ARTICOLO n. 98 / 2025
MA TU SEI UN COMPAGNO?
macondo, la fantasia a milano
«A me oggi non me ne frega più niente di sapere se uno è compagno o non lo è. Io lo guardo negli occhi. Mi chiedono continuamente: ma tu sei un compagno? Io non lo so. So a mala pena cosa sono io, figurati se so cos’è un compagno». Ed è da questa netta dichiarazione di Mauro Rostagno che si può meglio comprendere il senso e il valore dell’esperienza di Macondo, nato a fine ottobre del 1977 e chiuso – con la forza – nel febbraio del 1978. Cento giorni vitalissimi durante i quali ha preso corpo l’uscita dalla stagione delle ideologie e della (obbligata) militanza marxista di Mauro Rostagno e di una buona parte della sinistra movimentista e movimentata – avrebbe detto Rostagno – di quegli anni.
Non una fuga, non una resa, ma una ricerca del sé che potesse restituire spazio vitale e di senso a un’intera generazione a dieci anni dal Sessantotto, dalle sue lotte e dalle sue conquiste, ma anche dalle sue concenti sconfitte che ancora bruciavano sulla pelle di quei giovani, ormai reduci e dispersi gli uni dagli altri. Mauro Rostagno coglie, con il fiuto e l’intuito che lo ha sempre contraddistinto, che il tempo della lotta ha bisogno di un’evoluzione e soprattutto che una violenta reazione si sta per abbattere su chi ha contestato l’ordine costituito. È necessario ritrovarsi e dare forma a uno spazio che sia accogliente e divertente, capace di offrire soluzioni utili e insieme visioni immaginifiche.
È il momento di andare oltre i gruppi e gruppuscoli che hanno segnato e diviso gli ultimi anni, lasciando sul campo esistenze in nome di ideologie prive di corpi se non di quelli di chi si è immolato perdendo di vista se stesso e gli altri. Una lunga strage giovanile si sta diffondendo nelle strade italiane, agendo tra la depressione e una diffusione sempre più capillare dell’eroina. In tutto questo Macondo è un tentativo, un bellissimo fallimento, un modo per lasciare scolpita una possibilità altra, un po’ come è avvenuto a Roma nell’estate dello stesso anno con la messa in campo dell’effimero, l’Estate romana inventata dal geniale assessore alla cultura Renato Nicolini.
Come è nato e come sono stati i cento giorni di Macondo lo racconta con puntualità e precisione il bellissimo saggio di Andrea Capriolo, Indiani a Macondo. Il Settantasette a Milano (Mimesis), già, perché Macondo non avrebbe potuto che prendere corpo a Milano e in quella Milano in particolare, così diversa da quella di oggi da apparire agli occhi di un contemporaneo una città dalle logiche e dalla visione totalmente contrapposta. A partire dal governo stesso della città: dove oggi le giunte tendono a immaginare opportunità possibili per il mercato in una logica di naturale trasformazione sociale – spesso confondendo, a seconda dei colori politici, Darwin con il liberismo e la realtà con la speranza – allora invece l’idea era quella di aprire direttamente la società – più che il mercato in sé – rendendola più inclusiva possibile.
Con una logica tutt’altro che dirigista, le giunte socialiste di Aldo Aniasi e poi in particolare di Carlo Tognoli diedero corpo a una politica culturale che era strettamente intrecciata con le istanze sociali della città: una cultura diffusa, aperta alle differenze così come all’innovazione. Parole del tutto simili a quelle della Milano di oggi, peccato che ci sia l’abisso della pratica a separare quegli anni – certo non privi di contraddizioni e conflitti – con i proclami odierni.
Macondo trova così il fermento ideale a Milano: da una borghesia illuminata, magari un po’ radical e un po’ chic, a un proletariato industriale che sta proprio in quegli anni mutando in quello che sarebbe poi diventato a partire dagli anni Ottanta il mondo del terziario avanzato. Uscire dagli anni di piombo ritornando così se stessi, senza fingere nessuna allegria, ma elaborando la tristezza, il dolore per le cose andate male, per gli amici – più che per i compagni – persi e per tutto un tempo da recuperare: partire nuovamente da se stessi per arrivare agli altri, ma sempre attraverso e insieme gli altri. Riconoscersi per ritrovarsi.
Rostagno agisce così il primo radicale cambiamento della sua vita, da leader e militante di Lotta Continua a gestore di uno dei locali più eclettici di Milano, una via che lo porterà successivamente in India e poi infine nell’amata Sicilia, a Trapani dove condurrà una lotta contro la droga – immaginando e praticando modi e spazi di cura radicalmente diversi da quello propugnato da Muccioli e da San Patrignano – e contro le organizzazioni mafiose. Macondo viene ancora oggi frainteso come una pausa dall’impegno, ma in realtà fu la sua diretta conseguenza e da un certo punto di vista il suo frutto migliore.
Macondo è l’elaborazione pratica di quella magia dell’effimero che richiedeva una forma mobile di attivismo, un nomadismo che corrispondesse non alle istituzioni e alle loro regole, ma alla dinamicità della vita e dei suoi pensieri. Non conta durare, conta essere per arrivare all’irriducibilità del sé rendendolo così finalmente formidabile e comune, visibile e quindi permeabile.
Andrea Capriolo ricostruisce la storia e la nascita di Macondo, a partire da un lavoro che fu inizialmente editoriale, una casa editrice, Edizioni d’Arte Macondo, che funse da coadiuvante di quelli che sarebbero poi stati i fondatori del locale, tra cui Roberto Sambonet autore di quello che sarebbe divenuto il manifesto simbolo di Macondo, una rielaborazione di Federico da Montefeltro ripreso dal dipinto di Piero della Francesca. E proprio questo movimento di recupero e di risignificazione non solo evidenzia la capacità inclusiva di Macondo, ma traccia le radici di una contemporaneità che oggi si palesa – anche con inquietanti derive –, ma che hanno in quella visione il loro motivo d’essere.
Macondo dunque si muove tra il tessuto artistico e quello editoriale di cui un primo luogo simbolo è la libreria di Giovanni Gandini, Milano Libri. Ed è proprio questa la specificità – che oggi appare totalmente persa – di una Milano in grado di restituire e redistribuire la propria ricchezza non solo con atti di pietosa solidarietà, ma dando valore allo scambio, all’incontro e alle relazioni tra generazioni, pratiche e ceti sociali. Una modalità di partecipazione alla vita pubblica oggi resa vana anche dalla totale perdita di consapevolezza e di rappresentanza politica delle fasce sociali più fragili.
Macondo è dunque certamente alla base delle logiche ideali di molti dei luoghi tra gallerie d’arte, librerie e locali che hanno caratterizzato Milano dagli anni Ottanta a oggi, ma ne è anche la totale negazione. Radici comuni, prospettive diametralmente opposte. Dove oggi si giustificano logiche prettamente commerciali in virtù di necessità e di bisogno: «Bisogna stare sul mercato», allora si considerava il fallimento bellissimo in quanto l’attività non era il luogo o lo spazio in sé, ma lo strumento utile per agire sui corpi di chi vi partecipava, liberandosi e non certo ritrovano nuovi lacci alle proprie intenzioni e ai propri desideri. Un crocevia assoluto e assurdo, Macondo fu l’utopia del realismo fantastico conficcato nel cuore di Milano.