ARTICOLO n. 74 / 2025
OGNI VOLTA PER LA PRIMA VOLTA
Una conversazione di Valeria Verdolini
C’è una bambina, un paese attraversato dalla guerra, e un edificio che somiglia a un castello ma è un manicomio. C’è la voce piccola di Gianna, che guarda il mondo dal basso, senza ancora conoscerne i confini. Intorno, un’Italia contadina in bilico, il 1944, le biciclette che spariscono verso le colline dei partigiani, e i matti che muoiono da soli, senza funerali. Ma Gianna, personcina ostinata, decide di accompagnare quel corteo solitario, e da lì comincia a vedere.
Nel suo romanzo Il paese dei matti (Bompiani, 2025), Federica Iacobelli costruisce una narrazione corale e leggera che affonda in un materiale duro: la guerra, la salute mentale, la marginalità. Lo fa con grazia, con un realismo magico che non è evasione ma spostamento dello sguardo, uno “stare più vicino alla terra”, come racconta in questa conversazione. Parliamo con lei di memoria e di invenzione, di letteratura per l’infanzia e follia, di Marco Cavallo e preti che parlano solo con gli animali. Ma anche di utopie minuscole, di linguaggi da reinventare, e di quanto sia importante, oggi più che mai, provare a guardare ogni cosa — ogni persona — come se fosse la prima volta.
Valeria Verdolini: Il libro accenna alla sua origine, ma forse è interessante ripercorrere la genesi di questa storia.
Federica Iacobelli: Tutto nasce da una memoria familiare altrui, che ho avuto però la fortuna di ascoltare da testimoni diretti. In particolare da Giovanna Bo, collega e amica, che un giorno mi ha raccontato una vicenda di famiglia a cui teneva molto. Mi disse: «Vorrei che tu la ascoltassi, mi piacerebbe che ne nascesse un film». L’intento iniziale era infatti quello di realizzare un film d’animazione. Giovanna, che è una delle figure centrali del mondo dell’animazione europeo, pensava a un progetto visivo a partire da quella storia. Così ho incontrato suo padre — fratello di Gianna, la bambina protagonista — e un’altra sorella, che era ancora in vita tra il 2019 e il 2021. Ho visitato i luoghi, che non appartengono alla mia geografia personale: sono nata a Roma, cresciuta a Napoli, e vivo a Bologna. Ma ho voluto esplorare Colorno, dove siamo riuscite una sola volta ad accedere a parte dell’archivio del manicomio. Invece a Parma, all’archivio comunale, abbiamo svolto ricerche più sistematiche. Giovanna mi ha accompagnata in ogni tappa, aprendomi le porte e aiutandomi a orientarmi in quella memoria collettiva. Anche per via del linguaggio dell’animazione, era importante raccogliere immagini, mappe, dettagli. Tutto è cominciato così.
V.V. Una delle prime cose che colpiscono chi legge è la soggettiva: la voce narrante è quella della bambina. Perché hai scelto di raccontare la storia attraverso lo sguardo di Gianna?
F.I. Tutto è nato da lei, dalla figura di Gianna così come mi è stata raccontata: una bambina nata all’inizio della guerra e morta quando era una giovane donna, in circostanze tragiche ma non legate né alla guerra né al manicomio. In famiglia la sua storia aveva qualcosa della leggenda. Mi ha colpita profondamente. Forse anche perché ho lavorato spesso su testi legati all’infanzia. Dirigo una collana di teatro per le nuove generazioni, e anni fa ho scritto un’autobiografia infantile dal punto di vista di una me stessa di cinque anni. Probabilmente è anche per questo che ho sentito naturale collocarmi negli occhi di una bambina.
Ma c’era anche una motivazione più consapevole: la necessità di trattare con rispetto un materiale così denso, senza la pretesa di sapere. Lo sguardo infantile è uno sguardo ingenuo, e in questo senso somiglia al mio, rispetto a un’epoca e a un luogo che non ho vissuto. E anche rispetto alla salute mentale: un tema che conosco solo da lettrice e da osservatrice curiosa, non per esperienza personale o familiare diretta.
