Matteo Trevisani

ARTICOLO n. 77 / 2025

QUANTO DI NOI SIAMO DISPOSTI A PERDERE?

"Together", un dialogo

In collaborazione con I Wonder Pictures pubblichiamo un dialogo su Together di Michael Shanks- Nei cinema dal primo ottobre. Scopri le sale qui.

Melissa Panarello: Si dice, ma è una cosa che invecchiando ho potuto notare anche io, che chi si ama, con il tempo, comincia a somigliarsi fisicamente. È come se la carne riuscisse a modificarsi, il viso a scolpirsi anno dopo anno per diventare simile a quello della persona amata. Accade, se ci fai caso, anche fra animali e padroni. Mi sono detta che questo accade per non uccidersi, per non mangiarsi. Adesso che ho visto Together ne ho avuto la conferma.

Matteo Trevisani: È una questione di sguardo, soprattutto. Due persone che sono abituate a guardare dalla stessa parte assumono i contorni di qualcosa di nuovo di una terza cosa che nasce in mezzo a loro. Ho sempre pensato che la coppia fosse un laboratorio, che dovesse esserlo, se non si vuole stare insieme solo per passare il tempo. Però non è facile. A me ha fatto impressione soprattutto l’idea che la cosa possa non funzionare. Ci sono le resistenze, il destino e l’accettazione del destino.

M.P. È il matrimonio alchemico. La fusione può avvenire solo se ci sono opposti complementari, non accade fra simili. La coppia mostruosa che Tim, il protagonista, incontra nel buco non ha evidentemente potuto compiere quella fusione perché mancava la contrapposizione necessaria alla creazione dell’equilibrio. La fusione, inoltre, può avvenire solo se nessuno dei due elementi prevale sull’altro, altrimenti è incompleta, fallimentare. Insomma, per avere un amore da manuale bisogna andare nel soprannaturale.

M.T. Però quanto contano i desideri di prima, le nostalgie che si hanno? Ora con una famiglia magari è diverso, però ecco, all’inizio del film nessuno dei due è disposto a lasciare andare niente di sé. Lui ha trentacinque anni e coltiva il sogno di essere una rockstar, lei vuole per sé una vita idilliaca fuori dalla città. I loro desideri sono incompatibili perché valgono di più della coppia stessa. Poi qualcosa cambia, c’è qualcosa nei protagonisti che li spinge l’uno verso l’altro, qualcosa di atavico che li supera.

M.P. La purificazione, infatti, è un atto necessario, prima della fusione. Rinunciare a ogni egoismo, desiderio. Non è solo in risposta all’altro, ma è un atto dovuto a sé stessi, di elevazione. Non ne siamo tutti capaci, è evidente. Anche perché l’amore è una forza che ti spinge sempre verso il basso, oltre che verso l’altro. Non sappiamo e non possiamo essere puri, rinunciare a tutto, e questa credo sia la nostra salvezza. Non è un caso che questo film sia un horror: cosa c’è di più terrificante di essere totalmente e indissolubilmente nell’altro, senza più un sé cui fare riferimento?

M.T. Ma anche cosa c’è di più liberatorio? Questo è il vero elemento horror del film, che poi forse non si vede poi nemmeno così tanto. L’idea di essere insieme per sempre, ricercare quella fusione carnale, che poi è tutta una grande metafora sessuale probabilmente. C’è l’idea dell’abbandono che è quella che mi è piaciuta di più, della rinuncia a se stessi e accettare l’inevitabilità di ciò che sai che deve accadere. Tanto succederà lo stesso, ma sarà sempre più doloroso.

M.P. L’elemento sessuale è molto evidente, in effetti. Però l’erotismo si attiva quando c’è desiderio dell’altro, e se sei l’altro, se siete una cosa sola, se la carne è una e hai rinunciato a tutto ciò che fa di te una persona con la sua specificità, cosa resta da desiderare? Il desiderio si nutre dell’inafferrabilità, dell’evanescenza, della mancanza. Non a caso i due protagonisti ritrovano il desiderio sessuale solo quando l’assenza dell’altro diventa malattia. Una fusione totale è la premessa alla castità perpetua.

