le società capitalistiche occidentali, quindi penso che la radice del problema sia l’idea che i diritti degli animali non contino. Il capitalismo peggiora la situazione perché è più produttivo.

I.D.S. Lei parla spesso di responsabilità nei confronti delle parti più povere del mondo. Come possono partecipare alla lotta per i diritti degli animali persone con risorse limitate o provenienti da comunità svantaggiate? È giusto che se ne preoccupino?

P.S. Il lettore che io immagino quando scrivo i miei libri sulla causa antispecista è un lettore che ha la scelta di smettere di mangiare carne avendo comunque accesso a una dieta sana e nutriente. Se immaginiamo una persona che vive in condizione di svantaggio e per la quale smettere di mangiare carne o prodotti di origine animale significherebbe non soddisfare il proprio fabbisogno di proteine, credo che in questo caso la moralità della situazione cambi. La lotta antispecista non sarebbe una sua priorità e non mi sognerei di chiedere di rinunciare alla carne. Farebbe un sacrificio molto più grande di quello che fa una persona come me, che può entrare in un supermercato e permettersi tutta una serie di alimenti da cui trae ottimo nutrimento. La responsabilità è di chi ha il privilegio di poter scegliere.

I.D.S. Come risponderebbe a chi sostiene che la caccia non sia necessariamente negativa, dal momento che permette di evitare la dipendenza dalla grande distribuzione e dagli allevamenti intensivi?

P.S. Chi caccia animali selvatici che conducono una vita interamente libera e vengono uccisi nel modo più veloce e indolore possibile arreca meno danno rispetto a chi compra la carne al supermercato. Questo lo capisco. Sicuramente un cacciatore si sta in qualche modo prendendo la responsabilità per la propria scelta: mi sembra più rispettabile del consumatore che scarica su altri l’uccisione dell’animale. Però chiederei comunque: è necessario uccidere animali?

I.D.S. Quanto è importante l’attivismo nella lotta per la liberazione degli animali? Crede che possa raggiungere traguardi politici significativi?

P.S. Io penso che l’attivismo sia fondamentale. È difficile ottenere un cambiamento solo attraverso articoli accademici. Una pressione martellante sulla politica può essere efficace e lo è stato in Unione Europea, ad esempio, molto più che negli Stati Uniti. Ma l’attivismo ha ottenuto risultati anche negli Stati Uniti, dove si rivolge più spesso alle grandi corporation. Qualche settimana fa McDonald’s ha annunciato che userà solo uova di galline allevate a terra. Lo avevano annunciato nel 2015 ma sono stati necessari dieci anni per assicurarsi una fornitura adeguata, dal momento che allora il 90% delle galline negli Stati Uniti erano allevate in gabbia e McDonald’s usa più di 2 miliardi di uova all’anno. 

I.D.S. Lei è un filosofo. Si considera anche un attivista?

P.S. Sì. Ho preso parte a molte proteste e dimostrazioni. Sono stato arrestato per il mio attivismo in Australia, qualche anno fa. Siamo entrati di notte in un allevamento di maiali dove gli animali venivano trattati particolarmente male: avevano catene intorno al collo e potevano muoversi a malapena. Abbiamo contattato i giornali perché tutti potessero vedere cosa accade negli allevamenti intensivi. 

I.D.S. Il libro The Sexual Politics of Meat di Carol J. Adams esplora il legame tra l’oppressione degli animali e quella delle donne nella società occidentale. Adams sostiene che il modo in cui gli animali vengono trattati nella produzione di carne riflette e perpetua dinamiche di potere che contribuiscono all’oppressione delle donne, viste come semplici agenti riproduttivi. Ritiene che un approccio intersezionale sia più efficace?

P.S. Io penso che sia un approccio interessante, ma non penso che il movimento animalista dipenda dalla validità di un approccio del genere. Si può usare per attrarre il movimento femminista verso quello antispecista e ben venga. Ma si può anche sostenere che sono cose diverse. L’obiezione a ciò che facciamo agli animali non dipende dal legame con ciò che facciamo alle donne. Puoi ritenerla una connessione valida ma non è necessaria.

I.D.S. C’è un Paese in cui ritiene che le sue idee siano più facilmente accettate e in cui la direzione presa, anche a livello politico, sia quella dell’antispecismo?

P.S. Ci sono posti dove c’è una forte minoranza che rispetta i diritti degli animali ma non conosco nessun posto dove questo atteggiamento è dominante. C’è molto più rispetto di queste idee in alcuni paesi europei. 

I.D.S. Cosa pensa della carne sintetica?

P.S. Credo che, se sarà prodotta in larga scala e riuscirà ad avere un prezzo competitivo, sarà un’ottima cosa. Però è un processo molto lento. In questo momento è molto più fattibile comprare prodotti plant-based che imitano la carne. Ho assaggiato del pollo creato in laboratorio a Singapore, per curiosità. Ma sa, molti vegani provano disgusto per il sapore della carne perché per anni lo hanno associato alla sofferenza animale, quindi non ne sentono la mancanza. Potrà essere un prodotto utile per chi continua a volere il sapore della carne.

I.D.S. Il futuro sarà vegano?

P.S. Lo spero, ma manca tanto. C’è una preoccupazione crescente per le condizioni degli animali e un’estensione della compassione per altri esseri viventi, che non è più necessariamente limitata alla nostra specie. Il futuro è sempre difficile da prevedere ma la strada intrapresa mi sembra quella giusta.

I.D.S. Le piacciono gli Stati Uniti?

P.S. Ci sono molte cose che mi piacciono e ce ne sono altre che sono semplicemente terribili. Insegno all’università di Princeton da 24 anni. Dal punto di vista sociale preferisco l’Australia, per molte ragioni, ma io negli Stati Uniti ho una posizione molto privilegiata. Princeton è un’università meravigliosa, un posto ottimo per insegnare e lavorare. Credo però che il Governo degli Stati Uniti sia disfunzionale, che la Costituzione dei padri fondatori vecchia di duecento anni presenti delle criticità e che l’idea di un Presidente indipendente dal Congresso non funzioni bene come una democrazia parlamentare. La Bill of Rights viene interpretata dalla Corte Suprema in modi terribili, inclusa l’idea per cui permettere a tutti di possedere armi equivalga a difendere la libertà. Negli Stati Uniti si crede anche che in nome della libertà di espressione non si possa proibire alle persone di donare enormi quantità di denaro a candidati o partiti politici: significa che è il denaro l’elemento dominante nel sistema elettorale americano.

I.D.S. La disuguaglianza è di per sé sbagliata?

P.S. Potremmo dire che una piena uguaglianza sarebbe la situazione ideale ma credo che non sia qualcosa di realizzabile, tenuto conto di come sono gli esseri umani. Non è realizzabile senza un controllo statale forte, pervasivo e invadente, e un controllo del genere non è desiderabile. Sono convinto che sia fondamentale che i governi si preoccupino del benessere dei più fragili, sostengo l’eticità del welfare, del reddito di base universale, dell’assistenza sanitaria gratuita. Ma un’uguaglianza come quella auspicata dagli utopisti o dai socialisti non è desiderabile perché il prezzo da pagare sarebbe troppo alto in termini di controllo.

ARTICOLO n. 39 / 2024

IMPARARE A SCRIVERE IN MODO NUOVO

Pubblichiamo un estratto da Vorrei essere qui (Mercurio) di M. John Harrison da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

I concetti, le idee, li odio. Avere un’idea non significa avere qualcosa da scrivere: avere qualcosa di cui scrivere significa avere qualcosa da scrivere.

Mai privilegiare la fabula. Va bene l’intreccio, ma la fabula è come l’agricoltura chimica.

Portare a conclusione è sbagliato. È tossico. Dedicati a un genere, se ti va, ma dalla posizione più esterna possibile.

Studiati tutto il formalismo hollywoodiano che riesci a reggere, così saprai che cosa non fare. Rompi le strutture, piuttosto che cercare di aggiornarle o affinarle. Non fare giochetti con le aspettative del lettore, mai. 

Al contrario, chiarisci con onestà, franchezza e linearità che non gli darai nulla di ciò che si aspetta. Non sempre ci riuscirai, perché è più difficile di quanto sembra. In fondo sei stato un lettore anche tu. A proposito, ultima cosa. Non sei più un lettore. Sei uno scrittore, quindi non cercare gratificazioni da lettore mentre ti dedichi alla scrittura. 

Non raccontarle mai a te stesso, le storie. Quella relazione romantica, per te, è finita. Da oggi in poi troverai soddisfazione altrove.

Cerca il modo di esprimerle, le cose, piuttosto che riassumerle in due parole per poi sorridere e uscire di scena come se appiccicare l’etichetta su una cosa bastasse a farci i conti per sempre. 

Per tutta la mia vita, la scrittura di genere ha insistito sulla scorrevolezza, specialmente nelle conversazioni riguardo a sé stessa, specialmente nei suoi incontri con la condotta e le percezioni umane, e specialmente se può lasciar intendere che il tentativo di riesprimere o riabilitare un ordinario evento umano non è che la ripetizione di un tropo. 

Se puoi, evita di usare la parola “tropo”, anche nell’intimità del tuo taccuino. La fatica di dire qualunque cosa è sempre la fatica di reinventare la ruota: di distinguere la descrizione di un’esperienza da tutte le altre descrizioni che potrebbero somigliarle. La scrittura di genere preferirebbe sempre che la vita non intralciasse una “bella storia”. 

I teorici della scrittura di genere si appellano alla predilezione per il tropo a scapito dell’esperienza per poter dichiarare banale qualunque argomento tranne il loro.

Comprensibile. Ma è un atteggiamento che tende alla “proscrizione”, piuttosto che alla scrittura. È sostanzialmente liquidatorio.

Mira a costruire uno spazio in cui il lettore si possa orientare soltanto con una specie di sonar emotivo. Intendo uno spazio che pone una distanza sufficiente a creare riverbero, che appare tanto lontano da poter essere sul piano astrale.

Lo spazio del libro necessita di essere grande, vuoto ma risonante, uno spazio in cui i personaggi nemmeno sanno di aver perso l’orientamento. Al suo interno è in corso una specie di invasione aliena o di azione hauntologica o chissà cos’altro, ma avviene a un grado o anche due di separazione. Lo spazio è carico, ma come lettore non sai dove scavare per attingere alle sue risorse; né sai completarlo.

Non sai a che cosa ti vincola il patto. Sarebbe più facile se pensassi

che i personaggi conoscono gli aspetti giusti di sé, invece è chiarissimo che no. Intanto ti tornano indietro gli ultrasuoni riflessi da strutture emotive enormi ma così lontane, lontanissime, che non riesci a distinguerle da affanni passeggeri leggeri come piume.

Una volta, mentre pranzavamo in un ristorante che non era granché (scelta che già di per sé la diceva lunga), un editor mi disse: «Dietro il tuo romanzo c’è una trama valida, il problema è che l’autore l’ha levata quasi tutta». Quell’osservazione così acuta mi sbalordì, ma poi capii che non voleva essere un complimento. 

Questo succedeva prima che entrassi in quella fase in cui gran parte della trama neanche la mettevo. Nel 1968 avevo già la nausea del ticchettio del metronomo strutturale, che teneva insieme la macchina narrativa e la spingeva in discesa verso Hollywood, in tutto ciò

che guardavo, ascoltavo e leggevo. 

È la solita vecchia storia del raccontare storie, è l’unica storia che ne traggo. Che profonda insoddisfazione, sentirmi promettere ogni volta una storia nuova e invece sentirmi raccontare la stessa.

In Justine di Lawrence Durrell (1957) lo scrittore Pursewarden sente che dovrà lasciare il suo prossimo libro «libero di sognare». Da un simile atto di rinuncia consegue la necessità che il testo sia anche «libero dall’onere della forma».

Qui sarebbe importante la rigidità della forma da cui il libro è stato liberato? Il contributo della forma persisterebbe come i resti di una civiltà scomparsa che, a chi attraversa il paesaggio del libro, offre una struttura e subito la nega?

Strutture rotte o crollate, strutture fai-da-te, pezzi di strutture inchiodate e imbullonate usando tecniche più e meno artificiose, strutture cocciute che non soltanto vanno oltre le aspettative ma sembrano anche non fare niente di conoscibile. Si sforzano, al contrario, di suggerire che se ne può trarre qualcosa di diverso, un diverso sistema descrittivo. Al quale sei convinto che si potrebbe accedere, se solo sapessi assemblare gli oggetti e le forme del testo a guisa di chiave. 

Anche il testo si aggrappa a questa convinzione, nonostante le bizzarrie che lo circondano. C’è una misura di motivazioni condivise minima ma sufficiente a tener viva la relazione, a continuare l’esplorazione del territorio.

Autore, lettore e testo si affannano a coprire le distanze che hanno costruito insieme, gesticolando, scocciati gli uni dagli altri eppure legati dall’idea che da tutto questo possa venir fuori qualcosa. I personaggi: porta in superficie il terrore profondo di questi personaggi, la cui vita si regge come una sottilissima membrana iridescente avvolta al nulla. Anzi, più che a un nulla, a tante altre sottilissime membrane iridescenti.

In questo senso, tutte le storie dovrebbero essere storie di fantasmi.

Un altro tipo di spazio è questo: la struttura della storia, nel momento in cui il lettore la affronta, potrebbe fare un effetto simile al ritrovamento di una serie di oggetti dentro un contenitore di materiali non catalogati, appartenuti a qualcun altro. Sfogli le carte, spolveri gli oggetti. Il momento in cui ti eri ripromesso di smettere è passato da un po’, ma nella stanza entra ancora luce. Anziché portare a una conclusione, la fine di ogni storia che fabbrichi cercherà di ricreare l’attimo in cui certi frammenti di prove – che in realtà potrebbero non essere prove – guizzano insieme e alludono alla possibilità di un pattern che peraltro potrebbe non esserci mai stato. Barlumi di significato emotivo che cambiano con la luce, incorniciati da nostalgie incerte. 

La sensazione fuggevole di capire o di non riuscire a capire stati emotivi che, peraltro, potresti esserti inventato. Lo scrittore mira non a diventare uno che esibisce oggetti trovati, ma piuttosto a non riuscire fino in fondo a farsi curatore di cose che potevano esserci, ma anche no. Ovviamente c’è dietro una politica. Che produce sempre, per definizione, la storia di uno o più fantasmi, se non un vera storia di fantasmi.

In questo tipo di struttura annodi un significato a ciascuna immagine sbiadita. Non scrivere neanche un evento, una conversazione, un paesaggio, una veduta dalla finestra sul retro di una scena, che non sia una metafora o non faccia parte di una metafora. Carica tutto il significato possibile su ogni componente che ha un significato. Non temere che si rovesci: produrrà comunque qualcosa di interessante.

Pensa con le emozioni. Tutti, specialmente nella scrittura di genere, pensano che la logica causale e razionale sia l’unica possibile. Non lo è, e produce narrativa tediosa, limitata, disfunzionale. Le metafore hanno una logica tutta loro. Per l’amor di Dio, dopo averle usate non spiegarle mai. 

Non lo so. Cerca solo di stare dentro a quello che fai. Oltraggia l’idea di narrazione oppure l’idea di personaggio, mai tutte e due insieme. 

Se oltraggi uno di questi sistemi di credenze, cioè che a) la storia è possibile, centrale e preziosa, oppure che b) il personaggio non è il prodotto, in continuo mutamento, di relazioni su un altro livello, ma qualcosa di fisso e affidabile quanto basta a generare un “movente”, il pubblico si limiterà a presupporre che sei un incompetente o un pazzo. 

Oltraggiali tutti due, invece, e i lettori balzeranno sul tetto con addosso una specie di vecchio pigiama o camicia da notte, a scampanare e avvertire questa cittadina del Texas: «Ha sbagliato! Ha sbagliato!», mentre cerchi di svignartela come un finto lottatore messicano su un cavallo rubato nella notte, uno che ha perso la scommessa contro di sé e contro il sistema che un tempo amava eccetera eccetera.

ARTICOLO n. 38 / 2024

ERA PRIMAVERA

G ha deciso di buttarsi nella tromba delle scale in una mattina di aprile.

La festa era finita da poco, la droga anche. Spenta la musica, vuotati i bicchieri, gli ultimi ospiti erano usciti silenziosi dall’appartamento del sesto piano. Uno sciame composto e vestito di nero. Indossavano occhiali da sole e si muovevano in modo goffo, tutti quanti, cercando di non farsi notare troppo nella luce del giorno nascente.

I gesti bruschi e meccanici di chi ha mischiato cocaina e alcol fino a poco prima, le mascelle serrate e il respiro affannoso. Odore di sudore, ma nessuno di loro lo sente, le narici hanno smesso di funzionare da tempo.

Una volta arrivata all’incrocio, due palazzi più avanti, la bizzarra compagnia si è divisa senza salutarsi.

In quel momento – quando tutti se ne andavano, la droga non era ancora scesa ma fuori stava sorgendo il sole – vivere era terribile. E la paranoia diventava corrosiva.

Non dormirò mai, si ripetevano ogni giorno centinaia di persone sotto il cielo albeggiante di Milano, digrignando i denti come grosse cicale disperate.

Non dormirò mai, scandivano piano, cercando di prendere aria, di abbassare il ritmo del respiro.

La fine della notte era il momento peggiore per noi: per chi lavorava fino al mattino e s’infilava in un letto subaffittato da studenti fuori corso; per chi usciva dai locali in chiusura e doveva barcollare verso casa; per chi finiva la droga e strisciava verso la luce fingendosi sobrio sotto il peso degli sguardi altrui.

Sembrava un incubo, una processione di zombie, ma era la routine. E come succede con ogni routine, alla lunga nessuno la sentiva più come un peso: a Milano, in quegli anni, funzionava così tutte le sere. È questa la fregatura dell’abitudine: la puoi sviluppare con tutto, perfino con la noia.

Con l’arrivo del buio brulicavano per strada gruppi di persone vestite come delle rockstar, jeans attillatissimi, stivaletti chelsea anche in piena estate, camicie sbottonate fino a metà, chiodi in pelle o blazer dal taglio squadrato, cappelli a tesa larga o ciuffi indie, pezzi di corpo immacolati dai tatuaggi o tutti ricoperti di inchiostro come i rockabilly.

La città prendeva vita e un’intera generazione conquistava il suo spazio notturno: strette di mano che si passavano buste, i telefonini ancora con lo schermo piccolo e i tasti veri, e una rubrica fornitissima di numeri sempre disponibili. Gli angoli delle strade presidiati a qualsiasi ora, i bar pieni, la zona degli strip club con ragazze bellissime dai nomi inventati, i concerti negli scantinati di band famose in tutto il mondo, i club glamour dove il jet-set internazionale veniva a devastarsi.

Milano viveva una doppia esistenza: di giorno la città grigia degli uffici, la borsa, le fabbriche, il fatturato, di notte la metropoli piena di luci in cui perdersi era questione di un attimo.

Le feste duravano giorni, spingendo la notte più in là. Nessuno di noi voleva arrendersi: volevamo ribaltare il ritmo circadiano, fare del ritorno a casa una minaccia vaga e astratta, trasformare quell’attimo in cui saremmo stati nel letto mentre fuori c’era il sole in un pensiero distante e nulla di più.

Nessuno di noi voleva vedere il giorno perché di giorno non avevamo spazio; il mondo della notte invece ci aveva accolto con le sue braccia lunghissime, offrendoci tutto quello di cui avevamo bisogno: soldi facili, lavoro, anestetici per rendere meno dolorosa la caduta.

G ha deciso di buttarsi nella tromba delle scale in una mattina di aprile.

Mi fa strano iniziare questa storia proprio da G, eppure continua a tornarmi in sogno, come il fantasma di un Natale passato. Nella mia testa, dopo tutto quello che è successo, è diventato il simbolo della nostra generazione dispersa in quella città all’inizio del nuovo millennio.

G si è buttato nella tromba delle scale in una fottuta mattina d’aprile.

Ha preso la rincorsa e si è lanciato nello spazio tra le ringhiere e la colonna dell’ascensore, atterrando proprio di fianco alla portineria.

Un volo secco, improvviso, non premeditato, senza biglietti, regali, pensieri. 

Quando i vicini hanno provato ad avvisarci della sua morte noi dormivamo ancora. Il giorno, dopotutto, era il nostro momento di riposo.

Le ore successive alla notizia sono state febbricitanti.

Le giornate seguenti, fino al funerale, sono state sommesse e amare come se nessuno volesse parlare. Come se la colpa fosse di tutti. Come se il prossimo a volare dalle scale potesse essere chiunque tra noi.

Poi, semplicemente, abbiamo smesso di parlarne. Quasi non fosse mai successo.

Eppure ho pensato tantissimo a G, in questi anni.

Ho pensato più a lui che a chiunque altro di quel mio vecchio gruppo di amici e colleghi e conoscenti, che con me hanno diviso lo spazio di quella città e di quegli anni così veloci.

A lungo mi sono chiesta come mai G avesse scelto di buttarsi dalle scale dentro al palazzo e non all’esterno, nel giardino condominiale pieno di alberi e margherite, nel sole primaverile.

Poi, un giorno, quando ho pensato che la prossima a lanciarsi nella tromba delle scale sarei potuta essere io, ho capito. È la praticità a darti le risposte. Ho iniziato a covare quel pensiero intrusivo, e subito mi sono accorta di quanto siano i dettagli a fare la differenza. Perché Kassovitz nell’Odio ha detto una cazzata: il problema invece è proprio la caduta, non l’atterraggio.

Ed è davvero elementare.

Se durante la caduta ti accorgi che stai morendo, all’atterraggio mica ci vuoi più arrivare.

Ma se durante la caduta sei incosciente, l’atterraggio allora perde di valore. Se mentre precipiti ti spacchi il cranio sbattendo contro ogni ringhiera, dal sesto piano fino al primo, se nel frattempo perdi conoscenza e ti schizza il cervello sulle porte dei vicini, tu dell’atterraggio non ti accorgi neanche.

G è arrivato al suolo con due sicurezze: che dal volo non sarebbe uscito vivo, ma che almeno non avrebbe sentito il colpo finale. Perché forse era proprio quello il problema: l’impatto.

E mi ha fatto sorridere e rabbrividire vedere finalmente quanto l’ultimo volo di G nella tromba delle scale in quella maledetta mattina di aprile riassuma chi siamo stati noi in quegli anni a Milano.

Era primavera, stavamo cadendo e lo sapevamo perfettamente.

© 2024 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Il racconto è un estratto da Animali notturni (Einaudi), il primo romanzo di Carlotta Vagnoli da oggi in libreria. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

ARTICOLO n. 37 / 2024

È AMORE SE TI TRAVOLGE

Pubblichiamo un estratto da Le postromantiche. Sui nuovi modi di amare (Laterza). Ringraziamo l’editore per la disponibilità

Era il 1977 quando in Francia uscì Frammenti di un discorso amoroso, scritto da Roland Barthes per dimenticare e sublimare un amore non corrisposto. Si narra che Barthes, innamorato pazzo e dolente, abbia deciso di consultare lo psicanalista Jacques Lacan il quale, vedendolo in quello stato, gli avrebbe detto: “Guarda, lascia perdere”. Barthes seguì il suo consiglio e al tempo stesso lo trasgredì. Pose fine alla storia d’amore e iniziò la scrittura dei Frammenti.

Non so se questo aneddoto sia vero – me l’ha raccontato Arturo, mio fratello, il tipo di persona che sotto l’ombrellone legge tomi di teoria lacaniana, per cui tendo a credergli quando si parla di queste cose. 

In ogni caso è una storia verosimile perché i Frammenti non sono soltanto un’opera di semiologia, ma anche la celebrazione dell’innamorato e del suo discorso. Un libro scritto sull’amore, ma anche in amore.

Scritto da chi ama e rivendica la sua posizione. La afferma e la esalta, in risposta a quelli che l’amore non lo considerano degno d’impresa intellettuale e a tutti i cosiddetti “normali” che non ci sono caduti – non ancora.

L’osceno straparlare dell’innamorato diventa visibile e degno d’attenzione: posto al centro della scena. È come se un innamorato finalmente uscisse dalla sua tana – metaforica e non – ed esibisse il suo monologo interiore davanti a tutti, in mezzo alla strada. L’effetto è strabiliante: non è il discorso di ­­­un pazzo ma la danza di un virtuoso, un “semiologo selvaggio”, un sovversivo! 

E quindi non possiamo che alzarci in piedi e applaudire gridando “Anch’io! Anch’io!”, perché sentiamo che quelle fantasie esagerate, quelle immagini straripanti e quelle ipotesi improbabili che ci hanno avvinto durante notti insonni e giornate infinite non sono il materiale scandaloso di un’anima scimunita, un delirio privato senza senso, ma l’espressione di un’esperienza collettiva e condivisa. Grazie a Barthes, l’innamorato non è più solo.

Così è stato per me. Nella mia cameretta di adolescente alla fine degli anni Novanta, da Roland mi sentivo compresa e difesa. Leggevo e rileggevo le pagine sull’incontro, la dedica, l’abbraccio, l’abbandono…, e ritrovavo il filo dei miei discorsi di ragazza che s’innamorava volentieri. 

La mia copia dei Frammenti – un volumetto Einaudi, in copertina il particolare di un quadro del Verrocchio con due mani che si sfiorano sullo sfondo di velluti d’altri tempi – mi ha seguita da Firenze a Londra e porta ancora le sottolineature fatte con il 2B che usavo al liceo per disegnare; molti passaggi sono segnati da tre righe scure, in alcuni casi rafforzate da punti esclamativi enormi. 

Non credo di aver letto nient’altro con così tanto trasporto, di essermi sentita così capita da un libro. Finalmente potevo confessare l’imbarazzante patimento in cui mi gettava l’attesa di una telefonata: c’era il telefono fisso e ogni trillo poteva essere un segno che quel tizio dalle apparenze poco raccomandabili che avevo baciato alla festa del vino novello si fosse proprio innamorato di me, folgorato dai miei occhi e dalla mia sottana, come Petrarca con Laura in chiesa il giorno di Pasqua. 

Stato d’animo che ero costretta a nascondere con amici e parenti: mi avrebbero subito rimproverata di farmi “troppi film”. “Non è che mi faccio i film”, avrei voluto gridargli. “Barbari! Io genero immagini, enuncio, danzo. Guardate che bellezza questa temporalità che m’inchioda alla fatale mia identità d’innamorata!”.

Volevo tantissimo innamorarmi come i personaggi di cui avevo letto nei libri e che avevo visto in tv. Al contempo seguivo il copione di una sessualità scevra da moralismi e tuttavia ancora governata da assunti misogini e spesso ridotta a un bene di consumo. Facevo casino. Cercavo di realizzare l’improbabile crasi tra Carrie Bradshaw e Anna Karenina.

Nelle performance sessuali si celava la speranza che la mia bocca o le mie mani potessero trasformare un tamarro senza nome in un contemporaneo Werther; all’indomani di amplessi etilici in parcheggi periferici declamavo sonetti invocando un segnale che non sarebbe mai arrivato: «O cameretta che già fosti un porto / a le gravi tempeste mie diurne, / fonte se’ or di lagrime nocturne, / che ’l dì celate per vergogna porto». Puntualmente mi ritrovavo sola con il dubbio di essere un’idiota.

Vivevo come una colpa il non riuscire a combinare condotta sessuale promiscua e incanto d’amore. Barthes mi assolveva e consolava.

Perché i Frammenti non sono soltanto il “ritratto strutturale del soggetto romantico”, ma anche la grandiosa apologia della sua specifica jouissance, cioè del modo in cui gode del dolore in quanto varco esistenziale per un di-più di verità. Una verità sull’essere cui si accede proprio attraverso l’esperienza amorosa.

L’espressione inglese to fall in love cattura il potenziale rovinoso di questo legame. C’è una vitalità festosa, ma anche un rischio oscuro: l’amante si può perdere, può impazzire (l’amore romantico è amore folle), non solo il suo equilibrio ma la sua stessa esistenza sono in pericolo.

A seguito dell’incontro con l’amato, scrive Barthes, entriamo in un tunnel: quella «lunga sequela di sofferenze, dolori, angosce, sconforti, rancori, impacci e tranelli» che ci porta «a vivere incessantemente sotto la minaccia di un decadimento che coinvolgerebbe contemporaneamente l’altro, me stesso e l’incontro che ci ha scoperti l’uno all’altro».

Ripenso spesso alle esperienze della mia formazione sentimentale, quando ricamavo su un incontro occasionale i ghirigori dell’amore assoluto. Un modo di cercare e interpretare l’amore che ha formato il mio sentire e che avrei visto ripetersi, salvo variazioni di intensità, maturità e circostanze, anche negli anni a seguire, fino all’età adulta. 

Ricordo in particolare il sabato in cui andai per la prima volta a ballare (i pomeriggi di domenica all’Happyland di Campi Bisenzio non contano). Ero uscita dalla finestra (l’unica fortuna di stare al piano seminterrato), e avevo messo un cuscino sotto le coperte come avevo visto fare a Joey e Dawson. Avevo seguito alcuni amici più grandi di me al Jaiss, una discoteca a Empoli che solo molti anni dopo avrei scoperto essere stata tempio della techno anni Novanta. 

Mi ero messa gli anfibi con la suola chiodata e la punta di ferro. Andavano bene per impressionare (o credere di impressionare) i punk del liceo artistico, ma erano del tutto inadatti al ballo, da quella volta in poi solo scarpe da ginnastica nei club. I piedi mi facevano malissimo, ma chi se ne frega però, perché a un certo punto ero diventata così leggera che alle scarpe non ci pensavo più. Pensavo solo a Guido, che era bello: gli occhi allungati, una cicatrice sullafronte, le labbra perfette. Ci baciammo per ore sui divanetti della “zona relax”, tra cartoni di acqua naturale di montagna e leccalecca panna e fragola. I sensi allertati, gli organi interni smossi dai bassi, ogni zona erogena, tutto il corpo, tutto il cuore, tutto teso verso Guido, ragazzo di cui non sapevo assolutamente nulla. Tranne il nome, che guidava un Booster giallo con la marmitta truccata e che una volta aveva preso sei pasticche tutte insieme.