V.V. Leggendo da una prospettiva più legata alla salute mentale, mi ha colpita come lo sguardo della bambina -“non disciplinato”, nel senso più pieno del termine – riesca a scavalcare confini che l’istituzione rende rigidi. I “matti” non si toccano, non si ascoltano, non si accompagnano ai funerali. Ma Gianna lo fa.
F.I. Io non ho competenze specifiche in ambito psichiatrico. Ho svolto ricerche, certo, ma mi muovo da scrittrice, non da esperta. Detto questo, nella figura di Gianna c’è qualcosa che appartiene all’infanzia più autentica: la capacità di valicare i confini senza neppure percepirli come tali. Per me la questione dello spazio e dei limiti è stata centrale nella costruzione narrativa: i muri delle case rosse, l’argine del fiume, il muro del manicomio con la sua crepa… Tutti segni fisici e simbolici. Gianna si muove liberamente. Non riconosce quelle barriere, semplicemente le attraversa. C’è il torrente che mette in comunicazione il dentro-fuori perché poi si tratta di un muoversi libero. Oggi i ragazzi sono sempre più bisognosi di schemi, di separare le cose. I giovani hanno una crescente paura delle interdisciplinarietà, del fatto che le cose possano stare insieme. Nei racconti di allora, emerge invece questa paura dei paesani di diventare matti per osmosi, per la presenza dei matti nel villaggio. Per cui ho scelto la prospettiva di qualcuno che invece fosse ancora scevro da tutti questi pregiudizi, dalle definizioni.
V.V. Un altro elemento centrale del libro è rappresentato dagli animali.
F.I. La presenza degli animali come personaggi è senz’altro un portato del lavoro di scrittura nato per il film. Quando si lavora pensando al linguaggio dell’animazione, è inevitabile interrogarsi su quali scelte possano giustificarne l’impiego: una storia come questa potrebbe infatti essere raccontata anche in forma strettamente realista e quindi con il linguaggio del cinema dal vero. In questo caso, ho cercato invece una via che valorizzasse proprio quella dimensione, e da lì è emersa anche la figura del prete — un personaggio di cui nessuno mi aveva parlato direttamente, anche se la chiesa era una presenza evocata. È diventato per me una figura centrale, quasi strutturante: un prete stanco degli uomini e interamente dedito agli animali. Mi interessava raccontare con leggerezza, senza cedere a un tono apertamente drammatico, pur partendo da materiali che avevano in sé una forte carica tragica. In questo senso, gli animali hanno avuto un ruolo importante nel modulare il registro, nel permettere uno scarto.
V.V. A proposito di questo, mentre parlavi pensavo a quanto l’asina di don Celso ricordi, in controluce, Marco Cavallo.
F.I. Sì, certamente. Marco Cavallo è stato un riferimento forte, un’influenza che ha accompagnato la scrittura. Anche il personaggio di Mario, che è frutto di invenzione, risente di quell’immaginario. È un personaggio legato alle letture e alle ricerche che ho fatto sui cosiddetti “matti di guerra”, soprattutto immergendomi in alcuni testi della studiosa Ilaria La Fata: è da lì che ho iniziato, anche perché mi sembrava un terreno più vicino, più accessibile rispetto ad altri, e che non richiedesse competenze specialistiche che non possedevo. Ma mi interessava anche per il legame diretto con il contesto bellico. Il fatto che Mario costruisca oggetti, e che l’asina sia in qualche modo un cavallo, si ricollega idealmente all’esperienza di Giuliano Scabia a Trieste: una dimensione in cui la creazione materiale diventa racconto, gesto di resistenza, forma di libertà.
V.V. Il fatto che il funerale si chiami la festa del matto nella casa dà la misura di un intento preciso: quello di restituire leggerezza, anche nel confronto con la morte.
