ARTICOLO n. 54 / 2025
PIER PAOLO PASOLINI E IL CALCIO
di che cosa parliamo quando parliamo di sport
Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndr) perché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato.
Una decina d’anni fa, rimasi colpito da una curiosa antologia dal titolo Letteratura… con i piedi (Fara Editore). Tra i vari interventi, quello di Francesco Filia, dedicato a L’errare della poesia, mi rievocò antichi ricordi liceali. L’idea della letteratura con i piedi, spiega l’autore, fa pensare sia al camminare, sia allo scrivere male, e quindi alla doppia accezione del verbo errare: «Scrivere è un camminare, un procedere di passo in passo, di piede in piede, basti pensare alla metrica quantitativa delle lingue classiche. La poesia, prima orale e poi scritta, nasce perciò con i piedi, il cui battere serviva a dare il ritmo del verso, la cui unità di misura era il piede, formato da due o più sillabe brevi o lunghe che costituivano la misura del verso”»
Ciò va di pari passo (si perdoni il bisticcio) con l’immagine del peregrinare degli aedi nelle corti della Grecia arcaica, per raccontare storie di guerre, di amori, di viaggi. Esiste insomma un’unità originaria, archetipica tra passo e voce, racconto e memoria, unità che è alla base della nostra civiltà, nonché del modo in cui essa si è autorappresentata: «I piedi sono ciò che ci lega alla terra, al suolo, al nostro specifico stare al mondo, basti pensare alla postura eretta, e insieme ci permettono di slanciarci verso l’alto, quindi allargare con la vista l’orizzonte della nostra percezione». In fondo, conclude Filia, la poesia dà il meglio di sé quando abbandona le vie già battute e ne perlustra altre, creando nuovi sentieri: «E in questo la poesia è proprio un errare, se un terzo significato dell’errare è deviare, allontanarsi da una certa direzione, deviare dal vedere ordinario».
D’altronde, la Divina commedia e la sua struttura, quella rima incatenata che sembra la versione metrica e fonica del camminare dantesco, non possono forse essere viste come un’ininterrotta escursione? A riprova di ciò, ecco che, nella metrica classica, compare una terminologia tutta improntata al linguaggio del marciare. Del “piede” si è già detto; quanto al “giambo”, caratterizzato da sillaba breve e lunga, una tra le varie etimologie lo faceva derivare da un guerriero che, nel lanciare il giavellotto, si muova in maniera claudicante. L’incedere asimmetrico dell’omonimo figlio di Ares fu infatti paragonato al ritmo zoppicante di questo verso. Abbiamo poi “scazonte”, altro nome del verso “coliambo” (dal greco χωλός, cioè zoppo), così detto perché, nella penultima sillaba, la lunga irrazionale rende il ritmo “zoppicante”. Durante la recitazione, tali versi producevano dunque l’impressione di una deformazione, di un avanzare penoso o ridicolo.
Questa lunga introduzione serve a chiarire l’originale visione che Pier Paolo Pasolini ebbe della poesia e del calcio, ben riassunta nella frase che fa dà il titolo a un saggio di Angela Molteni: Il calcio è un linguaggio con i suoi poeti e prosatori. Intendiamoci, a partire del legame tra arte metrica e arte del camminare, vari scrittori hanno affrontato l’argomento. Molteni ricorda ad esempio che, per Jean-Paul Sartre, il calcio è una metafora della vita. Sempre restando all’estero, troviamo Thomas Stearns Eliot (“Il calcio è un elemento fondamentale della cultura contemporanea”), Eduardo Galeano, autore di Splendori e miserie del gioco del calcio, Carlos Drummond De Andrade, cantore del leggendario calciatore brasiliano Garrincha, e tanti altri. In Italia, l’elenco si apre invece con Giacomo Leopardi che già nel 1821 compose la canzone A un vincitore nel pallone. Ma fu Umberto Saba, oltre un secolo dopo, a introdurre questo sport nella lirica italiana contemporanea, con le sue 5 poesie sul gioco del calcio.
Sebbene di sfuggita, di calcio si occupò anche Eugenio Montale, ipotizzando un campionato senza reti: «Sogno che un giorno nessuno farà più gol in tutto il mondo». Per incontrare autentici tifosi, però, bisogna aspettare Giovanni Giudici (Genoa), Vittorio Sereni (Inter), Giorgio Bassani (Spal), Mario Soldati (Juventus), infine Paolo Volponi e Pasolini stesso (Bologna). Basti citare una lettera di quest’ultimo: «Quella domenica, il Bologna ha perso […] per due a uno. Che dolore! Che dolore!». Era un grande tifoso del Bologna, ha ribaditoFranco Citti: «La febbre del calcio, che forse non era riuscito a consumare al punto giusto quando da piccolo viveva in Friuli, non riusciva proprio a togliersela». Confessa d’altronde il poeta: «Tutto è cambiato in questi trent’anni. Mi ricordo di quel tempo come se fosse il tempo di un morto; tutto è cambiato, ma le domeniche agli stadi, sono rimaste identiche. Me ne chiedo il perché…».
Non per niente, Pasolini dichiarò: «I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. […] Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri». E ancora: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro [antico]». Al culmine di queste esperienze, sta la partita certo più famosa della cultura italiana.
Mentre Pasolini girava Salò o le 120 giornate di Sodoma nella Bassa, Bernardo Bertolucci era accampato tra Parma e il mantovano per il suo Novecento. Le due troupe si sfidarono, e la seconda ebbe la meglio. La vittoria, però, fu frutto di un inganno. Pare cioè che Bertolucci avesse schierato di nascosto due talenti della primavera del Parma, uno dei quali, stando a certe voci, era Carlo Ancelotti, convocato come finto attrezzista. Pasolini imparò la lezione, ha commentato Alessandro Gnocchi, tanto che, nelle foto di una partita successiva, si riconosce tra i suoi nuovi “acquisti” un certo Fabio Capello… Questa passione sportiva si rispecchia ovviamente nella sua opera, a cominciare dal romanzo Ragazzi di vita. C’è tuttavia un particolare che rende il rapporto di Pasolini con questo sport decisamente unico, anche a costo di qualche spericolata ipotesi teorica: a suo parere, il calcio rappresenta un autentico sistema di segni.
Così, rifacendosi alla semiotica e allo strutturalismo francesi, Pasolini si spinse fino a proporre un’audace parallelo tra i fonemi (unità minime della lingua scritta o parlata) e i podemi (unità minime del football): «Le infinite possibilità di combinazione dei podemi formano le parole calcistiche: e l’insieme delle parole calcistiche forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche. I podemi sono ventidue (circa, dunque, come i fonemi): le parole calcistiche sono potenzialmente infinite, perché infinite sono le possibilità di combinazione dei podemi (ossia, in pratica, dei passaggi del pallone tra giocatore e giocatore); la sintassi si esprime nella partita, che è un vero e proprio discorso drammatico». Sullo sfondo di Barthes, Greimas e Propp, la lingua del calcio si articola quindi in varie sottolingue, il che dimostra perché esistano due tipi di calcio, uno come linguaggio prosastico e uno come linguaggio poetico: «Bulgarelli gioca un calcio in prosa: […] Riva gioca un calcio in poesia».
Da qui la conclusione: «Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del goal. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno». Difficile immaginare a cosa sarebbe giunto Pasolini se avesse conosciuto le acrobazie critiche di un Derrida… Resta solo da dire quanto profondo fu il suo amore per il calcio, assunto fino ai cieli della linguistica per essere trasformato in una vera forma di letteratura.