­­­Il lunedì, da sola a casa e con la mascella ancora indolenzita, aspettavo che mi chiamasse. A quella telefonata ero appesa come a un verdetto. La mia amica Francesca lo diceva sempre: «chi ama, chiama». E allora doveva chiamare. Come poteva non riconoscere il significato di quei baci? Di quelle mani calde nel buio, con la musica dritta nella cassa toracica, la bocca impastata sul treno della mattina, il tè col limone al bar della stazione di Rifredi? 

Per me, questi dettagli erano andati a comporre la scena dell’incontro, l’immagine che mi aveva “rapita”. D’altra parte, lo diceva anche Roland Barthes, l’incontro d’amore lo si costruisce solo retroattivamente, come punto di inizio mitico della storia, e io ventiquattro ore dopo la serata al Jaiss mi ero già messa all’opera.

La telefonata di Guido serviva da conferma che ci avevo visto giusto, che davvero quello poteva essere stato l’incontro d’amore. E allora aspettavo. Per qualche giorno il mio impegno principale fu attendere.

Vista dall’esterno sarei potuta sembrare scema, chiusa in camera per interi pomeriggi, pronta a scattare al primo squillo del telefono, inviperita se mio fratello occupava l’apparecchio per più di due minuti. 

Roland lo sapeva, e lo sapeva spiegare con parole così belle che la realtà ne usciva trasfigurata: attesa. Tumulto d’angoscia suscitato dall’attesa dell’essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni). […]L’attesa è un incantesimo: io ho avuto lordine di non muovermi. L’attesa d’una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti, allinfinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio); per la stessa ragione, io soffro se qualcuno mi telefona; l’idea che di lì a poco dovrò uscire, correndo così il rischio di essere assente al momento dell’eventuale chiamata riconfortante, del ritorno della Madre, mi tormenta. 

Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l’attesa, delle impurità d’angoscia, poiché, nella sua purezza, l’angoscia dell’attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano, senza far niente.

Che poi è la stessa cosa che dice (con parole un po’ meno belle) Max Pezzali quando si domanda disperato «Come mai / ma chi sarai / per fare questo a me / notti intere ad aspettarti / ad aspettare te». 

Eravamo tutti d’accordo, io, Roland e Max, sul fatto che l’attesa sembra essere una stasi ma non lo è: ci diamo un gran daffare a rincorrere e ricreare immagini affastellate di abbandono e coronamento, pronti a riconoscere e interpretare i segnali del cosmo, a cogliere l’ispirazione per scrivere “chilometri di lettere”.

Il punto è che ero decisa a innamorarmi e scommettevo su Guido, la cui unica mossa, a ben vedere, era stata quella di darmi una pasticca di ecstasy con una buona percentuale di MDMA. Il dubbio che quella notte poteva non essere stata la versione contemporanea e un po’ tamarra dell’incontro del Petrarca con Laura, ma una triviale “pomiciata in discoteca, fatti d’emme”, non riusciva a intaccare il mio afflato poetico e produceva anzi altri e nuovi stati d’animo lirici: accorati pensieri sulla terribile scissione tra una realtà volgare, cinica e ottusa, e l’ardire meraviglioso della fantasia d’amore.

Scissione dolorosa, certo, ma in verità ero contenta mentre soffrivo: la fantasia di un amore romantico era proiezione di un mondo altro, e soffrirne la mancanza un modo per evocarlo, per farlo esistere nella sua assenza.

Mi accorgo di essere cresciuta riconoscendo nella sofferenza un sintomo inequivocabile dell’amore. Per anni, ben oltre l’adolescenza, mi sono gettata nei drammi iniqui di relazioni ­­­impossibili per potermi identificare nell’amore attraverso il tormento.

Mi sentivo attratta da uomini con situazioni difficili, geograficamente lontani, clinicamente depressi, (in)felicemente sposati, mentalmente instabili, emotivamente immaturi, oppure semplicemente stronzi.

Sapevo che non erano all’altezza del sentimento amoroso, ma ciò non mi impediva di sovrascrivere una narrazione romantica alla banalità modaiola dello “scopare in giro”.

Non volevo un amore qualunque, un amorazzo da rotocalco buono per le sale d’aspetto. Volevo un amore con la A maiuscola: quello che ti travolge e ridefinisce il senso di ciò che è avvenuto prima e di quello che avverrà nel futuro. «In un Evento, non cambiano soltanto le cose, ma cambia anche il parametro col quale misuriamo i fatti del cambiamento stesso: un punto di svolta modifica l’intero campo all’interno del quale i fatti appaiono», ha scritto Slavoj Žižek. 

L’amore-evento che stavo cercando doveva essere un’esperienza capace di sovvertire l’equilibrio dell’io, di scompaginare le coordinate del mondo per come lo avevo conosciuto fino a quel momento.

La prima volta che lessi Madame Bovary non mi resi minimamente conto dell’ironia di Flaubert che, come appresi in seguito, con il romanzo voleva mettere alla berlina gli stilemi del romanticismo, smontare la figura dell’innamorato che si strappa le vesti e i capelli per rivelarne l’animo sciocchino e impressionabile. Io però ero dalla parte di Emma: una ragazza giovane che secondo gli usi del tempo sposa un uomo che lei non ama, ma che può offrirle una vita materiale dignitosa.

Charles Bovary è un medico di campagna zelante e sempliciotto che la intrappola in un matrimonio alienato, di cene appiattite da silenzi volgari. Lei ha sogni diversi, non le importa di essere madre e moglie, guarda con sospetto la bambina che ha partorito, i gesti di Charles la disgustano. Sola in casa legge romanzi immaginando la vita di Parigi: teatri, poeti e tessuti pregiati, artisti carismatici che potrebbero prenderla e portarla via, lontano dall’immensa noia di Yonville. Invece gli uomini che incontra nella vita reale e di cui sarà amante si riveleranno meschini e bugiardi, Emma lo sa ma non può accettare una realtà così insulsa, una “vita insufficiente”. Resiste al disincanto. Si suicida.

A me questa parve la storia di una donna che si ribellava a un mondo imbecille. A ucciderla non era stata la letteratura che aveva sfrenato la sua immaginazione. Era stata uccisa dalla vigliaccheria e dall’opportunismo di Rodolphe, dalla piccolezza di Charles. Era la realtà a non essere all’altezza di Emma, non lei idiota perché incapace di accettarne lo squallore. All’università scoprii con sorpresa che con il termine bovarismo, coniato da Jules de Gaultier nei primi anni del Novecento, si indica la facoltà di credersi ciò che non si è, di credere cioè alle fantasie che ci fabbrichiamo per convincerci di essere diversi e di vivere in un mondo diverso.

Ci rimasi male. Per me Emma era (e resta) un’eroina vittima dell’ostinata indifferenza delle cose alla maestà del desiderio. Certo, io avevo un vantaggio conoscitivo rispetto a lei: sapevo che le passioni vanno nascoste, che è sempre meglio fingersi disinvolte, impermeabili, perché va bene tutto ma mai mostrarsi deboli. Perciò mai chiamare per prime, resistere alla tentazione di rispondere subito a un messaggio, non esaltarsi troppo per un invito e, soprattutto, non lamentarsi mai per un’attenzione non ricevuta, una telefonata mai arrivata.

Bisogna essere cool. Così si conquistano gli uomini. Questi i precetti diffusi dai manuali simbolo degli anni Novanta e Duemila come Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere (1992), il saggio più venduto di tutta la decade secondo la CNN; oppure La verità è che non gli piaci abbastanza ­­­(2004), bestseller da cui fu tratto l’omonimo film, un grande successo al botteghino.

Io non li avevo letti e non avevo nemmeno visto il film. Ma queste “grandi verità” percolavano già nelle telefonate con Francesca: «Che faccio lo richiamo Marco?», «No! Aspetta che ti chiami lui!». Non lo chiamavo, ma quando chiamava lui dicevo sempre “sì”. Mi spiegava che non voleva una relazione – forse perché era ancora innamorato della sua ex ragazza, più bella di me? più magra di me? più brava di me? –, passavamo le notti a parlare e bere vino rosso in camera sua, ascoltando la musica. Quando mi voleva io mi spogliavo e speravo sempre di poterlo avere addosso più di quei pochi istanti. 

Persino l’annoso problema dell’eiaculazione precoce mi sembrava il segno di una mia manchevolezza, e mi dicevo: “è stato bellissimo lo stesso”. 

Una sera andammo al cinema, un film d’autore in bianco e nero perché noi non eravamo tipi da blockbuster. Avevamo passato la notte insieme. «Stasera vedo una che mi piace», disse, «si chiama Jacqueline, è di Lione, pensavo di invitarla a uscire con noi». Invece di scoppiare a piangere e piantare una scenata – perché come ti viene in mente di dirmi una cosa del genere quando poche ore fa eri dentro di me, cioè non “vicino” o “accanto”, proprio dentro, e quindi vaffanculo –, ecco invece di dire questo, risposi: «Certo, ma che bella idea, vengo anch’io!».

E andai davvero, a vedermi la scena di lui che imbroccava Jacqueline con le stesse mosse e parole con cui aveva poche settimane prima rimorchiato me. Ordinai uno shot di tequila, cominciai a ballare con uno sconosciuto e lo baciai in mezzo alla pista anche se non mi piaceva com’era vestito e aveva i capelli un po’ troppo corti. Alle tre di notte tornai a casa ubriaca, prima di entrare mi sdraiai a stella sulla ghiaia del parcheggio guardando le stelle coperte dalla nuvole e le cime blu dei cipressi scuri nella notte scura. 

Avevo fame e decisi di farmi una valdostana fritta, pasteggiai a whisky. Poi un pianto sull’impossibilità del vero amore, Roland Barthes, e a letto. In questa scissione tra discorso amoroso e incontri occasionali ci siamo trovate in molte, e ci siamo sentite strane.

Ci ha preso il legittimo sospetto che imbastire la trama romantica su amplessi casuali e mediocri sia soltanto un esercizio di stile, con il rischio di rimanere incastrate in relazioni ridicole, o addirittura tossiche, di svegliarsi dopo qualche settimana di estasi e rendersi conto che okay, è un cretino, oppure di soffrire senza motivo, per giorni e giorni, talvolta mesi, per uno che non si sa nemmeno chi è. E però allo stesso tempo siamo state incapaci di smollare il sogno di un amore, dandoci una gran pena a concederci e poi ritrarci, tessere per scucire, tutto un fare e disfare fino a non capirci più niente.

Ora, quest’impasse non deriva da un difetto di fabbricazione dell’universo o dalla nostra innata deficienza, piuttosto dalle contraddizioni insite nell’idea di amore cui siamo state esposte nel corso delle nostre vite: da una parte l’utopia romantica, e dall’altra l’interpretazione del sesso come svincolato dai sentimenti. Un ossimoro che è stato il nucleo della nostra educazione amorosa, e che ancora ci dà tanto da parlare, a me e alle mie amiche, a noi che siamo romantiche inguaribili ma che del romanticismo abbiamo anche capito l’artificio, noi che il sesso ci piace eccome ma che in molteoccasioni avremmo preferito dire: “anche no”.

ARTICOLO n. 36 / 2024

VENTI GIORNI PRIMA

Pubblichiamo un estratto da Tre notti (Rizzoli). Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Non lo vedeva da quel giorno all’ospedale. Andrea scorse la Fiat 127 parcheggiarsi davanti al cancello di casa loro. Da dietro la tenda della finestra del salone che dava sulla strada, vide scendere suo padre e stentò a riconoscerlo. Era magrissimo. Gli sembrò anche più alto. Lo vide chiudere lo sportello della macchina faticosamente, come se pesasse dieci volte di più. Gli sembrò che avesse la testa più triangolare, rispetto alla forma che ricordava. Vide suo padre appoggiare le mani sul cofano della macchina per riprendere fiato, poi incamminarsi verso la salitella che conduceva al portone. Prima che sparisse dalla sua vista, notò che gli abiti gli andavano grandi. I pantaloni erano stretti intorno alla vita sottile, mentre le gambe sembravano non esserci dentro alla stoffa, per quanto era abbondante. Camminando in modo incerto e appoggiandosi alla ringhiera del cancello, Dante sparì dalla vista di Andrea.

Ora l’uomo stava suonando al campanello di casa. Quella che era, ancora, casa sua.

La madre andò ad aprire. Il fratello era seduto al tavolo nella sala da pranzo, apparecchiata a festa, con tanto di tovaglia e servizio buono, per l’occasione. Andrea stette in piedi, tra la porta della sala e l’ingresso. La madre aprì la porta e, forse, non era pronta neanche lei a trovarsi davanti quel che restava di un uomo mangiato da un cancro.

Dante la salutò, con una voce che stentava a farsi udire. Come se il fiato non arrivasse a sostenerla.

La madre lo prese per mano e lo sostenne per sorpassare la soglia. Poi si girò verso Andrea, per farsi aiutare a farlo camminare.

L’uomo alzò lo sguardo sul figlio, riuscì a dire un ciao e a sorridere di una gioia che sembrò reale, nel rivederlo e nel rientrare dentro casa sua. Si guardò intorno, mentre lo sorreggevano verso la sala da pranzo. Ad Andrea parve talmente stanco da essere sul punto di addormentarsi. Arrivarono in salone, aiutarono Dante a togliersi un goffo borsello a tracolla che non gli avevano mai visto e il giubbotto, che gli stava come fosse di qualcun altro. Dante fece una carezza sulla testa del secondo figlio, rimasto seduto, composto e immobile. Forse ebbe paura di quell’immagine di uomo dalla cera grigiastra, con la pelle sottile e gli occhi enormi incassati in una testa tremendamente magra. Dante si sedette in quello che era stato da sempre il suo posto a quella tavola. Andrea ebbe la sensazione che si potesse spezzare se avesse fatto un movimento brusco. La madre era preoccupata e stupita. Disse al marito che non sarebbe dovuto venire in quelle condizioni, che guidare era pericoloso e che aveva messo in pericolo lui e gli altri per strada. Dante rispose che stava bene e non c’era pericolo. Andrea aiutò la madre a portare i piatti in tavola, tortellini in brodo, mentre il padre scambiava le parole che poteva con il figlio piccolo.

Mangiarono pressoché in silenzio. Dante ogni tanto chiudeva gli occhi, per riaprirli subito dopo. Oppure fissava lo sguardo in modo assente. La madre continuava a far finta di niente e a incitare i figli a parlare, a raccontare al padre qualcosa della scuola. Dante chiese di andare in bagno. Lo accompagnarono, gli chiesero se avesse bisogno di aiuto, ma lui disse che no, non ce n’era bisogno. Andrea e la madre chiusero la porta del bagno e tornarono in salone. La donna spiegò ai figli che era l’effetto delle medicine, fortissime, contro la malattia. Stettero in silenzio, anche per ascoltare ogni minimo segno che arrivasse dal padre. Non sentirono nulla per svariati minuti, allora si alzarono e prima stettero all’erta in corridoio, indecisi sul da farsi, poi aprirono la porta.

Dante dormiva seduto sul water, con la schiena sottile poggiata al muro e le braccia abbandonate lungo i fianchi.

Allora la donna lo destò con delicatezza, e nel farlo notò lo sgomento di Andrea, che osservava e stava pronto ad aiutare.

Dante sembrò riprendersi. Lo aiutarono a rivestirsi e, a quel punto, mentre gli stringevano la cinta dei pantaloni, Andrea realizzò quanto magra e stretta fosse la vita del padre. Quanto magre fossero le sue braccia. Quanta fatica aveva fatto per arrivare lì, guidando dalla campagna.

La madre si offrì di accompagnarlo. Insistette a più non posso, ma non ci fu verso.

Dante salutò il figlio piccolo, tenendo più tempo possibile le braccia sulle sue piccole spalle e guardandolo insistentemente.

Salutò la moglie – ancora lo era, non avevano divorziato mai legalmente – e tentò di abbracciare Andrea.

Il figlio avrebbe voluto abbracciarlo fortissimo, ed essere stretto da lui, ma quello che ricevette fu simile a un lenzuolo appoggiato addosso, talmente poca era la forza che riuscì a mettere il padre nell’abbraccio.

Si staccarono e l’uomo restò per un attimo a guardare il figlio.

Andrea lesse negli occhi del padre un dispiacere e un dolore che lo scossero. Poi Dante abbozzò un sorriso, a lungo.

Guardò allo stesso modo la moglie. A lungo.

Fece la stessa cosa con il secondo figlio, che era in piedi nel corridoio, a lungo.

Non volle nemmeno essere accompagnato alla macchina. Girò le spalle da cui si percepivano le ossa delle scapole e, lentissimamente, richiuse la porta di casa dietro di sé.

La madre e i due figli si affacciarono sul balcone. Lei li tenne abbracciati da dietro. Lo videro aprire a fatica lo sportello della 127 blu, quasi si muovesse al rallentatore. Dante alzò lo sguardo un’ultima volta. Nessuno fece altro, se non guardarsi. Lo videro entrare in macchina, fare manovra con difficoltà e allontanarsi nella strada.

Fu il suo modo di salutarli e, forse, di chiedere scusa.

ARTICOLO n. 35 / 2024

IL CAPITALE MUSICALE

SIDE A

Ascolto il nuovo brano dei British Murder Boys e al termine della riproduzione la app mi avvisa che non esiste una radio della canzone appena ascoltata. Forse perché è uscita oggi, forse perché è roba anche un po’ di nicchia e quindi il ricco algoritmo che guida gli ascolti non del tutto casuali seguenti a una nostra scelta, davanti all’ultima release dei BMB, alza le mani e dice “veditela te, che ascolti ‘sta merda”.

Non mi sento di dargli torto, quindi faccio play sull’album di altra gente di quel giro lì e vado avanti nelle mie attività.

Ancora oggi, dopo molti anni da utente delle piattaforme di streaming, trovo sorprendenti i loro pregi e i loro difetti. In un tempo che mi sembra preistorico l’algoritmo di Spotify mi ha permesso di conoscere molta musica davvero per caso. Partendo da un punto e finendo altrove. Per prendermi in giro dicevo che “andavo in gita su Spotify”, come fosse un autobus di cui ignoravo il capolinea. Un capolinea che non c’era e non c’è, perché idealmente potrei stare in ascolto casuale per un tempo indeterminabile a priori. Non esiste una feature che ti avvisi di quanto lungimirante sarà l’algoritmo messo in moto dalla tua unica e ultima scelta arbitrale. Sei davanti al baratro, ma non sai quanto durerà la caduta.

Poi, da bravo indie kid formato nei primi 2000, ho lasciato Spotify perché non era più quello di prima. Era meglio il demo, diciamo.

Ho lasciato Spotify per due motivi di natura tecnica: l’algoritmo di suggerimento cominciava a mostrare la corda e a non appassionarmi più, e poi la qualità di riproduzione era (ed è ancora) di scarsissima qualità. Mai stato un audiofilo, ma lavorando con la musica da un paio di decenni a un certo momento non ho più saputo reggere l’ascolto. Tuttavia, il vero motivo per cui ho abbandonato con gioia il player più usato al mondo è che nel mio personale percorso di rettitudine per diventare “il migliore compagno possibile”, non riuscivo più a reggere l’idea di finanziare una piattaforma che è un insieme di negatività per me che, per l’appunto, non sono più solamente un appassionato della musica, ma sono un lavoratore della musica.

Non entrerò nel dibattito sulle revenue da streaming. La verità è talmente sotto gli occhi di tutti che è ridicolo sottolinearla ancora una volta. Non c’è una piattaforma che si salvi, ma in fin dei conti va bene così, l’importante è volersi bene, no?

Ho lasciato Spotify per questo suo viziaccio di trattare la musica e gli ascoltatori come dati metrici, puramente quantitativi. Numero di ascoltatori mensili, numero di play, numero di ascoltatori per playlist, le stelline ai podcast e via così. Mi sono chiesto: davvero voglio finanziare con 10€ al mese qualcosa che sta facendo del male al mio mestiere e alle persone a cui voglio bene? Persone cioè tutte le persone che hanno un loro brano o hanno partecipato alla realizzazione di almeno un brano che sta lì dentro. Perché malgrado tutto la maggioranza degli artisti presenti nelle piattaforme sono persone che ritengo colleghe e colleghi, mai avversari. Parola che riservo a chi è davvero molto ricco. Ma è un altro discorso.

Non riesco a digerire che la app più usata per ascoltare la musica sia una piattaforma che ha come unico interesse la pubblicazione di dati di misurazione sul prodotto culturale che dice di voler diffondere. Questo unico interesse è figlio di una logica speculativa: se fai vedere quanti utenti seguono o ascoltano sulla tua piattaforma puoi dare un valore a quegli spazi digitali che precedono o seguono l’opera. Indipendentemente dalla scelta dell’ascoltatore: se hanno spinto play o meno, se sono lì per spinta dell’algoritmo, non importa ai fini del conteggio. Spotify, quante persone possono incrociare quegli spazi digitali, lo mette in bella vista nelle pagine degli artisti, affianco ai brani, ovunque: spuntano dal lavandino quando vi lavate la faccia appena alzati dal letto. 

Il continuo rimbalzo metrico, la sottolineatura delle cifre, è la strategia di ingolosimento che Spotify utilizza per avvicinare gli investitori pubblicitari e per tenere incollate le parti professionali e di utenza: sapere se Lo Stato Sociale va più o va meno di Rhove. Vedere crescere gli abbonati alla propria playlist. Illudersi che il conteggio di ascoltatori mensili significhi poi, alla fine di questa corsa, qualcuno che ti farà gli applausi.

Sono dati complessi, che quando ci vengono comunicati dai nostri distributori hanno a che fare con molti aspetti della vita di chi ascolta: genere, luogo, età. Servono a capire qualcosa della tua musica, se ti interessano i numeri. Servono a Spotify per spiegare a chi compra gli spazi pubblicitari a chi si sta rivolgendo.

La cosa interessante, tornando a questioni un po’ più geek, è rilevare che dei 600 milioni di utenti di Spotify nel mondo, circa 300 sono utenti free o – come dicono loro – ad-supported, ovvero sostenuti dalla pubblicità. Gli utenti, mica la musica. Vuol dire, tenendomi sempre almeno a due passi di distanza dalle questioni di capitale, che statisticamente la metà degli ascolti di ogni artista presente su Spotify non è deciso dall’essere umano che spinge play, ma dall’incedere delle combinazioni che l’algoritmo proprietario dell’azienda di streaming formula di volta in volta.

Su queste basi poggia larga parte del business musicale dell’ultimo decennio. Si basa su misurazioni prodotte al 50% dalle vostre scelte e al 50% da qualcuno o qualcosa indipendente dalle logiche promozionali, dalle strategie artistiche, dai piani quinquennali. È almeno un 50% di fuffa che viene comunque venduta agli investitori e che le discografiche hanno necessità di utilizzare.

La parola algoritmo è molto usata e abusata negli ultimi anni, ma ne abbiamo ben donde: è due volte interessante cercare su Google come lavora questo algoritmo di Spotify, senza trovarne tracce ufficiale. È normale: è un segreto aziendale e non ho la pretesa che venga spiegato nulla, ma proprio per questo è importante che sia chiaro che la distribuzione degli ascolti della vostra musica è in mano al volere di una corporate che ha interessi diversi dai vostri. Patti chiari, amicizia lunga.

Spotify non è l’unico player, per fortuna, ma rappresenta la schiacciante maggioranza dell’utenza ed è con questo che dobbiamo fare i conti. Anche perché i principali competitor (Apple e Tidal) non offrono piani d’ascolto gratuiti, quindi lì sopra, come diceva il Dogui: “pago, pretendo”. Il che non significa che poi dopo l’ultimo singolo dei British Murder Boys non ci sia un oscuro algoritmo a decidere al posto mio, ma almeno possiamo avere l’illusione di intervenire in qualsiasi momento con una scelta deliberata.

Una forma di potere, quello delle piattaforme, che avrebbe appassionato Foucault, e che Edward Said avrebbe criticato come “quasi magico”*.

SIDE B

In ogni settore ci siamo accorti di quanto il lavoro influenzi negativamente la qualità della vita e di come questo sistema economico produca depressioni, nevrosi e innumerevoli sofferenze solo frequentandolo. Figuriamoci se non siete ricchi e vi tocca pure lavorare!

Sul finire della settimana di Sanremo un giovanissimo cantante molto famoso chiamato Sangiovanni ha deciso di rinviare l’uscita del proprio disco e la data al Forum di Assago prevista per ottobre. I motivi, facili da intuire, sono legati alla sua salute mentale, minata dalla continua analisi di un mercato così dipendente dalle metriche che è difficile dire dove inizi la persona e dove il prodotto. Nel dibattito pubblico che ne è scaturito ho letto spesso una frase inevitabile: “è così da sempre”. Vero.

Ma come in ogni lotta che ha a che fare l’identità, la società, il funzionamento della società e infine la distribuzione dei diritti e delle ricchezze che verticalmente influenzano la salute di ognuno, non è detto che ciò che è sempre stato così debba continuare a esserlo.

A me spiace per Sangiovanni, so di prima mano cosa vuol dire non stare bene e so di prima mano cosa vuol dire attraversare stati depressivi. È una merda e gli auguro ogni fortuna.

In quei giorni di metà febbraio anche io ho partecipato al dibattito sulla salute mentale nel mondo della discografia, perché come scrisse Mark Fisher: «La depressione, dopotutto e soprattutto, è una teoria sul mondo». Pensavo a chi fa l’artista e dura il tempo di una mezza stagione perché incapace di leggere lo sfruttamento a cui si sottopone. Penso a chi fa l’ufficio stampa e lavora anche venti ore in una giornata in nome dell’infinita reperibilità e delle gerarchie che innervano questo mestiere. Penso a chi fa il management e lavora anche venti ore in una giornata in nome dell’infinita reperibilità e dell’illusoria aspettativa che ci sia una crescita e una strategia per controllare ogni cosa. Penso a chi ha la scritta crew sulla maglietta durante i montaggi, i live, gli smontaggi e lavora anche venti ore in una giornata in nome di un vuoto legislativo che non sa riconoscere la fragilità economica di un mestiere in cui non si può dire di no.

Pensavo a un po’ tutte le figure che rappresentano il lavoro in questo settore. Penso anche a quante volte ho letto “fuori a mezzanotte” e ho pensato “rega ma speriamo di essere addormentati nel sonno dei giusti, che la musica ce l’ascoltiamo quando ne abbiamo bisogno mica quando ce lo dice la piattaforma!”.

Penso a della gente, che poi siamo noi, che non più tardi di un secolo fa avremmo definito schiavi, mentre adesso ci accontentiamo della definizione più rive gauche: lavoratori poveri.

Io non sono un professionista della salute mentale, mi occupo di far stare bene le persone suonando le canzonette o scrivendo dei libri, vado a prendere per la giacchetta il tempo libero degli altri. E non è un caso si chiami proprio così: tempo libero. Perché in questo mondo tardo-capitalista la libertà è connotata dalle ore senza i doveri e con le proprie scelte. Il tempo libero è dove noi decidiamo di essere.

È un tempo sempre più fagocitato dal lavoro, dall’attenzione per i social, le chat, le e-mail, l’infinita reperibilità e l’allungamento delle giornate lavorative. C’è un bel libro sull’argomento: Cronofagia di Davide Mazzocco. Leggetelo, è anche breve. È un tempo, quello di libertà, sempre più residuale, sempre più minacciato.

Nel non avere libertà io ho visto troppo spesso i sintagmi delle mie depressioni. Sangiovanni ha detto di no a un disco e a una data importante per tutelare quello che rimane della propria salute, ma quello che non ha detto suona ancora più feroce e descrittivo di come funziona la nostra industria e in generale il mondo: devi fare, devi fare, devi fare. Te lo chiede il capo. Diciamo di sì a tutto.

Il lavoro culturale, almeno nella musica, è vittima di una cultura padronale fortissima e introiettata.

Diciamo di sì a tutto perché domani, chissà. Domani non è detto che ci sia. Se noi adesso siamo e domani forse non siamo, abbiamo solo due scelte: il pensiero dicotomico è prodromico della depressione.

Mi domando: si può dire di no alle richieste dei doveri e circoscrivere malamente un confine di libertà personale? Lo chiedo a chi c’è lì fuori. Lo chiedo come se fossimo dei Bartleby di Melville che potenzialmente possano dire «I would prefer not to».

Lo ricordo a me stesso e mi piace dirlo a voce alta: se continuiamo a pensare al lavoro culturale nella musica – nel suo senso più largo – come a qualcosa di inattaccabile, di non modificabile, sbagliamo. Sbagliamo perché continuiamo a dire di sì, quando vorremmo dire di no. Sbagliamo perché sappiamo che le nostre vite non è giusto che siano in mano a qualche corporation. Sbagliamo anche quando qualcuno molto carino e molto sorridente ci dice che sta andando tutto bene: anche quella è una persona a sua volta schiacciata dagli obiettivi di produttività o da chissà quale altra stronzata che ci siamo messi in testa e verso cui corriamo sperando di allargare all’infinito un bacino di utenza che è tutto meno che infinito. Un bacino di utenza che è il linguaggio tecnico per parlare di ascoltatori. Ascoltatori che poi è un modo carino per dire “profitti”.

