ARTICOLO n. 40 / 2025

PERCHÉ NON ABBANDONIAMO I SOCIAL

La sfilata di tecno-oligarchi inchinati all’insediamento di Trump ha portato varie persone ad abbandonare piattaforme come X o i social di Zuckerberg alla ricerca di lidi meno simpatizzanti per le destre estreme. Ne ha scritto Tiziano Bonini, facendo notare come già da prima l’ascesa dei social si sia trasformata in un lento assorbimento del lavoro culturale e creativo a vantaggio di algoritmi e meccaniche di profitto. Arianna Ciccone, dal canto suo, ha annunciato l’uscita di Valigia Blu da Facebook e Instagram, esemplificando un ulteriore passo verso la costruzione di spazi più autonomi e liberi dalle logiche dell’attuale potere.

Anzitutto è bene chiarire che non è mai esistita né probabilmente può esistere una struttura politicamente “neutra”. Negli attuali periodi di crisi però, oltre al consueto meccanismo algoritmico atto a tenerci incollati agli schermi, nei social sono aumentati dei filtri politicamente partigiani. Moltissimi utenti hanno lamentato cripto-censure mirate su specifici temi – come i contenuti a favore della Palestina, spesso bloccati o retrocessi nel ranking – così come il rilancio mediatico concesso a specifiche figure politiche. Se la Silicon Valley ha finora flirtato con i governi liberali, si è ora palesemente disposta a stringere patti con chiunque sia il padrone di turno, a maggior ragione se promette minori regolamentazioni e ampi margini di guadagno. Succede dunque che, da un giorno all’altro, le policy sulla moderazione dei contenuti vengano riconsiderate a favore delle istanze della destra vincente e che ciò venga giustificato con un richiamo distorto alla libertà di espressione.

Il risultato è una miscela di disincanto e risentimento che sta spingendo alcuni giornali e vari utenti a prendere decisioni alternative: ridurre la presenza su questi canali, avviare newsletter indipendenti, riscoprire blog e mailing list. La fuga, però, è tutt’altro che semplice. Anzitutto perché tardiva, considerato che le dinamiche precedenti non erano affatto ideali e anzi, la differenza talvolta si nota a malapena. Come ha sottolineato Ciccone il problema non è tanto il fact-checking annullato da Meta (strumento che a mio parere era estremamente difettoso e problematico, non esistendo alcuna forma di oggettività nel controllo) o la scelta di rimuovere programmi di politiche DE&I, ma il modo in cui una svolta ideologica reazionaria rischia di trasformare i social in un efficace strumento di propaganda. Credo però che la trasformazione potrebbe essere meno vistosa di quel che si teme, perché i social nascono da esigenze reali, che, se venissero troppo disilluse, porterebbero al fallimento della piattaforma. In altre parole, nessun social può rinunciare al pubblico non di estrema destra.

Una migrazione comunque è parzialmente in atto, anche se più che altro è una duplicazione. C’è ad esempio chi – come me – ha provato ad aprire account su Mastodon o Bluesky. La curiosità si è però presto scontrata con barriere di usabilità e carenza di massa critica, due fattori che hanno sempre determinato, nel bene e nel male, la fortuna di un social. Mastodon, per esempio, rivendica un’interessante struttura federata e open source, ma la frammentazione delle istanze e una certa complessità tecnica rischiano di trasformare la novità in un fastidio per chi cerca un approdo più user friendly. Bluesky, annunciata come un “Twitter buono”, presenta scarsissime innovazioni e un’utenza sparsa che fatica a ricostruire la vitalità del feed cui eravamo abituati. Non basta dunque la buona volontà, e neanche un’etichetta “etica” o “anti-establishment”: i social, per natura, si alimentano di reti ampie e condivise, di dinamiche che soddisfino esigenze comuni e non solo rivendicazioni di principio. Se il solo elemento propulsivo rimane la fuga da un certo ambiente politico, alla fine ci si ritrova in spazi molto ristretti: abbiamo invece bisogno di parlare anche a chi non la pensa esattamente come noi e non sente la necessità di cambiare social solo per motivi etici. Persino Threads non è esploso, perché seppur forte del trasferimento quasi coatto dei suoi utenti, ha una portata innovativa pressoché nulla.