F.I. Forse lì, in quel passaggio, l’intento è riuscito. Di certo c’è qualcosa che mi appartiene profondamente, che ha a che fare con le mie radici. Sono cresciuta in luoghi – penso alla mia Napoli – in cui la prossimità tra vita e morte è quotidiana, quasi naturale. Non si tratta di due opposti, ma di due poli dello stesso flusso. È da questa familiarità che nasce anche Gianna, un personaggio che si è inserito nel racconto in modo quasi organico, come se fosse già lì, parte di un mondo che sentivo mio, non estraneo.
V.V. Se dovessi collocare il romanzo entro un genere, credo che il realismo magico sia la cifra più vicina. Mi ha colpita perché da un lato consente di nominare l’inenarrabile con grazia e leggerezza, dall’altro è sempre stato, per me, in sintonia con ciò che Basaglia e Rotelli chiamavano l’utopia della realtà. Raccontare il manicomio e, soprattutto, superarlo implica anche un’operazione sullo spazio del reale.
F.I. Sì, è proprio così: si tratta di modificare lo spazio del reale. E per me tutto parte dallo sguardo. Anche la costruzione della storia è cominciata da lì: da come si guarda. A un certo punto questo è diventato anche un elemento narrativo esplicito: Gianna che non alza più lo sguardo, che guarda sempre verso il basso. Quella scelta non è solo simbolica: riguarda una posizione, una prospettiva che si distacca da quella dominante. Guardare dal basso significa cogliere ciò che altrimenti resterebbe fuori campo. E anche se si potrebbe definire “magico”, per me è un modo profondamente concreto di stare nel mondo, un modo di aderire alle cose della vita. È lì, a contatto con la terra, che si trovano le verità più essenziali.
V.V. Una volta ho letto un’intervista a Gabriel García Márquez in cui gli si chiedeva quanto ci fosse di inventato in Cent’anni di solitudine. Lui rispose che l’unica invenzione era il ragazzo con la coda di porco. Al che, dal pubblico, qualcuno si alzò per dire che un ragazzo così l’aveva conosciuto davvero…
F.I. Certo. Proprio ieri sera, a Bologna, ho rivisto Big Fish di Tim Burton. Il film ruota attorno a un padre che racconta storie fantastiche al figlio, il quale non gli crede, convinto che si tratti solo di bugie. Eppure, alla fine, quei personaggi surreali emergono nella realtà. Questo mi colpisce sempre: quanto poco vediamo. Non solo nel senso letterale, ma nel senso più profondo. Tutto ciò che non corrisponde allo schema precostituito del reale viene scartato, ignorato. Il nostro sguardo, spesso, non si posa dove dovrebbe. Mi avevano molto colpita, anni fa, alcuni testi nati dal dialogo tra Franco Basaglia e Mario Tommasini, e altri scritti dello stesso Tommasini. Sono testi legati all’amministrazione, alla gestione della cosa pubblica, ma attraversati da un linguaggio che oggi definiremmo poetico. C’era un’utopia fortissima, evidente. E oggi, invece, siamo sommersi da un burocratese che impoverisce tutto, persino il linguaggio della cura e della formazione.
V.V. C’è una vicinanza profonda, quindi, tra questa forma di scrittura e il “matto”: come figura, come sguardo, come posizione nel mondo.
F.I. Si tratta proprio di un’attitudine. Significa spostarsi, decentrare lo sguardo. Non ho conosciuto Basaglia, ma tra i materiali che ho consultato per scrivere c’era anche Matti da slegare. Quel film resta fondamentale. Mi ci sono avvicinata sempre con rispetto, da profana, ma anche con una forte tensione partecipativa. Ognuno legge in base a ciò che porta con sé. E se qualcuno, leggendo, coglie queste tracce, quelle che per me sono state importanti, mi fa molto piacere. Ma va bene anche se non le vede: il libro resta comunque aperto.
V.V. Al di là del fatto che questa storia ti sia arrivata, che ti sia stata raccontata: perché scriverla adesso? Perché parlare proprio ora di matti e di guerra?