Infiniti profitti potenziali, mentre Spotify segna 1.82 miliardi di dollari di debito nel 2023. Loro, i leader mondiali indiscussi, è gente che produce debito. Figuratevi noi che con i debiti ci abbiamo pagato case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale… che anche se non valgo niente, perlomeno a te, ti permetto di sognare.

Ecco, ci sono cascato. Ho parlato di soldi.

* Il funzionamento materiale delle piattaforme di streaming e le implicazioni del capitalismo digitale, che io ho sommariamente accennato, sono approfondite e spiegate da La musica nell’era digitale di Tiziano Bone Paolo Magaudda (Il Mulino, 2023)

ARTICOLO n. 34 / 2024

CORPI CHE FATICANO

1. Pochi giorni prima di morire — prima di essere deportato dal ghetto di Varsavia verso Treblinka assieme agli orfani che accudiva, rifiutandosi di abbandonarli e anzi premurandosi di vestirli con gli abiti migliori, radunarli in fila e tranquillizzarli come poteva — pochi giorni prima di tutto questo il medico ed educatore Janusz Korczak evocò nel Diario del ghetto un tema per lui molto importante, «una cosa che combatto senza speranze di vittoria, senza una visibile efficacia, ma non voglio né posso sospendere questa lotta». Ovvero:

Combatto affinché nella Casa degli Orfani non ci siano lavori fini e lavori rozzi, intelligenti e stupidi, puliti e sporchi: lavori per signorine di buona famiglia e lavori per la plebaglia. Non ci dovrebbero essere nella Casa degli Orfani addetti esclusivamente al lavoro fisico e addetti esclusivamente al lavoro intellettuale.

Certo l’idea non era affatto nuova: ma colpisce l’insistenza di Korczak in ore così gravi. È il fato che si riserva alle questioni veramente cruciali, il nocciolo di un intero progetto pedagogico e politico.

2. Sul punto mi pare esistano due semplificazioni contrapposte. La prima ritiene che qualsiasi lavoro manuale sia svilente in quanto tale — come se il compimento dell’essere umano fosse una faccenda di mero pensiero. Non è così, e non serve andare molto lontano per comprenderlo: la soddisfazione del fabbro per una ringhiera fatta a regola d’arte o dell’elettricista che risolve — usando ingegno e abilità tecnica, mani e cervello — un difficile problema di impianto. E, perché no, la tranquilla stanchezza dell’operaio che non baratterebbe il suo mestiere con lo studio. Una volta, in provincia, un amico metalmeccanico mi disse proprio così: “Tutto il giorno seduto davanti ai libri da solo, ma non ti rompi i coglioni?”.

La seconda semplificazione è un elogio della manualità in quanto tale fatta da chi non ha mai dovuto svegliarsi alle quattro per caricare carrelli o posare piastrelle dall’altra parte della regione, o anche solo sudare — non metaforicamente — con una cassetta da dodici kg di attrezzi in mano, avanti e indietro per la città. Dunque non merita ulteriori commenti.

Sgombrato il campo da tali equivoci resta quanto distrugge realmente l’essere umano, lo sfruttamento: che nel caso del lavoro manuale è sfruttamento del corpo, con tutto ciò che ne deriva. Ma che cosa, nel dettaglio?

3. Innanzitutto uno sfinimento che il lavoratore intellettuale non può conoscere, e rende subito indegno il paragone fra i due. È la percezione di avere prosciugato ogni energia, di essere ridotto a un guscio e non avere nemmeno più spazio per il desiderio: la privazione di sé come soggetto libero. Tutto ciò spazza via d’un colpo la retorica sul tempo libero da usare per migliorarsi, costruirsi alternative, consumare cultura. Lodevoli propositi, certo, ma che non devono navigare nel vuoto: dopo un turno estenuante di pulizie, un’ora per tornare a casa e un bambino cui badare è molto più comprensibile desiderare di spegnersi.

Lo sfruttamento del lavoro manuale è un’offesa perenne al corpo che soffre e si espone a rischi quotidiani, dagli infortuni alle malattie professionali fino alle morti — morti che gridano vendetta, uno dei maggiori rimossi del Paese. Con l’ovvia aggiunta che l’anima, o come preferite chiamarla, resta altrettanto ferita: ansia, depressione, apatia, sviluppo di dipendenze: con il sovrappiù di difficoltà nel trattare queste patologie quando, appunto, tempo e soldi e conoscenze sono ridotti al minimo.

4. Negli ultimi decenni, dove la centralità della fabbrica è andata sparendo sostituita da una frammentazione del lavoro e dall’irregolarità diffusa, c’è stato come un occultamento progressivo dell’esperienza dei corpi che faticano, specie quando faticano oltremodo. Uso quest’espressione un po’ goffa per comodità, ma mi pare corretta: qui si tratta innanzitutto di fatica fisica, prolungata oltremisura e frutto di dinamiche di asservimento.

Bisogna invece accostarsi a tale vissuto con partecipazione e umiltà. Concentrarsi su tutta una serie di gesti — cucire, lavare, spingere carrelli, imboccare, grattare superfici, dissodare terra, identificare e spostare colli, lavare stoviglie, vendemmiare, cogliere fragole, conciare pelli, stare in piedi a fare la guardia, cambiare pannoloni, trasportare suini, uccidere suini, alzare muri, guidare muletti, spostare altri corpi, vendere il proprio corpo, rimuovere e smaltire amianto, estrarre ghiaia, spazzare foglie, riparare scarichi, sgomberare appartamenti, svuotare cassonetti, condurre camion, stendere asfalti, consegnare pacchi — senza alcun riconoscimento, alla periferia del paesaggio narrativo, in cambio di un compenso mortificante.

La recente inchiesta sull’utilizzo, da parte di Giorgio Armani Operations, di opifici cinesi dove il lavoro era organizzato su turni massacranti con paghe anche di 2-3 euro all’ora ha creato un certo scalpore per l’associazione lusso/sfruttamento; ma non è certo un caso isolato, anzi. Qualunque filiera produttiva è percorsa da questa feroce normalizzazione del dolore. Il lavoro così non educa, non dà occasioni, non è più affare di emancipazione se mai lo è stato; Dal Lago e Quadrelli lo dicevano con chiarezza ne La città e le ombre:

Oggi, l’impiego di forza lavoro servile o semiservile, reclutata tra gli stranieri e marginalmente tra le fasce giovanili locali più deboli, non è contraddizione con la terziarizzazione avanzata, l’economia immateriale o in rete. Anzi, ne è un necessario complemento o meglio un alimento indispensabile. La vita quotidiana delle famiglie di rispettabili professionisti può celare l’attività invisibile, per tutto l’arco del giorno, di giovani donne straniere. Di notte o all’alba, quando i telefoni e i computer di banche, società finanziare o di consulenza hanno smesso di ronzare, un piccolo popolo di ombre, reclutate spesso nei modi descritti sopra, rimuove i cascami materiali del mondo immateriale. […] Il lavoro, che sembrava essere entrato nella sfera dei diritti di cittadinanza, retrocede (per ciò che riguarda almeno una sua componente) in una dimensione pregiuridica, a cui si addicono più le descrizioni hobbesiane della società di natura, dominata dalla sopraffazione, che quelle hegeliane della società civile.

La vulnerabilità e la ricattabilità, con il loro corollario di dolore fisico e mentale, non sono insomma aberrazioni, bensì condizioni necessarie per il funzionamento di questo sistema economico.

5. Per fortuna non mancano racconti in prima persona o indagini di valore sui corpi che faticano: penso nel primo caso a vari testi del catalogo di Alegre e nel secondo a Noi schiavisti di Valentina Furlanetto o Le nostre braccia di Andrea Staid. Nel dettaglio, ciò che ha colpito Staid — e continua a colpire anche me — non è la diffusione della microcriminalità tra le fasce subalterne della popolazione, bensì il fatto che ve ne sia così poca. Andrea commentava così, già dieci anni fa:

Quando ti ritrovi distrutto da un viaggio che ha violentemente cambiato la tua esistenza, internato in un moderno lager, senza nessun tipo di diritti o quando ti ritrovi a lavorare segregato in una fabbrica illegale o sotto il sole cocente di un campo di pomodori del sud Italia per un salario da fame e il rischio di finire in carcere è lo stesso sia che decidi di delinquere, guadagnare più soldi e con meno fatica, che se decidi di lavorare schiavizzato per un salario da fame, ecco a questo punto la cosa più razionale sembra essere quella di scegliere di delinquere. Questo significa che se applicassimo la teoria dell’homo economicus al migrante posto davanti al ristretto orizzonte della scelta tra le possibilità che gli vengono offerte, dato un calcolo basato su costi e benefici, il migrante irregolare dovrebbe essere razionalmente portato a delinquere, ciò che lo frena sono i riferimenti morali, normativi e religiosi.

Dopo questi anni di ricerca non mi stupisce più chi esce dallo stretto confine della legalità, anzi mi stupiscono molto di più tutti quei migranti (la maggior parte) che decidono di lavorare onestamente.

E ci vuole una bella dose di ideologia, o una minuscola esperienza della vita, per non comprendere quanto simili circostanze materiali siano cosa ben diversa dalle condizioni formali cui ci si appella quando si parla di lavoro. In Anche i ricchi rubano la magistrata Elisa Pazé, discutendo lo squilibrio normativo per i cosiddetti reati dei colletti bianchi — la facilità con cui i colpevoli possono ottenere ampi sconti di pena per illeciti tributari o ambientali — scrive:

Per il delitto di caporalato la pena della reclusione è fissata nel massimo a sei anni e nel minimo a un anno, a meno che non vi sia stata violenza o minaccia, nel qual caso il minimo è di cinque anni. Ma non c’è bisogno di usare violenza o minaccia nei confronti di persone disperate, disposte a sottostare a qualunque condizione pur di lavorare; e quindi chi viene incriminato per avere sfruttato gli immigrati ha buone possibilità di cavarsela senza andare in cella.

6. E così l’atteggiamento più diffuso verso i corpi che faticano resta una narrazione paternalistica, gonfia di stereotipi e priva di pudore. Anche quando i corpi vengono mostrati, talora con voyeuristica insistenza e senza contesto, come in certe inchieste televisive, le singole persone con le loro singole storie e aspirazioni vengono ridotte a oggetti narrativi. Alla persona viene sottratta persino la dignità basilare del decidere quando e come mostrarsi.

Un altro automatismo eguale e contrario è insistere soltanto sul linguaggio. Le parole sono tutto ciò che abbiamo, ho sentito spesso dire da colleghi in ottima fede, con un tono tristemente accorato: e dunque vanno difese per prime. Comprendo il punto in astratto, ma così rischiamo di cadere in una vertigine nominalistica. Proprio perché conosco l’importanza della lingua e ne verifico ogni giorno i capricci e le resistenze — quant’è difficile esprimersi in modo chiaro, quant’è difficile governare le parole — ecco: proprio per questo mi sembra una protervia lasciare in secondo piano il mondo delle cose. Gli abracadabra non cancellano i rapporti di subordinazione fondati su una violenza che non ha niente di metaforico: botte, stupri, paghe negate, pance vuote, insulti, minacce, omicidi (il che ovviamente non significa che le parole non siano importanti, sia chiaro).

Camus ne Il pane e la libertà accusava il tradimento «degli intellettuali borghesi che accettano che i loro privilegi siano pagati con l’asservimento dei lavoratori. Costoro dichiarano spesso di difendere la libertà, ma difendono in primo luogo i privilegi che la libertà dà loro, e solo a loro». Era il 1953: in tal senso non è cambiato molto.

7. Torniamo così alla ingombrante, fastidiosa, realissima presenza dei corpi. «Combatto affinché nella Casa degli Orfani non ci siano lavori fini e lavori rozzi, intelligenti e stupidi, puliti e sporchi». Come realizzare il sogno di Korczak? Ci guardiamo attorno e sembra tutto andare in direzione opposta — incluso questo articolo, naturalmente, scritto a una comoda scrivania, esempio manifesto della divisione del lavoro.

Bene, per quanto mi riguarda ho trovato delle alternative reali e non soltanto vagheggiate nelle esperienze che vanno dai centri sociali all’associazionismo di base. Dove persone di ogni tipo si sono messe in gioco perché avvertivano non solo una responsabilità verso chi stava peggio, o il proprio quartiere, o un edificio abbandonato di cui occuparsi: intuivano anche che per nuovi fini occorrono nuovi mezzi; e tra questi il rifiuto di separare la redazione di un articolo dal tirare un cavo, la presa pubblica di parola dall’allestire un palco. In entrambi i casi si tratta di lavori diretti a uno scopo comune, con rotazioni stabilite, senza implicare sfruttamento. Eguale dignità ed eguale umiltà per ogni gesto.

Certo: come sa chiunque abbia a cuore queste esperienze ma coltivi un po’ di solido realismo, non basta. È salutare, è consigliabile — altro che alternanza scuola/lavoro — ma una volta chiusa la porta si ritorna a comprare cose fabbricate da corpi che faticano. Se non vogliamo che questo patrimonio si riduca a un gioco di difesa perenne tocca dunque allargare lo sguardo e unirlo ad altre lotte, anche più istituzionali, che si pongono il medesimo obiettivo. O quantomeno, desiderano combattere l’enorme quantità di dolore che lo sfruttamento universale infligge.

ARTICOLO n. 33 / 2024

IL CARCERE MI RIGUARDA

Un'intervista di Valeria Verdolini

Milano. La giornata è incredibilmente ventosa. L’aria è un costante mulinello di pollini e petali. Il carcere è lì, si scorge in fondo alla via. Le righe grigie e marsala delle mura di cinta si stagliano in fondo alla piazza. Passato l’androne del palazzo, quello spicchio di città sembra un mondo lontano, ma rimane un orizzonte che si scorge dalle finestre della casa, curatissima. La conversazione che si svolge nella sala è in effetti a tema: si parla di fughe, di isole, di carcere. 

Sono con Daria Bignardi, l’occasione è l’uscita del recente Ogni prigione è un’isola (Mondadori Strade Blu, 2024). Ogni spazio, ogni parete, è accompagnata da un pensiero: le mappe nel soggiorno, i libri ordinati per editore, i colori alle pareti, la poltrona libreria. Tra le varie coste, spiccano i volti di alcuni autori più amati: Kafka, Woolf, Carver. Sulla parete è appeso un décollage di Mimmo Rotella: Quando la moglie è in vacanza

Tanto la casa è pensata in ogni suo oggetto, quanto la sua proprietaria agisce un’informalità apparentemente in contrasto con quella cura. Si tratta però di una forma a me nota, ossia quella sottrazione schiva che insegna la pianura. Ferrarese, da molti anni poliedrica autrice, scrittrice, voce radiofonica e volto televisivo, Daria Bignardi sfugge alle classiche definizioni e non presenta una collocazione univoca nemmeno in biografia. Di lei colpisce la curiosità, la domanda incalzante, e un affettuoso e generoso interesse per l’umanità nelle sue forme più varie. Di questo parliamo davanti a una tazza di tè, mentre nella casa ci sono figli che cucinano cinghiale marinato, amiche arrivate da Odessa cariche di fiori, e una calma di fronte agli eventi esterni che si ritrova nelle pagine del libro.

«Come spesso succede, le cose sembrano accadere per caso. Un paio d’anni fa Jonathan Bazzi aveva avuto l’incarico di dirigere il numero di Finzioni, l’allegato di Domani. Jonathan mi chiese di scrivere di Milano, e di sceglierne un aspetto. Ho pensato che dopo quarant’anni in città, una cosa che conoscevo abbastanza bene ma non era accessibile a tutti era sicuramente il carcere di San Vittore, perché ci vado da quasi 30 anni, ci abito accanto da 25 e l’ho sempre sentito in qualche modo vicino. Perciò ho scritto questo lungo articolo, e Mondadori mi ha proposto di farne un libro, dato che in qualche modo il carcere tornava sempre: nei miei romanzi, nei miei articoli, nelle interviste televisive. Una richiesta che mi ha fatto capire che il carcere in qualche modo nella mia vita c’era da sempre, anche se avevo delle resistenze a capire perché.

È stato difficile scrivere questo libro, non credevo ce l’avrei fatta. Perché quando qualcosa ti sta molto a cuore, quando poi è un tema delicato come questo, pensi sempre che sbaglierai qualcosa, che ciò che dirai non andrà bene a qualcuno, che sarà difficile trovare la voce giusta per parlarne. Ho fatto fatica. Anche perché quando scrivo un libro finisco per pensare solo a quello, ne sono ossessionata giorno e notte, e io non volevo stare giorno e notte in carcere. Il mio rapporto con il carcere è antico ma discontinuo. Ho bisogno di periodi in cui non ci vado. Però ho cominciato comunque a scrivere, e quando l’ho detto al mio psicanalista lui mi ha fatto una domanda semplice, mi ha chiesto cosa rappresentava il carcere per me, mi ha stimolato a riannodare dei fili che partivano da molto lontano. Mi sono ricordata che quando da piccola andavo a giocare dalla mia amica in via Piangipane, a Ferrara, dove c’era il carcere [oggi chiuso e museo della Shoah ndr], e il maestro delle elementari ci diceva che tra quelle mura era stato rinchiuso Giorgio Bassani, noi ci interrogavamo sul perché. Quando sei un bambino o anche quando sei adulto e magari poco informato, e hai fatto poche riflessioni sul tema, pensi che il carcere sia una cosa che non ti riguarderà mai, un luogo dove rinchiudono solo quelli brutti e cattivi, non quelli come te, figuriamoci un grande scrittore.

Con quest’opera ho riannodato tanti fili, ho capito quante sono state le cose che mi portavano dentro. Ieri a Bologna ho fatto una chiacchierata con Alessandro, un ragazzo di Liberi Dentro – Eduradio, la radio in carcere, quella realtà emiliana che fa i programmi che vengono ascoltati dai detenuti. È un giovane laureato in Giurisprudenza, aveva appena letto il libro. Mi ha detto – con la lucidità di chi non ti conosce e ti vede da fuori: «A me sembra che sia stato il carcere a chiamarti». E io ho pensato: «Ma sai che forse ha ragione lui?»

Valeria Verdolini: Quella chiamata dal carcere arriva presto. Nel libro tu racconti di una fitta corrispondenza con Scotty, un detenuto americano nel braccio della morte, iniziata negli anni dell’università.

Daria Bignardi: Avevo 25 anni, forse di più, non così presto. Mi sembrava normalissimo farlo. O meglio, che una persona potesse stare nel braccio della morte mi sembrava una cosa inconcepibile e avevo bisogno di parlarci, di fare qualcosa. E poi ero grafomane. Quando ero ragazza si scriveva molto, si scriveva per se stessi, ci si scriveva con gli amici, si scrivevano un sacco di lettere che magari non si mandavano neanche. Mi è venuto spontaneo. Ho visto questo indirizzo su un ciclostile, gli ho scritto. Lui mi ha risposto subito ed è nata una corrispondenza che in realtà mi è sempre sembrata normale pur nell’assurdità della sua condizione. Quando mi ha scritto che era stata fissata la data dell’esecuzione, è stato inconcepibile. Eppure è successo.

V.V. E che cosa vi raccontavate in quelle missive?

D.B. Mi raccontava quel che faceva lì e le sue speranze. Ti racconto una cosa strana appena successa. Il giorno in cui in Mondadori sono arrivate le prime copie sono andata a firmarne qualcuna. Quindi ho visto per la prima volta il libro stampato, l’ho toccato, maneggiato, fotografato. È sempre emozionante quando vedi e tocchi per la prima volta la copertina, le pagine, la carta. Quello a cui hai lavorato per anni, finito, pronto per andare nel mondo. Quando la sera sono tornata a casa, dal momento che dopo due giorni avrei dovuto fare la prima presentazione, un’anteprima a Libri Come a Roma, e avevo invitato Sisto Rossi, uno dei detenuti di cui scrivo, uno dei primi che ho conosciuto e con il quale sono stata a lungo in contatto anche quando se n’era andato da San Vittore, trasferito al carcere Mammagialla di Viterbo, e non lo non vedevo da più di vent’anni, insomma, ho pensato di rileggere le lettere che mi aveva mandato.

Erano fogli con appiccicate margherite fatte seccare [raccontato nel libro, ndr] e altri fiori che aveva raccolto tra le pietre nell’ora d’aria. Sono andata a cercarle, erano dentro una cartellina che non aprivo da anni. In quella cartellina, con mia grande sorpresa, c’era anche una lettera di Scotty, lettera che avevo cercato per tutta la stesura del libro senza mai trovarla. Un filo che nel libro non si riannoda. E invece quella lettera l’ho trovata alla fine, a libro chiuso. L’ho trovata il giorno in cui ho visto il libro per la prima volta. E devo dire, non ho potuto non pensare a un segnale di Scotty, una sorta di incoraggiamento, una specie di “ehi dài, grazie che vi ricordate di me”. Quella lettera, ritrovata proprio quel giorno, mi ha emozionato moltissimo. Dentro la busta c’era anche una sua foto. Non era come me lo ricordavo. Io mi ricordavo e l’ho descritto come un ragazzo biondo, tipo un giovane Ryan O’Neal. No, Scotty era più un John Cusack, bruno. Però tutto il resto me lo ricordavo bene: quello che mi aveva scritto, la rapina che aveva commesso con la fidanzata quando era un diciassettenne tossicodipendente. Nella lettera sosteneva anche che non era stato lui a sparare. Mi raccontava la sua vita in carcere. C’erano alcune cose che ricordavo benissimo e altre che la memoria aveva alterato, tipo il suo viso. Non rivedevo quella lettera da 30 anni. Ritrovarla per caso il primo giorno di vita del libro è stato stranissimo.

V.V. Il libro fa la scelta di giocare sul binomio isola-carcere. Già il titolo dice che ogni prigione è un’isola, ma tu porti il lettore tanto in carcere quanto in viaggio con te, in particolare a Linosa.

D.B. Come tanti, ho sempre avuto attrazione per le isole, mi hanno sempre fatta sentire protetta. Le vivevo come luoghi in cui era più facile ritrovarsi e trovare un’identità. Ci ho passato molto tempo quando ero ragazza, ci ho lavorato, credo che sia un’attrazione comune, no? A un certo punto ho sentito che per riuscire a scrivere questo libro dovevo isolarmi e ho scelto quest’isola molto piccola, di soli cinque chilometri quadrati, dove ero stata soltanto l’anno prima. Linosa è un’isola particolarmente remota in Italia. Ci risiedono 400 persone, ma d’inverno ne rimangono al massimo 200. Ha molte difficoltà con i trasporti, ci si va da Lampedusa o dalla Sicilia, ma non c’è il porto per gli attacchi e quando c’è mare grosso i traghetti fanno fatica ad attraccare e gli sbarchi sono a discrezione del comandante. Non è assolutamente garantita la continuità territoriale che prescrive la legge. I linosani, giustamente, sono molto arrabbiati con la Regione econ lo Stato, che trascura le loro mille difficoltà.

Insomma, ero andata lì per isolarmi, ma anche sull’isola continuavano a uscire storie di carcere, da quelle dei soggiornanti mafiosi che ci erano passati dagli anni Settanta in avanti, dei quali ho trovato le lettere in biblioteca, al regista di Ariaferma che sbarcava sull’isola. Ho chiesto ai linosani di raccontarmi di Angelo La Barbera, di Giovanni Brusca, di tutti quelli che avevano abitato lì, e ho messo i loro racconti nel libro. Intanto leggevo i libri che mi ero portata: L’Università di Rebibbia di Goliarda Sapienza, Io l’infame di Patrizio Peci, L’orlo del bosco di Cecco Bellosi, Nel ventre della bestia di Jack Abbott. E tutto entrava e trovava senso dentro al racconto che stavo facendo: gli incontri, le letture, i racconti, il mio isolamento. Il mio approccio al tema carcere non è giornalistico né da attivista né da addetta ai lavori, è l’approccio di chi sente che questa cosa, in qualche modo, lo riguarda.

V.D. Sembra un approccio affettivo, quasi.

D.B. Probabilmente. Sento che mi riguarda e cerco di fare quello che posso, ma soprattutto racconto dove mi hanno portato il desiderio, la curiosità, gli affetti. Ho fatto amicizia sia con i detenuti che con gli educatori, i direttori, una magistrata. Incontri profondi: lo sai come sono quelli che si fanno in carcere, non te li dimentichi. Nel libro racconto di Manolo, conosciuto a San Vittore nel reparto La Nave. Una volta siamo andati insieme in una scuola, a parlare di legalità e di carcere ai ragazzi. Mi aveva raccontato di aver malmenato un tizio del suo quartiere e poi davanti al giudice, per avere una condanna minore, aveva finto di pentirsi. L’aggredito ci aveva creduto e lo aveva abbracciato e perdonato. E mi aveva detto: «Io avevo finto di pentirmi, non ero per niente pentito. Ma quello lì invece, quando ci ha creduto e mi ha abbracciato, non sa cosa ha fatto, mi ha cambiato per sempre. Non dico che da quel momento ho smesso di delinquere, però da quel momento è iniziato qualcosa e poi un po’ alla volta, piano piano, ho fatto la scelta di uscire dal mondo criminale».

Manolo purtroppo ha avuto un incidente, è stato in coma un anno ed è morto, quindi non c’è più. Non ha potuto ricominciare, riprendere in mano la sua vita. Però un racconto del genere, di come un finto perdono possa diventare un perdono vero, è indimenticabile. È difficile imbattersi in storie di questa potenza fuori dal carcere. Chi è ristretto ha spesso storie straordinarie da raccontare. La storia di Marcello Ghiringhelli, che ho messo nel libro, è la storia di un ragazzino al quale la mamma fece fare l’elettroshock perché si ribellava al padrone da cui faceva il garzone. Lui allora è scappato, si è arruolato nella Legione Straniera, ha combattuto la Guerra d’Algeria, poi è scappato anche da lì, ha cominciato a fare il bandito, è finito a Parigi. Al Café de Flore ha conosciuto Simone de Beauvoir e Sartre. Dopo, in carcere, è diventato un brigatista. Nessun romanzo ti può raccontare una storia così. Per chi scrive e per chi legge sono storie irresistibili.

V.V. Non solo è irresistibile il tipo di racconto che restituisci, ma è anche molto forte il rapporto che esiste – fuor di metafora – tra isole e carcere. Nel mondo, 273 isole hanno ospitato carceri, confini, detenzioni.

D.B. Ero a Linosa, ma dall’isola i pensieri hanno fatto connessioni. Ero stata al carcere dell’Asinara, al carcere di Santo Stefano vicino a Ventotene, al carcere Terra Murata di Procida. Istituti chiusi nei quali respiri ancora la violenza che li aveva abitati. Il legame tra carcere e isole non è solo interiore ma anche reale.

V.V. La parola stessa, isolamento, ha la medesima matrice. Si tratta però di un isolamento abitato. Ci sono tanti animali nel libro.

D.B. Ci sono sempre animali nei miei libri, sia perché mi piacciono sia perché mi piace raccontare quel che succede mentre scrivo. Chi incontro, cosa penso. E a Linosa gli incontri sono stati soprattutto con certi animaletti inquietanti, come i tiri di cui racconto nel libro. 

Non so se sei andata a vederli, fanno abbastanza paura no? Più che paura, poverini, fanno un po’ senso perché sono come dei grossi lucertoloni, però lisci, grassi e lucidi, e hanno le zampette come le lucertole ma si muovono strisciando come serpenti, quindi sono abbastanza impressionanti. Non sono come le lucertole che a Linosa sono ovunque, però ce ne sono parecchi, perché amano la pietra lavica come nella casa dove stavo, una casa che mi piaceva moltissimo, dove ho scritto parecchio. Mentre convivevo con questi animali inquietanti mi ritrovavo nelle pagine dell’Università di Rebibbia dove Goliarda Sapienza non dico che facesse amicizia con gli scarafaggi, però ci interagiva, si affezionava. Sono tante le storie di detenuti che fanno amicizia con topi, ragni, e tutti gli animali tranne le zanzare, «quelle infami» ti dicono. Quando sei da solo ti affezioni, tranne che alle zanzare, a qualunque essere vivente incontri. Quando sei isolato sei particolarmente attento al vivente che si manifesta. Io a Linosa mi ero affezionata alle turriache [le berte di Linosa ndr], e un po’ anche ai tiri, tutti animali bizzarri e poco comuni. La comunicazione con loro a Linosa era più profonda che mai.

V.V. Tu fai molti incontri nel libro. Nella trama dei tuoi incontri in qualche modo ritorna quasi tutto il carcere perché ci sono delle persone dalle storie incredibili come Ghiringhelli, Salvatore Piscitelli e la sua storia a Modena, o ancora Patrizia Reggiani, e anche tutti quei pezzi che invece riguardano il periodo degli Anni di Piombo sia per storie incrociate che familiari. Come hai scelto tra i tanti incontri di questi 30 anni quelli da raccontare?  

D.B. Seguendo l’istinto. Scegliendo gli incontri che in qualche modo erano rimasti, erano tornati oppure erano stati inaspettati, come quelli con Lauro Azzolini e Bianca Amelia Siviero. Ero andata a presentare il libro di Tino Stefanini e Giorgio Panizzari al Consorzio Via dei Mille, a Milano, un consorzio di cooperative che lavorano nelle carceri. Non mi aspettavo ci fossero anche loro e ho capito solo alla fine chi erano. È stato un incontro che mi ha colpito perché loro hanno avuto ruoli molto importanti nelle Brigate Rosse, ma quel che mi ha colpito di più era stata la semplicità con cui durante e dopo la presentazione Bianca Amelia Sivieri mi aveva approcciato, raccontandomi che era di Castelmassa, un paese vicino a Ferrara. Avevamo chiacchierato e scoperto che era stata maestra come mia madre. Le avevo raccontato di mio padre che lavorava spesso dalle sue parti: c’era stata subito una sorta di familiarità. Ho capito solo dopo chi era, e ho fatto delle ricerche.

