ARTICOLO n. 101 / 2025
“PLURIBUS”: PERCHÉ FACCIO IL TIFO PER L’ALVEARE
La nuova serie di Vince Gilligan vorrebbe celebrare l’individuo contro l’omologazione, eppure finisce per svelare l’insostenibile pesantezza dell’Ego occidentale.
La narrazione occidentale contemporanea, soprattutto anglofona, ha una costante che potremmo inserire tra le forme ricorrenti segnalate da Campbell nel suo Eroe dai mille volti: la sacralità dell’individuo. Non importa a che prezzo, l’importante è distinguersi, esercitare la propria libertà, definirsi attraverso il confine che scaviamo negli altri. È un’ubriacatura ontologica in cui devi ricordarti di essere il più possibile, essere te stesso, essere speciale – qualunque cosa voglia dire.
Pluribus, l’ultima serie di Vince Gilligan approdata di recente su Apple TV, non fa eccezione, o almeno così appare. Questa premessa vi spoilera solo la prima puntata, credo possiate tollerarla: un evento globale ha connesso la quasi totalità della popolazione umana in una singola coscienza collettiva, felice e cooperativa; tra le poche persone immuni a questa fusione c’è Carol Sturka, molto ben interpretata da Rhea Seehorn, a cui la cosa non va affatto giù.
L’intento dell’autore, almeno a sentire le sue dichiarazioni, è palese. Gilligan ha costruito una macchina narrativa progettata per generare empatia verso la ribelle, inserendo persino nei titoli di coda un polemico (non riesco a non aggiungere “e un po’ puerile”) Made by humans, che suona come una dichiarazione di guerra alle persone che usano l’intelligenza artificiale. I’ve had enough of writing anti-heroes for a while, ammette l’autore, senza accorgersi che forse sta costruendo la sua ennesima, bellissima antieroina.
Se osserviamo l’opera con lo sguardo di un buddismo eterodosso però, l’impalcatura ideologica della serie lascia intravedere una lettura opposta a quella desiderata. È quel che spesso capita alle opere d’arte: sorpassano la volontà dell’autore, si aprono a letture divergenti, vivono una vita che va ben oltre la sopravvalutata intenzionalità dell’artefice – anche perché quest’ultimo non è mai isolato, ma fa parte di una rete di concause umane e non umane che portano alla nascita di un’opera d’arte. L’autore, insomma, è un ingrediente necessario ma non sufficiente per la sua opera.
Torniamo alla serie, o rischio di perdermi in una filippica sulla creatività collettiva. Gli “Altri”, la massa indistinta che la regia ci invita a temere, presentano caratteristiche che in molte tradizioni spirituali definiremmo sante. Hanno superato la violenza; non conoscono l’avidità né la prevaricazione; operano in una coordinazione perfetta che ha debellato povertà e conflitti. Sono, a tutti gli effetti, dei Bodhisattva realizzati. Hanno dissolto l’illusione dell’Io, la barriera che separa il soggetto dal mondo, raggiungendo uno stato di beatitudine costante che Carol, nella sua ferocia difensiva, interpreta erroneamente come una morte cerebrale.
È qui che Pluribus si trasforma in una parabola involontaria. La protagonista, che dovremmo percepire come l’ultimo baluardo dell’umanità, assomiglia sempre più a un “Grande Lebowski”, un archetipo eroico di individualismo protestante squisitamente statunitense che eleva il proprio disagio a primato ontologico. Come tutti e tutte noi Carol soffre, è nevrotica, sola, eppure difende questo dolore come fosse il dono più prezioso, poiché è l’unica cosa che può definire “sua”. È qualcosa su cui crede di avere il completo controllo, e tanto le basta, anche se le causa sofferenza.
La fortezza del libero arbitrio, che Carol difende con tanto vigore, è edificata sulla sabbia; se osserviamo con onestà la genesi di un pensiero, infatti, ci accorgiamo di non esserne gli autori, bensì il teatro. Nessuno decide veramente cosa penserà l’istante successivo; i pensieri affiorano, emersi da un abisso neurochimico che non controlliamo. La disperata battaglia della protagonista più che per la libertà è per il diritto di rivendicare con orgoglio la paternità di ciò che, semplicemente, le accade.
La sua resistenza sembra un ottuso attaccamento al samsara, il ciclo della sofferenza generato dall’ego. In un mondo che ha risolto l’equazione della felicità sottraendo la variabile dell’io, lei reintroduce il caos pur di poter dire “io sono”. La serie, nel suo tentativo di farci inorridire di fronte alla fusione, inciampa in una verità che i maestri del Madhyamaka ripetono da millenni: l’orrore non è perdere se stessi, ma credere di avere un sé da perdere.