F.I. Quando ho iniziato a scriverla, il mondo non era ancora quello che è diventato oggi. Ma in me esiste da sempre un legame profondo con il conflitto, con la difficoltà, con le fratture. Ho vissuto in contesti segnati da tensioni e drammi, anche se non ho vissuto direttamente la guerra. I miei nonni me l’hanno raccontata, e quei racconti hanno lasciato una traccia. La storia, però, per me non andava necessariamente collocata in un luogo o in un tempo precisi. Anche se è disseminata di riferimenti riconoscibili, ho scelto di non nominarli esplicitamente. Non è stata una scelta neutra, ovviamente: l’assenza di coordinate definite vuole restituire un respiro più ampio, più simbolico. Ho però disseminato la storia di indizi, non l’ho lasciata sospesa o astratta. Per me doveva essere una narrazione che parlasse a ogni tempo, e in questo la letteratura mi è stata di grande aiuto, soprattutto quella raccolta sul territorio. Penso in particolare alle “favole padane” di Giuseppe Tonna, uno scrittore lombardo che ha raccolto racconti orali proprio in quella zona. Quelle fiabe mi hanno guidata sia nella ricerca del linguaggio, sia nella costruzione dell’immaginario. Mi hanno restituito il senso del cantastorie, delle voci collettive che non erano emerse nelle testimonianze dirette, ma che sentivo necessarie. Perché, sebbene Gianna sia il filo conduttore, la coralità era per me un elemento imprescindibile.
VV: In un passaggio importante del libro, scrivi che dopo la Prima guerra mondiale i manicomi si riempiono: è l’effetto dell’annichilimento. E dici anche che erano matti per non combattere. È un rovesciamento potente, perché ciò che appariva irrazionale diventa, in quel contesto, l’unica forma possibile di lucidità.
FI: Sì. Quello che mi ha colpito leggendo le storie dei “matti di guerra” è proprio questo ribaltamento. Parallelamente, lavoravo su materiali psicologici legati a uomini maltrattanti che avevano intrapreso percorsi terapeutici. E mi è stato subito chiaro un punto: quei soldati, spesso giovanissimi, non erano folli. Avevano ragione. Non erano “bravi”, non si trattava di virtù morale, ma di sopravvivenza. Quello che emergeva era piuttosto una fragilità umanissima, una distanza dalla costruzione egemonica della mascolinità. In ogni epoca ci sono uomini che non riescono (e per fortuna) ad aderire a quell’ideale bellico di forza, obbedienza, sacrificio. Mario, nel mio racconto, è considerato “matto”, ma la sua diversità è solo apparente: è semplicemente un giovane che non si adatta. E questo è sufficiente, in certi sistemi, per essere espulsi.
V.V. Scrivi anche una frase che ho trovato centrale: contro la guerra non basta la pace. E nel romanzo, se Il paese dei matti è il baricentro, ci sono due luoghi “fuori”: il manicomio, e le colline da cui spariscono le biciclette e dove si muovono i partigiani.
F.I. La storia è attraversata da attitudini, da direzioni. Tutti, in qualche modo, si muovono in una forma di alterità. Astolfo nelle sue abitudini minute, Alma nel coraggio di lasciare un amore per dedicarsi a qualcosa di più grande, Gianna nella sua ostinazione. Tutti compiono gesti che li pongono ai margini della norma. Sono “matti” non per patologia, ma per scelta, per non conformità. E questi gesti di attraversamento sono la trama stessa del racconto. Anche perché, paradossalmente, i veri “matti” sono spesso fuori dal manicomio. Anche i nomi hanno una funzione evocativa. Astolfo, per esempio, è inevitabilmente ariostesco. Le follie dell’Orlando furioso sono un’eco sotterranea. E mi rendo conto che la mia esigenza di raccontare la salute mentale nasce da una convinzione: è un tema troppo spesso trascurato. Se ne parla in termini astratti, sistemici, ma poco si ascoltano le singole attitudini. Forse la mia piccola utopia è proprio questa: se imparassimo ad ascoltarci davvero, a riconoscere le diversità reciproche, potremmo vedere che tutti siamo “matti” in qualche modo. O che nessuno lo è.