È stato un incontro, quello e altri con persone come Panizzari o Ghiringhelli, che mi ha fatto riflettere su come persone che hanno avuto una vita così violenta – si sono fatti almeno 40 anni di carcere durissimo, convivendo col peso di reati terribili, riescano ancora a sorridere. Tu oggi vedi delle persone anziane, affabili – Siviero poteva essere la mia prof del liceo, o mia suocera – e sai che hanno avuto una vita terribile in cui hanno esercitato e subito la violenza. Inevitabile il desiderio di provare a capire quegli anni, il loro percorso, come hanno ragionato. Il loro contesto storico, politico, sociale. Ma questo vale per tutti i detenuti, non solo per i politici. Vale per tutti quelli che hanno fatto delle scelte estreme. Anche per i rapinatori come Tino Stefanini che si è fatto quasi 50 anni di carcere. Provi a cercare di capire quali sono le risorse dell’uomo in situazioni estreme. La famosa frase di Svetlana Aleksievič: «In guerra l’uomo è come illuminato a giorno» vale anche per il carcere. Dentro al carcere vedi le persone per come sono davvero. E questo per chi scrive, racconta, ma anche solo osserva il mondo è magnetico.

V.V. C’è una cosa che rimane più sottotraccia. Com’è il carcere lo fai dire ai tuoi personaggi, ma in pochi punti dici come è il carcere per te. Che cosa pensi del carcere?

D.B. Pensa che secondo Adriano [Sofri, ndr], che è il nonno dei miei figli ma soprattutto un grande amico, lo spiego anche troppo. Secondo lui dovevo farlo dire solo agli altri, per una questione di stile, di sobrietà. In realtà mi sembra di aver detto chiaramente cosa penso. Penso che il carcere sia inutile, nocivo, dannoso, squallido e pericoloso. Ho cercato di far parlare soprattutto gli altri, perché è il mio modo di scrivere: mettere in scena senza dare giudizi o sostenere tesi. Questo non vuole essere un libro militante, anche se finisce inevitabilmente per esserlo. Vorrei parlare a tutti, non a chi la pensa già come me. Portare con me i lettori dentro un mondo di emozioni, ingiustizie, storie, paradossi. E portarli con me senza farli sentire giudicati per quello che pensano.

V.V. Infatti hai relegato lo sbilanciamento, l’esposizione sul carcere all’esergo. 

D.B. Le due frasi dell’esergo dicono quasi tutto e ben in vista, ma di solito l’esergo lo vai a rileggere e lo comprendi solo dopo che hai letto il libro, non prima. Su un tema come questo, che è già un grande rimosso, ho cercato di includere e non escludere. Di far scattare quel click tra cuore e cervello che fa sì che una cosa che magari sai che è giusta ma solitamente ti annoia o infastidisce ti diventi invece cara perché senti che ti riguarda. Ma come si può mantenere uno sguardo in equilibrio, di sottrazione, su uno spazio che è esso stesso uno dei poli delle dicotomie politiche dell’oggi?

V.V. Avresti voluto inserire cose che poi non sei riuscita a mettere?

D.B. Ho fatto fatica – per difficoltà credo burocratiche e di passaggio di richieste – a incontrare i medici penitenziari e alla fine ci ho rinunciato. In generale nessuno si è rifiutato: ho parlato con agenti, direttori, educatori, magistrati, detenuti ed ex detenuti. Solo con i medici non sono riuscita a parlare. Forse perché sono gli unici che ho cercato per strade ufficiali. Ma non ho insistito. Non volevo forzare nessuno. 

Credo che questa storia stia in piedi così, nel suo essere anomala, libera, istintiva, piena di cose mie. Io che rimango chiusa nell’armadio, i tiri di Linosa, gli incontri in spiaggia con il colonnello della Guardia di Finanza. Volevo che si sentissero le emozioni, le sorprese, le scoperte, i dubbi che ho avuto scrivendo e che poi si sono sciolti. A un certo punto ho capito che dovevo solo lasciarmi andare. Scrivere tutto, spudoratamente. Scrivere è decidere di tirar fuori tutto e senza vergogna. L’editor del mio primo libro, Non vi lascerò orfani, era Antonio Franchini. Dall’alto della sua autorevolezza mi aveva detto solo questo: “tira fuori tutto, non c’è altro da fare”. Nel libro precedente a questo, Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici, cito Marina Abramović e quei seminari dove mette le persone intorno a un tavolo con sotto un cestino della carta straccia e una pila di fogli bianchi, con l’indicazione di non svuotare mai il cestino. Alla fine del seminario va a vedere cosa c’è nel cestino, nelle idee che non si ha avuto il coraggio di tenere, non nei fogli consegnati. 

Quando ti dico che ho fatto fatica è perché non è stato facile, su un tema come questo, concedermi eventualmente anche di sbagliare, dire una cosa che può sembrare inopportuna, ridere. Nel capitolo dei tiri, i lucertoloni di Linosa, per esempio, si ride. In un libro sul carcere dove ci sono dall’inizio dell’anno 30 detenuti che si sono suicidati si può ridere? Io in queste pagine mi concedo anche di ridere. Come si ride ai funerali, o a scuola. 

V.V. A libro concluso, se potessi integrarlo, cosa aggiungeresti? I terribili fatti avvenuti in questi giorni al Beccaria, credi che avrebbero potuto trovare spazio tra le pagine? Come avrebbero cambiato le cose? 

D.B. Quello che si è scoperto al Beccaria meriterebbe un libro a sé. Tredici agenti indagati. Tredici come i tredici morti nelle rivolte di marzo 2020. Un numero che deve diventare il simbolo di quello che non si può più accettare. Con il Beccaria e con i morti nelle rivolte abbiamo toccato il fondo.

V.V. Il titolo è un’affermazione, Ogni prigione è un’isola. Siamo così d’accordo che ogni prigione debba essere un’isola? Che tipo di isola è la prigione?

D.B. La frase è stata detta da un ispettore. Voleva affermare che ogni istituto era diverso dall’altro, cosa come sappiamo vera, perché ogni istituto dipende dal direttore, dal rapporto del direttore con il comandante e da tutta una serie di altre variabili. Io invece l’ho isolata dal contesto in cui la diceva perché mi parlavano queste due parole: prigione e isola. Ho pensato alle prigioni interiori, mentali. A come possono essere prigioni i dogmi, i rapporti tossici, le nostre paure. Ho pensato che le cose che ci imprigionano sono elementi che ci isolano. E poi mi piace l’idea di guardare l’isola dal di fuori, dalla sponda di fronte, come racconta la copertina che è l’opera di un giovane artista russo di 25 anni. Aveva fatto un quadro simile a questo, gli abbiamo chiesto di inserire una donna che guarda quel profilo rosso laggiù che ricorda un po’ un carcere. 

V.V. Come possiamo guardare le prigioni da fuori, da oltre il muro di cinta?

D.B. Sul piano individuale, riuscendo a uscire da se stessi e vedere le proprie paure, su quello collettivo cercando di non tenere nascosto quello che accade dentro al carcere.

ARTICOLO n. 32 / 2024

VIVA L’ITALIA ANTIFASCISTA

Fa molto strano parlare di antifascismo, uno dei principi cardine – se non IL principio cardine – della nostra Costituzione, in questo 25 aprile 2024.

Fa strano perché “antifascismo” negli ultimi due anni è diventata una parola-jolly, alle volte insulto, alle volte scomoda, alle volte arma, usata da sempre più persone per indicare qualcosa di quasi anacronistico, una paranoia démodé. 

Quando di scomodo questo termine non dovrebbe avere niente, a meno che non si sia, per l’appunto, fascisti.

L’uso smodato e quasi sempre improprio del termine mi fa comprendere con non poco rammarico che la nostra classe politica ha una fottuta paura del significato della parola “antifascismo”. Sulle prime per me era piuttosto imbarazzante avere degli esponenti di Governo che non solo non la pronunciano mai, ma pensano che antifascismo sia il termine gemello di anticomunismo. Poi ho compreso che questo silenzio sulla nostra purtroppo recente storia – durata un Ventennio, e che è piaciuto moltissimo ai partiti-satellite di questa maggioranza e al presidente del Senato, che ne conserva i cimeli in casa propria – aveva e ha uno scopo ben preciso.

Già, perché se i fenomeni non li nominiamo, questi non esistono. 

E nessuno al Governo ha a quanto pare intenzione di pronunciare quelle dodici lettere che formano il fondamento della nostra costituzione. Perché pronunciarle vorrebbe dire dover dare fin troppe risposte a quesiti – quelli sì – divisivi per la maggioranza e i grandi supporter di Meloni.

Da due anni, davanti ai nostri occhi sta infatti avvenendo quello che potremmo chiamare il teatro dell’assurdo meloniano: pur di non arrendersi all’inevitabilità dell’antifascismo come principio fondativo della nostra Repubblica, gli esponenti di Governo stanno facendo dei numeri di prestigio che Houdini a confronto era un principiante un po’ goffo.

È dai primi mesi di questa legislatura che le domande su talune vicinanze tra Ministri, presidenti, parlamentari con ambienti fascisti e neofascisti affollano i (tele)giornali italiani.

Il primo rappresentante dello Stato – la seconda carica di questo paese – a cui è stato chiesto da alcuni giornalisti di dichiararsi antifascista è Ignazio La Russa.

Complici forse quel saluto romano in Parlamento, il busto del Duce in cucina, i cimeli del colonialismo fascista in Africa, la camicia nera esposta in casa sua, il suo secondo nome dal sapore retrò (Benito) e la vicinanza in gioventù all’MSI, i dubbi su una sua possibile affiliazione – se non più partitica quantomeno di cuore – agli ideali fascisti sono sorti piuttosto spontaneamente. 

Riuscito quasi sempre a tergiversare e a lanciare deliziose e fantasiose supercazzole (tra cui: «siamo tutti eredi del Duce, se intendi eredi di quell’Italia dei nostri padri, nonni e bisnonni» in risposta a Michele Emiliano), non è riuscito a scappare alla redazione di Repubblica, a cui lo scorso aprile ha dichiarato che la nostra Costituzione di riferimenti all’antifascismo non ne fa.

Chissà quale Costituzione ha letto, ma corriamo oltre.

Neanche Lollobrigida è stato particolarmente espansivo nel parlare di antifascismo con i giornali.

Dopo aver travisato Pasolini e aver dichiarato di odiare il “fascismo degli antifascisti”, qualche settimana fa davanti ai cronisti presenti al congresso romano di Fratelli d’Italia ha dichiarato che il concetto di antifascismo non gli piace molto, perché, cito, il concetto di “anti” non lo convincerebbe molto. Preferisce la preposizione propria “per” (per fascismo? Freud lo chiamerebbe un lapsus). Subito dopo ha ricordato con affetto i tempi dell’MSI e ha aggiunto anche che Mussolini andrebbe storicizzato.

Valditara sembrava promettere meglio a parole: nel 2023 aveva perfino pronunciato la parola antifascismo senza aver conati o rash cutanei improvvisi. Poi però si è lanciato in una brutta, violenta, prepotente accusa alla preside Savino che, in una circolare scolastica destinata al suo istituto fiorentino in seguito alle aggressioni da parte dei movimenti studenteschi neofascisti agli studenti del Michelangiolo, aveva difeso proprio i valori dell’antifascismo.

Sangiuliano a gennaio invece ha deciso di rispondere alla domanda di un cronista dell’Ansa, che gli chiedeva se si dichiarasse apertamente antifascista, strappandogli il microfono dalle mani e chiedendogli con brutalità se lui – il cronista – fosse pronto a dichiararsi anticomunista.

Piantedosi si è allineato alla linea di Governo e, alle domande di un’intervista di un paio di mesi fa, ha risposto di essere fermamente antifascista. Così come è anticomunista e antitotalitarista. Insomma, sembra che tra i vari Ministeri sia passata una circolare con la formula standard da usare in caso di emergenza. 

Salvini è un maestro nell’arte dell’escapismo sul tema: per anni – soprattutto nel periodo in cui era appassionato sostenitore e frequentatore di CasaPound – si è sempre dichiarato lontano dall’antifascismo. Solo recentemente, a “Belve”, il programma di Francesca Fagnani, si sarebbe dichiarato antifascista. E subito dopo anticomunista. Per bilanciare, non avesse a venirgli un travaso di bile in studio.

Meloni è come il mostro finale del videogame: farle ammettere di abbracciare i valori antifascisti è difficilissimo. È diventata sempre più scaltra nel rigirare frittate, fingere problemi tecnici, fare finta di nulla davanti alla domanda e passare subito alla successiva.

Ha condannato i nazisti, i lager, il comunismo russo, Mao, ma mai il fascismo. 

A capo del partito – e poi del Governo – che ha raccolto le briciole dell’MSI, con una gioventù in Alleanza Nazionale e una ormai storica dichiarazione del 1996 alla tv francese in onore di Mussolini – “è stato un buon politico, il migliore degli ultimi cinquant’anni” (cit) – Meloni è talmente refrattaria nel voler prendere le distanze dalle proprie radici che qualche giorno fa a Bruxelles, al termine del Consiglio Europeo, alla domanda di un giornalista che le chiedeva se si dichiarasse antifascista non ha risposto, lasciando un silenzio piuttosto eloquente davanti a quei microfoni. 

In questo meraviglioso panorama, che se non fosse preoccupante farebbe anche ridere, il gioco di risemantizzare alcune parole portato avanti dagli esponenti del Governo Meloni sta purtroppo funzionando.

A forza di ripetere che dichiararsi antifascisti sarebbe come dichiararsi anticomunisti – non serve, vero, che vi dica perché in Italia questa frase non solo non abbia senso, ma sia anche un pessimo, ridicolo, puerile artificio retorico? – si è svuotato il termine legato alla liberazione del nostro paese dal regime mussoliniano. 

Continuare a spostare l’attenzione dal tema al suo contorno (la parola, gli altri totalitarismi, la presunta mancanza di complessità, la necessità di apparire sempre come vittime di un complotto della sinistra) sta riuscendo a cancellare la già precaria memoria di un popolo in crisi d’identità.

Unitamente a questa risemantizzazione del termine “antifascismo”, le politiche del Governo Meloni remano nella direzione della censura, ovvero l’alleato più potente di ogni organismo politico con tendenze estremiste.

Prima le nomine Rai, poi l’esodo dalla tv pubblica, poi l’editto – quello “bulgaro” di Berlusconi a confronto fu una passeggiata di salute per la democrazia e il pluralismo di questo paese – con cui sono stati cancellati i palinsesti radio Rai, le voci storiche della televisione di Stato, i programmi scomodi – su tutti quello di Saviano – l’essenza del contraddittorio stesso. Poi la censura del monologo di Nadia Terranova a “Che sarà”, in cui la scrittrice avrebbe voluto parlare delle cariche della polizia a studenti e studentesse durante la manifestazione di Pisa a sostegno del popolo palestinese. Questa censura è passata in sordina rispetto alle altre (sarà perché Terranova è donna? Lancio il dubbio a voi lettori e lettrici, io la mia triste idea la ho già) ma non è meno grave, anzi. Fa ben capire la linea editoriale di Telemeloni. 

Fino ad arrivare alla censura di Scurati, che avrebbe dovuto tenere un monologo a “Che sarà”, il programma condotto da Serena Bortone, e che la dirigenza Rai ha cancellato a poche ore dalla diretta prevista.

Il monologo di Scurati verteva proprio sull’incapacità di questo Governo di prendere le distanze da un passato con il quale il nostro paese non ha mai fatto i conti. 

Il premio Strega, docente universitario, nonché uno dei maggiori conoscitori e studiosi contemporanei del Ventennio fascista, analizzava come l’inedia nel trattare quella parte della nostra storia abbia fomentato movimenti neofascisti e portato a un tentativo di riscrittura del passato.

Incapaci di ripudiare il fascismo, come Costituzione invece prevede, il nostro gruppo dirigente post-fascista (come lo chiama Scurati e a cui io mi accodo con convinzione) sta cercando di confondere le acque di un paese in crisi. Una crisi sociale, economica e culturale che porta facilmente alla nostalgia di un passato che viene – in primis dagli esponenti di questo Governo – troppo spesso glorificato e mai saldamente condannato o quantomeno dipinto per quello che realmente fu: un disastro di morte, distruzione, violenza e carestia che rovinò il nostro paese, portando alla morte di centinaia di migliaia di persone e alla distruzione di una generazione intera. 

Ma questo non è possibile, non è uno scenario contemplabile, perché questo Governo si nutre da sempre del supporto di associazioni, partiti-satellite e movimenti neofascisti.

I resti dell’MSI sono seduti nelle aule del Parlamento, e persone indagate per stragi nere premiate con promozioni (vedasi De Angelis alla comunicazione della Regione Lazio). Casa Pound è stata sorella e alleata di Ministri della Repubblica, Forza Nuova e Casaggì sono i luoghi da cui è partita la militanza del Presidente del Consiglio della Repubblica italiana: rinnegare il fascismo sarebbe una mossa kamikaze per un organizzazione paragovernativa come questa.

E non solo.

Perché forse queste sono solo tante giustificazioni che mi voglio dare davanti al silenzio e al revisionismo storico portati avanti da questo Governo.

Perché forse la risposta più semplice è anche quella più veritiera e terribile: è infatti impossibile rinnegare il Ventennio per chi è ancora fascista nel 2024.

Alle soglie di questo 25 aprile provo un grosso scontento e una lacerante preoccupazione per quelle che saranno le sorti di questo nostro paese, sempre più vicino al modello ungherese che alle forme virtuose di democrazia.

Mi chiedo cosa direbbe il mio nonno paterno, oggi, vedendo glorificare lo scempio per cui la sua generazione ha dato la vita.

Meloni, Salvini, Valditara, Sangiuliano, Piantedosi e gli altri escapisti di professione non sapranno dire cosa sia davvero l’antifascismo. 

Ma io sì. E come me migliaia, centinaia di migliaia di altre persone, centinaia di altri e altre intellettuali, attiviste e attivisti, giornaliste e giornalisti. 

L’antifascismo fu il movimento più trasversale della nostra storia politica. 

Comunisti, monarchici, cattolici, anarchici, preti, avvocati, contadini, donne, ragazzini, medici, disertori decisero di resistere davanti alla violenza cieca e poco intelligente del fascismo e ci donarono quella che oggi chiamiamo democrazia.

Lo sforzo di un intero paese ci ha regalato con il sangue, e con la Resistenza, lo strumento prezioso che è la nostra Repubblica. Lo stesso strumento con cui questo governo vuole riaffermare ideali e metodologie fasciste.

Ma se Meloni e compari, anziché evitare la storia, l’avessero studiata, saprebbero che nessun popolo davanti all’ingiustizia si fa prendere a lungo per il culo.

E che, di tutte le virtù, quella dell’intelligenza non è tipica dei nostalgici del Ventennio.

Proprio per questo, evidentemente, le voci libere degli intellettuali fanno così paura da meritare la censura.

In questo clima di tensione, un clima in cui si può essere licenziati senza preavviso o censurati per un monologo, sta nascendo per fisiologica risposta un movimento antifascista sempre più eterogeneo e coeso, che ricorda benissimo le radici di questo termine e che non ha mai avuto paura, tantomeno adesso, di urlare a gran voce Viva l’Italia antifascista.

Che questo 25 aprile sia un giorno di festa, di ricordo e di militanza. 

Alla faccia di chi ci vuole insegnare una storia diversa dalla nostra.

ARTICOLO n. 31 / 2024

MI DIMETTO DALLA MIA CLASSE. MA SEI IMPAZZITƏ?

Confini sociali, sessuali, istituzionali e del lavoro

Non si cambia classe sociale come una camicia. Oggi quella camicia è una camicia di forza. Immobilismo, conservazione o declassamento. In questo scenario solo qualcuno si conquista il diritto alla “mobilità sociale”. Cantanti, sportivi o imprenditori, talvolta incarnati nella stessa persona, per esempio. Gli altri sono alle prese con un dilemma: difendere o perdere quel poco, o molto, che i genitori hanno conquistato nell’epoca d’oro degli anni ’60-’70-’80, definiti “gli anni gloriosi”. Il Novecento è una questione di eredità. Patrimoniale. Per i migranti, tranne qualcuno compreso nelle categorie sopra menzionate, nemmeno quella.

Se c’è un discorso sulla questione sociale oggi è quello della promessa tradita dell’“ascensore sociale”, e in particolare delle classi medie “basse” o povere. Al tempo della pretesa “fine delle classi sociali”, quella “media” è ancora legittimata a parlare, anche perché sui suoi valori è costruita buona parte della comunicazione massmediale. Il terrore di tornare indietro, verso mondi arcaici senza nome – da cui i nonni e i padri di quelle classi provenivano – toglie il fiato e aumenta la paura. Anche perché una società come questa non ha pietà per i “falliti”. Chi invece non ha nulla, tranne le catene, è contemplato solo come minaccia, oppure è compatito come “escluso” o “povero”.

L’ascensorista

C’è stata un’epoca che ha atteso un Messia. Quella attuale attende inutilmente il tecnico degli ascensori. L’ascensorista è una metafora che ha trasformato la società in un condominio dove un ascensore sale e scende. Lui è il protagonista del racconto della mobilità sociale. Occupa il ruolo della mano invisibile del mercato, è la forma secolarizzata della provvidenza, è la metafora dell’assunzione in cielo, dell’investitura carismatica, o della predestinazione.

L’ascensore sociale è sempre stato guasto. E, quando ha funzionato, lo ha fatto grazie alla lotta di classe. La “mobilità sociale” non è una metafora del mercato, ma è l’effetto di un attrito con esso, oltre che della manifestazione di una soggettività irriducibile alla logica dello scambio tra una domanda e un’offerta. Eppure a questo è ridotta, a una lotta di classe malintesa e mascherata. Ci si concentra sull’immagine di una società-piramide, non sul problema di chi ha creato la scala, su chi manda il tecnico quando l’ascensore si blocca o sul potere di chi decide che la ricchezza va in un senso e la povertà nell’altro. 

Nella metafora dell’ascensore sociale è sempre entrata solo un’élite che accede alle posizioni superiori. Può essere ampia quanto si vuole, ma non può evidentemente raccogliere tutta la popolazione. Tutti non entrano nella stessa cabina. A turno potrebbero farlo? Forse anche sì, ma se tutti andassero all’ultimo piano l’intero palazzo crollerebbe. La metafora, pur assurda, ha una logica stringente. 

Sebbene le frontiere si siano allargate, al tempo rimpianto dai più dei “trenta gloriosi”, il sociologo Paul Pasquali ha ipotizzato che l’ascesa sociale abbia escluso almeno un terzo della popolazione con un basso livello di istruzione. Questo è accaduto in Francia. è ragionevole pensare che in un paese come l’Italia che ha conosciuto un notevole cambiamento anche grazie alla scuola e all’università “di massa”, gli esclusi siano stati molti di più. Nonostante una relativa redistribuzione della ricchezza, causata dai tentativi spesso drammatici di allargare la base sociale della democrazia, il potere è rimasto lo stesso, indipendentemente dagli esiti che i singoli vissuti, pur valorosi, hanno avuto.

Il cortocircuito è iniziato con l’inarrestabile riduzione delle possibilità (sociali, professionali, relazionali) della classe media. Non è stato dunque l’accesso mancato ai piani alti dei lavoratori con una scarsa istruzione, ma quello di chi ha lottato ed è stato selezionato per ottenere meriti, capacità e riconoscimenti che non si sono tradotti né in posti di lavoro adeguati, né soprattutto con una sicurezza economica che in passato è stata barattata con la rinuncia a cambiare la gerarchia che stabilisce i poteri.

Annie Ernaux 

Annie Ernaux sarebbe stata un caso esemplare di “ascensione sociale”. Lei, figlia di piccoli commercianti provinciali, è diventata scrittrice di successo in Francia e premio Nobel per la letteratura. I suoi romanzi hanno descritto cosa significa emanciparsi in una società dove i ruoli sono fissati e solo agli individui “meritevoli” è permessa la scalata.

Annie Ernaux, protagonista dei suoi romanzi, ha una storia tutt’altro che individuale. Nel suo racconto che ibrida l’autobiografia, il saggio storico e sociologico, la filosofia e il romanzo emerge un’epopea collettiva. Quella di una lotta di classe in cui una società ha sfidato il razzismo “interno” contro il proletariato e la classe media inferiore, mettendo in crisi la divisione sociale dei ruoli.

Dell’Io, protagonista di molta “autofiction” di oggi, Ernaux fa un uso strategico. Per lei l’Io – forma al tempo stesso maschile e femminile – è uno strumento esplorativo per catturare le sensazioni, guida all’autenticità della ricerca e impegno a rompere la solitudine «delle cose sofferte e sepolte», a «pensare in modo diverso a noi stessi». «Quando l’indicibile viene alla luce, è politico». 

«Per quanto mi riguarda, è vero che non riesco a pensare ad altro che alla scrittura. Ho sempre pensato che la scrittura fosse un modo di intervenire nel mondo… Non ho mai voluto che i libri fossero qualcosa di personale per me. Non è perché mi sono successe delle cose che le scrivo, ma perché sono successe, quindi non sono uniche… Quando l’indicibile diventa scrittura, è politica. Certo, le cose le vivi personalmente… Ma non devi scriverle in modo che siano solo per te. Devono essere transpersonali, ecco cosa devono essere» (A. Ernaux, Le Vrai Lieu. Entretiens avec Michelle Porte, 2014).

La scrittura come confessione di classe originaria o elettiva è “transpersonale”, nel senso che si connette con coloro che sono invisibili, non sono in grado di scrivere, ma hanno altri codici con i quali hanno tradotto il loro desiderio di emancipazione. La scrittura parla sia con i laureati all’Ecole Normale Supérieure consacrati professori universitari che con gli operai, i borghesi, gli inquieti e i non classificabili che hanno rifiutato di aderire alle aspettative borghesi o aristocratiche dei loro genitori.

Ernaux ha inoltre insistito sulla duplice espressione: “ho tradito la mia razza”, “ho tradito la mia classe”. L’ambivalenza è dovuta sia a un equivoco epistemico e politico diffuso nel movimento operaio alle cui origini, come ha spiegato anche Michel Foucault in Bisogna difendere la società, la “razza” e la “classe” si sovrapponevano e confliggevano.

Ernaux ha scritto che sessant’anni fa l’espressione “Scriverò per vendicare la mia razza” riecheggiava il grido di Rimbaud: “Sono di una razza inferiore da tutta l’eternità“. Aveva 22 anni. Studiava letteratura in un’università di provincia, tra ragazze e ragazzi, molti dei quali appartenenti alla borghesia locale. 

La “razza” è quella comune degli oppressi al di là del colore della pelle e delle appartenenze sociali e nazionali. La classe “tradita” è quella di nascita. Il suo tradimento è l’effetto di una rivolta diffusa contro i meccanismi che riproducono la società oppressiva così com’è. 

In un libro come L’evento, storia di un’interruzione di gravidanza, è apparso chiaro che la rivolta contro l’oppressione di classe camminava insieme a quella contro lo Stato che condannava le donne ad abortire illegalmente. La scrittura è uno strumento di liberazione sociale e femminista. Vendicare la “razza” significa vendicare sia la “classe” che “il mio sesso”. Sono “la stessa cosa”.

Didier Eribon

La lotta contro la metaforologia neoliberale basata sull’ascensore sociale è stata alimentata anche dal libro di Didier Eribon Ritorno a Reims. Un libro che ha recepito le istanze maturate da Ernaux e ha contribuito a un ricco dibattito letterario e politico al quale ha partecipato un altro scrittore, Edouard Louis con un romanzo come Il caso Eddy Bellegueule.

All’intersezione tra donna, razza e classe sulla quale ha riflettuto Ernaux, Eribon ha aggiunto un altro aspetto: il rapporto tra l’appartenenza di classe e l’omosessualità. Figlio di una famiglia operaia, dunque di una classe più chiaramente schierata nel conflitto di classe, Eribon ha dovuto difendersi dallo stigma omofobo nel suo ambiente di provenienza.

«Per me – ha scritto – fu capitale la frase di Sartre nel suo libro su Genet: “L’importante non è quel che si fa di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi”» (D. Eribon, Ritorno a Reims, p.91).

Lo studio fu un modo per liberarsi dallo stigma sessuale. Eribon andò a Parigi dove trovò più semplice vivere la sua sessualità. 

«Ero segnato nel profondo da due verdetti sociali: un verdetto di classe e un verdetto sessuale. Non si sfugge mai alle sentenze di questo tipo. E porto in me il segno dell’una e dell’altra.  Poiché in un momento della mia vita entrarono in conflitto l’una con l’altra, dovetti forgiare me stesso facendo giocare l’una contro l’altra» (D. Eribon, Ritorno a Reims, pp.196-197).

Per l’emancipazione individuale per realizzare una transizione sociale di successo serve un’“ascesi: un lavoro di sé su di sé. In un doppio senso: nel riappropriarmi e nel rivendicare il mio essere sessuale ingiuriato nel primo caso; nello strapparmi dalla mia condizione sociale di origine nel secondo”.

Ma ciò ancora non bastava. Serviva la sua connessione con la liberazione politica, sociale e sessuale collettiva. Dunque, la coniugazione tra la singolarità e l’universalità nella concretezza dei vissuti collettivi. Nel frattempo qualcosa si era rotto nella politica delle “sinistre”. Quella socialista, dopo il 1983, era diventata sia neoliberale che conservatrice, aveva cioè rinunciato a trasformare il sistema capitalista ed era diventata “neoconservatrice”:

«Voleva rimpiazzare gli oppressi e i dominati di ieri – e le loro lotte – con gli “esclusi” di oggi – e la loro presunta passività –, e di piegarsi verso di loro come destinatari potenziali (ma silenziosi) di misure tecnocratiche destinate ad aiutare i “poveri” e le “vittime” della “precarizzazione” e della “disaffiliazione» (D. Eribon, Ritorno a Reims, p. 115). 