M.T. Ma la castità perpetua è molto più erotica del sesso, solo che non è perseguibile in questa vita, non da esseri normali. Diciamo che la fusione sulla terra è bella perché a una certa finisce e puoi tornare a essere te stesso con le tue paure i tuoi difetti le tue miserie e le tue grandezze. Goku e Vegeta una volta ucciso Majin Bu tornano se stessi. 

M.P. Trovo che sia un baratto atroce: l’amore in cambio della tua anima, di tutto ciò che sei. Nelle mani sbagliate questo può diventare molto pericoloso, se educhi una ragazzina all’idea che per trovare la fusione spirituale con un’altra persona lei debba rinunciare a sé o a parti importanti di sé, è l’anticamera per l’abuso. La fusione per me è spaventosa, anche perché essendo umani e non metalli ci sarà sempre uno che prevarrà sull’altro e quindi siamo destinati a essere tutti mostri, lontanissimi da una forma organicamente equilibrata e bella.

M.T. È per questo che è un horror. La fusione è ciò che ti salva e insieme ciò minaccia quello che sei. Ovvio che ci sia un lato scuro. In una forma normale bisognerebbe cercare un equilibrio, ma anche l’equilibrio è impossibile, e quindi? 

M.P. E quindi viva l’amore imperfetto, direi. I corpi, le necessità e i desideri imperfetti. Nel film, mi stava molto più simpatica la coppia mostruosa che viveva nel sottosuolo di quella che sapeva apparecchiare bene la tavola.

M.T. L’idea del film funziona molto bene, anche se alcune cose potevano essere rese o spiegate meglio. È un ibrido che funziona. L’idea del culto è buona, ma nel sottosuolo vi sono cose che non si spiegano, la chiesa, le campane, il buco, l’acqua. Alla fine però c’è anche questo nella relazione con un’altra persona, no? Un sottosuolo di cose inspiegabili, di ruggiti sommessi, di squarci improvvisi di luce. 

M.P. Sì, inspiegabili come molte scene del film, con una sceneggiatura traballante e personaggi grotteschi, ma la domanda di base è quella fondamentale: quanto sono disposta a perdermi nell’altro? Quanto di me sono disposta a perdere?

ARTICOLO n. 33 / 2022

IL COGNOME DI MIA MADRE

Un dialogo

M.T. Il cognome di mia madre è piuttosto raro: l’ultima volta che ho controllato era presente soltanto in dieci comuni, nove dei quali in provincia di Cuneo. Dopotutto è da là che vengono, anche se mia nonna materna mi raccontava sempre che il suo, di nonno, parlava di una casata francese a cui sarebbe appartenuto. Non era vero, ovviamente: ho risalito lungo quella linea di sangue fino a fine Seicento, e non ho trovato nessuna traccia di nobiltà. Non se ne trovano quasi mai. Da ragazzino avevo pensato di prenderlo, ma la lungaggine burocratica e i costi mi avevano intimorito. Oggi mi pare che ci siano due verità in quella voglia di appartenenza: volevo farlo perché si tramandasse in me una parte della famiglia di mia madre e perché pensavo che solo nei nomi le cose vivono davvero. Oggi ho capito che non è così importante: forse non lo prenderei perché anche se non ce l’ho nel cognome, quella linea di sangue non è qualcosa che semplicemente fa parte di me, ma letteralmente quello che io sono. Non dovrei fermarmi a quel cognome: dovrei possedere anche quello delle mie nonne, e quello dei loro padri, e quello delle loro ave. La decisione della Corte è senza dubbio una buona notizia: sarà più semplice scegliere, dare alla madre il sacrosanto diritto di perpetuare anche il suo cognome. Ma se il lignaggio è nominale e dunque simbolico, basta questo a conchiudere la complessità di ciò che rimane, delle famiglie?