È dunque preferibile rinunciare del tutto ai social? Ultimamente spopola il lavoro di Jonathan Haidt, che nei suoi libri – come il recente La generazione ansiosa – sostiene un legame diretto tra l’uso dei social e l’aumento di ansia, depressione e fragilità psicologica nei più giovani, soprattutto nelle ragazze. L’idea, per riassumere, è che piattaforme come Instagram o TikTok creino un circolo vizioso di confronti continui e dipendenza da approvazione esterna, generando un crollo di autostima e benessere emotivo: addirittura una “grande riprogrammazione” dei cervelli. Candice Odgers, sulle pagine di Nature, ha però messo in guardia rispetto alle semplificazioni di Haidt: non tutti sperimentano le stesse ricadute negative, e attribuire ogni problema ai social potrebbe farci dimenticare condizioni più importanti (per esempio, precarietà economica, discriminazioni, difficoltà familiari). «Questo libro» – scrive Odgers – «venderà probabilmente molte copie perché racconta una storia spaventosa sullo sviluppo dei ragazzi, una storia che molti genitori sono pronti a credere. Ma l’idea che le tecnologie digitali stiano letteralmente “riprogrammando” il cervello dei nostri figli e causando un’epidemia di malattie mentali non è supportata dalla scienza. Anzi, può distrarci dal trovare soluzioni valide alle vere cause della crisi di salute mentale che colpisce i giovani». In effetti, come scrive la neuropsicologa Tiziana Metitieri, che dell’argomento se ne è occupata diffusamente su Valigia Blu, quello dell’ansia è un marketing che funziona commercialmente molto bene.

Anche la psicologa Amy Orben, in un articolo intitolato al “ciclo di Sisifo” che circonda le nuove tecnologie, evidenzia come ogni allarme finisca per ripetersi ciclicamente nel corso della storia, che si tratti di radio, televisione o smartphone. Nel suo lavoro, Orben sottolinea che questi timori sono ben radicati nelle opinioni pubbliche e nelle agende politiche, generando periodicamente grandi investimenti in ricerca e dibattito normativo, con un forte bias verso gli effetti negativi. In questo modo, spiega Orben, si rallenta l’adozione di misure concrete che possano rendere le tecnologie effettivamente vantaggiose per la società: a forza di guardarle come il male assoluto o, viceversa, di glorificarle ciecamente, si disperdono le energie necessarie per trovare soluzioni equilibrate.

C’è poi una recente ricerca di Walter Quattrociocchi e colleghi, apparsa su Nature, che analizza l’evoluzione delle conversazioni online in un lunghissimo arco temporale, dai tempi di Usenet fino alle piattaforme contemporanee. I dati raccolti mostrano come le stesse tendenze alla polarizzazione, al linguaggio tossico e ai conflitti ricorrenti si ripresentino immutate nonostante il passare degli anni e il cambiare degli ecosistemi digitali. Lo studio rileva inoltre che la presenza di dibattiti accesi, con sentimenti contrastanti tra gli utenti, è di per sé un fattore che stimola l’intensità e la durezza del confronto, senza però dissuadere realmente i partecipanti. In pratica è lo stesso comportamento umano, con la sua tendenza a schierarsi e rafforzare identità di gruppo, a plasmare il contesto digitale: gli algoritmi possono amplificare o attenuare certe dinamiche, ma di fatto attingono a inclinazioni che appartengono già alle nostre modalità di relazione e confronto. Ecco dunque perché risulta riduttivo parlare di social “buoni o cattivi”: gli stessi spazi virtuali possono ospitare sia derive problematiche che forme di condivisione benefica.