Eribon ipotizza che la lotta di classe non sia stata perduta solo dalle trasformazioni produttive del capitale e dall’effettiva tenuta del “blocco conservatore” dopo il maggio ‘68. Fu sabotata dall’interno dai “partiti di sinistra e dai loro intellettuali di partito e di stato che pensavano e parlavano con un linguaggio da governanti e non più da governati”.

«Non si parlò più di sfruttamento o di resistenza, ma di “modernizzazione necessaria” e di “rifondazione sociale”; non si parlò più di rapporti di classe, ma di “vivere insieme”; non si parlò più di destini sociali, ma di “responsabilità individuale”. Fu giustificata la demolizione del welfare state e della protezione sociale, in nome di una necessaria individualizzazione (o decollettivizzazione, desocializzazione) del diritto del lavoro e dei sistemi di solidarietà e di ridistribuzione». 

Il problema di Eribon è comprendere la ragione per cui la classe operaia, a cominciare dalla sua famiglia, ha iniziato a votare l’estrema destra della famiglia Le Pen a cominciare dagli anni Ottanta, proprio in coincidenza della svolta neoliberale della “sinistra”. La diga del partito comunista francese non è servita, è avvenuto uno spostamento. Ad avere contribuito a questo esito sarà stato il razzismo anti-immigrati in quel partito denunciato già all’inizio degli anni Ottanta. Ma, questa è la tesi di Eribon, la trasformazione è stata sia la causa che l’effetto di un cambiamento del “blocco sociale” che ha unito 

«Ampi settori delle classi popolari fragilizzate e precarizzate a commercianti, a pensionati benestanti del Sud della Francia, se non addirittura a militari fascisti o a vecchie famiglie cattoliche tradizionaliste e dunque fortemente radicate nella destra, perfino nell’estrema destra. Entrando in nuove alleanze politiche, in nuove configurazioni politiche, questo gruppo – composto solo da una parte del vecchio gruppo mobilitato nel voto comunista – è diventato altro da quello che era un tempo. Le persone che lo costituivano pensarono se stesse, i loro interessi e i loro rapporti con la vita sociale e politica in modo totalmente differente» (pp. 47 e 117).

L’impotenza creata dalla crisi, e dall’incapacità delle sinistre di assemblare un nuovo blocco sociale che unisse la strategia della liberazione che Ernaux ha preso dai soggetti della rivoluzione del ‘68 a quella della classe operaia, è diventata rabbia. La classe sociale decostruita dai discorsi neoconservatori della sinistra, «ha trovato un nuovo modo di organizzarsi e di far conoscere il suo punto di vista». 

Un punto di vista che contrappone il “noi” (francesi) a “loro” (immigrati) e sovrappone la lotta di classe a quella razzista. Ciò non basta a riavviare l’ascensore sociale, ma aggrava la separazione tra i subalterni e gli oppressi. In compenso la lotta per salire in una cabina bloccata è feroce. A quarant’anni dall’inizio del processo è ancora difficile uscire da questa trappola:

«Non ci si dissocia facilmente da un’appartenenza politica in cui si è mentalmente situati da molto tempo – fosse anche in modo instabile e incerto – per crearsi di punto in bianco un’altra appartenenza, vale a dire un altro rapporto con sé e con gli altri, un altro sguardo sul mondo, un altro discorso sulle cose e sulla vita».

Transfugadisertore, di classe

Un disertore di classe è una persona che ha superato le barriere sociali. Questo passaggio può avvenire in direzione dell’ascesa sociale (Ernaux), ma anche in direzione opposta (Eribon). Il disertore è un individuo che partecipa a un processo di massa, oppure un individuo che perde i contatti con tale processo. Quando accade può trovare una comunità globale di appartenenza – è il caso sia di Eribon che di Ernaux, il primo nell’accademia, la seconda nelle lettere. Ciò non toglie che entrambi continuano ancora oggi a voler uscire dalla loro terra di nessuno. 

L’esito della loro lotta non dipende dalla volontà, dal talento, dal merito di un individuo, né dalla forza impersonale di un sistema, ma da un conflitto che si svolge anche dentro chi vuole uscire dai confini sociali, sessuali, istituzionali, capitalistici e del lavoro. Questo conflitto è generato dall’attraversamento dei confini – tanto sociali quanto spaziali – oppure dalla sua “riterritoralizzazione” all’interno di perimetri già dati che formano nuovi territori, anche immaginari. 

Per spiegare il senso di questa lotta la filosofa spinozista Chantal Jaquet ha coniato il fruttuoso neologismo “transclasse” sul modello della parola “transgender” o “transessuale”. A suo avviso, sia Ernaux che Eribon sono un esempio di questa transizione trasformativa. 

La parola transclasse, adattata dal concetto anglosassone di passaggio di classe [class-passing]Passing è il titolo di un romanzo di Nella Larsen del 1929, indica l’azione di fuggire alla segregazione razziale e sessuale di una donna nera nell’America segregazionista. Tale “transizione” può avvenire in entrambi in sensi della linea del colore: il “nero” può fingere di essere bianco, ma anche il bianco può dire di essere “nero” (è raccontato nel 1961 in Black like me dal giornalista John Howard Griffin). Lo stesso può fare una donna che passa per un uomo, e viceversa.  E ancora un gay che “passa” per un “uomo eterosessuale”. 

La “finzione” si rende necessaria perché i transclasse devono affrontare un’ostilità tale che preferiscono mimare le convenzioni vivendo però quello che sono, cercando di sfuggire alla repressione. Il problema è sentito tra le donne che hanno dovuto affrontare la dominazione maschile nella classe operaia che cercava di emanciparsi, ma anche dagli omosessuali e dalle lesbiche, per non parlare dei trans oggi.

Un’interpretazione riduttiva ritiene che lo scontro sia confinato alle singole identità sessuali che legittimamente lo producono oggi. In realtà, proprio in ragione dell’estensione del concetto di “transclasse”, questi soggetti richiamano una potenzialità che risuona a partire dalla propria condizione individuale. Il processo è irriducibile a quello economicistico indicato dall’“ascensore sociale”. È tortuoso, inquietante e irriducibile a una misura unica. Il “passaggio di classe” non avviene solo rispetto alla gerarchia sociale e produttiva, ma anche rispetto alla posizione rispetto all’identità e alla differenza, la memoria e gli affetti, la sessualità e i poteri. 

A differenza della narrazione sulle “classi popolari” usate come mascotte dell’ordine sociale dominante per alimentare l’ideologia del “capitalista umano”, il “passaggio di classe” è un’attività complessa non limitabile a un’ascesa o a una caduta in una scalata. Parliamo di un duplice lavoro: quello su di sé connesso a uno con gli altri. Tale nesso è considerato marginale o vincolato alla trasformazione dell’ordine economico e politico. Oppure è ostacolato, deriso e considerato “pericoloso”. L’idea di fuga, diserzione o tradimento, per di più talvolta legata a una trasformazione sessuale, aggrava le inquietudini in un tempo in cui si cerca di vincolare l’esistenza a un’idea di un ordine “naturale”. Non esiste nulla di peggio che essere considerati rinnegati in un momento in cui bisogna serrare le fila nella guerra guerreggiata, delle identità e dei commerci.

Jacquet è stata criticata perché l’ha limitata alla sfera individuale, mentre si tratterebbe di pensarla in termini collettivi: una soggettività si trasforma quando è connessa alla società, alle tecnologie, all’ambiente e all’economia. A tale proposito, ne Le tre ecologie lo psicoanalista e filosofo Fèlix Guattari parlava della connessione tra l’ecologia mentale, sociale e ambientale. Più che auspicare il passaggio di un individuo da una classe all’altra già formate, si tratterebbe dunque di realizzare una trasformazione di un mondo diviso in classi. Ma è evidente che un movimento non è separabile dall’altro. È la connessione dell’uno con l’altro che ieri, come oggi, è considerata insidiosa e, per questo, va bloccata. Una simile ipotesi manda in tilt le destre al potere, e sorprende sempre più spesso le “sinistre”. In questa impasse il desiderio di dimettersi dalla propria classe, e dal suo mondo, sembra una supposizione priva di fondamento.

ARTICOLO n. 30 / 2024

OPINIONI DIVERGENTI

Arte e intelligenza artificiale

È da tempo che io e Silvio Lorusso ci leggiamo con reciproca stima e notevole disaccordo in merito alle tecnologie di IA generativa, spesso punzecchiandoci sui social rispetto alle nostre opinioni divergenti. In occasione dell’uscita del mio libro La rivoluzione algoritmica delle immagini per Sossella Editore non ho resistito alla tentazione di mandargli una copia, e quando Giacomo Giossi mi ha proposto un dialogo con lui attorno al libro sapevo che ne sarebbe nato un confronto interessante. I critici sono sempre preziosi (almeno finché non dicono palesi sciocchezze o millantano minacce) e sebbene in questo dialogo ci siamo fermati dopo cinque pagine, saremmo potuti andare avanti per altre cento. Ovviamente senza trovare un accordo.

Silvio Lorusso: Non mi dispiacerebbe entrare subito nel vivo affrontando le nostre divergenze, ma forse prima di parlare di ciò è importante esplicitare, quanto più precisamente possibile, il nostro rapporto con l’Intelligenza Artificiale come strumento e come ambito e, di conseguenza, il disequilibrio che c’è tra noi due. Mi spiego meglio. Tu hai pubblicato una graphic novel che fa uso di TTI e un saggio su immagini e Intelligenza Artificiale. Tieni regolarmente – mi sembra – corsi e conferenze su questi strumenti, sei stato di recente incluso in una lista delle “500 italiani e italiane che contano nell’Intelligenza Artificiale” secondo Repubblica. Su Facebook pubblichi quotidianamente post e commenti sul tema, discuti informalmente con gente del calibro di Lev Manovich e Luciano Floridi.

Mentre io, be’, mi limito a pubblicare di tanto in tanto qualche appunto a proposito dell’IA sul mio blog. Questo è quanto. Tuttavia sarei insincero se non dicessi anche che il mio understatement non deriva soltanto da un certo snobismo nei confronti di un’intellighenzia culturale in formazione attorno all’IA, che reputo opportunistica, ma anche dal timore di agire entro una cornice di riferimento passeggera e forse già obsoleta, costituita da tecno-entusiasti da un lato, e conservatori “umanisti” dall’altro. Una cornice peraltro incoraggiata in senso propagandistico dalle aziende che offrono servizi a base di IA.

Dunque ti vorrei chiedere, innanzitutto, se ti rivedi nel ritratto professionale che ho abbozzato, e se provi un simile timore.     

Francesco D’Isa: In realtà anch’io non mi sento a mio agio tra tecno-entusiasti e conservatori “umanisti”, come li definisci, perché non mi ritrovo in nessuno dei due gruppi. Il fatto che uso con entusiasmo (quello sì) le IA generative, che sono critico (anche da prima) verso il copyright e che non credo che siano strumenti poco creativi o addirittura dannosi per la creatività mi situa per molti tra i tecno-entusiasti; ma il fatto che critichi le scelte non open source di molte aziende tech, il loro usare un bene che reputo pubblico come i dati per il training a fine di lucro personale senza restituire nulla alla collettività, le preoccupazioni per le IA militari, quella per la chiusura culturale dei dataset, la mia critica ai filtri che mettono molte aziende ai loro software, la mia opinione sulle AGI… non piacciono a tutti i tech bros. E poi ci sono cose che non piacciono a nessuno, come il fatto che credo che le IA ci mettano davanti alla nostra mediocrità e ai nostri bias e difetti.

Per questo non ho paura di far parte di un milieu in scadenza: sono una persona che si occupa di filosofia e arte da tempo, questi strumenti sono (tra le altre cose) una perfetta congiuntura di interesse tra i due ambiti, sia dal punto di vista pratico che teorico. Sono strumenti che faranno parte anche del nostro futuro, questo penso sia assodato, e tutti coloro che ne hanno parlato, in qualunque modo, troveranno in futuro cose di cui si pentiranno e cose che saranno felici di aver detto, noi due inclusi. Se tacessi per paura o per uno snobismo che non mi appartiene penso che verrei meno al mio ruolo negli ambiti in cui lavoro. È un tema sicuramente molto interessante da esplorare, in fondo cosa dovrei temere? Di dire delle sciocchezze? Ma quello mi capita di continuo! Sarà la formazione filosofica ma non è certo una cosa di cui mi preoccupo, perché non implica che il mio contributo sia inutile o di cattiva qualità. Non è che se una teoria filosofica è sbagliata allora è inutile – anche perché è impossibile trovarne una che sia universalmente considerata “giusta”.

Avevo il timore di mettere tutto questo sotto forma di libro, quello sì, ma come hai visto ho cercato di trattare i temi in modo ampio. E soprattutto, come ha detto Sossella, che ha tanto insistito perché io lo scrivessi, è bene far sentire anche voci diverse e mettere un segno di passaggio in questa fase storica.

SL: Però bisogna ammettere che tra un punto di vista accorto ma errato e una sciocchezza plateale c’è una differenza, altrimenti saremmo tutti Spinoza. Ma il vero discrimine non sta tanto nel dire cose giuste o sbagliate, quanto nello scegliere opportunamente le questioni a cui dedicare tempo ed energia. Prendiamo il problema della creatività. Mi pare così male impostato che non credo valga nemmeno la pena discuterlo. Parlare di danno o supporto alla creatività vuol dire rifugiarsi nel trascendentale: se si può creare qualcosa di nuovo con l’urina o Excel non vedo perché non lo si possa fare con Dall-E. La questione si fa invece interessante quando si considera la creatività non come una qualità del soggetto o una categoria estetica bensì come un programma socio-economico. È quello che hanno fatto autori come Angela McRobbie (Be Creative) o Oli Mould (Against Creativity). Tale prospettiva ci mostra che esprimersi sull’alto o basso tasso di creatività dell’IA o del soggetto che ne fa uso vuol dire rimanere intrappolati nella narrazione offerta da diversi attori economici attivi nel campo dell’Intelligenza Artificiale, i quali alimentano l’immagine del creativo professionista per venderla ai consumatori, come Adobe e Apple prima di loro. È per questa ragione che gli utenti vengono nobilitati ricorrendo a formule come “AI artist” o “prompt engineer”.

Detto ciò, il fatto che le IA ci pongono davanti alla nostra mediocrità effettivamente non piace neanche a me, ma non per il suo contenuto bensì perché si tratta di un’affermazione troppo generica. Ti chiederei dunque di precisare il “noi” in questione.

FD: Be’, allora la mia risposta diventa che non credo di aver detto immense sciocchezze né di dedicare il mio tempo a qualcosa di inutile, altrimenti non lo farei. 

Concordo con quanto dici sulla creatività, l’idea del “creativo professionista” è un’immagine che fa comodo alle aziende, e non parlo solo di AI, ma anche di Adobe per intenderci. Si tratta della nobilitazione di una figura che non coincide con quella dell’artista, o almeno non del tutto. I lavori che sono appaltati al “creativo professionista” sono in genere applicazioni commerciali che non hanno molto a che fare con la produzione artistica e spesso nemmeno creativa in senso stretto. Si tratta di figure parallele o di ruoli che vengono svolti per motivi economici.

Pensa a James Harvey, che negli anni Sessanta era un espressionista astratto che per vivere faceva anche lavori grafici, come il logo “Brillo” finito nell’omonima opera di Warhol – fatto curioso, un’opera che Harvey vide al vernissage di Warhol senza risentimenti di sorta. Le TTI non open source sono tarate verso questo tipo di lavori perché sono quelli più redditizi, e questa calibratura del dataset e a volte della programmazione le rende più complesse da usare a fini artistici. Neanche io amo formule come “AI artist” o “prompt engineer”, perché implicano che chi lavora con IA sia una figura nuova, che è falso. Si tratta di alcuni dei vecchi artisti che a un certo punto usano anche le IA, tutto qua. Solo che sono sommersi dalla massa di amatori che le utilizzano autodefinendosi artisti senza esserlo. Anche qui però niente di nuovo: sono la stessa categoria di quegli illustratori, a volte anche celebri, che affollano comunità amatoriali come DeviantArt, piene di opere assolutamente scolastiche, derivative e di maniera. Non c’è niente di male, e possiamo anche definirli artisti se fa loro piacere, ma nella stragrande maggioranza dei casi non si parla di arte, non di quella che poi verrà storicizzata. È ancora una volta una questione statistica: di quelle migliaia di illustrazioni fantasy, anime e sci-fi che affollano quei siti c’è poco che non sia già visto. Questa è la “nostra mediocrità”: adesso una persona che usa benino le IA può produrre delle immagini che, almeno su schermo, sono di media di qualità superiore all’opera di questi artisti – ma né nel caso delle IA né nel caso dei corrispettivi umani trovo corretto parlare di arte se non in senso lato. Prima che si offenda qualcuno, non intendo dire che fumetto, design o illustrazione non siano arte, tutt’altro, ma che nella sterminata produzione contemporanea lo sia solo una piccola parte. Del resto vale lo stesso anche con l’arte da galleria. Quel che intendevo è questo: noi lavoratori nell’ambito della creatività abbiamo prodotto tonnellate di mediocri immagini commerciali a poco prezzo, nobilitati dal pur misero valore reputazionale che vi si aggiungeva con l’idea che erano opere creative se non addirittura artistiche. Nell’imitare alla perfezione questi triti stilemi – ricordiamoci che le IA sono macchine statistiche – ci viene sbattuto in faccia che in genere non eravamo né artisti né particolarmente creativi, o meglio, magari lo eravamo, ma non per merito di questo tipo di lavori.

SL: Mi interessa molto l’aneddoto su Warhol e Harvey. La mia lettura è la seguente: Harvey non si offende perché sa bene che l’opera in questione non è certo la scatola Brillo in sé (anche perché quelle in mostra sono prima dipinte a mano e poi serigrafate), bensì l’operazione concettuale attraverso cui Warhol “iconizza” la società dei consumi ponendoci di fronte a essa senza fare la morale. Essendo lui stesso un fine artist, Harvey riconosce il confine tra commercial art, il suo logo per Brillo, e fine art, la mossa di Warhol. Il problema sorge nel momento in cui questa mossa si rivela irreplicabile, persino per lo stesso Warhol! È quello che notava un suo grande ammiratore, Jean Baudrillard. Dopo Warhol non c’è che lo “stereotipo”, ovvero il kitsch.

Ora, molti fine artist dell’AI dicono: “Guardate, grazie alla mia particolare sensibilità ho colto questo fiore raro nei recessi del dataset (il cosiddetto “spazio latente”, termine tecnico che loro usano in maniera metafisica), ed è una mia “opera”, parte di una “serie”, da esporre in “galleria”…”

Non si rendono conto, però, che in questo modo stanno scimmiottando Warhol, Duchamp, i surrealisti e addirittura i romantici prima di loro. Franco Vaccari aveva notato qualcosa di simile a proposito della fotografia artistica, dominata dalla retorica dell'”istante decisivo” di Cartier-Bresson, ferraglia romantica per eccellenza, in quanto riconferma il ruolo dell’umano, dunque dell’artista, e in ultima istanza del genio individuale. Quindi, delle due l’una: o ci avvinghiamo al mito del genio romantico ricorrendo alla retorica kitsch dell’artista con la A maiuscola (anch’esso “trito stilema”), o accettiamo che la “mediocrità” di DeviantArt è infinitamente meno mediocre di quella del sedicente fine artist doppiamente derivativo (deriva estetica e retorica) che si presenta come un avventuriero di Midjourney, quando in realtà è un utente come tutti gli altri, e in un certo senso meno di tutti gli altri. Ecco perché bisogna essere snob nei confronti degli artisti e i teorici dell’IA che si sbracciano per storicizzare e farsi storicizzare: proprio per non esserlo nei confronti degli utenti di DeviantArt e Tumblr, molto più postumani, “macchinici” e quindi contemporanei dei primi.

FD: La storia di Warhol la leggo come te, con una divergenza nell’interpretazione finale, che pure in parte condivido. È vero che un Brillo è uguale a una Campbell e un orinatoio di Duchamp a una sua ruota, perché veicolano il medesimo senso, ma non è vero che il gesto sia irripetibile. Perché in fondo tutta l’arte concettuale deriva da questi gesti e al netto dei gusti è difficile non riconoscerne la varietà interna – ovvero i modi in cui questo gesto ha generato altre idee. Secondo me quello che viene evidenziato dal punto di vista filosofico non è tanto quanto sia brillante l’idea duchampiana mutuata (e variata, appunto) da Warhol di creare un’opera d’arte solo in virtù di una scelta, ma di evidenziare come sia proprio la scelta una condizione necessaria e spesso sufficiente per fare l’opera d’arte. Non è un caso che Duchamp fosse anche un attento lettore e conoscesse la filosofia Zen.

Non mi ritrovo invece nello sprezzo con cui descrivi il lavoro degli artisti che usano le AI (come altri rifiuto il termine “AI Artist”, perché sembra che si lavori solo con una tecnologia). Nella mia esperienza – ricordiamoci che lo faccio – è una prassi non meno creativa di quelle che ho sperimentato in passato. Concordo però sul fatto che possiamo tranquillamente cestinare l’idea romantica di artista con la A maiuscola, perché messa in crisi da più di un secolo di arte contemporanea e anche perché filosoficamente insostenibile, dato che ogni oggetto d’arte è frutto di un lavoro collettivo – non solo per via dell’innegabile eredità di altri umani da cui questa in parte deriva, ma anche per le agentività non umane all’opera in essa. Però la creatività umana resta in gioco, anche se non da sola, e non scompare di certo con le IA.

È ovvio che non tutti coloro che usano le IA generative sono artisti, si tratta di una minoranza che in genere lo era anche prima. Ma in molti casi gli usi del mezzo sono ben creativi: non vedo alcun argomento a supporto della tua affermazione che siano a priori doppiamente derivativi. Forse ti appelli al cliché del fatto che “fa tutto il computer” perché sono facili da usare? So che è falso per esperienza, esperienza confermata dalla totalità delle classi cui insegno e ho insegnato qualcosa in merito. Le opzioni di Midjourney si moltiplicano a cadenza mensile, le interfacce open source sono così complesse che alcune stento a capirle dopo mesi di utilizzo, le interazioni tra IA diverse, quelle con tecniche tradizionali, tra TTI e LLM, la fusione di modelli, la sottrazione di modelli, il fine-tuning, le referenze di stile… chi considera semplice questo mondo è solo chi lo ha esplorato superficialmente o non ci ha capito molto. Hanno un entry level largo e un top tier stretto, come la fotografia. O forse ti appelli all’idea che il risultato medio di una IA è, appunto, mediocre? È vero, colpa della loro natura statistica e del dataset (dunque anche “nostra”), ma è un motivo in più per lodare chi riesce a ottenere i risultati più rari. Da un punto di vista statistico inoltre la maggioranza degli usi umani di qualunque strumento è un risultato mediocre, perché gli utilizzi più semplici sono sempre i più comuni e i più noiosi.

SL: Ci sarebbe da dire molto – troppo – sulle continuità e discontinuità tra l’orinatoio e la zuppa Campbell, ma ai fini del nostro dialogo vorrei evidenziare un aspetto: mentre le opere di Duchamp sono ammantate di un senso di stranezza, quelle di Warhol paiono atone, e non solo quando raffigurano Liz Taylor, ma anche quando mostrano un incidente stradale. Se in Duchamp si scorge ancora un soggetto che prova inquietudine, in Warhol resta solo un vago stupore infantile e tautologico di fronte alla cosa. Warhol “supera” Duchamp perché mostra l’autonomia della cosa riprodotta in serie: è come se non ci fosse scelta alcuna, perché egli stesso si fa cosa. In tal senso forse Warhol è più Zen di Duchamp. Ora, l’AI Artist (bada: non una persona in carne e ossa ma un costrutto polemico) fa diversi passi indietro quando circonfonde le immagini che genera della sua sensibilità, chiamandole rare, inquietanti, oniriche. Le usa, insomma, per affermare sé stesso, o meglio, un’idea posticcia di sé stesso. È questo l’argomento a supporto della doppia derivatività: da un lato, deriva di una certa estetica weird, dall’altro, deriva di un’idea in ultima istanza sentimentale dell’artista. E invece è molto più weird l’immagine statistica del gattone “carino e soffice” di Dall-E che includi nel libro.

“Fa tutto il computer”: ma magari! È proprio ciò a cui bisognerebbe puntare per produrre un’arte che sappia rispondere a questi sistemi. Sistemi che come dici tu si sviluppano: si moltiplicano le opzioni, le app, i modelli, ecc. E c’è davvero qualcosa di entusiasmante in questo, ma non manca un aspetto deprimente: la top tier di cui parli somiglia molto ai geek della fotografia che acquistano un nuovo modello di fotocamera ogni sei mesi per rimanere aggiornati. Così ricadiamo nel “creativo professionista” che deriva la sua competenza dall’apprendimento enciclopedico del manuale di qualche azienda privata.                

FD: Concordo con quanto dici su Warhol. Penso invece che l’AI artist che generalizzi non esista, il risultato dipende dalla sensibilità di chi le usa. Ogni artista infatti le usa diversamente, mentre la massa le utilizza in modo più o meno analogo, che sì, oscilla tra kitsch e weird. Però il top tier che identifichi, quello del geek fissatone sulla tecnologia, non è affatto quello a cui penso, per me questa figura è sempre nell’entry level.

Ma ripeto, vale per qualunque strumento; come diceva Baudelaire, pur sbagliando sulla possibilità di farci arte, siamo alluvionati da fotografie orrende. E anche da pittura orrenda, sebbene richieda più tempo e dunque ce ne sia meno. La media umana è mediocre, non penso ci sia nulla di sconvolgente nel dirlo, essendo una tautologia – ma siamo noi la causa, non gli strumenti che usiamo.

La cosa affascinante delle IA generative è che anche la loro media è orrenda, ma comunque superiore alla nostra. Tempo fa Ugo Galassi, con cui condivido un dialogo simile al nostro, mi mandò l’immagine di un volantino di un idraulico con un orrendo gattino generato con Midjourney, segnalandomi il problema del gusto. La mia risposta, su cui poi ci siamo ritrovati, è che prima i volantini degli idraulici erano semplicemente ancora più brutti. Intendo questo quando parlo della nostra mediocrità.

Poi certo, ogni artista ha un ego molto invadente, lo vediamo da come pur copiandoci da millenni restiamo attaccati all’idea di autore. Perdere l’ego per me è una necessità spirituale e nello scenario fantascientifico in cui farà tutto il computer, o comunque ci supererà come con gli scacchi, sarà liberatorio fare arte solo per il piacere di farlo (ancora, come con gli scacchi, che non sono certo morti). Il mio punto di vista non è dunque a difesa dell’ego dell’artista che usa AI, anzi, è contro quello di tutti. L’ego va perso in qualunque prassi creativa – anzi, l’ego non esiste, per dirla con Buddha.

ARTICOLO n. 29 / 2024

I MEMBRI DEL GROUP SHOW SI VOGLIONO BENE

una mostra collettiva

Un ‘group show’ d’arte contemporanea può essere compilativo o tematico o, nell’ormai più raro dei casi, architettato su una tesi. Intorno a noi il metodo compilativo è il più comune, perché i rischi sottesi ad altre impostazioni sono spesso percepiti come pruriginosi. Per esempio, permane nel modus operandi più in auge una certa diffidenza verso il dato e il metodo biografici. Seppur talvolta il biografismo fa maldestro capolino sfruttando l’inesausto amore verso il dettaglio feticista, abile a imbellettare le idee più scarne, nella maggior parte dei casi esso soccombe di fronte alla rispettosa e universalista deontologia degli operatori dell’arte, che mostrano il linguaggio dell’artista senza chiedergli di aprire la bocca e tirar fuori la lingua. Proprio perché ho incontrato qualcosa di diverso da tutto ciò in una mostra collettiva per di più presso una galleria privata, mi è venuta voglia di scriverne. 

Alla base di quel che racconto c’è un regista di teatro che da alcuni anni agisce la propria autorialità anche nell’arte contemporanea, vestendo i panni di riattivatore di storie e curatore editoriale: Fabio Cherstich. Cherstich ha trovato anche per questo suo nuovo progetto (che segue quello dedicato a Larry Stanton) la complicità di APALAZZOGALLERY di Brescia, galleria con sede a Palazzo Cigola Fenaroli nota per patrocinare una cultura più sistematica del concetto di mostra collettiva, tra le altre cose impegnandosi a importare anche opere non “in vendita”. La mostra di cui scrivo si intitola ROBERTO JUAREZ 80’S EAST VILLAGE LARGE WORKS ON PAPER + DOWNTOWN AMIGOS Y AMIGAS ed è composta da una parte monografica dedicata all’artista americano di radici messicane e portoricane Roberto Juarez (1952). A questa si aggiunge un’estensione da group show che coinvolge sette “amici”, artisti che appartengono alla stessa comunità di Juarez fiorita nell’East Village negli anni della pandemia di AIDS.

