ARTICOLO n. 41 / 2025
CORRERE UNA MARATONA
È il 16 marzo 2025 e sto per correre la mia seconda maratona, quella di Roma. Siamo quasi in trentamila, ammassati nelle griglie di partenza intorno al Colosseo. Mentre saltello sul posto per difendermi dal freddo mi guardo intorno e mi viene da farmi una domanda: cosa spinge trentamila persone a svegliarsi alle cinque del mattino nell’ultima domenica d’inverno e correre per quarantadue chilometri e centonovantacinque metri? È una domanda che ha molte risposte, nessuna esatta, tutte confutabili. Soprattutto ognuno ha le sue. Ciò che posso fare quindi è cercare di spiegare cosa spinge me.
La prima risposta che riesco a darmi ha un che di bizzarro. In realtà non rientra neppure tra i motivi principali che mi spingono a partecipare a una maratona, ma nel più ampio discorso che voglio affrontare ha comunque un suo rilievo. La corsa è l’unico sport che permette di presentarsi al via (gareggiare mi sembra un termine esagerato) insieme a dei professionisti. Non avrò alcuna possibilità di batterli e neppure di avvicinarmi ai loro tempi, ma correrò sulle loro stesse strade, fermandomi agli stessi ristori, passando per gli stessi punti di cronometraggio intermedi che cronometreranno anche loro. È un po’ come scendere in campo con la nazionale di calcio durante una partita dei mondiali, ma senza fare danni.
Il lato agonistico, che pure per molti esiste, per me non è una priorità. E se lo è, lo è solo per gli aspetti che riguardano la competizione con me stesso, la tensione al miglioramento, l’esplorazione delle possibilità. Ma c’è qualcosa di più importante. Nel mio caso non so bene se correre per così tanti chilometri rientri più nella categoria sport, psicologia, filosofia o perfino letteratura. Ogni attività sportiva è un miscuglio di discipline disparate. Ma nella corsa le componenti non sportive entrano in gioco in misura maggiore. Perché correre in fondo è un gesto umano primordiale. Una volta ho sentito un allenatore porre una domanda a una platea: “Il bambino impara prima a correre o a camminare?” La platea rispose compatta: “Camminare”. Al che lui replicò: “Sbagliato. Se osservate un bambino che compie i suoi primi passi vi accorgerete che il motivo per cui mette un piede davanti all’altro è che quello è l’unico modo che ha per evitare di spiaccicarsi con la faccia sul pavimento. Esattamente ciò che fa la corsa”. In effetti la corsa è questo: uno sbilanciamento del corpo in avanti, controllato e continuo, che produce movimento. In altri termini: la corsa è un’eterna caduta che non si realizza mai. Una delle principali ragioni per cui mi trovo al chilometro zero di quarantadue, quindi, è che mi piace cadere molto a lungo.
Non sarà un caso se tra i parametri biomeccanici che un corridore deve tenere d’occhio quando corre ci sia la cadenza, ossia il numero di passi al minuto. L’etimologia lo fa derivare dal latino cadentia, participio neutro plurale di cadĕre, quindi “l’insieme delle cadute”. Un corridore con una buona tecnica di corsa si dice che cada in media centottanta volte al minuto. Considerato che per completare la maratona correrò per quattro ore, faccio un calcolo veloce e stimo che oggi cadrò quarantatremila e duecento volte.
Tutto ciò assomiglia moltissimo a certi sogni in cui sogniamo di precipitare, per poi destarci di soprassalto. Si dice che in quei casi il brusco risveglio sia un espediente evolutivo che si è sviluppato dall’antica abitudine umana di dormire sugli alberi, una specie di allarme messo in atto dal nostro cervello per evitare di piombare giù dal ramo. L’interpretazione psicologica per questo tipo di sogni richiama paure difficili da controllare, senso di vulnerabilità e insicurezza. Tutte cose di cui effettivamente soffro. In ogni caso amo l’idea che correre sia un lungo sogno continuamente interrotto e alimentato dalla mia mancanza di stabilità.