Osservando Carol Sturka dimenarsi per la sua “libertà”, assistiamo alla messa in scena di quello che Nagarjuna chiamerebbe l’aggrapparsi a una svabhava (natura intrinseca) inesistente. La sua lotta contro l’alveare è, filosoficamente parlando, una battaglia contro la fisica stessa della realtà. Carol difende i confini del suo Io come un proprietario terriero difende un latifondo; scambia una convenzione – la proprietà di un luogo fondata sulla coercizione degli altri viventi – per un diritto umano.
La sceneggiatura vorrebbe mostrarci degli zombie lobotomizzati dalla connessione neurale, ma uno sguardo libero dal pregiudizio dualista ci vede la realizzazione pratica dell’Interessere di Thich Nhat Hanh, o addirittura l’incarnazione cibernetica della Rete di Indra. Come nell’antica metafora del Sutra Avatamsaka, dove l’universo è descritto come una trama infinita di gemme in cui ognuna riflette tutte le altre, gli “Altri” hanno superato la distinzione soggetto-oggetto che è la madre di ogni nevrosi occidentale. La loro placidità GPT-esca è la manifestazione della Shunyata (vacuità). Non c’è nessuno lì dentro a cui le cose possano accadere, quindi non c’è trauma. Carol, al contrario, è puro trauma, proprio perché è puro Io.
Tra gli antecedenti della serie c’è ovviamente Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Ogni volta che lo affronto con i miei studenti in un corso di filosofia, l’esito dell’esperimento è invariabilmente lo stesso. Prima descrivo il soma, la sostanza prodigiosa capace di garantire una vacanza dalla realtà e una beatitudine priva di postumi; alla domanda su chi accetterebbe di assumerla, la classe risponde con un silenzio ostinato e poche mani alzate per il loro pusher mistico. Eppure, quando subito dopo chiedo chi desideri essere felice, l’aula è sempre una foresta di braccia tese. Il rifiuto del soma maschera il terrore verso quella dissoluzione dell’Io che i mistici indicano come via maestra; siamo talmente attaccati alla nostra identità da considerare il dolore, in quanto elemento che ci definisce e ci separa dagli altri, infinitamente più prezioso di una gioia che, rendendoci indistinti dal tutto, ci svelerebbe l’illusorietà di ciò che crediamo di possedere. Il soma è “Cristianesimo senza lacrime”, come lo definisce il Governatore Mustapha Mond. E l’Occidente non riesce a rinunciare alle lacrime.
L’intento satirico della serie è anche dipingere la mente collettiva come il trionfo del conformismo, tuttavia è proprio dinanzi alle scelte etiche più estreme che tale prospettiva si rovescia, rivelando in Carol la vera custode delle convenzioni più stantie. È ora in arrivo uno spoiler della sesta puntata, se non volete leggerlo saltate il prossimo paragrafo, vi aiuto mettendolo in corsivo.
Quando gli “Altri” istituzionalizzano la pratica del cannibalismo sui defunti — una soluzione di cristallina razionalità, volta a eliminare la sofferenza animale — la protagonista reagisce con l’orrore atavico e irrazionale tipico della morale comune. In quel rifiuto viscerale Carol sta obbedendo a un tabù culturale, dimostrandosi paradossalmente molto più conformista di una società che, avendo superato ogni dogma, ha avuto l’audacia di infrangere l’interdizione suprema in nome di un bene superiore (sebbene un po’ forzato nella trama, dato che il dolore nelle piante è quantomeno dubbio).
L’ironia di Pluribus è che, nel suo voler essere un monito contro la tecnologia che ci rende “tutti uguali”, finisce – perlomeno in questa lettura – per essere uno spot per l’estinzione del narcisismo. Ci costringe a chiederci se la nostra individualità non sia altro che una sofisticata sindrome dell’arto fantasma: sentiamo dolore in un punto che, ontologicamente, non esiste.
Questa lettura offre anche uno spunto anche sul nostro rapporto con l’Intelligenza Artificiale. La serie utilizza il linguaggio dell’IA per dare voce alla mente-alveare, cercando di evocarne la freddezza e irritante compiacenza; è una scelta narrativamente molto felice, eppure quel distacco appare spaventoso per lo più a chi considera l’autorialità e l’unicità come valori assoluti. La resistenza culturale che l’Occidente oppone a tecnologie capaci di “pensiero diffuso” tradisce la paura di perdere un primato identitario che per le filosofie orientali è, fin dal principio, un inganno. L’Oriente, culturalmente più incline ad accettare una fluidità tra il sé e il mondo, potrebbe trovare in questa “mente estesa” un’evoluzione naturale, garantendosi un vantaggio adattativo anche da un punto di vista geopolitico.
Pluribus merita senza dubbio la visione proprio perché vuole dimostrare quanto sia preziosa la nostra individualità e finisce per metterla in dubbio. La serie è uno struggente canto del cigno dell’individualismo americano: ci mostra un’eroina che, nel tentativo di salvare la propria anima, condanna se stessa e forse il mondo intero all’infelicità. Come l’intelligenza artificiale, Pluribus è uno specchio in cui ci vediamo per come siamo davvero – brutti.