Ora, una domanda che bisognerebbe sempre porsi quando il fare e il visitare mostre ambisce a costruire un programma culturale: perché uno show di questo tipo ha senso oggi? Prima motivazione: in campo pittorico l’Italia ancora non ha chiuso il verboso debito con la Transavanguardia; proporre una mostra in cui pittura prodotta negli anni Ottanta e di stampo neo-espressionista, com’è quella di Juarez, accoglie ibridazioni con un’estetica queer e istanze da émigré aiuta a ricordare che gestualità, istinto, soggettività, indulgenze di vario stampo non devono per forza corrispondere ad antintellettualismo e mancanza di ribellione politicamente definita. Seconda motivazione: leggere l’artista tramite il suo “gruppo” è un’operazione che in anni recenti è stata poco esplorata, e proprio da qui inizia la mia conversazione con Cherstich.

Sofia Silva: Fabio, gli otto artisti hanno intrattenuto tra loro rapporti di varia natura: amicizia, istruzione, condivisione di luoghi, sofferenza e amore. Tu e APALAZZOGALLERY lavorate molto anche su Larry Stanton,il cui soggetto pittorico è stata la comunità stessa: bellissimi ragazzi incontrati nei bar di Manhattan. Presentare l’artista tramite la comunità o, viceversa, veicolare il gruppo tramite un soggetto protagonista non è scontato di questi tempi, in cui spesso si pensa che isolare equivalga a tutelare e che la presentazione monografica dell’artista sia la più meritevole, anzi, la più gentilizia. Tu al contrario stai importando storie corali sotto forma di mostre, dando grande rilevanza al dato biografico. Quali sono i rischi e le virtù del tuo approccio? 

Fabio Cherstich: Il taglio narrativo, biografico, corale dei miei progetti legati all’arte visiva deriva dalla mia formazione e dalla pratica del palcoscenico, poiché a teatro non si lavora mai da soli, ma si racconta sempre una o più storie a qualcuno: si fa tutto per un pubblico. Il mio approccio curatoriale è didattico, nel senso brechtiano del termine, fortemente incentrato sullo storytelling, sul fornire i contesti storici per capire i lavori e il pensiero che ci sta dietro. È un dispositivo in cui stage e backstage convivono. Anche in questo caso alla mostra corrisponde un ampio progetto editoriale che raccoglie non solo le immagini delle opere esposte ma pure tutto il materiale di archivio, di “backstage” degli artisti, nonché testi originali e contributi di artisti contemporanei chiamati a rileggere in forma critica i lavori storici presenti in mostra.

S.S. La mostra presenta diversi lavori di Arch Connelly e Jeff Perrone. Connelly (1950-1993) applica sgargianti materiali decorativi su comuni elementi d’arredo, mentre Perrone (1953-2023) crea dipinti utilizzando materiali tessili e bottoni dove l’approccio iperdecorativista incontra tradizioni storico-artistiche in quei decenni extra-canoniche: quella dei nativi e dell’immigrazione africana, indiana, latina, oltre che la tradizione manifatturiera afghana di tappeti.

Tornare ai lavori iconici di questi due artisti, oggi, dopo tutto quel che si è assimilato e organicamente dimenticato rispetto a individuazione e disintegrazione del genere, fa un certo effetto.

Personalmente mi sono interrogata su quanto certi stereotipi della girlishness (l’estetica da diario segreto, burn book e cameretta della ragazza adolescente da Pretty in Pink a Mean Girls) siano sorelle minori del massimalismo decorativo queer che nel 1982 era già musealizzato in mostre quali Extended Sensibilities del New Museum. Questo immaginario sta oggi tornando in voga, in toni più opachi e post-concettuali, ovunque nel mondo ma anche nell’arte emergente della nostra Milano. 

Di fronte a Connelly e Perrone, mi sono chiesta quanto sia difficile costruire una rappresentazione estetica puramente non-binaria, forse è impossibile; prima pensavo che la decorazione potesse aiutare in tal senso. Cosa ne pensi?

F.C. All’opening della mostra mi ha raggiunto un amico artista milanese, Davide Stucchi. Le sue sculture, frutto di azioni minime, svelano la vulnerabilità degli oggetti, sfidando l’ideale machista dell’artefatto. In lui e nel suo lavoro trovo un intrigante legame con gli artisti queer newyorkesi della generazione Connelly/Perrone. Non sorprende infatti che davanti al lavoro di Perrone, Davide abbia definito il tutto “on DRAG”, un riferimento che si intreccia con il lessico della comunità queer cui Perrone apparteneva. Lo stesso e forse in una forma più pertinente si potrebbe dire del lavoro di Connelly.

Le opere di Connelly, sottoposte a un pesante make-up, si travestono e diventano sculture che nobilitano oggetti comuni grazie all’aggiunta di bigiotterie, glitter e gusci d’uovo glassati. Oggetti sexy, eccessivi, liberati dalla noiosa funzione borghese. Specchi recuperati in mercatini dell’usato o dalla spazzatura diventano preziosi oggetti desiderabili, coperti di tessuti e tulle che richiamano le trame dei collant. I collage di immagini pornografiche incrostati di glitter e stagnola luccicante… Tutto nel suo lavoro è “queer, kitsch, mannered, snobbish, pink, pink, pink, pink” per citare le parole del manifesto che Connelly scrive nel 1982 per codificare la sua opera.

S.S. Facciamo un gioco, azzarda dei lookalike di questi artisti che hanno abitato altre parti del mondo.

F.C. Perrone è un Boetti Queer, sarebbe un doppio show pazzesco. Il diario frocio di Arch Connelly trova affinità col brasiliano Hudinilson Jr., con le sculture sbrilluccicanti e bellissime, vicine al mondo di Raúl De Nieves. E, restando in Italia, la scrittura e gli slogan di Connelly mi fanno pensare al mio amato Nino Gennaro, agli oggetti e alle performance di Desiato. In Connelly intravedo anche ragionamenti concettuali e immaginari vicini ai mondi dell’artista italiana Anna Franceschini, a Davide Stucchi… Sarebbe anche interessante un parallelo tra il suo lavoro e quello di Tomaso De Luca: ci sono delle affinità rispetto all’indagine dei queer spaces e dei queer objects, un’indagine della casa nelle sue varie accezioni che non abbiamo qua il tempo di approfondire, ma che mi piacerebbe indagare in un progetto futuro.

S.S. Come viveva l’arte dei downtown amigos quando usciva dalla comfort zone comunitaria?

F.C. La spinta massimalista, non binaria, provocatoria degli artisti in mostra – molti di loro sono attivisti di ACT UP – nasce da una finalità politica e sociale. All’epoca c’era Reagan al governo e la gente moriva di AIDScome mosche. In questi tempi neofascisti, segnati dal ritorno all’ordine, auspico all’arte e agli artisti di non avere mezze misure. Di non avere paura. Jeff Perrone ha parlato di arte come “cavallo di Troia” per i collezionisti, immaginandoli esibire opere colorate nelle loro case eleganti solo per poi scoprire che i bottoni luccicanti compongono frasi intimidatorie e violente: “The Rich Will Never Allow You To Vote Away Their Wealth” e “Rape”. Pas mal, no?

S.S. Nella mostra assume centralità narrativa anche il luogo di ritrovo comunitario, il bar per esempio, come dimostrano i disegni di Jimmy Wright (1944) e le fotografie di Stephen Barker (1956). Viaggi spesso a New York per riavvolgere il filo di questa storia; quale memoria rimane dei luoghi?

F.C. I lavori diventano una testimonianza visiva di quei queer spaces che sono scomparsi a causa della speculazione contemporanea. Locali dove non esistevano differenze di classe sociale, razza, età, luoghi dove la Comunità si riuniva per vivere la sessualità in una forma libera dentro ad uno spazio protetto. Il Club 82, soggetto dei disegni realizzati nel 1973 da Wright e delle foto di Barker scattate nel 1993-94, è un locale nato negli anni 50, gestito dalla famiglia mafiosa Genovesi e noto al tempo per gli spettacoli di uomini e donne en travesti. Trasformato negli anni ‘60 in locale per show girls, negli anni ‘70 in un drag club e negli anni ‘80 – ‘90 in un gay sex club. Un luogo dove “tutti” andavano. Un altro posto di cui Roberto mi parla sempre è The Bar. Il Bar era il luogo in cui si ritrovavano tutti gli artisti gay – Robert Mapplethorpe, David Wojnarowicz, Peter Hujar, Robert Gober e Edward Albee per citarne alcuni. Roberto, Jimmy, Arch, Jeff e Marc Tambella (1953) – Marc era il barista – ma anche la loro amica Donna Francis, andavano sempre lì. In questo Bar si sono scambiate idee, opere, drink e ogni genere di fluidi per tutti gli anni 80. Era uno degli epicentri della vita culturale della città.

L’erotismo è elemento centrale di molti dei lavori in mostra. È l’energia che la città emanava e che veniva riversata nel lavoro. A detta di tutti la città ha ancora mantenuto questa elettricità, questa tensione sessuale e io sono d’accordo. Basta vedere come le persone ti guardano per strada… New York City è sempre stata una città promiscua e sporcacciona: lo è ancora.

S.S. Le due artiste in mostra, Elaine Reichek (1943) e Donna Francis (1952), stemperano la sofferente gioia delle altre opere con lavori più fermi.

F.C. Tra i vari lavori di Reichek presenti in mostra uno è tratto dalla serie Harlem Arcadia, quattordici ricami basati sui motivi architettonici trovati nelle case a schiera di mattoni e pietra marrone di Strivers’ Row dove Elaine vive e lavora. Strivers’ Row, progettato negli anni ’90 del 1800 come enclave per soli bianchi, è diventato il centro della Rinascita di Harlem quando è stato aperto agli afroamericani nel 1919. Il boom culturale è stato interrotto dalla Grande Depressione, ma il nome Strivers’ Row ha mantenuto un’aura mitica nonostante la difficoltà di immaginare qualsiasi quartiere di New York come un’Arcadia a lungo termine. Questa traduzione dei motivi architettonici neoclassici del quartiere in tessuto cucito e trapuntato porta l’ornamento esterno nel campo del decoro domestico, trasponendo materiali maschili in un linguaggio femminile. Elaine è stata la migliore amica di Jeff Perrone, artista che non a caso è esposto nella sua stessa stanza.

Donna Francis invece è presente in mostra con un lavoro molto potente dal titolo Black Rider. Cito le sue parole perché mi sembrano emblematiche: «Schwarz Faherin/Black Rider è un ritratto di un mio vicino di casa che ho realizzato negli anni ’80. Gli ho detto di vestirsi come avrebbe desiderato essere ritratto e lui si è presentato vestito da cowboy e con un fucile. Solo in seguito ho usato questa foto per realizzare l’opera. Il titolo è tratto dal termine usato per le persone che viaggiano sui tram in Svizzera senza pagare. Ho pensato che fosse una dichiarazione interessante su come le persone bianche vedono noi, persone di colore».

S.S. Al pubblico italiano la mostra offre un tassello di pittura anni Ottanta, la possibilità di studiare un singolo tramite una comunità. Offre arte politicizzata per essenza e non per intenti programmatici ergo quella di cui il potere sottovaluta la permeabilità, offre radici per gli artisti emergenti che operano nel campo di estetiche queer, offre un modello curatoriale diverso: emotivo e candidamente filologico; l’abbiamo percorsa anche credendo in group show sempre più esigenti, che affondino nella vita sociale degli artisti con rispetto e spudoratezza senza strappare le opere al contesto né ordinandole in faldoni avulsi dalla loro casa o dal loro bar.

ARTICOLO n. 28 / 2024

I SEGRETI DELLA MENTE MILIONARIA

Vengo da una lunga stirpe di gente economicamente irresponsabile. Nessuno nella mia famiglia ha mai avuto il fiuto per gli affari, e laddove una qualche ricchezza poteva essere accumulata o centellinata o anche solo assennatamente gestita, una serie di sfortunati eventi o di pessime decisioni hanno lasciato un piccolo buco fumante, simile a quello che da generazioni segna i palmi delle nostre mani. “I soldi vanno tenuti spesi”, diceva qualcuno che noi abbiamo preso in parola ed eretto a guida spirituale delle nostre esistenze, assicurandoci che la nostra eredità rimanesse composta da nient’altro che una fornitissima collezione di DVD e un buon senso dell’umorismo. 

Non ce la siamo mai passata davvero male, ma neanche benissimo, afflitti come siamo dall’eterno dissidio tra ciò che ci piace e ciò che ci possiamo permettere. Non è un problema di povertà, di per sé – ci siamo sempre mantenuti ben al di sopra della linea di galleggiamento – quanto di dissonanza cognitiva: i nostri gusti, i nostri desideri, le nostre smanie non riflettono in alcun modo la realtà dei fatti, né tantomeno i nostri conti in banca. Case in centro, pellicce di visone, vacanze in mete esotiche, porcellane di pregio, mobili di design, ristoranti esclusivi sono solo alcuni degli sfizi che nel tempo abbiamo ritenuto di meritarci, mentre lo stato delle cose rispecchiava sempre una situazione sostanzialmente diversa. 

Questa perenne tensione si unisce, almeno nel mio caso, a una fondamentale incomprensione del denaro e di tutto ciò che lo riguarda. Semplicemente: di soldi non capisco niente. So che esiste una cosa chiamata inflazione, ma non capisco in che modo questa ci impedisca di risolvere le crisi economiche stampando più soldi. Ho guardato e apprezzato La grande scommessaBillionsThe Wolf of Wall Street – e molti altri prodotti a tema “borsa” – come mi immagino un ruminante possa guardarli e apprezzarli. I miei occhi erano aperti, le mie orecchie pure, il cervello fino a prova contraria mostrava una minima attività sinaptica, ma dovessi spiegare mezza cosa di come funziona il mercato azionario farei scena muta, non importa quante Margot Robbie in vasche da bagno provino a spiegarmelo in termini semplici. 

Sono quasi trent’anni che mi faccio delle domande sul finale di Una poltrona per due. Pago le tasse da un terzo della mia vita e non ho ancora capito cosa sia l’IRPEF e perché vuole i miei soldi. Per evitare spese di spedizione su un’ordine online, finisco sempre per spendere molto di più di quanto avevo messo in conto e una voce incosciente dentro di me ripete solo “brava, hai risparmiato 4 euro”.

Nonostante le premesse, nel 2023 per la prima volta nella mia vita adulta ho messo via una congrua somma di denaro. Congrua nel mio mondo, ridicola in quello di qualcuno che ha un rapporto equilibrato con le proprie finanze, ma comunque un risultato inedito nella mia storia famigliare. Questo mi ha fatto sentire investita di una qualche responsabilità, e dopo essermi premiata – per cosa, non si sa – con una borsa di lusso e un paio di stivali tanto scomodi quanto bellissimi, mi sono detta che forse era arrivato il momento di cambiare atteggiamento. 

Ho superato i trent’anni, e questo significa che, tra gli argomenti di conversazione tra coetanei, le feste e gli amorazzi sono stati sostituiti da mercato immobiliare e fondi pensione. Così ho chiesto un po’ in giro e ho scoperto che questo fantomatico fondo pensione di cui tutti parlano può avere un suo senso, soprattutto per una persona della mia generazione che andrà in pensione a 140 anni, quando l’INPS sarà ormai un cumulo di macerie sul fondo del mare. Alcuni amici hanno iniziato addirittura a parlarmi di investimenti a basso rischio, di bond e obbligazioni, del tutto inconsapevoli del deficit di apprendimento che nel mio cervello viene innescato da queste parole. Sempre ruminando, fingevo interesse e annuivo con sguardo solenne, mentre mi convincevo che comunque la borsa – quella di Celine che mi ero comprata, mica quella di New York – era stato in effetti un ottimo investimento.  

Tuttavia, essendo ormai impossibile nascondere i propri pensieri all’algoritmo di Instagram, nei giorni successivi a queste conversazioni esplorative su una più consapevole gestione del mio denaro un post sponsorizzato si è insinuato nella mia vita: “per una più consapevole gestione del tuo denaro”, recitava infatti la didascalia dell’app, ma anche “diventa la persona più interessante della stanza”, un secondo obiettivo che mi è subito sembrato perfettamente in linea con le mie ambizioni più ataviche. Il telefono mi dimostra ancora una volta di conoscermi meglio dei miei genitori, e com’è ovvio scarico l’app pubblicizzata seduta stante.

C’è un periodo di prova gratuito, dopodiché, vengo informata, pagherò un piccolo abbonamento mensile, immagino per il resto dei miei giorni. Come ormai potete indovinare da soli, ho pagato molti abbonamenti nella mia vita, così tanti che se mi fossi tenuta tutti i soldi che ho dato alle varie piattaforme di streaming a quest’ora forse avrei le risorse per rilevare un piccolo cinema di provincia. Ho firmato iscrizioni di tutti i tipi, anche le più stupide, ho pagato corsi di fitness che non ho mai seguito, sono abbonata da anni alla Cucina Italiana cucinando esattamente zero pasti alla settimana, e mi sono fatta convincere a fare la carta di credito sul treno tra Roma e Milano, per farci non si sa bene cosa, se non pagare i molteplici abbonamenti di cui sopra. Eppure un lampo di buonsenso e amor proprio mi suggerisce che stavolta stiamo andando oltre il limite, e che non imparerò nulla sulla gestione delle mie finanze né tantomeno diventerò la persona più interessante della stanza, in nessuna delle stanze che popolerò in futuro, quindi mi premuro di segnare sul calendario la data in cui dovrò cancellare questo ennesimo abbonamento superfluo. Realizzo così che forse ho già imparato qualcosa: ho appena risparmiato 79 euro e 99 centesimi.

Come primo passo l’app mi chiede di selezionare gli argomenti che mi interessa approfondire tra una vasta gamma che comprende voci tanto specifiche quanto vaghe. Si va da “comprensione del mondo” a “mentalità di crescita”, qualsiasi cosa significhi. Io sono qui per capire cosa succede alla fine di Una poltrona per due e come fare più soldi con pochi soldi, quindi seleziono “soldi e investimenti” e “gestione del denaro”. Già che ci sono seleziono anche “crescita personale”, perché putacaso servisse a qualcosa sarebbe un’alternativa davvero molto economica alla psicoterapia. 

Nella seconda fase mi viene sottoposto un elenco di titoli di libri che sarei interessata a leggere, e sospetto e mi auguro che alcuni di questi non esistano: Padre ricco padre poveroSoldi. Domina il giocoTu 6 un duro che fa soldi con la mentalità della ricchezza. C’è una quantità di pubblicazioni sui Bitcoin francamente eccessiva, oserei dire addirittura offensiva, ma ormai ci sono dentro e non posso permettermi inutili snobismi. Le scorro tutte, e mentre sento che l’anima sta lasciando il mio corpo realizzo che nessuno di questi libri sembra dedicato all’obiettivo della crescita personale, a meno che questa non passi per la trasformazione transitoria in brutta persona. 

Seleziono tre titoli a caso solo per scoprire che per fortuna non mi sarà richiesto di leggerli, l’app ha raccolto per me degli utili riassunti che posso ascoltare a 1,5x mentre giro tra le corsie della Pam. “Non sei povera, sei pre-ricca” mi suggerisce il telefono mentre metto nel carrello dei cereali sottomarca che gridano il contrario. 

Decido di iniziare da I segreti della mente milionaria, da cui scopro nei primi minuti di ascolto che i soldi non fanno la felicità, da sempre massima di chi non ha mai avuto problemi di soldi. Ma sono determinata a farmi una cultura in materia, e mi sembra lampante che la mente milionaria ancora non ce l’ho. Non solo la mente, ma anche il corpo non mi pare milionario: i miei denti alla deriva non sono quelli di una persona ricca, i capelli tradiscono una scarsa frequentazione del parrucchiere. Le occhiaie e la gobba suggeriscono che passo molte ore davanti a un computer in Pianura Padana, e troppo poche ore sulle spiagge assolate dei Caraibi.

Nei venti minuti di ascolto che servono per riassumere tutto il libro però mi viene insegnato solo un metodo di dubbia utilità, secondo cui la ricchezza è tutta una questione di volontà. L’autore consiglia di ripetere ogni giorno allo specchio 17 dichiarazioni per sviluppare la mente milionaria, ma non è dato sapere quali siano. Poco importa comunque, ognuno si può creare le sue, quello che conta è l’atteggiamento positivo, primo requisito della mente milionaria. È forse dunque la mente milionaria che mi ha portato in questi anni a spendere sempre un po’ più di quanto guadagnassi? Vuoi vedere che quella che ho sempre scambiato per sconsideratezza altro non era che la mente milionaria? Saremo mica tutti milionari in potenza a casa mia? “I ricchi pensano in grande, i poveri in piccolo”, mi dice l’app mentre mi trovo davanti alle buste di insalata scontate del 30% in quanto scadute o in procinto di. Penso in grande, mi penso milionaria, e compro un lattughino a prezzo pieno.

Vado avanti così per qualche giorno, in un turbinio di citazioni di Warren Buffett e consigli farraginosi che hanno più a che fare con una simulazione della ricchezza che con una concreta pratica di amministrazione, e mentre sento un gilet tecnico da stronzo materializzarsi su di me e la parola “mindset” mi riecheggia nelle orecchie, realizzo che nessuna app al mondo mi può salvare dalle cattive abitudini. Dopo aver solidarizzato con Mike Tyson, che scopro essere finito in bancarotta pur guadagnando 400.000 dollari al mese, decido che cercherò indicazioni altrove – forse da un consulente finanziario come fanno le persone normali – e cancello l’app. 

Quella notte sogno di giocare al Superenalotto. Nel sogno dico al tabaccaio di segnare “sicuramente il 14” e poi il 96, perché nella dimensione onirica non so nulla proprio come nella realtà. Infatti si dà il caso che si possano giocare i numeri solo fino al 90, scopro il giorno dopo mentre mi affretto a comporre una schedina in ricevitoria. Sulla schedina del sogno, a mo’ di intestazione, c’era scritto “Il porco”, il numero 4 nella smorfia napoletana, che ho scelto come testo ermeneutico per l’occasione. Me lo sono appuntato nel cuore della notte per paura di scordarmelo, in quel dormiveglia drogato che è terreno fertile per le idee più stupide che tutti abbiamo avuto. Il giorno dopo ritrovo la nota sull’iPhone, una serie di numeri, il porco, e per qualche motivo la regione Liguria, che nella smorfia napoletana, come forse potete immaginare, non è annoverata. Scelgo di assecondare i miei peggiori istinti, esacerbati dalla settimana appena trascorsa nel mondo delle criptovalute, e decido che Liguria significa avarizia. Numero 22, mi informa l’internet, come gli euro per un pezzo di focaccia a Bonassola. 

Consegno la schedina alla tabaccaia, abbastanza sicura che la mia vita stia per cambiare per sempre. Le ore che mi separano dall’estrazione dei numeri vincenti le passo su Immobiliare.it a scorrere annunci di case oscenamente costose, avendo impostato il filtro di prezzo minimo (un milione) ma non quello massimo. Ho già deciso in quali città del mondo comprerò un pied-à-terre e quanti milioni regalare ad amici e parenti. Scelgo divani, lampade, tappeti. Lascio che la mia mente milionaria viaggi per realtà parallele, nessuna delle quali è abitata da una versione di me con i capelli crespi. Nel multiverso della mia ricchezza sono una benefattrice dalla chioma setosa, risolvo crisi umanitarie e ho finalmente il tempo per leggere Infinite Jest. Da ricca va a finire che sono anche la persona più interessante della stanza, oppure ho pagato i miei commensali per fingere che sia così. 

Quando si fanno le 20:30 e nessuno dei miei numeri viene estratto – nemmeno il sicuro 14, nemmeno la Liguria – sento una piccola fitta di delusione. In effetti nel sogno giocavo, ma mi svegliavo prima di scoprire se avevo vinto. Tale è l’incompatibilità tra me e il denaro: anche nei miei sogni più vividi e sfrenati non posso ambire allo stile di vita che vorrei. Resto solo una pre-ricca, e niente di più.

ARTICOLO n. 27 / 2024

AD ANTIGONE PREFERISCO CREONTE

Un’intervista di Valeria Verdolini

Milano. Uscita dallascensore, la porta è già socchiusa. La casa è luminosa, con le stanze comunicanti che si intersecano con il corridoio. Ovunque libri, ma anche oggetti di una vita di viaggi e studio. In ingresso un grande quadro specchiante con una tigre accoglie e restituisce alla casa di studiosa una nota impertinente, che è anche la cifra della conversazione che ne è seguita. Eva Cantarella è nello studio, la trovo dopo aver vagato per le stanze. 

«Eccomi da lei. Avevo lasciato tutto aperto, perché non volevo perdere il filo dei pensieri. Arrivo al punto e poi sono da lei. Parleremo di tutto quello che vuole, ma prima dobbiamo accertarci che nella sua attesa non sia fuggito il gatto. Ha vent’anni, povero, è cieco, ma ha mantenuto uno spirito avventuroso e appena la porta si apre, tenta la fuga».

Accertata la presenza del rosso persiano, poco lontano dalla libreria a soffitto, ci accomodiamo in sala. Loccasione è luscita del recente Contro Antigone, o dell’egoismo sociale (Einaudi, 2024). Professoressa ordinaria di diritto greco e romano, divulgatrice e studiosa, Cantarella ha pubblicato oltre 30 volumi e innumerevoli saggi sul diritto greco, sulla polis, esplorando le contraddizioni di Atene, ma anche la capacità che hanno i classici – così come gli istituti giuridici – di parlare alloggi, di offrirci uno spunto. Di classici ci sono solo gli interessi di ricerca, perché la professoressa ha mantenuto gli occhi e lo stile da ragazzina, che brillano quando la si provoca con una domanda, e quellinformalità spigliata e cosmopolita che permette anche di dissacrare Sofocle, riprendendo alla lettera gli stasimi e riportandolo allinterpretazione autentica.  

Nel libro si distingue chiaramente il mito di Antigone e la versione prosaica della paladina dei diritti contro il potere tirannico dello zio Creonte, e la tragedia di Sofocle, in cui le vicende narrate assumono una piega sensibilmente differente. «Il mito è stupendo. Per fortuna esiste, regge nello spazio e nel tempo, e va molto lontano. Recentemente, per esempio, Milo Rau l’ha riproposto in Brasile, con la sua Antigone in Amazzonia». Il mito è chiaro, è noto. Tuttavia, Antigone è un’invenzione di Sofocle, e Sofocle nella sua tragedia racconta una storia molto diversa». 

La conversazione parte perciò dal sottotitolo paradossale: a fronte della nota eroina che sacrifica la vita per la degna sepoltura del fratello, il suo libro parla di egoismo sociale”. 

«Antigone è di uno spaventoso egoismo! Lo dice lei stessa, chiaramente, eccome se lo dice! Rileggendo il testo è chiarissimo! Il momento nel quale la cosa è non solo evidente, ma esplicita è quando dice a Creonte “tu hai ragione, è giusto che ci siano le leggi ed è giusto che gli altri obbediscono, ma io non intendo farlo!”».

Le domando da cosa derivi allora questo paradosso. «Antigone disobbedisce perché vuole assolutamente compiere un’azione che sarebbe un reato. Fondamentalmente a lei non importa null’altro che della sepoltura di Polinice. Tutto il resto è irrilevante, gli altri che la circondano, le altre azioni umane. Lei vuole solo una cosa, che è un reato per la legge di Tebe».

Le chiedo cosa la spinge a questa ostinata rottura e devianza. Perché voleva così tanto farlo? «Ci sono varie interpretazioni, ma molte si possono semplicemente scartare. L’idea dell’incesto tra lei e il fratello è proprio semplicemente ridicola. E perché quindi agisce così? Per amore fraterno ovviamente, e da questo punto di vista non c’è niente di strano. Ma il modo in cui lei esercita questo amore fraterno è strano: lei dice che non è giusto in generale ma che lo vuole fare comunque, e che lo vuole fare a modo suo. Esplicita che non le importa nulla che sia sbagliato teoricamente, semplicemente non vuole fare altrimenti. L’egoismo sociale è proprio questo: l’affermare che c’è un interesse individuale e in contrapposizione la polis, la visione collettiva della città. E questa è l’unica cosa che le importa. Non le interessano i sentimenti, per esempio. Antigone è una donna che non ha un sentimento. Una delle cose più impressionanti secondo me. Devo dire, sono rimasta colpita, e non è che io sia una romantica che si immagina chissà quali tenerezze. Però mi sono riletta non so quante volte il testo di Sofocle proprio perché volevo essere sicura. E in tutta la tragedia lei non pronuncia una sola volta il nome di Emone, il suo promesso sposo. Non lo nomina mai! E non solo non ne parla, ma non allude al suo matrimonio neanche quando si avvia alla morte, sapendo di rinunciare alle nozze. Si avvia alla fine, e in quel momento le poteva venire in mente vagamente… E invece, nemmeno in quella circostanza compare il futuro marito. Nell’universo di Antigone c’è spazio solo per lei e per la decisione di seppellire il fratello, cosa che sarebbe più che lodevole se non fosse fuorilegge. Peraltro, a voler essere precisi, Antigone si oppone contro una regola giuridica che non è solo lecita, ma anche logica: quando mai si offre degna sepoltura a un traditore della patria? Non era mai accaduto. Dei cadaveri dei nemici si faceva strage. E in questo caso si tratta di Polinice, che organizza la presa di Tebe, e poi lo dovrebbero seppellire in città insieme al fratello caduto per difenderla. Non ha senso, è una pretesa illogica, contraria al senso comune. Avanzare questa pretesa significa essere mossi da un enorme, spaventoso egoismo sociale, accompagnato da una perenne mancanza di sentimenti, e di visione. Colpisce come una persona, da sola, per assecondare il proprio volere, si metta in contrapposizione alla polis, accettando la regola generale ma evocando per sé, per il singolo caso, l’eccezione, l’accettazione della violazione. Ed è una forma di mostruoso egoismo».