Questo non ci deve accecare rispetto al potenziale ruolo di accelerazione di alcune dinamiche che determinati strumenti possono favorire. Sappiamo che molte delle reazioni emotive e relazionali che sperimentiamo sui social non nascono dal nulla, ma da meccanismi psicologici ben studiati. Uno di questi si rifà alla Teoria del confronto sociale, introdotta da Leon Festinger negli anni Cinquanta, secondo cui tendiamo a valutare noi stessi confrontandoci costantemente con chi ci sta intorno. In un ambiente come Instagram, TikTok o X, popolato da profili che ostentano ricchezza o successo, è facile che questo processo scateni ansia e senso di inadeguatezza. Al contempo esiste ciò che lo psicologo John Suler ha definito effetto di disinibizione online (2004): quando comunichiamo attraverso uno schermo, senza il contatto visivo o le normali barriere del contesto faccia a faccia, ci sentiamo più liberi di esprimerci (anche in modo aggressivo o tossico) e meno frenati dal giudizio altrui. Questo fenomeno alimenta polarizzazioni, litigi e ondate di odio; l’anonimato o pseudonimato digitale contribuisce a far emergere contenuti che spesso non verrebbero espressi dal vivo. Al tempo stesso, però, tale disinibizione può talvolta favorire confidenze e confronti sinceri, offrendo una valvola di sfogo a chi vive forme di ansia o di disagio relazionale. Districare i nostri comportamenti dalle eventuali trasformazioni che subiscono sui social non è semplice.

Uno dei punti più deboli del ragionamento di Haidt, in La generazione ansiosa, sta proprio nell’attribuire ai social una responsabilità causale – e non una correlazione– riguardo all’aumento di ansia, depressione e comportamenti suicidari nelle nuove generazioni. È come se, di fronte a un panorama storico pieno di avvenimenti inquietanti (dalla crisi climatica alle tensioni economico-sociali), ci fossimo fissati su un unico colpevole, tra l’altro il più semplice, dimenticando che il malessere si nutre spesso di una rete di complesse concause. Anche le prove che Haidt porta a sostegno della sua tesi, passate al setaccio, appaiono poco convincenti: il libro ha una ricca bibliografia, ma per difendersi da questa importante critica cita uno studio condotto su appena 143 persone, tutti universitari in Pennsylvania, come se potesse da solo validare l’ipotesi di un nesso di causa-effetto tra social media e patologie psicologiche, peraltro tra adolescenti. Oltretutto in Europa i tassi di suicidio sono in diminuzione, eppure i social li usiamo anche noi. Come ha dichiarato al Guardian Andrew Przybylski, professore di comportamento umano e tecnologia all’Università di Oxford, «se la commissione di Lancet sull’autolesionismo conduce una revisione delle prove scientifiche, se la National Academy of Sciences negli Stati Uniti conduce una revisione delle prove scientifiche, se i ricercatori accademici conducono le loro ricerche meta-scientifiche e tutti questi studi non confermano il panico tecnologico, è perché il panico tecnologico non si basa sulle evidenze. Si basa sulle sensazioni».

Tutto questo, oltretutto, rinforza l’impressione di un approccio totalizzante che si scontra con la vera natura dei social. Si tratta di tecnologie generaliste, un po’ come l’elettricità, la radio o l’Intelligenza Artificiale: con le stesse piattaforme possiamo intraprendere un’infinità di azioni molto diverse tra loro. C’è chi si tiene in contatto con amici lontani o con la famiglia, chi le usa per attingere informazioni politiche, culturali, pop, chi per giocare, promuovere il proprio lavoro, conoscere persone nuove, persino per avviare relazioni sentimentali ed erotiche. C’è chi organizza eventi, gruppi di mutuo aiuto o community su passioni come la cucina. Sui social insomma possiamo fare moltissime cose diverse: come si fa, quindi, a ridurre un fenomeno così sfaccettato a un’unica deriva?

