ARTICOLO n. 57 / 2025
Di Matteo Nucci
OMERO E I GIOCHI FUNEBRI
Di cosa parliamo quando parliamo di sport
Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndr) perché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato. Trovi tutti gli articoli della serie qui.
Il primo a raccontare una competizione sportiva fu il primo in assoluto, e cioè il primo nella storia, sì, ma anche il più grande, il migliore, l’inarrivato. Eppure io, mentre lo leggevo nelle mie mattine di adolescente, non me ne accorsi. Ingordo di storie e di conoscenze, aprivo il poema e ne leggevo una ventina di pagine al giorno, dopo colazione, il caffè sul mobiletto, la luce che entrava obliqua dalla finestrella verde. Mi ero abituato a certe sorprese, via via che scoprivo narrazioni stupefacenti, svolte letterarie che a scuola nessuno mai aveva avuto il cuore di mostrarmi. Erano sorprese ben diverse da quelle a cui ero stato preparato dai miei libri, sorprese al contrario, potremmo dire, perché non si trattava certo dei picchi inattesi dominanti nei nostri tempi televisivi, e tuttavia quando Omero iniziò a cantare dei giochi funebri in onore di Patroclo, la sorpresa mi mise di malumore e lì per lì non la capii. Cosa poteva interessarmi, ora, sepolto Patroclo, di una competizione ippica?
Achille tirava fuori dalla sua tenda premi per i vincitori e i cavalieri più abili si facevano avanti e iniziava un racconto dettagliato in cui la gara veniva descritta fin dalle premesse, dal percorso che Achille stabiliva, e c’erano consigli di un padre a un figlio, eppoi uomini che cadevano, che si ingannavano, quindi litigavano, poi prendevano premi, si sfidavano, si perdonavano, ridevano. Ma cosa poteva importarmi? Volevo vedere ancora Patroclo, io, volevo sentire il dolore di Achille, volevo capire cosa stava succedendo nel suo cuore. E invece lui, l’eroe continuava a chiamare i suoi compagni a sfidarsi. Dopo i cavalli, il pugilato, poi la lotta, la corsa a piedi, la sfida con la lancia, il lancio del disco, il tiro con l’arco, il lancio del giavellotto.
Misi da una parte il volume, rimandando all’indomani la lettura dell’ultimo libro. E quando lo aprii e affondai in quella scena straordinaria, forse la scena più bella della letteratura di ogni tempo, di fronte a un Achille trasformato, mi chiesi se non mi fossi perso qualcosa. Come mai, infatti, il ragazzo che poco prima avrebbe voluto sfigurare il corpo dell’omicida di Patroclo, Ettore, pur di rendere definitiva la sua vendetta, adesso accoglieva nella tenda Priamo, re di Troia e padre di Ettore, dunque l’ultimo nemico rimasto? Come mai lo lasciava avvicinare e non aveva più odio, ma vedeva in lui solo un vecchio pieno di dolore per la morte del figlio, proprio come sarebbe capitato un giorno a suo padre, Peleo, che Achille non lo avrebbe più riabbracciato? Che cosa aveva trasformato Achille a tal punto? Tornai indietro. Rilessi delle gare atletiche e capii. Nessun genio più grande di Omero. Nessuno con più levità e delicatezza sarebbe mai più stato capace di mostrare la verità sullo sport come lui. Perché quel che Omero aveva raccontato era ineguagliabile e definitivo. Me ne resi conto quando mi accorsi che a dominare, in quelle pagine di competizioni e agonismo sfrenato, per la prima volta nel libro, non erano più le lacrime, ma il sorriso.
Le cose sono più semplici di quanto si creda. E in effetti tutto cambia subito, non appena la prima competizione, quella descritta nei minimi dettagli, ovvero la corsa dei carri, si conclude. Il giovane che ha dominato la scena si chiama Antiloco. Figlio di Nestore, re di Pilo, Antiloco ha fatto tesoro dei consigli astutissimi di suo padre per riuscire dove i suoi cavalli, inferiori per natura rispetto a quelli degli altri, non potrebbero. Solo che ha esagerato. Ha rischiato e ingannato. E quello che ne ha fatto le spese, Menelao, non gliele manda a dire. Allora Antiloco, pieno di voglia di farsi valere come solo un ragazzo può essere, si scusa, chiede perdono, eppure ribadisce che non poteva fare diversamente tanta era la sua voglia di conquistarsi un premio, una voglia che lo spinge addirittura a prendersela con Achille. È pieno di un furore agonistico scintillante, Antiloco. E Achille, guardandolo, ammirandolo, godendo della sua voglia di vincere, sorride. È un sorriso che ci lascia a bocca aperta. Perché Achille ha pianto per l’intero poema e soprattutto alla fine non ha smesso di disperarsi fin quasi a strapparsi i capelli. Solo durante l’esplosione di ferocia, egli è stato capace di fermare le lacrime. Ma certo il sorriso che ora si apre sul suo volto ha tutto un altro senso.
Cosa è successo? Apparentemente, non è difficile spiegarlo. E io me lo ripetei proprio in quelle mattine di letture adolescenziali, ricordandomi che già nell’Odissea avevo trovato Antiloco, fra le anime che vagavano nell’Ade. Poche righe ne raccontavano la storia, a posteriori. La morte, infatti, lo aveva portato via giovanissimo, prima della conquista di Troia e prima della morte dell’amico colpito al tallone. E tuttavia – si scopriva – prima di morire aveva fatto in tempo a sostituire nel cuore di Achille il ricordo di Patroclo, al punto di meritare un posto nella sua urna, l’urna di Achille, l’urna dove erano stipate le ossa di Patroclo in attesa di quelle di Achille, urna in cui infine sarebbero rimasti in tre. Dunque il sorriso di Achille raccontava la rinascita dell’amore? In parte sì, in parte, a vedere Antiloco così pieno di vita, Achille comincia a innamorarsene. E però mi accorsi anche che non si esauriva così la mia domanda. C’era altro ancora. Altro che – ormai mi è chiaro – ha a che fare con la competizione sportiva in quanto tale e che infatti dà luce innanzitutto alla potenza di quelle gare indette per superare il dolore del lutto. Non è un caso che il sorriso di Achille non resti un episodio. Esso invece si propaga immediatamente. E mentre le gare si susseguono, questo sorriso si trasforma in riso. Tanto che si ride alla fine della corsa a piedi e si ride durante il lancio del disco e in genere domina un «godimento nel cuore», come dice sublime Omero, un godimento vitale, in cui gli occhi brillano di grazia, la grazia che trionfa quando ci si rende conto di essere ancora vivi e di aver davanti giorni, chissà quanti, da divorare.
Nelle mattine in cui chiusi per la prima di molte volte la lettura impervia e vertiginosa dell’Iliade, io ebbi l’impressione di capire sullo sport quel che poi mi è parso chiaro anche se oggi certi deliri dei nostri tempi fanno di tutto per farcelo dimenticare. Lo sport è nato e vive per esaltare un aspetto della nostra natura che è il desiderio di vincere e di prevalere, un desiderio che nello sport è pacifico e che nella guerra invece è mortifero. Ora, quel desiderio così pieno di vita che risuona in ruggiti, fuori dal campo di morte della guerra non è altro che un desiderio in cui la morte viene sconfitta e momentaneamente battuta. L’agone sportivo rappresenta dunque la vittoria del vitalismo umano contro la morte che tutto porta via. Una vittoria di grazia e bellezza. La spinta a farci correre sul mondo, sorridendo davanti all’aria che mangiamo, mentre ci sogniamo immortali.