La conversazione – così come il volume – si sposta sulle contrapposizioni poste in luce da Sofocle, che ha prodotto un testo dicotomico. La prima è una dicotomia generazionale, tra giovani e meno giovani. 

«Quello è molto importante, anche perché c’è in mezzo tutto questo fatto di quella nuova gioventù che erano i sofisti – i primi sofisti – quindi rappresenta anche un momento importante di trasformazione. Perché il racconto dell’Atene democratica, be’, anche quello spesso sfocia nel mito. Io ho sempre amato Pericle, con le sue contraddizioni. Ad esempio si evoca sempre la pratica democratica dei cittadini ateniesi. Ma alla fine quanti erano questi cittadini? Erano quattro gatti. Perché io tutte le volte che rileggo il famoso discorso, appunto, “abbiamo perso la nostra primavera”, che è bellissimo, anche se non sappiamo se abbia pronunciato esattamente quelle parole, ma immaginando di sì, lui pronuncia questo bellissimo discorso davanti a tutta la cittadinanza e i cittadini chi sono? Sono soltanto i maschi. Anzi, Pericle restringe ancora di più, riducendo l’accesso ai maschi ateniesi figli non solo di padre ateniese, ma anche di madre. Si trattava di pochissimi privilegiati. E gli altri? Atene era abitata da moltissimi meteci. Senza i meteci Atene non avrebbe avuto vita, lavoro. I meteci avevano dato senso alla città, così come i figli dei meteci che erano andati a morire in guerra. E Pericle fa un discorso che è bellissimo se letto oggi, ma che allora era assolutamente impensabile come inclusivo, era elitario. Abbiamo mitizzato i greci da tanti punti di vista e gli ultimi studi, soprattutto statunitensi, stanno rivedendo – anche in modo a volte creativo – come stavano le cose. Questi lavori ci raccontano come, in concreto, i diritti riconosciuti ed esigibili erano pochissimi, e come fossero goduti da una piccolissima parte della popolazione. E sebbene questi giovani studiosi stiano mettendo troppa enfasi e a volte tendano a esagerare, centrano un punto: abbiamo mitizzato la Grecia, abbiamo mitizzato i greci, abbiamo mitizzato persino Pericle».

La chiacchierata prosegue sulla seconda dicotomia centrale nellAntigone sofoclea, ossia quella di genere, tra la mascolinità di Creonte e la responsabilità femminile di Antigone. 

«Di questo nodo non parliamone neanche. È impressionante l’arretratezza in cui versavano le donne greche, sebbene poco lontano, in Oriente, le condizioni fossero diversissime. Lo racconta bene Erodoto quando ripercorre la storia di Tomiri, una donna assolutamente straordinaria.  È la regina dei Massageti, quando muore il marito lei prende il trono. Era molto bella ed era stata chiesta in moglie da Ciro il Grande. Capendo che lui in realtà mirava solo a controllare i Massageti, lei risponde di no, con garbo. Lui risponde dichiarando guerra. Lei cerca diplomaticamente di dissuaderlo, ma non c’è niente da fare. Ciro il Grande fa prigioniero il figlio di Tomiri, Spargapise. Tomiri propone un accordo per liberare il figlio prigioniero. Ciro il grande si rifiuta, ma slega le mani a Spargapise che riesce a suicidarsi. A quel punto Tomiri dichiara vendetta, rispondendo al sangue versato con la minaccia di fargli bere tutto il sangue che aveva causato. Be’, quando ti muore il figlio, che cosa si fa se non la guerra? E naturalmente, vince lei. Piccolo particolare: Ciro il Grande viene ucciso quindi da una donna. Io non l’ho mai letto in un manuale di storia. E poi, il cadavere non si trova. Mandano a cercarlo, lo trovano, lo prendono. Lei aveva preparato questa una bella tinozza piena di sangue, e dentro ci affoga il cadavere di Ciro il Grande. Tomiri incarna tanto la grandissima guerriera quanto una madre coraggio. E incredibilmente questa è una storia minore, poco studiata e poco narrata.

Mentre questi eventi erano possibili, le donne greche erano completamente senza potere. E quindi è abbastanza impressionante questa contrapposizione di figure femminili e questa Grecia, da questo punto di vista così arretrata. Ed era così più o meno dappertutto, tranne forse a Sparta. Se lei mi chiedesse di scegliere tra spartana o ateniese non avrei avuto dubbi, ma basta leggere le fonti, c’è scritto. Vero è che queste donne spartane non vedevano mai gli uomini perché quelli venivano portati via, e spesso loro contavano solo in quanto madri di un eroe.  Però alle donne spartane era consentito l’amore che noi chiamiamo lesbico. Le donne si amavano fra di loro. Questo poteva succedere a Sparta, certamente non ad Atene. E per questo dico che comunque se avessi dovuto scegliere avrei scelto probabilmente Sparta, dove le donne quantomeno partecipavano alla vita sociale. Insomma, sono buffi questi greci, sono un po’ diversi da come ce li hanno insegnati».

Spostiamo il dialogo sulla questione centrale delle leggi costituite e del contrasto evocato da Antigone, ovvero sulle cosiddette leggi celesti che tutti sovrastano. Dove si colloca il testo? Che ruolo ricopre il diritto?

«C’è la legge, e lei la vuole violare e dice è giusto, però non me ne frega niente, non lo faccio. Sofocle mette di fatto in scena il suo timore: egli teme che Antigone incarni quell’individualismo egoistico che il tragediografo attribuisce ai suoi concittadini e che lo terrorizza. Quindi, rileggendo Sofocle noi vediamo una critica all’egoismo.  Perché si inventa un personaggio così antipatico? Perché descrive quella che è la Atene che lui amava follemente e la città lo ricambiava dello stesso amore. Un bel personaggino anche Sofocle, la sua stessa vita è ricca di aneddoti. Del resto, lo stesso Pericle lo sgridava perché gli piacevano i ragazzini. C’è una scena riportata dai testi in cui lui cerca di baciare un ragazzo durante un banchetto. Era un viveur. Era divertente, ma allo stesso tempo era pieno di principi politici rispettabilissimi. Si impegnava. Contrariamente a quello che si dice non è vero che non si impegnasse in politica, tra l’altro era un conservatore, e si impegnava talmente tanto da diventare poi amico e collaboratore di Pericle. Umanamente è un personaggio di grandissima simpatia, divertente, che si invaghisce di donne, uomini e ragazze, ma che al contempo fa tutto il possibile per divertirsi, rimanendo però politicamente impegnato. Era un conservatore che si adatta, e capisce cosa cambia attorno a lui. Una persona intelligente e un gran viveur. Era molto ricco, e nonostante questa vita piena di intrattenimento è riuscito a scrivere moltissimo. Va detto che è anche vissuto un secolo. Forse potremmo tenerci l’insegnamento che una vita piena fa bene e l’allunga. Cent’anni ben vissuti. Una vita godereccia e piena, necessaria per scrivere tragedie.

Tornando all’Antigone, alla fine, non ci posso fare nulla, ma pur con i suoi torti io preferisco Creonte. Creonte poveretto è coerente fino in fondo, fino a quando non entrano in campo gli dèi, perché come sempre poi chi decide sono gli dèi, i quali a un certo punto cambiano opinione radicalmente. I greci erano fatti così, no? E tra l’altro si dimentica sempre che il povero Creonte non è che volesse diventare re per forza, anzi, non voleva proprio, lo dice all’inizio della tragedia. Accetta il compito che gli tocca, e lo svolge con un rigore esagerato. Ma al di là di questo non si può accusarlo di essere un despota. Mi sembra un personaggio positivo, decisamente con i suoi limiti. Senz’altro insomma, tra i due, non avrei un attimo di esitazione».

La provoco allora. Se sta dalla parte di Creonte, quale potrebbe essere oggi un moderno Creonte? Nel libro si trovano elencate le moderne Antigoni (tra le più note, Carola Rackete). Ma mancano moderni Creonte, visti alla fine come buoni governanti.

«Be’, certamente nessun governante europeo, ma anche negli Stati Uniti in questo momento non riesco a vederlo. Magari ce ne fosse uno. Anche in Europa. Sto cercando, chi è il migliore? Macron no di certo. Faccio fatica a individuare qualcuno che possa rappresentare una politica mossa da logica e coerenza, con un certo rigore».

Discutiamo di come il mito abbia ribaltato le cose. E perché nel farlo abbia scelto di acuire la dimensione individuale, leroina salvifica e non una salvezza collettiva. 

«È sempre stato un po’ così, abbiamo sempre avuto bisogno di un ideale, l’ideale è necessario, ma è difficile rappresentarlo davvero in una dimensione collettiva. Ma oggi non troviamo più non solo il collettivo, ma nemmeno il singolo, e la singola, che si farebbero uccidere per un ideale. Salvo rari casi, come il povero Navalny in questi giorni. Una vicenda che, letta da qui, fa sembrare le scelte di Putin poco strategiche, perché quella morte sembra aver avuto la capacità di toccare e attivare molte coscienze, con una reazione mondiale di grande portata. E non mancano solo le Antigone, mancano anche le Ismene, ossia le persone dotate di buon senso. Ismene è un bel personaggio, un personaggio razionale, ma oggi di persone sagge se ne trovano poche». 

Sullo stato del mondo, e sui timori sul mondo, c’è il verso forse più oscuro e più bello dellAntigone, ossia il primo stasimo. Il testo greco usa il termine ambiguo Denia”, associato alle cose del mondo. Un termine che è stato di volta in volta declinato e interpretato come il diritto, la legge, ma anche la tecnica, il progresso. 

«Πολλὰ τὰ δεινὰ vuol dire tutte e due le cose, tant’è vero che poi a un certo punto dice, dipende da come fai, perché se lo usi in un certo modo diventi un cittadino pieno e integrato, se lo usi in modo errato diventi un reietto. Si possono intendere l’uno e l’altro, tanto l’abuso della tecnica per fini nocivi, quanto la violazione delle norme. E quella violazione rende le persone apolis, fuori dal patto di cittadinanza. Apolis voleva dire questo. Ma è evidente che a seconda della bontà dei governi questo uso può essere ribaltato, ieri come oggi. Pensi allo stesso Navalny: prima di morire era di fatto in una condizione di apolis nella Russia putiniana. E la debolezza democratica dei governi mi fa dire che paradossalmente, oggi, fuori dal patto sociale vengono messe le poche persone perbene che ci sono. Perché, diciamoci la verità: quando uno ha Ignazio La Russa come seconda figura dello Stato, diventa tutto inconcepibile. Stiamo parlando di una persona che ancora oggi ammette di tenere i busti di Mussolini in casa. E non ci dimentichiamo che menava. Come menava lo abbiamo visto tutti nel 1968 in piazza San Babila. Non me lo faccia dire».

Andando a concludere la nostra conversazione, quale tragedia o quale mito secondo lei rappresentano meglio la situazione attuale? Che cosa dovremmo rileggere per capire dove siamo oggi?

«Ma non lo so. Probabilmente però in qualunque tragedia troviamo un personaggio nel quale possiamo identificarci. Ma non una sola tragedia. Non lo so, non mi viene in mente niente. Non so se sono io in un momento di particolare distrazione, ma non trovo proprio niente.  Forse ci dice tanto del nostro tempo il fatto che non riusciamo a trovare dei modelli a cui ispirarci, perché ci racconta anche della grande confusione in cui siamo. Un tempo non era così. C’erano dei modelli, e spesso le tragedie e i miti hanno svolto questa funzione, e sarebbe importante che tornassero a svolgerla».

ARTICOLO n. 26 / 2024

ROMA VISTA DAL GAZOMETRO

Pubblichiamo un estratto dal volume Architetture inabitabili (Marsilio Arte) a cura di Chiara Sbarigia e Dario Dalla Lana. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.

Alto quasi novanta metri, tre tonnellate di ferro e due milioni di chiodi per costruirlo, chilometri di tubazioni. Scendendo viale Aventino, lo avvisti da piazza Scanderbeg che sovrasta le chiome dei pini, poi riappare da mille altri punti di vista, meravigliosamente incongruo nello skyline frastagliato di cupole, ville patrizie, torrette. Quando ero ragazzo lo si vedeva anche pieno per un terzo, o a metà, o vuoto del tutto, e nessuno di noi capiva come effettivamente funzionasse, nemmeno ce lo domandavamo: più è complessa, più la tecnica la si accetta come una specie di implicito miracolo. Un mondo sottinteso. A parte chi ci lavora, i macchinari che mandano avanti una città come sono fatti, chi li conosce?

E poi, la z nel suo nome vi aggiungeva un ulteriore tocco esotico. 

Molto è stato scritto e ancora di più filmato sul carattere impiegatizio, ministeriale e burocratico della città di Roma. Solo qui è stato possibile che si creasse un milieu artificialmente interclassista così capiente da mescolare palazzinari, gente di spettacolo, stimati professionisti, personaggi televisivi e politici, artisti e artistoidi, insieme a una variopinta fauna umana, che impropriamente veniva chiamato “generone”, capace di riprodursi in modo proteiforme avvicendando i suoi protagonisti eppure mantenendo quasi immutato il suo codice morale, e cioè un radicale e umoristico scetticismo, nei confronti di tutto e tutti (persone, istituzioni, idee), e persino verso un valore che in altre città viene, se non adorato, quanto meno rispettato: il denaro. La RAI, il tifo calcistico, er Cinema, i Palazzi della politica, i Circoli sul Tevere e sull’Aniene, le redazioni dei giornali e le caste dell’amministrazione pubblica sono legati dai fili di una rete più o meno visibile, come quella che salva gli acrobati del circo quando sbagliano, su cui sta sospeso un mondo al tempo stesso surreale e fatto di interessi concreti, di frivolezza e candore e opportunismo e miscredenza, dove, a momenti, i soldi sembrano contare un po’ meno che altrove, poiché, a tirare le somme, nulla conta veramente, tutto è transitorio, il potere, il successo, la considerazione o la riprovazione altrui, il sesso, la politica, insomma a farla breve la vita; e dunque, perché dannarsi l’anima a inseguire uno di questi obiettivi? Meglio lasciar andare il tempo, e l’anima (se qualcuno ancora ce l’ha) affidarla alla sua corrente… 

Secondo gli schemi del mio rigido moralismo di ragazzo, il corpo sociale della città in cui da sempre abito mi sembrava insomma formato da sonnolenta e retrograda borghesia, zozza plebe e aristocrazia spompata, con una preponderanza della prima categoria sulle altre. Qualcosa di analogo aveva scritto Stendhal quando ironicamente sosteneva che la città fosse abitata per un terzo da preti, per un terzo da donne e per un terzo da statue: a lui queste percentuali non sembravano dispiacere, forse perché trapassavano le epoche assicurando una sorta di precaria stabilità all’assetto cittadino. 

Suonerà bizzarro, ma da queste parti, infatti, permanenza e pungente senso dell’effimero si scambiano di continuo i ruoli: si confida nella prima a causa del secondo, o meglio, è la maestosità della prima (rappresentata plasticamente dalle immani rovine antiche) a indurre incredulità nei confronti di qualsiasi realizzazione attuale. L’immobilismo diventa così garanzia di eternità.

Ma ecco il Gazometro a smentire tutto ciò. Ferro, e non soltanto marmo. Chiatte cariche di carbone invece che pini e fontane. Tecnica e industria, e non turismo (ossia quell’attitudine che induceva Joyce a scrivere: “Roma mi fa pensare a un uomo che campa mostrando ai visitatori, in cambio di un soldo, il cadavere di sua nonna”). In altre parole, modernità, che non cancella l’antico anzi serve a mantenerlo vivo, a illuminarlo. Con la sua grandiosa incastellatura metallica, nulla come il Gazometro a Roma rammenta l’avanguardia del Novecento, che oggi è anch’essa divenuta a suo modo archeologia, certo, ma che contorna di un opaco splendore il profilo estetico della città esattamente come, in certi quadri, il paesaggio sullo sfondo fa risaltare ancora di più le figure in primo piano. Nel quadrante sud, là dove il Tevere serpeggia una volta sgusciato fuori dalle mura, la città era anche questo, soprattutto questo, emanante l’“acre e strano fascino” industriale, e lo ricordano le lugubri descrizioni nei documentari che venivano girati lì dentro. La stentorea voce fuori campo avrebbe potuto fungere da didascalia a un film su qualche fuligginosa città operaia inglese o addirittura all’incubo di Metropolis, con il “ventre insaziabile” delle sue fornaci. “Nell’atmosfera squallida ai margini della città… le officine del gas sembrano esprimere… coi loro tetri profili… tutta la tristezza della periferia…”. Centinaia di operai si aggirano intorno alle “costruzioni affumicate e untuose” di questo “mondo nero e pulsante”. E poi, con un tono ancora più esaltato: “si irradia dai tozzi gabbioni dei gazometri… il calore necessario alla vita dell’immensa città!”. Eh sì, perché in realtà i gazometri sono quattro, gli originari più piccolini, e poi quello monumentale aggiunto nel 1937 dall’Ansaldo, il più grande d’Europa, assai più titolato a rappresentare l’autentico Colosseo novecentesco in luogo di quello (quadrato) dell’EUR. 

Colgo l’occasione che oggi mi viene concessa di entrarvi. Da molti anni è stato svestito delle paratie telescopiche che si alzavano e si abbassavano a seconda della quantità di gas stoccato (fino a duecentomila metri cubi), quindi ne rimane il guscio, il “fantastico castello d’acciaio” come lo definiva il cinegiornale d’epoca. Ammetto di essere piuttosto emozionato: come quando visitai il cuore della centrale nucleare mai attivata a Montalto di Castro, e mi piazzai dove avrebbero dovuto essere le barre di plutonio (unico luogo al mondo, credo, Montalto, dove sia possibile far questo…). 

L’impressione, accerchiante, e che mozza il fiato, è di stare in un incrocio tra una plaza de toros e una vertiginosa proiezione di effetti optical verso il cielo, con in alto il tondo azzurro e tutt’intorno la trama leggera delle travature. Mi sembra di cogliere in modo palpabile la volumetria del manufatto anche se essa, di fatto, non esiste, è aria. L’architettura consiste soprattutto di quello che in cinese si dice wu, particella dalle mille possibili traduzioni: l’assenza, il nulla, il non avere o forse il non essere, l’apertura, il vano. Ciò che arretra, che esiste per sottrazione, insomma, e così offre spazio alla vita, come appunto i vani di un’abitazione. Volendo proseguire con analogie forse stravaganti, ma senza le quali non potrei rendere minimamente le mie sensazioni, è come quando mi ritrovai, a Bamiyan, davanti alle nicchie dei Buddha giganti distrutti dai Talebani: non c’erano più, eppure c’erano. Il vuoto suggeriva la loro presenza. Vi alludeva, la significava.

Poco più in là, oltre la recinzione, scorre il fiume, lo si intuisce dalle cime degli alberi scossi dal vento che ne segnano l’argine. È dal Tevere che veniva scaricata la materia prima. Quindi, negli “immani bracieri” dei forni, bruciava il carbone a mille e trecento gradi, per trasformarlo in gas, che poi doveva subire altri passaggi, lavaggi, purificazioni, sublimazioni, prima di essere adatto all’uso. Insieme a un buon sistema fognario, l’illuminazione segna il vero scatto in avanti della vita urbana. Qualcuno dovrà pur fare il lavoro sporco perché alla comunità sia concessa un’esistenza più pulita.

Persino a Roma, città simbolo di svagatezza e approssimazione, le fondamenta poggiano su sangue sudore e lacrime: ipocrita nasconderle o porle fuori vista. Il traforato castello del Gazometro, anche se ora è un immateriale disegno in cielo, una specie di miraggio calviniano, sta ancora lì a rammentare della base materiale dell’esistenza: come il fossile che segnala, in negativo, con il suo solco vuoto, il corpo dell’animale vivo. 

Le immagini degli operai che lavorarono lassù, sospesi in aria, tra il 1935 e il 1937, ricordano quelle famose dei grattacieli americani in costruzione, con i carpentieri che fanno uno spuntino seduti sulle putrelle d’acciaio appena imbullonate. Ora mi piacerebbe arrampicarmi sulla scaletta metallica che sale a zigzag fino in cima; ma soffro di vertigini, so che non arriverei a dieci metri. Dall’alto penso si allarghi il panorama fino all’osteria “Al Biondo Tevere” che sta un chilometro più in giù sulla via Ostiense. Be’, ci andrò in motorino.

ARTICOLO n. 25 / 2024

ALMARE: INDIVIDUALITÀ E PROGETTUALITÀ CONDIVISA

conversazione collettiva

La creatività collettiva è da sempre presente nel panorama culturale italiano, ma raramente le viene rivolta la stessa attenzione riservata a quella individuale. Per fare luce su questo mondo, su come nasce e come si manifesta, stiamo curando Conversazioni collettive: una serie di interviste con diversi collettivi italiani svolte da noi, Montag, un collettivo di scrittura.

In questo secondo appuntamento abbiamo intervistato ALMARE, un collettivo artistico-curatoriale fondato a Torino nel 2017 da Amos Cappuccio, Giulia Mengozzi, Luca Morino e Gabbi Cattani. ALMARE indaga le pratiche artistiche incentrate sull’uso del suono come mezzo espressivo, ma in molti dei loro progetti si riconoscono più anime, vedendo come la scrittura narrativa o l’audiovisivo, per esempio, possono convivere nello stesso spazio performativo, espositivo o testuale con la dimensione sonora.

MONTAG: Sul vostro sito vi descrivete come “collettivo artistico-curatoriale”, ma che cosa significa per voi essere un collettivo? Cosa vuol dire collaborare, lavorare insieme? E un’altra curiosità: che significa per voi essere un collettivo che collabora con altri collettivi? Come fate rete? Pensiamo soprattutto alla recente collaborazione The listeners.

ALMARE (Amos): Vorremmo prima fare una premessa: siamo in un periodo complesso e articolato per il collettivo stesso, motivo per il quale abbiamo deciso di fare questo incontro. Ci piaceva l’idea di dare delle risposte in un momento difficile in cui stiamo passando una crisi – ma sì, chiamiamola crisi. Per quanto mi riguarda, il nostro collettivo sta proprio in quell’equilibrio tra individualità e progettualità condivisa.

Noi siamo quattro persone che dal punto di vista delle attitudini e delle esperienze hanno un filo conduttore, che è il percorso artistico. Non necessariamente nel fare arte in quanto artisti, ma come percorso di studio, di interessi; un percorso di vita, in cui la musica, l’arte in generale, il mondo della cultura sono centrali. Detto questo, abbiamo provenienze diverse anche da un punto di vista di classe, percorsi di vita che hanno direzioni e necessità diverse. E abbiamo sempre cercato, nella nostra impostazione, di far sì che ognuno di noi potesse essere rispettato nella sua individualità e nella sua necessità di portare avanti un percorso personale. Proprio perché ci siamo uniti in una fase che era di “fine scuola” – almeno io, Gabriele, Luca – e, come tante altre relazioni che nascono in periodi di transizione, poi si deve crescere insieme. C’è quasi un movimento ondulatorio, in cui ci si adatta alle necessità degli altri, ci si fa anche trascinare dagli altri, in modo positivo. Poi per ognuno diventa più chiaro in che cosa si sente a proprio agio e che cosa vuole fare. Per noi questo è il momento: abbiamo iniziato a capire tutti più chiaramente che cosa vogliamo, in cosa vogliamo andare avanti nelle nostre vite. E bisogna riuscire a capire quanto questa cosa si può fare insieme e secondo quali modalità.

Questa credo sia l’introduzione, ma forse anche già una parte del discorso. Poi nella pratica facciamo cose diverse. Gabriele, per esempio, ha un percorso più da artista e teorico. Giulia un percorso più curatoriale, anche lei teorico, però con un’attitudine diversa alla scrittura. Io un percorso da musicista e sound designer, come Luca, che è anche informatico. Questo ha fatto sì che le cose si unissero molto bene, ognuno ha potuto portare la sua specificità. Forse il film a cui stiamo lavorando ne è l’esempio maggiore. Detto questo, ci sono altri aspetti, che sono appunto le necessità della vita, del dove si vuole vivere, se nella stessa città o in città diverse, come organizzarsi il tempo, come comunicare. 

MONTAG: Vi siete conosciute a Torino. Si pone la questione della topografia del collettivo. Vi capiamo, lo stiamo vivendo un po’ anche noi.

ALMARE (Giulia): La nostra idea di collettivo si sta schiantando contro la vita reale, quando si incrociano delle necessità che impongono di rispettare l’individualità, comunque rimanendo nella volontà di lavorare insieme. Non so poi fino a che punto si possa dare una definizione univoca di collettivo. Nel caso di ALMARE l’idea di partenza era: che cosa vogliamo fare? A quali mancanze vogliamo provare a rispondere? A quali frustrazioni? Insomma, ci siamo chieste come costruire uno spazio di azione che da sole forse non avremmo saputo creare.

Un’azione trasformativa del proprio contesto, anche mediante iniziative che possono prendere varie forme, da un film che diviene audio-racconto all’organizzazione di concerti, alla scrittura, oppure, non so, passare la notte a parlare di cose. Eravamo quattro amici al bar, scusate la banalità, ma vi vedo sorridere, quindi magari sono esperienze comuni. L’essere collettivo ha a che fare con una agency condivisa. I collettivi, sia artistici che politici, alla fine sono persone che si uniscono per fare qualcosa. Se non c’è questa spinta bastano, credo, altri tipi di relazioni, amicali, ma se c’è un intento di unirsi in un organismo che supera le individualità forse è perché si sente la volontà di essere più efficaci nell’operare nel proprio contesto. Spero non sia troppo astratto come ragionamento.

MONTAG: Non sembra per niente astratto, anzi: l’agency condivisa, creare uno spazio d’azione comune, è un fare molto politico, ed effettivamente, addentrandosi nei vostri lavori, si legge di guerriglia sonora o di arma sonora. Come vi ponete rispetto a questo discorso, a questa vocazione politica, a questa voglia di cambiare le cose, sia in riferimento al vostro ultimo lavoro, Cronache di vita di Dorothea Ïesj S.P.U., sia rispetto ad altri lavori passati nei quali vi siete interfacciati con figure politiche, di lotta, come Porpora Marcasciano? 

ALMARE (Gabriele): Non so se esista un politico fuori da una visione, che poi è anche ideologica. E non c’è bisogno di aver paura di questo. Noi siamo quattro, e in questo corpo tetracefalo abbiamo visioni che guardano in una stessa direzione, forse politica, ma che si sono espresse anche in modi diversi e in attività diverse. Penso che Giulia e Amos abbiano una pratica più spiccata di attivismo, o di studio relativo a certe tematiche. Poi, una parte di questo studio e di questa pratica è entrata all’interno del collettivo, così come in Dorothea, ma come dicevate anche il nostro incontro con Porpora ha contato. In quel caso eravamo state invitate per lavorare su come il suono, e specialmente il suono registrato, occupa uno spazio, in senso molto pratico, architettonico. E dunque qual è la differenza tra uno spazio privato e uno spazio pubblico, che è anche performativo? E come scelgo di diffondere un suono che altrimenti rimarrebbe inciso? Quando abbiamo cominciato a organizzare delle sessioni d’ascolto o a ragionare su certe tematiche, è allora che queste sono emerse come urgenti: oggi il suono è rientrato nel dibattito sulla politicizzazione della memoria e su come conserviamo certi suoni, come vi abbiamo accesso. Penso che queste tematiche, poi, ci abbiano spinto a occupare in modo più trasversale diverse posture, con la volontà di porsi domande su questioni difficilmente riassumibili, che necessariamente aprono a una sorta di mimesi che spinge a chiedersi: “E io come lo farei? Come reagirei a questo stimolo?”

ALMARE (Giulia): Da questo punto di vista faccio una precisazione: fatico a arrogarmi il diritto di definirmi attivista perché per esserlo ci vuole una costanza, una coerenza e una capacità di impegnarsi rispetto ad alcune questioni che purtroppo, forse per uno spirito di autoconservazione o mantenimento di privilegi, sento di non avere appieno. Però è indubbio che c’è una sensibilità che va in quella direzione, un approccio politico. ALMARE ha sempre cercato con le proprie pratiche di creare operazioni culturali che potessero funzionare come piattaforma di supporto e diffusione di contenuti politici, che poi abbiamo condiviso con persone che invece possono a buon diritto dirsi attiviste. Penso a Justin Randolph Thompson, che abbiamo portato in una performance al compianto Macao e al festival Saturnalia nel 2018, poi sicuramente a Porpora Marcasciano, chi più di lei? Insomma, non voglio dire che un approccio politico sia il motore primigenio delle nostre collaborazioni, però c’è un’attenzione verso questo aspetto. Penso che chi fa attivismo abbia bisogno di piattaforme, di risorse. E nel suo piccolo ALMARE prova a contribuire. Questa è un’intenzionalità politica che ha un piccolo effetto sul piano del reale.

Poi c’è un lavoro di analisi e diffusione di contenuti che non è mai didascalico, perché non lo è il nostro linguaggio, che a tratti è anche abbastanza complesso e lì cerchiamo di fare il nostro per diffondere contenuti che sono esplicitamente politici. Si faceva riferimento ad esempio alla questione delle armi sonore, che è da intendersi come l’ha intesa Steve Goodman in Sonic Warfare. Nel contesto dell’audio-racconto l’abbiamo veicolata attraverso una storia fantascientifica che fa esplodere in maniera fantasiosa l’argomento, però per noi sono tutti strumenti di riflessione sulla realtà che viviamo tutti i giorni, e speriamo anche che lo siano per chi si imbatte nel nostro lavoro. Mettiamola così.