M.P. Nel cognome di mia madre è annidato un indizio storico, di cui nessuno ha tenuto traccia e nessuno ha mai raccontato e probabilmente appartiene ai mori cacciati dalla Spagna, che hanno trovato accoglienza prima fra le coste sarde e infine fra quelle sicule, da cui provengo. Io, il mio cognome, l’ho spesso dimenticato e anzi, pubblicamente, non l’ho proprio avuto per più di un decennio. Tutto ciò che avrei voluto sapere della mia famiglia riguarda una storia recente, che è quella della mia bisnonna, la nonna di mia madre, che il cognome non lo aveva perché era un’orfana, adottata da bambina da una famiglia di nobili catanesi che l’hanno tenuta in casa come sguattera. La mia grande storia famigliare si ferma ai primi decenni del novecento, quando una bambina è stata abbandonata diventando la numero 0 di una nuova stirpe di donne. È a lei che mi sono sempre sentita appartenere, a quella ragazzina non voluta due volte, di fronte a lei il cognome di mio padre e quello di mia madre non esistono, troppo pallidi, troppo diluiti con il sangue di tutti. È quello il mio cognome: quello che non è mai esistito. E se potessimo scegliere a chi appartenere? Se da adulti potessimo dirci liberi di assumere i cognomi di chi ci assomiglia, che non sempre è una cosa che ha a che vedere con il sangue, non saremmo protagonisti di una storia molto più onesta? 

M.T. Una parte di me ti direbbe: troppo comodo. Noi siamo anche quello che non vogliamo essere, e questo è un fatto che secondo me non può essere messo troppo in discussione in maniera sensata: molto del lavoro che uno può fare nella vita ha a che fare col vedere chiaramente questa distanza da se stesso. Il fatto che siamo generati da qualcuno, il fatto che generiamo. Però è ovvio: non è solo il sangue ciò che lega una famiglia. Nel retaggio patrilineare del cognome c’è l’idea del lascito, di qualcosa che viene tramandato solo da una parte, quando l’unica cosa a essere indubitabile in una nascita è la madre. Mi viene da pensare che il cognome del padre risponda a questo complesso di inferiorità: una certezza simbolica contro una certezza reale. È vero anche che il cognome di quella ragazzina che abbiamo cercato invano dopotutto era il cognome di suo padre e poi di suo nonno, penseresti a loro se un giorno lo trovassimo? Io tendo a considerarmi la somma delle persone che hanno contribuito a generarmi, conosco i loro cognomi e me li rammento spesso, ma oggi non vedo più il fatto di avere un solo cognome, quello di mio padre, un limite: ho imparato che la famiglia è molto più grande di questo. È giusto che oggi le persone venga dato in automatico il cognome di entrambi i genitori, in modo che essi in possano scegliere per i propri figli. Dopotutto aggiungere il cognome del lato materno della famiglia non è mai stato un problema per i grandi casati che si univano: anche nell’araldica, che è la rappresentazione grafica degli stemmi di famiglia (che spesso parlano dei loro cognomi) i quarti sono ben delineati e il cognome stesso prima del 1300 era una cosa diversa da quella che intendiamo oggi. Lo stesso cognome Windsor è una scelta relativamente nuova e in qualche modo eterodossa. Perché dovrebbe essere un problema per noi? Però abbiamo chiamato nostro figlio con un solo cognome, il mio, se avesse un fratello o una sorella come ci comporteremmo? Mi spaventa che due fratelli di sangue possano avere cognomi diversi.

