ARTICOLO n. 44 / 2025
QUESTA SONO IO
Questa sono io (Woman Of) di Małgorzata Szumowska, Michał Englert con Małgorzata Hajewska-Krzysztofik, Joanna Kulig, Bogumila Bajor, Mateusz Wieclawek è in uscita nelle sale il 29 maggio distribuito da I Wonder Pictures. Guarda qui il trailer e trova qui la sala più vicina a te.
Per noi nati troppo tardi da poter godere appieno dei benefici del Novecento e troppo presto per essere nativi digitali, le televisioni private erano quanto di più vicino all’anarchia di internet e dei contenuti che offre. È su Antenna Sicilia, alla fine degli anni Novanta, che ho scoperto l’esistenza di un anime giapponese dal titolo Ranma ½. Troppo esplicito per finire sulle reti Fininvest, troppo poco educativo per passare dalla Melevisione, Ranma ½ si guardava un po’ di nascosto. La storia di questo ragazzo che, una volta a contatto con l’acqua calda, si trasformava in una bellissima ragazza, creando scompiglio nel villaggio, era percepito come ambiguo, proibito. In realtà, nel suo modo di raccontare ciò che oggi definiremmo «fluidità di genere», era estremamente libero, soprattutto agli occhi di chi aveva ancora addosso poche sovrastrutture che ne filtrassero il senso.
Non credo sia un caso che negli anni prima della pubertà ci travestiamo con disinvoltura da personaggi immaginari senza che questa cosa sia ricoperta da strati di ironia. È negli anni in cui si guardano i cartoni animati che anche il genere, parola che oggi fa da arma nucleare nel campo di battaglia delle guerre culturali, si flette, cambia, si adatta a seconda dell’esigenza: giocando con i miei coetanei, avrei dato qualsiasi cosa pur di essere come Ranma e diventare maschio. Niente, per ciò che ricordo di quella fase della mia vita, mi suggeriva che ci fosse vergogna nel volersi immaginare con un’altra forma, sensazione del tutto opposta a quella che invece accompagna l’adolescenza nella graniticità dell’affermazione della propria identità. Del resto, crescere vuol dire indurirsi, non solo nelle cartilagini che diventano ossa, ma anche nei pensieri che si cristallizzano e si trasformano in opinioni, limiti, pregiudizi. «Riuscirai a chiamarmi Ariela?» chiede la protagonista di Questa sono io, il film di Malgorzata Szumowska e Michal Englert, a sua madre, dopo che per molti anni, o meglio decenni, è stata Andrzej. La risposta ovvia, in un sistema di valori che ammette la libertà dell’autodeterminazione, è sì. Quella che ottiene Ariela, invece, è molto distante dall’agilità con cui si dà per scontato che la propria identità possa mutare.
Paragonare il desiderio di un bambino o di una bambina di cambiare abiti e giocare a vivere nelle convenzioni estetiche del genere opposto, come fa la protagonista di Questa sono io nella prima parte del film, a una disforia di genere è chiaramente un’esagerazione. Immedesimarsi nella sensazione di gioia e completezza che prova una persona costretta a vivere con un nome e un sesso che non è il suo e che finalmente può sentirsi libera di essere chi vuole, invece, è un esercizio semplice se ci sforziamo di ricordare tutte le volte in cui l’elasticità dei nostri pensieri ci ha concesso di immaginarci altro dal modo in cui siamo percepiti. Questa sono io racconta quarant’anni della vita di una persona che, partendo da un’infanzia in cui indossare lo smalto per le unghie e rubare qualche abito da donna sembrava solo un modo per giocare, ha capito gradualmente non solo che il corpo con cui era nata non era il suo, ma anche che il mondo che la circondava non avrebbe fatto niente per aiutarla a diventare ciò che desiderava. È la storia di un pensiero facile da comprendere, se osservato con lo strumento dell’immedesimazione narrativa, che si scontra con la durezza di un rifiuto incomprensibile. O meglio, perfettamente comprensibile se lo collochiamo nella sfera dei divieti e degli ostacoli che si frappongono tra la felicità di chi sente di essere Ariela nonostante sia nata Andrzej e la sua realizzazione.
L’argomento è scivoloso. Tutto ciò che riguarda le persone transgender, dai percorsi psicologici a quelli farmacologici, dai diritti negati al linguaggio appropriato da usare è potenziale materiale di scontro. Chi non lo vive in prima persona difficilmente può capirlo, così come chi strumentalizza questa realtà nella maggior parte dei casi non ha idea di cosa comporti un percorso di transizione, se non in una versione stereotipata e superficiale. La YouTuber Natalie Wynn, sul suo canale di approfondimento filosofico e politico ContraPoints, ha spesso parlato della sua transessualità raccontando le miriadi di sfaccettature che la transizione comporta, anche in termini teorici: se un comico intelligente come Ricky Gervais crede che si possa paragonare la disforia di genere con il volersi sentire uno scimmione, come in una sua famosa battuta su Caitlyn Jenner, vuol dire che la consapevolezza della complessità di un percorso simile è davvero bassa, e che il senso stesso del dark humor, che risiede nella cura del dettaglio, viene sacrificato in favore della trivialità. Cosa succede, allora, in Questa sono io, se le tappe e le emozioni sono rappresentate con la lunghezza necessaria a capire la profondità di una storia simile?
Succede che la rigidità del pensiero adulto lascia spazio alla morbidezza dell’infanzia, in cui anche noi persone cisgender ci siamo lasciati guidare dalla fluidità. Succede che, nella storia di Andrzej, che lotterà tutta la vita per essere Ariela, contro la sua famiglia che non la accetta mai davvero, contro il governo polacco, contro gli ostacoli materiali che incontra, dai farmaci costosissimi ai medici che sottovalutano il suo disagio, vediamo una trasformazione. Non solo quella di una persona, ma anche quella di un paese che passa dal comunismo al capitalismo, tra gli anni Ottanta e il presente, con i murales Solidarność e il volto di Wojtyla che aleggia alle spalle dei protagonisti. Una trasformazione che, come prova la vicenda di Ariela, è parziale, incompleta. La libertà che dovrebbe accompagnare il futuro e il riconoscimento dei propri diritti non è universale, e la vita che Ariela vorrebbe vivere per essere ciò che sente di essere da quando è bambina ma che ha potuto cominciare a esprimere solo da grande è il prodotto di una società che ancora non accetta la sua diversità, tra burocrazie ostili e irrisione dal mondo circostante.
Ariela osserva la sua vita dall’alto, arrampicandosi su trespoli che le consentano di guardare la piccola città di provincia in cui nasce e cresce senza che questa guardi lei. Quando scende, gli altri si accorgono che esiste: moglie, figli e amici comprendono, seppur con grande difficoltà, la natura del suo disagio, proprio perché conoscono l’interezza della sua storia. Conoscono i colori trasognati e sfumati dei suoi primi anni di giovinezza, il passaggio a quelli più scuri che avvolgono un’età in cui lo scontro con la realtà della sua inadeguatezza diventa anche un ostacolo per la vita sociale e il lavoro. La vita di Ariela in Questa sono io è un racconto delicato e infantile di una trasformazione dolorosa che prende tutto il peggio di un’età adulta lastricata di barriere. Noi spettatori, per capirla, siamo chiamati a pescare da quei sentimenti leggeri e malleabili che ci hanno fatto credere, in un altro momento della nostra vita, di poter essere chi volevamo, proprio come Ariela e chi come lei desidera poter vivere in un altro sé stesso per poter essere sé stesso.