MONTAG: Partendo da Cronache di vita di Dorothea, volevamo farvi una domanda sul fronte artistico. Ci ha interessato molto come progetto perché è una creatura ibrida sotto moltissimi punti di vista: unisce sonoro, testuale, narrativo. Ma è anche ibrida dal punto di vista del genere narrativo, perché c’è da un lato il framework fantascientifico, ma dall’altro c’è anche quell’effetto quasi horror generato dal sentire la voce, il suono perduto di qualcosa quasi inarrivabile. Ne avete parlato anche in un post su Instagram, della possibilità di recuperare la voce di Gesù, che però chiaramente avrebbe un effetto orrorifico, perché parlerebbe in una lingua che a noi è completamente aliena, con inflessioni a noi sconosciute. Ci interessa questo vostro lavorare in maniera ibrida sia sul piano dei media che su quello dei generi. Per voi è una cosa naturale, lo decidete insieme…?

ALMARE (Giulia): Terrificante, ma anche comico. Sempre a cavallo.

ALMARE (Amos): I formati ibridi credo siano una delle scelte che più ci caratterizzano e interessano fin dall’inizio. Ci abbiamo sempre fatto attenzione, perché non volevamo bloccarci all’interno di una modalità di fare, di un formato o di un linguaggio. Di per sé questo audio-racconto si forma pian piano da un punto di vista formale, ma nasce prima di tutto come un racconto inteso proprio come una fiaba letta ad alta voce. Lo volevamo fare con uno stile che fosse vicino alla fantascienza dal punto di vista della scrittura, perché lì ci portava il tema dell’archeoacustica, che di per sé è fantascienza, ma nel senso che è una scienza che ancora non ha trovato delle risposte ai propri esperimenti, quindi è fantastica ed è qualcosa che ti devi per forza immaginare. Poi da un punto di vista formale, invece, all’inizio era semplicemente un audio-racconto senza sottotitoli. I sottotitoli sono nati come elemento funzionale e poi sono diventati centrali e necessari per portare fuori la voce e dargli una forma attraverso le lettere e le parole. Da lì ci sono voluti anni prima di arrivare a pensare che potesse essere considerato un film. Abbiamo avuto la fortuna che ci invitassero a fare la presentazione e ci dicessero “guardate abbiamo un cinema, vi va di farlo in un cinema?” E noi, “Ok, proviamoci”. Quell’esperienza lì, al cinema, è stata illuminante, perché abbiamo capito che effettivamente era un film. Lì prendeva forma nella postura che richiede il cinema, nello stare seduti, nell’ascoltare dall’inizio alla fine, nell’avere un grande schermo che ti attrae gli occhi e allo stesso tempo non c’è quasi nulla da vedere. Dall’altra hai anche la possibilità di avere un impianto audio che ti concede di spaziare, di lavorare sulla dimensione drammaturgica del suono. 

ALMARE (Giulia): Era il cinema Eliseo di Cesena, nel contesto della programmazione curata da MU, un’organizzazione composta da Enrico Malatesta, Glauco Salvo, Giovanni Lami. Tutte quelle ricerche che avevamo svolto in altri progetti, sia curatoriali che organizzativi, ci avevano portato a indagare certe tematiche che sono intrinsecamente legate agli albori di una tecnologia, di un modo di intendere la tecnologia, e che ci riguardano perché siamo ancora all’interno della modernità per quanto uno si sforzi a dirsi postumano. Nello specifico, Cronache di vita di Dorotea nasce da una ricerca legata alla registrazione, con la quale eravamo ossessionate nel 2019, e su cosa significa ascoltare e riascoltare, e se è possibile davvero ascoltare suoni registrati da noi stessi senza calcolare un interlocutore diretto: un’impressione sonora che non è finalizzata a una comunicazione intenzionale. Ci siamo accorte che le questioni che stavamo studiando andavano a smuovere tutta una serie di ambiti di cui noi non potevamo assolutamente occuparci. Allora abbiamo deciso di invitare autori, autrici, artiste, ricercatori, ricercatrici, che pensavamo potessero avere qualcosa da dire rispetto a questa domanda: che cosa significa autoregistrarsi? Il risultato è stata un’installazione sonora che abbiamo chiamato “Miscellanea” in riferimento a un format seicentesco, barocco, perché chiamarla archivio, database, non era abbastanza. La traccia dura 17 ore e raccoglie una serie di spunti sull’archeoacustica, una disciplina che indaga le proprietà acustiche dei siti archeologici per capire come sentiva la gente all’epoca dentro quei luoghi, come voleva far riverberare la voce.

Si tratta anche di un fantasioso sottobosco di teorie cospirazioniste e leggende metropolitane, legate a un’idea nata tra fine Ottocento e inizio Novecento: le persone attraverso queste tecnologie scoprivano che le onde sonore si imprimono nella materia e che poi, con degli strumenti appositi, è possibile riprodurre l’incisione discografica. Qualcuno si chiese: sarà successa la stessa cosa in tempi antichi? La voce di Aristotele sarà rimasta incisa su un vaso che qualcuno stava modellando in quel momento? Un’idea molto stimolante dalla quale è nato il what if del nostro racconto fantascientifico. Immaginate cosa succederebbe se questa ipotesi diventasse praticabile.

Qui la fiction arriva un po’ come reazione ai limiti della ricerca speculativa. Anche questo nasce da un’esperienza di ricerca condivisa e forse non ci saremmo mai arrivate se non avessimo fatto ricorso a ispirazioni portate dal coinvolgimento di altre persone. Abbiamo avuto la fortuna di poter approfittare in maniera quasi parassitaria di soluzioni che vengono dall’incontro con un’etichetta internazionale con cui abbiamo organizzato alcuni concerti a Torino. L’etichetta aveva poi coinvolto un’associazione torinese, Archivio Tipografico, che si occupa della conservazione della nobile arte della stampa a caratteri mobili. Il fatto che loro lavorassero alla riemersione di strumenti per la stampa risuonava con quella del suono, inciso e scavato come caratteri mobili, di cui parla il racconto. Il lavoro è, alla fine, un film, un piano sequenza che però è anche un’operazione di graphic design, ottenuta tramite processi analogici. L’effetto finale è quello di immagini che sembrano uscire dallo schermo, senza una funzionalità in sé, ma rinforzando ciò su cui volevamo lavorare, questa idea dello scavo archeologico, dell’emersione di strati diversi che poi si sintetizzano. L’interfaccia visiva ha assunto quasi magicamente un ruolo sintetico, una ragione quasi autonoma. E, anche qui, non avremmo potuto farlo senza entrare in relazione osmotica con il lavoro di altri collettivi.

MONTAG: Volevamo proprio andare a scavare su quanto fosse importante per voi il rapporto tra sonoro e visivo. Poi con il discorso sul collaborare e intrecciarsi con altre realtà ci avete fatto pensare a Kathy Acker, che seguiva un’etica molto punk, appropriazionista, e le sue opere cercavano di mostrare come tutto viva di una intertestualità e sia, in fondo, una sintesi di appropriazioni. Ci sembra che anche il modo in cui decidete di lavorare mostri il bello di una sintesi simile, fatta di tutti gli scambi e le collaborazioni che avete attraversato, sia tra di voi che con altre realtà. Tutto ciò, in un certo senso, rimane. Ecco, lo sottolineiamo perché sulle cose di cui abbiamo parlato aleggia una certa ossessione per l’inciso, la memorizzazione, qualcosa che viene salvato. Noi, nella nostra esperienza con la scrittura performativa, ci siamo confrontati con il dilemma inverso: situazioni di creazione collettiva in cui, alla fine, se l’opera finale scompare, che problema c’è? Cosa cambia, insomma, se dell’esperienza sonora o narrativa non resta assolutamente niente, se viene vissuta interamente sul momento. Finora abbiamo parlato di memoria sonora ma, al contrario, come vi ponete rispetto alla scomparsa sonora? Nella vostra estetica o etica si è mai posta una questione simile?

ALMARE (Gabriele): L’audio-racconto traccia esattamente questa traiettoria di cui parlate. Da una parte, l’ossessione di salvaguardare, o forse una pretesa di salvaguardare, tutto, di un’archiviazione quasi totale. Proprio l’altro giorno mi trovavo a discutere del rapporto con la tradizione e del fatto che la tradizione sia sempre, in fondo, una reazione emotiva alla perdita. E non esiste tradizione senza perdita. Sono la stessa cosa: ogni volta che ci interfacciamo con una ricorrenza, ci interfacciamo con una perdita. D’altro canto, e questa è la fine del racconto, le cose devono essere lasciate andare, in modo che possano essere vissute e basta. La memoria non è archivio. Bisogna fare i conti con l’ineluttabile e anche, direi, con una certa gioia nell’accettare che le cose prendano la loro naturale vita e che, quindi, si perdano. Forse potremmo definire la tecnologia nei termini di una hauntologia, una creazione di fantasmi: se si vuole tenere tutto, si vivrà in un mondo di fantasmi. E questo per noi era un punto centrale verso il quale volevamo andare con il racconto.

ALMARE (Amos): Aggiungo una cosa, un po’ per chiudere il cerchio rispetto all’introduzione. Per far sì che i nostri personaggi lasciassero andare, in un certo modo, abbiamo dovuto lasciare andare noi prima di tutto. Per questo parlavamo di un’esperienza “sofferta”, nel senso che la cosa andava a toccare un elemento intimo, anche rispetto a un momento in cui il nostro collettivo ha incontrato quel sottile confine tra le necessità comuni e le necessità di ciascuno. L’individuo, nel senso positivo del termine, non è l’individuo che rifiuta gli altri o rifiuta di mettersi in discussione, ma è l’individuo che riconosce il suo percorso e impara anche a mettersi da parte. Solo così aiuta la collettività, nel momento in cui è in grado di lasciare andare. E questo è un percorso che si fa da soli e insieme allo stesso tempo.

ALMARE (Giulia): Dico un’ultima cosa che però mi sembra significativa rispetto anche alla scrittura collettiva. Mi pare di capire che anche voi vi scontriate con il lasciare andare, il domandarsi fino a dove accumulare e poi fino a che punto sintetizzare o rielaborare tutto. Prendiamo lo script del nostro film. Molto materiale che usiamo sono parole scritte da altri, come Goodman, Burroughs, Morselli. Credo che finora solo per caso non ci sia finita Acker stessa. Poi c’è stata una prima fase del lavoro che è stata una registrazione delle nostre conversazioni, oppure salvataggi più o meno autorizzati di mail, chat, e così via. Tutto quel materiale è finito in un modo o nell’altro all’interno del lavoro finale: là dentro ci sono le parole di tutti, il nostro cumulo. Qui poi potremmo aprire tutta una digressione sull’accumulo come ossessione e sulla sua matrice politica, ma forse non abbiamo tempo.

MONTAG: Forse no, ma grazie mille per tutto quello che avete detto. Una cosa finale?

ALMARE (Amos): Nessuno ha ancora detto la parola capitalismo.

ARTICOLO n. 24 / 2024

DONNE CATTIVE

Il mito della mostruosità femminile - ii

Uno dei film più attesi del nuovo anno è stato indubbiamente Povere creature!, ultima pellicola del regista greco Yorgos Lanthimos. Il film, che vede tra i protagonisti Emma Stone e Willem Dafoe, è tratto dal celebre romanzo di Alasdair Gray e racconta la storia di Bella Baxter, giovane donna che lo scienziato Godwin Baxter riporta in vita attraverso uno strano esperimento. Di Bella, all’inizio, sappiamo poco; non conosciamo i motivi che l’hanno portata, incinta, a suicidarsi gettandosi nel fiume, né con quali tecniche Baxter l’abbia rianimata. Mentre racconta all’amico e collega McCandless delle circostanze in cui ha compiuto l’operazione, il medico rivela di aver prelevato il cervello dal feto e di averlo impiantato successivamente nel corpo della giovane: «Per anni avevo progettato di prendere un corpo e un cervello scartati dal nostro mucchio di letame sociale per riunirlo in una nuova vita. Adesso l’ho fatto, e Bella ne è il risultato». 

A una prima analisi, la storia di Bella Baxter potrebbe ricordare quella di Frankenstein, entrambe le figure condividono infatti il destino di essere assemblate e riportate in vita per mano di un uomo. Tuttavia, Bella è fin da subito dotata di un nome e una propria individualità, che si forma via via grazie ai progressi evolutivi di quel cervello infantile che le è stato impiantato. Bella è riconoscente al suo creatore, che non a caso per tutto il romanzo chiamerà con il suo diminutivo che significa “Dio”: «Mi hai reso forte e sicura di me – God – insegnandomi le cose belle e importanti del mondo e mostrandomi che ero una di esse». Ben diversa invece è la vicenda di Frankenstein, mostro senza nome, ripudiato anche dall’uomo che lo ha creato, e mai avrebbe dovuto. Mentre Shelley dà vita a un romanzo – il primo a metà tra gotico e fantascienza – in cui traspone la perdita e il dolore per la morte prematura della figlia, Gray crea una storia politica funzionale a ricordarci l’importanza di cambiare costantemente prospettiva per poter andare, davvero, al nocciolo delle questioni. Non è un caso, infatti, che lo scrittore di Glasgow, giocando con la quarta parete, racconti la storia da punti di vista diversi: il suo, che nella finzione letteraria diventa curatore di un grande volume trovato per caso tra i materiali di cui una ditta si era sbarazzata; quello di McCandless, che firma l’opera e quello della stessa Bella Baxter, che il giovane medico sposerà dopo varie peripezie. 

Bella Baxter è una figura mostruosa non solo e non tanto per il modo in cui interagisce con gli altri personaggi – si muove a scatti, impara a parlare e scrivere esattamente come farebbe un bambino, per tappe e grossolani errori – lo è soprattutto perché il suo comportamento trasgredisce le regole sociali. È bellissima, sessualmente insaziabile – tanto che non perde occasione di intrattenersi con l’avvocato Duncan Wedderburn (nonostante sia promessa sposa di McCandless) – e si diletta inoltre a girare per il mondo sostenendo le nascenti teorie socialiste. La mancata maternità, la vita sessuale dissoluta, l’interesse per la politica e la scienza fanno di lei una donna mostruosa, una delle tante che il sistema di potere nel quale ci troviamo a vivere ha sempre tentato di condannare e reprimere. Nel lungo cammino che ci spinge a riflettere intorno ai miti del femminile, non potevamo quindi esimerci dal raccontare del loro corpo e, soprattutto, delle loro pulsioni.

Come dicevamo, il patriarcato non si è premurato soltanto di definire quelle pratiche e quei comportamenti che dovevano essere agiti dalle donne per poter ottenere approvazione e consenso. Le regole si creano soprattutto attraverso il biasimo e la condanna sociale delle condotte ritenute indegne: dimostrare un’eccessiva libertà e promiscuità sessuale rientra indubbiamente in questa casistica.

Ne Il mostruoso femminile, Sady Doyle scrive: «La sessualità di una donna adulta – quella che va a braccetto con l’esperienza, la capacità d’azione e il potere – è demonizzata anche più di quella adolescenziale». Non ci si deve stupire quindi se il patriarcato ha cercato nei secoli di costruire, attraverso la narrazione, miti funzionali a stigmatizzarla. Il genere femminile viene da sempre raccontato attraverso una prospettiva maschile: non solo nel cinema, come ci ha spiegato la critica cinematografica Laura Mulvey, ma anche nelle storie e nelle tradizioni che ci sono state tramandate vengono rappresentate esperienze femminili attraverso lo sguardo e le lenti interpretative degli uomini. A ben vedere, molte protagoniste che ci sono state consegnate dalla storia raccontano più della paura degli uomini nei loro riguardi che non delle vicende che le vedono coinvolte. In questo senso, la mitologia irlandese è una fonte interessante a cui guardare per cercare qualche esempio. Le selkie sono donne-foca che possono “perdere” la loro pelle animale per assumere una forma umana e vivere sulla terra, insieme al loro partner, a patto che egli non ne veda il manto tenuto al sicuro in baule. In quel caso l’essere mitologico perderà le fattezze femminili e si allontanerà per sempre dal suo sposo.

Il mito delle selkie potrebbe derivare a sua volta dalla vicenda di Melusina, raccontata nell’Histoire de Lusignan, dallo scrittore francese Jean d’Arras. Melusina è una fata che accetta di sposare Raimondino, figlio del re dei celti, a patto che egli la lasci sola per un giorno a settimana. Tutto sembra procedere bene fino a quando il giovane, convinto dalle malelingue che la moglie avesse un amante, rompe il patto e la spia: ciò a cui assiste non è un tradimento ma una rivelazione circa la mostruosità della sposa, che dalla vita in giù è dotata di una lunga coda da sirena. In seguito alla rottura dell’accordo, Melusina sparisce gettando il suo sposo in un dolore straziante.

Le donne libere sembrano quindi giocare con i sentimenti degli uomini: a Bella Baxter pare non importare molto del dolore che arreca a McCandless quando decide di andarsene con “l’amante” nonostante la promessa di matrimonio. Per lei, l’amore per le due figure non è in contraddizione. La protagonista di Povere creature! non è un vampiro, eppure la sua vicenda ricorda molto quella di Lucy Westenra.

Secondo l’interpretazione di J.E. Sady Doyle, la donna descritta in Dracula appare come un personaggio non convenzionale, ricca, bellissima, voluttuosa e, a differenza della cugina Mina Harker, più interessata a flirtare con i tre suoi pretendenti che a sposarsi e aderire alle convenzioni sociali. Il modo in cui Bram Stoker descrive il momento in cui Dracula si china sul suo corpo trasformandola per sempre in una non-morta ha poco del sacrificio e molto della voracità sessuale a cui lei pare abbandonarsi. È il professor van Helsing che rivela ai tre amanti la spiacevole verità e obbliga il promesso sposo Arthur Holmwood a piantarle un paletto nel cuore. Prima del gesto, la cui violenza ricorda quella dello stupro, la donna tenta ancora un approccio sessuale («vieni da me, Arthur, le mie braccia ti bramano»), ed è proprio quello il momento in cui la sua immagine si trasforma, anche agli occhi degli astanti. Dice ancora Sady Doyle, riportando Stoker: «Diventa un incubo, “la dolcezza era diventata spietata crudeltà e la purezza voluttuosa impudicizia”».

Pur non avendo nulla del romanzo didascalico, la punizione subita da Lucy Westerna insegna alle donne a moderare il proprio desiderio, a renderlo accettabile all’interno della cornice sociale entro cui devono adattarsi. Bella, Lucy, Melusina, sono figure che mal si adeguano alle regole anche perché sono loro che cercano di dettarle, ed è proprio questo l’aspetto contribuisce a renderle una minaccia. Nel corso dei secoli, non tutte le donne che hanno rappresentato un pericolo sono state rinchiuse in manicomio o processate per stregoneria, ma tutte hanno subito un controllo nel tentativo di produrre un addomesticamento coatto. La maggior parte delle protagoniste non avrà una storia come quella di Bella Baxter (di cui non sveliamo il finale), molte soccombono alla forza di un potere che le sovrasta. Muoiono, ma si ribellano seminando terrore negli uomini che sono costretti a scontrarsi con loro, e questo gesto sì che può insegnarci qualcosa.

ARTICOLO n. 23 / 2024

LA MUSICA DELLE PAROLE

Dopo essere stati travolti dall’overdose sanremese, in cui si è disquisito di tutto, dall’outfit (oddio, l’ho scritto!) di uno al colore dei capelli dell’altra, dalle pseudo-polemiche agli pseudo-scandali, mi è venuta voglia di parlare di musica. Mi correggo: siccome della musica non ha molto senso parlare (la musica la si ascolta), mi soffermerò su ciò di cui parla la musica, ovvero i testi delle canzoni. Tanto per rimanere sul più grande fenomeno canoro italiano, citerò alcune strofe raccolte a caso dei brani sanremesi di quest’anno (oltre all’immarcescibile parola “amore”, la più ricorrente pare sia “mare” seguita da “cielo”):

Se avessi un telecomando non ti cambierei mai / tagliami il cuore se vuoi con un paio di forbici
L’amore spacca il cuore a metà / ti lascia in coma dentro al solito bar / nessuno resta per sempre tranne i tattoo sulla pelle / e vomito anche l’anima per sentirmi vivo dentro ‘sto casino
Con cosa son rimasto / con ‘sta nostalgia del cazzo
Sai che dentro ho un mare nero che m’illumina
La mia collana non ha perle di saggezza / a me hanno dato le perline colorate / per le bimbe incasinate con i traumi/da snodare piano piano con l’età/eppure sto una Pasqua guarda zero drammi
Stamattina io mi lavo i denti col gin / metto i soliti jeans / sono un nomade in un attico chic
Le tue pupille sembrano pallottole se mi guardi mi ferisci / tu sai che avevo bisogno d’aiuto potevi pure mandarmi a fanculo
L’amore è una sala slot / mi gioco tutto
Questo amore è una sparatoria / con le tue armi puntate verso di me / siamo pieni di rimpianti fino all’overdose.

Ecco qui. Ora non sto a lambiccarmi se debba o meno lasciare il segno un testo scritto per quel palcoscenico fiorito, abbandono dunque il festival rivolgendo lo sguardo (e in seguito l’orecchio) alle canzoni i cui testi, insieme alle note, hanno segnato la mia esistenza, e comincerò dal gruppo che più di ogni altro associo alla mia biografia: i Genesis. Credo di conoscere a memoria quasi tutti i testi degli album prodotti dal 1970 al 1976, vale a dire da Trespass a Wind and Wuthering, che segna la fine della mia cieca devozione. 

La maggioranza delle persone ascolta una canzone senza tener conto delle parole che la compongono, vuoi perché non conoscendo la lingua ne ignora il significato, vuoi perché considera il testo elemento accessorio alla melodia. Per me invece i testi sono fondamentali. Posso dire di aver imparato l’inglese per poter capire le lyrics dei Genesis, e seppure la padronanza della lingua non ha chiarito il senso di quelle parole misteriose imbevute di mitologia e simbolismi, mi ha però offerto l’impagabile piacere di cantare insieme a Gabriel, Rutherford, Hackett, Banks e Collins le migliaia di volte che ho schiacciato il tasto play per ascoltarli. I’ve got sunshine in my stomach… 

Già solo questo attacco: “Ho il sole nello stomaco”, me li fa amare senza riserve. La concezione musicale (di questo si tratta, di concezioni) dei Genesis è strettamente legata al testo, le celeberrime suite sono interminabili poemi musicali, e pazienza se le ambiguità, i doppi sensi, gli scioglilingua, le ripetute metafore di cui sono farciti i versi rendono ardua la comprensione, pazienza… Li avrei amati allo stesso modo senza conoscere i testi delle loro canzoni? Non credo. Mi piace sapere che in Get’em out by Friday vengano evocati dei “dirigenti dell’Ente Controllo Genetica” che decidono la statura massima delle persone così da sfruttare lo spazio abitabile delle case: I hear the Directors of Genetic Control / have been buying all the properties that have recently been sold / taking risk oh so bold / it’s said now people will be shorter in height / they can fit twice as many / in the same building site. Così come mi appassiona sapere che Supper’s ready nasce da un’esperienza paranormale vissuta da Peter Gabriel e sua moglie Jill, nel salotto, divenuto improvvisamente teatro di spaventosi fenomeni, della casa dei genitori di lei. Si racconta di visioni soprannaturali, tende svolazzanti, strani rumori, e di uno stato di trance che trasfigura il volto di Jill: Walking across the sitting room / I turn the television off / Sitting beside you / I look into your eyes / As the sound of motor cars / Fades in the nighttime / I swear I saw your face change / it didn’t seem quite right.

Capire il significato del testo rende il brano, già grandioso nella sua composizione, ancora più potente. Naturalmente la metrica è fondamentale, la traduzione rischia talvolta di far apparire un testo ancora più assurdo di quanto già non lo sia in originale. Cito l’esempio di un’altra band che ricorre nelle stagioni della mia vita: I King Crimson. 

Disse l’uomo onesto all’uomo in ritardo / Dove sei stato? / Sono stato qui e sono stato lì / e ho vissuto a metà / Io parlo al vento / il vento non sente, il vento non può sentire.

I talk to the wind è il titolo del brano: Said the straight man to the late man / Where have you been? / I’ve been here and / I’ve been there / And I’ve been in between.

Non si tratta quasi mai di parole appese tanto per soddisfare il ritmo di una melodia, è evidente la ricerca di un valore letterario, il tentativo di far combaciare due linguaggi senza che uno prevalga sull’altro.

Between the iron gates of fate / the seeds of time were sown / and watered by the deeds of those / who know and who are known / knowledge is a deadly friend / if no one sets the rules / the fate of all mankind I see / is in the hand of fools.

Tra i cancelli di ferro del destino / furono piantati i semi del tempo / e innaffiati dalle azioni di quelli che conoscono e da quelli che sono conosciuti / la conoscenza è un’amica mortale / se nessuno stabilisce le regole / il destino di tutta l’umanità che vedo / è nelle mani dei pazzi.

Epitaph è il titolo del brano contenuto nell’album In the court of the Crimson King. Echi shakespeariani e musica sublime. Non a caso, ai testi, interpretati dalla voce distorta di Greg Lake, collaborò il poeta Peter Sinfield. Vi è incluso anche l’apocalittico (e profetico) 21st Century schizoid man: 

Un tormento di sangue / filo spinato / un rogo di politici /innocenti stuprati con il fuoco del Napalm / uomo schizoide del ventunesimo secolo / La morte semina l’avidità dell’uomo cieco / i figli dei poeti affamati sanguinano / Non ha nulla di cui abbia veramente bisogno / l’uomo schizoide del ventunesimo secolo.

“L’uomo schizoide del ventunesimo secolo” potrebbe essere il titolo del momento, invece è datato 1969. Inutile citare la copertina, probabilmente la più bella mai realizzata (da un ragazzo di ventitré anni che morì l’anno successivo senza sapere quale prodigio aveva compiuto). Chi non la conosce vive sulla luna.

«Nei nostri concerti vedo migliaia di persone felici di ascoltare questo pezzo, ignari di ciò che dice», ha detto in un’intervista Thom Yorke a proposito di Street Spirit (fade out), brano dei Radiohead contenuto nell’album The Bends. Un testo disperato, Street Spirit, come disperata è la voce di Yorke: Uova frantumate, uccelli morti / urlano mentre lottano per la vita / sento la morte, vedo i suoi minuscoli occhi / queste cose matureranno / queste cose ingoieremo un giorno.

Cracked eggs, dead birds / scream as they fight for life / I can feel death, can see its beady eyes / all these things into position / all these things we’ll one day swallow whole.

Esistono diverse cover dei brani dei Radiohead (lo stesso Peter Gabriel ha prodotto una sua dolentissima versione di Street Spirit), ma i testi di Thom Yorke, così criptici, psicanalitici, concettuali, se cantati da altri suonano come appropriazioni indebite. Basta leggerli per capire che non esiste altro modo possibile di interpretarli se non con la voce del loro autore, così come accade con i poeti, gli unici legittimi declamatori dei loro versi. 

Il più grande scrittore (sì, scrittore) di testi è senza dubbio Bob Dylan, probabilmente uno dei Nobel per la letteratura più meritati degli ultimi anni, con buona pace di chi ha sollevato riserve. Lo cito per dovere di cronaca pur non facendo egli parte delle mie ossessioni musicali. Possiedo però un libro ponderoso (1225 pagine) intitolato Bob Dylan Lyrics 1962-2001 (mancano dunque più di vent’anni di brani aggiuntivi), del quale ogni tanto mi diletto ad aprire una pagina a caso, e ogni volta casco su qualche perla. Come in questo momento: p.585, Sign on the CrossI know in my head / that we’re all so misled / and it’s that ol’sign on the cross / that worries me / Now, when I was just a bawlin’ child / I saw what I wanted to be / and it’s all for the sake / of that picture I should see / but I was lost on the moon / as I heard that front door slam / and that old sign on the cross / still worries me.

Ce l’ho ben chiaro in testa / che siamo tutti sulla strada sbagliata / ed è sempre quell’insegna sulla croce / a darmi dei pensieri / Sin da quando ero un bambino che frignava / sapevo cosa volevo fare da grande / ed è tutto per via / di quella figura che poi dovevo vedere / ma ero perso sulla luna / quando ho sentito sbattere la porta / ed è sempre quell’insegna sulla croce / a darmi dei pensieri.

Proviamo di nuovo. Casco sulla pagina 1025. Il titolo è Dignity. La dignità.

Fat man lookin’ in a blade of steel
Il grasso la cerca in una lama d’acciaio
Thin man lookin’ at his last meal
Il magro la cerca nel suo ultimo pasto
Hollow man lookin’ in a cottonfield
Un guscio d’uomo la cerca in un campo di cotone
For dignity
La dignità
Wise man lookin’ in a blade of grass
Il saggio la cerca in un filo d’erba
Young man lookin’ in the shadows that pass
Il giovane la cerca nelle ombre che passano
Poor man lookin’ through painted glass
Il povero cerca di scorgerla in un vetro dipinto
For dignity
La dignità

È tutto chiaro. Ciascuna parola ha il suo significato.

Per una stramba associazione penso a Syd Barrett e ai suoi testi, i cui significati vagavano nei bui meandri del suo cervello: An effervescing elephant / with tiny eyes and great big trunk / once whispered to the tiny ear / the ear of one inferior / that by next june he’d die, oh yeah.

Un elefante effervescente…

I versi enigmatici sono quelli che prediligo. Inestimabile Mogol, ma Pasquale Panella, per Battisti, di questo è stato capace: 

Ti piacciono i dolci / ed io sul tuo terrazzo impianto / un’impastatrice industriale / che mescola e sciorina la crema per le scale.

Vuoi prendere un treno di notte / pieno di paralumi e di damasco per dormire / Sennò a che serve un treno? / Alzo con le mie leve tutti i binari / E, senza a