V.V. È un’intuizione molto vicina a Basaglia. L’idea che la patologia stia nella riduzione della persona alla sua diagnosi, non nella persona stessa.
F.I. Il suo pensiero resta fondamentale, anche per chi come me si è avvicinata da profana. Eppure corrisponde a esperienze condivise: persone vicine a noi che non sono riuscite a raccontarsi, a farsi comprendere. Per me questa doveva essere anche una storia di tentativi estremi, assurdi, anche inconsapevoli, di comunicazione. Mario, per esempio, prova a dire qualcosa. Forse con mezzi fragili, ma quel tentativo è già un gesto di senso.
V.V. E non a caso Colorno è uno dei luoghi attraversati da quella storia. Basaglia lo ha diretto nel 1970, prima della legge 180. Anche Rotelli è passato di lì. Oggi, dove siamo? Che ne è delle attitudini?
F.I. Non credo che stiamo bene, se devo essere sincera. Ho seguito, per quanto possibile, le vicende successive alla legge Basaglia, e so che il percorso di chiusura dei manicomi è stato lento, frammentato. A Colorno, per esempio, il manicomio si è svuotato definitivamente solo negli anni Novanta. E oggi, in un sistema sanitario pubblico in crisi, quella tensione verso una cura diffusa sul territorio si è indebolita. Vedo molti adolescenti e giovani con sofferenze profonde, depressioni, disturbi dell’umore, che faticano a trovare ascolto se non hanno mezzi. L’accesso alla cura è diventato, ancora una volta, un privilegio. E questo è un fallimento collettivo.
V.V. I dati confermano: c’è un bisogno diffuso di comprensione, di ascolto, che resta inascoltato.
F.I. È una generazione che ha molto da dire, e pochi luoghi in cui farlo. Qualcosa di quel sistema, per fortuna, è finito. Ma manca una reale alternativa. Ho letto molto anche Mario Tobino, che aveva uno sguardo molto diverso da Basaglia, più fiducioso nel ruolo dell’istituzione. Per le antiche scale, da cui ho tratto il titolo di un capitolo, racconta un manicomio trasfigurato, ma ancora funzionale. È un altro punto di vista, ma utile. Come accade spesso con le rivoluzioni: si riesce a distruggere, ma la ricostruzione è più complessa.
V.V. Mi veniva in mente Marco e Mattio di Vassalli. Una storia diversa, ma con un analogo rapporto tra follia e piccolo paese, o meglio, in quel caso, la valle.
F.I. Lo lessi a vent’anni, in un periodo in cui leggevo molto Vassalli, ma confesso che non ci ho pensato direttamente scrivendo questo libro. È vero, però. Al contrario di Marco e Mattio, la mia storia è anche, inevitabilmente, una storia femminile. Le figure della nonna Tersilla, della stessa Gianna si impongono, anche perché gli uomini sono altrove, sono in guerra. La dimensione del quotidiano resta nelle mani delle donne.
V.V. E lo sguardo di Gianna? Cosa ci insegna oggi?
F.I. A non obbedire. A non piegarsi ai dettami del tempo. Mi sembra che viviamo in un’epoca profondamente conformista, che stabilisce cosa sia giusto dire, pensare, sentire, e che esclude tutto ciò che non rientra nello schema. Gianna, invece, ci insegna a restare aperti. A guardare con stupore, con curiosità. A incontrare ogni cosa come se fosse la prima volta. Anche le persone. Ogni volta per la prima volta. È un esercizio semplice, ma radicale.
V.V. È l’opposto del pregiudizio, in fondo.
F.I. Esatto. E forse anche il segreto di un buon matrimonio: ogni giorno come fosse il primo.