Come voi, anch’io sui social ho sprecato moltissimo tempo in modo ansioso e mi sono fatto truffare da qualche inserzione mirata, ma, al contempo, ho conosciuto la mia attuale compagna, ho stretto amicizie e ricevuto stimoli intellettuali che non avrei mai incontrato offline. Non è dunque strano se, nonostante i problemi, continuiamo a restare su questi canali: rispondono anche a esigenze positive e forniscono un capitale relazionale e informativo che, se ben gestito, può rivelarsi prezioso. Per questo motivo le generalizzazioni non reggono: non si può parlare de “i social” come un’entità monolitica, quando esiste un’infinita varietà di modi per viverli, così come esistono moltissimi contesti personali e sociali da cui nasce la nostra voglia o necessità di connetterci online.

Certo, che i social siano plasmati da esigenze economiche e politiche è evidente fin dalla loro concezione: sono ambienti commerciali pensati per attirare la nostra attenzione il più a lungo possibile, attraverso interfacce che ci invogliano a rimanere, a scorrere senza sosta, a interagire con notifiche e tendenze. Maggiore è il tempo che trascorriamo sulla piattaforma, più dati raccoglie e più preciso diventa il profilo che vende a terzi. Questa logica è già di per sé una forma di controllo, la cui direzione non è stabilita dagli utenti, ma dai proprietari, che ne impostano regole e priorità. Poi ci si aggiunge la dimensione politica, cioè la disponibilità a modulare algoritmi e regole di moderazione in base a pressioni governative o a opportunismi di mercato. Chiunque, muovendosi in questo panorama, deve fare i conti con un paradosso: sappiamo che le piattaforme tradizionali non sono neutre e che i giganti del settore detengono il controllo, ma ci restiamo non solo e non tanto perché ne siamo dipendenti, ma perché, allo stato attuale, soddisfano molte nostre esigenze di comunicazione e di aggregazione. Non è un caso che interessino tanto all’astuta amministrazione Trump, perché sono quel che un tempo era la televisione e i giornali.

Se i fattori psicologici aiutano a comprendere le motivazioni individuali o le reazioni emotive alle dinamiche dei social, altrettanto fondamentale è considerare la struttura socio-tecnica in cui tali interazioni avvengono. Gli studi di Kevin Treem e Paul Leonardi, in particolare, descrivono come le piattaforme digitali presentino una serie di “affordance”, ovvero caratteristiche che invitano o scoraggiano certi tipi di comportamenti. Per esempio, la visibilità e la persistenza dei contenuti (ciò che pubblichiamo resta a lungo consultabile), la facilità di condivisione o modifica dei post, o la maggiore o minore asincronia della comunicazione (chat in tempo reale vs. post che si aggiornano di rado). Queste proprietà non determinano automaticamente cosa faranno gli utenti, ma pongono confini e opportunità che orientano le interazioni. Un social pensato per il tempo reale, per esempio, favorisce risposte rapide e toni spesso più emotivi; una piattaforma più “lenta”, invece, può incoraggiare riflessioni più articolate e scambi approfonditi.

La storia dei social media insegna che le migrazioni di massa non decollano per meri motivi etici, ma solo se il nuovo ambiente propone offerte innovative. Non basta cioè sottrarsi a una piattaforma giudicata tossica se quella destinazione alternativa non riesce a garantire un ecosistema più vivo ed efficiente. Allo stesso modo, non serve demonizzare i social come fossero soltanto fonti di ansia, dipendenza o disinformazione: oltre a essere la casa di FOMO, filtri opachi e polarizzazioni, restano anche luoghi di incontro e di produzione culturale, spazi dove nascono mobilitazioni, relazioni umane e, censure permettendo, persino fermenti politici. Qualunque analisi dei social deve in qualche modo prendere in carico la risposta a questa domanda: avete letto l’articolo che qua si conclude grazie a un social? Se così è stato, capirete che la ricerca e produzione intellettuale difficilmente può rifiutare questo strumento.

ARTICOLO n. 44 / 2025