M.P. Il giorno in cui abbiamo deciso di dargli solo un cognome, il tuo, e quando è stato scelto il suo nome, ricordo di aver pensato che il cognome è quello che sei stato, e il nome è quello che sarai. Per questo, per scherzo ma forse no, ti ho proposto che avremmo dato solo il tuo cognome se a me fosse rimasta libera scelta sul nome: se tu determinavi il passato, spettava a me lanciare uno sguardo verso il futuro. Quel che è chiaro è che Cosmo Trevisani sarà quello che deciderà di essere e che noi gli abbiamo dato solo una casa da cui partire. Suo fratello o sua sorella seguiranno lo stesso percorso, che è quello di un figlio o di una figlia frutto della mescolanza dei nostri geni e ai quali daremo il dono del tempo, come abbiamo fatto con il primogenito. Se sarà automatico il doppio cognome, allora chiederemo di rimuovere il mio, al quale non sono legata e non certo per disaffezione nei confronti del mio amato padre, ma proprio perché ho più fiducia in quel che saremo che in quel che siamo stati e perché, certo, due bambini nati con gli stessi genitori non possono avere cognomi diversi, sarebbe come metterli in un campo di battaglia con le nostre mani e invitarli allo scontro. 

M.T. In un ramo della mia famiglia a un certo punto ho trovato un documento di battesimo di inizio Ottocento dove sotto la riga in cui prendeva posto il nome del padre c’era scritto: incerto. Quella bambina, Maddalena, venne riconosciuta soltanto dalla madre e quindi prese il suo cognome: Ragni. Anche questo è un passato sul quale edificare. Tolta finalmente la potestà che partiva dal matrimonio ogni cognome è in realtà sia materno che paterno ed è giusto fare in modo che le trame non si perdano, che le linee di sangue possano essere ricostruite. Nel Concilio di Trento fu dato ordine ai parroci di tenere traccia dei cognomi al fine di evitare le consanguineità e quel cognome fu quello del padre. Una scelta sbagliata ha prodotto una consuetudine così radicata nei secoli che ha permesso ai genealogisti di tracciare con certezza linee antichissime: il compito di chi fa genealogia oggi è quello di tenere in mente la sostanziale patrilinearità dell’approccio tenuto finora e provare a cambiarlo. Ogni albero genealogico dovrebbe essere una tavola per quarti. Col doppio cognome automatico, come nei paesi ispanofoni, se verrà mantenuto un rigore nella scelta in cui essi appaiono (quale che sia), i genealogisti che lavoreranno tra trecento anni avranno vita più facile della mia, che per scovare i cognomi delle madri devo scandagliare sempre più a fondo. Fantasia e stato civile non vanno molto d’accordo, forse giustamente.

M.P. A me pare che le madri abbiano bisogno di vedere riconosciuti i propri sforzi, costruire un essere umano dentro di sé, partorirlo e accudirlo intensamente per i primi mesi e i primi anni, non è qualcosa che può risolversi con un semplice ringraziamento a mo’ di letterina per la festa della mamma. Quello che ricordi tu, ovvero che tenere traccia dei cognomi avrebbe evitato la consanguineità, poteva avere una funzione e un senso fino a non molto tempo fa, ma oggi le cose sono diverse e le leggi si cambiano di pari passo all’evoluzione umana e culturale. Per i primi tempi sarà più difficile tenere il computo degli avi, di chi c’è stato prima di noi. Ma il nostro compito è lavorare sul presente, fare in modo che ci sia equità e riconoscere a entrambi i genitori pari dignità. Il cognome paterno, conferito alla nascita, ha tutta l’aria di essere un premio: se la donna ha il privilegio di dare la vita, l’uomo deve avere il privilegio di apporre un’etichetta a quella vita e di renderla propria, simile a quella dei suoi padri. C’è una forma di appropriazione, in questo, che non credo faccia molto piacere alle donne. Il marchio sul figlio è una cosa ancestrale, che ricorda i clan, le lotte per il fuoco, le divisioni di territori e il tracciamento dei confini. Con la storia che la madre è sempre certa si è tolto di fatto alle madri il diritto a riverberarsi negli anni a venire, un sasso che lanciato nell’acqua non produce piccole onde ma solo un rumore sordo per finire negli abissi. Credo sia importante riaffiorare, ora, da quelle profondità e far sentire che ci siamo state anche, e forse soprattutto, noi.