ARTICOLO n. 68 / 2025
WERNER HERZOG E LO SCI
di cosa parliamo quando parliamo di sport
Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndr) perché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato. Trovi tutti gli articoli della serie qui.
Prestare sogni ai ciechi e ai sordi: ditemi voi se non è una bella metafora del cinema. A volte bisogna intenderla molto alla lettera. Nella scena di apertura di Paese del silenzio e dell’oscurità (1971), Werner Herzog presta alla sordocieca Fini Straubinger uno dei suoi sogni più antichi, a lungo covato nella sua infanzia a Sachrang, tra le Alpi bavaresi: il sogno di volare con gli sci. Non è insolito che Herzog usi i suoi personaggi, anche quelli dei cosiddetti documentari (che non ha mai voluto dividere dai film di finzione), come pupazzi di un ventriloquo: basterà ricordare il magnifico sogno dei granchi rossi che invadono la ferrovia, attribuito al giornalista Michael Goldsmith all’inizio di Echi da un regno oscuro (1990).
Fini Straubinger accetta di buon grado il prestito immaginario e lo presenta come un proprio ricordo, una falsa reminiscenza diventata in seguito una visione ricorrente: da bambina, racconta, prima di perdere la vista e l’udito, aveva assistito a una gara di volo con gli sci, e l’immagine di quegli atleti sospesi nell’aria, con i loro volti estatici e le loro bocche spalancate, ha continuato per tutta la vita a ripresentarsi alla sua mente ormai immersa nelle tenebre. Offre allora la sua visione in dono agli spettatori, appena emersi da quel “paese del silenzio e dell’oscurità” che è la sala cinematografica un istante prima della proiezione: «Vorrei che una volta poteste vederla anche voi», dice, e come evocati dalla sua voce affiorano dallo schermo buio, ripresi al ralenti, sciatori volanti che compiono parabole perfette. Il sogno del giovane Herzog è diventato così il nostro sogno, ma solo dopo essere transitato per la camera oscura di un’anziana sordocieca bavarese che ha acconsentito a farsi mediatrice di una proiezione interiore del regista. E lo spettatore, per incanto, quasi si stacca dalla poltrona: non sta soltanto ammirando il volo con gli sci, come se assistesse a una comune telecronaca sportiva; sta sperimentando dal di dentro il sogno del volo con gli sci.
Ma cosa sognano, se sognano anche loro, gli atleti che spiccano il volo dal trampolino? Qualcuno ha suggerito che per mantenersi in quel paradossale equilibrio a mezz’aria debbano entrare in uno stato mentale simile a quello che attraversiamo tutti quando sogniamo di volare. Allora, nel sonno, la mente istruisce il corpo a diventare ciò che non è: un uccello (un procedimento in odore di sciamanesimo). E del resto qualcosa di simile ci accade anche quando vediamo un film, come le neuroscienze cominciano in questi anni a svelare: viviamo una “simulazione incarnata”, il nostro corpo è capace di sgranchirsi e librarsi pur restando immobile, inchiodato alla poltrona (è la tesi di Vittorio Gallese e Michele Guerra in Lo schermo empatico, Raffaello Cortina 2015).
Con o senza sci, a tutti è capitato di sognare il volo, o anche di fantasticarne a occhi aperti. Il problema è che per raggiungere quell’estasi così lieve serve un apprendistato, e quello lo si deve svolgere per forza con i piedi ben piantati in terra. È vero che la metafora del volo ricorre, tra i tanti, in Santa Teresa D’Avila o in Rumi; ma i grandi mistici, di solito, ci fanno anche sapere quale disciplina, quale allenamento è stato necessario per sottrarsi alla gravità spirituale, alla famosa pesanteur di Simone Weil. La mistica, in questo senso, è una specialità atletica, ancorché non censita in nessun decathlon. Che sia vero anche l’inverso?
Werner Herzog gira La grande estasi dell’intagliatore Steiner – che considera da sempre uno dei suoi film più importanti, se non il più importante – tra l’autunno del 1973 e la primavera dell’anno successivo. In quei mesi segue Walter Steiner, una giovane promessa del volo con gli sci, dagli allenamenti in Austria alle gare a Planica, in Jugoslavia. C’è da dubitare che la Süddeutscher Rundfunk, che aveva commissionato quel documentario di 45 minuti destinato alla televisione, abbia accolto senza riserve un titolo così stravagante, o che abbia condiviso l’ostentato disinteresse di Herzog per la competizione sportiva. Ma nella Grande estasi la gara, i vincitori, gli sconfitti, i tifosi, i giornalisti, i cerimoniali, tutto recede sullo sfondo, tutto sembra perfino fuori posto. Ad affascinare Herzog è infatti la perfetta solitudine dell’atleta durante il volo. I tifosi convenuti a Planica sono presentati dalla sua voce ipnotica come pellegrini in attesa di un miracolo, anche se non lo sanno e probabilmente fanno pensieri più prosaici. E lo stesso Steiner – ce ne accorgiamo da certe sue risposte – non dà segno di voler aderire alla veste che Herzog l’incantatore gli cuce addosso, quella di un uomo che cerca per mezzo dello sport una trascendenza solitaria.
