ARTICOLO n. 65 / 2025

KUBRICK E GLI SCACCHI

di che cosa parliamo quando parliamo di sport

Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndr) perché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato. Trovi tutti gli articoli della serie qui.

Una danza leggera e spettarle su di un pavimento a scacchiera è l’immagine forse più dirompente del gioco degli scacchi in un film di Stanley Kubrick. Stiamo ovviamente parlando della sequenza di Orizzonti di gloria in cui due ufficiali dell’alto comando stanno “soavemente” decidendo della vita di diversi soldati al fronte. Ma facciamo un passo indietro. Stanley Kubrick e gli scacchi. Innanzitutto si tratta di testimoniare una passione. Kubrick era davvero un giocatore particolarmente abile e appassionato. Le cronache riportano diversi ricordi sul set a proposito di interminabili partite a scacchi (sul set di Shining con l’attore Tony Burton e su quello de Il dottor Stranamore. Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba con George C. Scott, per esempio).

Potremmo quindi inserire la scacchiera di Orizzonti all’interno di una visione d’autore, nel momento in cui l’autore è l’uomo di cinema che cura la regia come forma d’arte personale proponendo all’interno della sua filmografia i propri temi, la propria visione del mondo e, di conseguenza, le proprie ossessioni. Delle vere e proprie firme che distillano una sorta di precipitato autoriale come le famigerate apparizioni di Alfred Hitchcock. Ma nel caso degli scacchi nel cinema di Kubrick c’è qualcosa di più. Questo ritornare ossessivo degli scacchi e delle scacchiere si ammanta di ben altro. Si configura come una chiave di lettura privilegiata della sua personale visione del mondo. Intanto come lezione di vita e di regia (come se le due cose si potessero separare in Kubrick!). Famosa la sua esternazione per cui “persino i massimi maestri internazionali di scacchi, per quanto a fondo analizzino una mossa, raramente possono prevedere come andrà a finire una partita. Così le loro decisioni si basano in parte sull’intuito”.

Gli scacchi come regno della logica e allo stesso tempo dell’istinto. Come luogo privilegiato in cui allenarsi alla disciplina così come all’emergenza. L’aneddotica kubrickiana (a dire il vero sempre piuttosto vivace e non sempre rispondente al vero) tramanda di diverse pause di lavorazione imposte per trovare risposta a problemi o a difficoltà varie e riempite di lunghe partite a scacchi (addirittura durante la lavorazione di Stranamore si parla di una intera giornata passata da Kubrick a sfidare chiunque avesse voglia di confrontarsi con lui davanti a una scacchiera). Ma oltre ad una lezione di vita gli scacchi rappresentano anche una particolare visione del mondo. Della storia, della cultura. Dei rapporti individuali e sociali, con particolare attenzione ai gruppi intimi, famigliari e non, che si disintegrano.

Ma ritorniamo allora alla scacchiera, evidente metafora della guerra, della contrapposizione di eserciti e di figure di potere che definiscono (o difendono) il proprio potere attraverso l’occupazione o la difesa di territori. La guerra come macabra metafora dell’intelligenza umana applicata, con ingegno, alla sopraffazione e alla violenza. Gli sacchi evidenziano così l’ingegno dedito alla strategia, alla tattica. Ecco che in questo modo gli scacchi assumono un ruolo centrale nella visione del mondo di Kubrick che potrebbe essere semplicisticamente descritta come l’implosione tra la fede illuministica e razionale dell’uomo moderno e la sua ineluttabile radice animale.

Il galante gioco dei due ufficiali diviene così l’icona emblematica che si propone come chiave privilegiata di lettura critica, di esegesi autoriale kubrickiana. E quindi la sublimazione dell’orrore della guerra. Il contraltare infatti sono quei terribili piani sequenza che seguono il protagonista nelle viscere tremebonde delle trincee della prima linea. E lo stesso dicasi per le scacchiere che appaiono in Rapina a mano armata e che rimandano alla precisa strategia per articolare il progetto della rapina (che poi si risolve in un vero e proprio “scacco matto” inaspettato). In Orizzonti di gloria, oltre al già citato “balletto”, c’è anche il processo farsa che porterà alla fucilazione alcuni soldati innocenti e che si compie su di un pavimento scacchiera spesso inquadrato dall’alto, sia per evidenziare l’assurda trama ludica che per stigmatizzare l’inesorabile finale del processo. E ancora i diversi pavimenti a scacchiera di Arancia meccanica; la partita tra i due coniugi in Lolita, interrotta (certo non casualmente) da un breve e “innocente” bacio della buona notte dall’adolescente Lolita.

Gli scacchi in Kubrick rappresentano così lo spirito cartesiano e la successiva (e conseguente) stagione dell’Illuminismo e, in questo senso, vanno di pari passo con un’altra ossessione d’autore, e cioè i continui riferimenti al ‘700, il secolo dei lumi. Eppure dietro alla celebrazione del potere laico e razionale dell’uomo che il ‘700 esplora e definisce (con il conseguente sviluppo della classe borghese e capitalista) ecco che riappare la guerra, l’animale sopraffattore.

Da questo punto di vista è 2001: Odissea nello spazio a segnare il punto più alto della sua riflessione. L’uomo che nasce animale e che sviluppa il proprio pensiero e il dominio sul reale attraverso la tecnica (che inevitabilmente nasce come arma). Con un salto temporale quasi da capogiro ecco che l’uomo-scimmia, che affronta un mondo duro e violento che domina con la tecnica, viene trasportato al 2001, verso un futuro dominato dalla tecnologia. Così dominato dalla tecnologia che la prima immagine che ci colpisce è proprio una partita a scacchi molto particolare, quella tra un astronauta in viaggio verso Giove e una intelligenza artificiale, Hal 9000.

Da notare come gli scacchi siano il campo di applicazione privilegiato degli studi sui computer e sull’intelligenza artificiale. Li citano Alan Turing, John von Neumann, Norbert Wiener, tra gli altri. Quel quadrato suddiviso in porzioni, anch’esse a loro volta quadrate, risponde a un modello geometrico puro e allo stesso tempo permette una così ampia mole di posizioni e azioni da divenire territorio efficace di un’analisi logico-matematica complessa. Così come gli automi cellulari d’altronde. Un campo perfetto su cui un’IA possa allenarsi e confrontarsi. Ricordiamo come già nel 1996 Deep Blue fosse riuscito nell’impresa di battere l’allora campione di scacchi Garry Kasparov.

Qui Kubrick coglie perfettamente una logica che è lo iato tra un’utopia razionalistica, che pure offre risultati incredibili quanto tangibili portando l’essere umano ai limiti dell’universo, ma che si risolve anche nel suo contrario facendolo ripiombare in una dimensione ferina che si compie, prima con l’omicidio da parte di Hal di un astronauta, e infine con la morte della stessa IA. “Uccisa” dall’astronauta sopravvissuto attraverso un intervento ingegneristico sulla RAM estraendo moduli di memoria uno alla volta. Ritroveremo il sopravvissuto in una dimensione spazio-temporale nuova e impensabile, in una stanza disseminata di pezzi di arredamento riconducibili al ‘700, con un pavimento – guarda caso – a scacchiera.

ARTICOLO n. 66 / 2025