Ha scritto un poeta russo: «Ti ringrazio, o Signore, per la dolcezza del respirare» (Valerij Brjusov, La preghiera). Correre per quarantadue chilometri significa anche sperimentare un altro modo di respirare. O forse no, il respiro è sempre quello. A cambiare è la consapevolezza, il modo in cui un atto naturale viene riposto in un sistema più vasto, molto più vasto di me. Perché inspirare ed espirare non sono solo due momenti di uno stesso gesto che all’interno della fisiologia umana garantisce la sopravvivenza del mio corpo. Sono soprattutto i due principi che regolano l’universo. Il battito del cuore, il moto ondoso, l’esplosione di una supernova, il Big Bang stesso, ogni cosa rientra in questa dualità. Contrazione ed espansione. Un tempo, quando correvo, pensavo, pensavo troppo, e immerso com’ero in tutto quel pensare il mondo smetteva di essere il mio elemento. Così correvo raggrinzito tra le pareti della mia mente, con il risultato che presto finivo per sfiancarmi. Ciò aveva ripercussioni anche sulla prestazione. Non era soltanto un rovello interiore, era qualcosa che aveva degli effetti misurabili.
Ora invece quando corro non penso a niente. Vivo come al di là della vita. Mi lascio andare a certe piccole epifanie, come rendermi conto all’improvviso che si può allentare i muscoli della faccia, distendere un certo nervo del piede, dimenticare di possedere la lingua, gli occhi, le unghie. Contraggo e rilascio continuamente, faccio parte dell’universo oscillante e ogni nuova inspirazione è una palingenesi.
Quattro mesi fa ho corso la mia prima maratona. Quattro mesi non sono abbastanza per dimenticare, ma se penso a quella maratona non ho ricordi nitidi. Perché quando corro si spegne tutto, dentro e intorno a me. Non è una semplice corsa la mia, è un volo a occhi chiusi. Conservo lampi di volti sconosciuti a bordo strada, uccelli in traiettoria radente, il disegno pavimentale delle strade del centro di Firenze, uomini in giacca che escono dalla hall di un albergo di lusso, corridori sfiancati con le mani sulle ginocchia, lampi, lampi, lampi attraverso un tempo in cui non sono praticamente esistito, in cui mi sono tramutato in un animale in corsa senza coscienza, storia, interiorità, discernimento, una pura macchina organica il cui unico intento è lesinare energia per non cedere.
Tutto questo è bello? Divertente? Sano? Non so, non posso dirlo. So che invecchiando la corsa diventa sempre più simile al sonno: un vuoto dolce e imprescindibile in cui la vita si dissolve.
A questa tendenza all’amnesia contribuisce la concentrazione, certo, ma anche una chiusura caratteriale che dalla vita mi porto nella corsa. Io quando corro non parlo con nessuno, nemmeno in gara, rispondo solo ai rari saluti che mi rivolge qualche spettatore a bordo strada. Non tanti a dire il vero, ma è una cosa che mi capita spesso. Gli sconosciuti faticano a rivolgermi la parola, forse per via di un’espressione respingente che ho stampata sulla faccia mio malgrado. Sono un solitario, questo è certo. Mi sento perfettamente solo anche correndo insieme a trentamila persone. Faccio caso anche a questo nella griglia di partenza della maratona di Roma. La corsa per me è il corrispettivo di uno spazio calmo, uno di quei luoghi sicuri in cui le persone possono attendere assistenza in caso di emergenza. Nel mio caso l’emergenza, il terremoto, l’incendio, è la vita stessa.
Spesso collochiamo le idee, le sensazioni, i concetti, in un luogo, e tingiamo quel luogo di un colore, di una luce, e li rendiamo visibili. Sono luoghi secondari della nostra vita, posti frequentati magari una volta sola, cent’anni fa. Ecco. Da bambino avevo una grande cassa in giardino in cui tenevo i miei giochi. La cassa era sul retro, dove non si andava quasi mai. Quando penso alla corsa mi viene in mente quell’ala disabitata del giardino. Per me la corsa è collocata nella stessa luce turchese che sfumava verso l’arancio (quella parte del giardino dava a ovest, dove il cielo al tramonto diventava un’immensa buccia d’albicocca). Lì mia madre stendeva il bucato. Quando corro, la corsa è un lenzuolo azzurro che si muove come un lago.