Intagliatore, Walter Steiner lo era davvero, e il film lo mostra alle prese con le sue sculture in legno; ma se Herzog sceglie di qualificarlo così è prima di tutto per sottolineare la pazienza artigiana e l’ancoraggio materiale che occorrono per guadagnarsi quegli istanti estatici. Aggettivo caro a Herzog – non perde occasione per proclamare che il suo cinema è la ricerca di una “verità estatica” – ma forse impreciso, in questo caso. L’attenzione di Herzog, infatti, è tutta rivolta a quella che Mircea Eliade chiamava “enstasi”, ossia il perfetto raccoglimento in sé stessi, il samadhi che possono raggiungere – dimentichi di sé nel dedicarsi con infinita attenzione all’opera – lo yogin, l’artista, l’atleta. Alla fine del film, sulle immagini di Walter Steiner sospeso nel suo volo quasi immobile – Herzog ha cura di non riprendere mai il terreno, così da farci smarrire tutti i riferimenti spaziali – compare un brano scritto in sovrimpressione: «Vorrei essere completamente solo al mondo. Io, Steiner, e nessun altro essere vivente intorno. Niente sole, niente cultura, soltanto io, nudo su un’alta roccia. Niente tempeste, niente neve, niente strade, niente banche, niente soldi, niente tempo e niente respiro. Allora finalmente non avrei più paura».
È noto, perlomeno ai suoi cultori, il vezzo goliardico e anti-accademico di Werner Herzog, che nei suoi film ama inserire citazioni inventate di sana pianta, come la frase di Blaise Pascal che introduce Apocalisse nel deserto (1991). Nella Grande estasi il gioco è più sottile. La citazione è vera, ma non è dichiarata. È la chiusa di un breve racconto di Robert Walser, Helblings Geschichte, che Herzog ha rimaneggiato un po’, aggiungendo qualche parola e soprattutto mettendo il nome dell’intagliatore-sciatore Steiner al posto di quello del piccolo impiegato Helbling.
Il regista, va da sé, non è uno sciatore né un impiegato né un mistico. È però un atleta, come predica da sempre Herzog, capace di commuoversi fino alle lacrime rievocando il più atletico di tutti, Buster Keaton. I film di Herzog – anche quelli di finzione – sono, insieme, dei documentari sulla loro stessa realizzazione, sulle fatiche indicibili e i rischi molto concreti che sono costati. Il suo cinema è uno sport estremo, la “verità estatica” costa fatica, e di certo non ci si libera della pesanteur tagliando una cordicella, come fosse la zavorra di una mongolfiera. Presto Herzog ne darà la prova più diretta, determinante nel costruire la propria leggenda personale. Nell’inverno dello stesso anno in cui gira La grande estasi dell’intagliatore Steiner, il 1974, si mette in cammino da Monaco a Parigi, un lunghissimo viaggio solitario a piedi per raggiungere l’amica Lotte Eisner, storica del cinema tedesco, studiosa di Fritz Lang e dell’espressionismo, madrina di tanti giovani registi del nuovo corso inaugurato a Oberhausen nei primi anni Sessanta. Eisner era afflitta da un grave male, e Herzog si era persuaso che con quella marcia apparentemente assurda le avrebbe salvato la vita. Il resoconto del viaggio lo pubblicò quattro anni dopo, con il titolo Sentieri nel ghiaccio. Ed è veramente difficile non ripensare a Walter Steiner quando, alla fine del pellegrinaggio e del racconto, Herzog raggiunge il suo santuario, la casa di Lotte Eisner: «Allora lei mi ha guardato con un lieve sorriso e poiché sapeva che ero uno che andava a piedi e perciò un indifeso, mi ha compreso. Per un solo istante, senza peso, per il mio corpo esausto è passato come un soffio di dolcezza. Ho detto: apra la finestra, da qualche giorno io so volare».