ARTICOLO n. 62 / 2025
GILLES DELEUZE E IL TENNIS
di cosa parliamo quando parliamo di sport
Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndr) perché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato. Trovi tutti gli articoli della serie qui.
Il filosofo francese Gilles Deleuze, di cui quest’anno ricorre l’anniversario di nascita (1925) e quello della scomparsa (1995), parlava di sport. Il tennis, per esempio. Le sue osservazioni sulla prima rivalità della società dello spettacolo integrata a livello mondiale, quella tra lo svedese Björn Borg e l’americano John McEnroe, in alternativa Jimmy Connors, possono essere lette come un antefatto alla Sinner-mania oggi in Italia. Come si diventa un paese di tennisti? Leggiamo Deleuze.
Borg ha inventato lo stile “proletario”, McEnroe ha creato la postura “egiziana”. Borg, anche fisicamente, è il Cristo dei tennisti. McEnroe, aggiungerei, era il Clown. Borg ha creato un «particolare stile di tennis di massa»: «Posizione in fondo al campo, il più lontano possibile, torsione sul posto e posizionamento della palla in alto sopra la rete». Questo nuovo principio proletario («a fondo campo, torsione, palla alta») inventò virtualmente un nuovo gioco che chiunque poteva capire e che molti potevano seguire. A questo principio proletario si contrapponeva lo stile aristocratico di McEnroe, «che inventava mosse che sapeva nessuno avrebbe potuto seguire», «una mossa che consisteva nel piazzare la palla, molto strana, senza nemmeno colpirla, solo piazzandola». E poi c’era Jimmy Connors: «Palla piatta appena sopra la rete, un principio aristocratico molto strano, e anche colpire mentre si è sbilanciati». Sembrerebbe che lo stile proletario sia quello di stare indietro, tenere la linea di fondo, colpire forte e alto (persistenza e forza), mentre lo stile aristocratico è quello di padroneggiare le posizioni precarie e il posizionamento misurato delle mosse (astuzia).
Il primo stile sembra essere più facilmente adottabile e imitabile, il secondo meno. La qualità proletaria e quella aristocratica però si attraversano. Il tennista non resta a fondo campo, né svolazza a filo di rete. E basta. C’è una prevalenza dell’una sull’altra, ma poi si mescolano nel gioco. Borg e McEnroe, e non solo loro in fondo, creano nella situazione, in base alla velocità e alla lentezza della palla. Bisogna seguire le sue traiettorie, quelle creano le posizioni. Non viceversa. Il tennis è un atto di creazione. Il gioco è una forma del pensiero. La vita sono le traiettorie che si giocano in un incontro.
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Nello sport Deleuze cercava il gioco. Vecchi sport come il ciclismo, il calcio o il calcetto, il tiro a segno. Nuovi sport come il surf, il windsurf, il deltaplano. Lo sport non ha un’essenza fissa su cui riflettere, ha una storia e un “divenire”. Non andrebbe trattato solo come competizione, ma pensato in relazione a un atletismo, cioè al fatto che pensare è un esercizio e l’esercizio è una forma del pensiero.
Il surf, per esempio. Lo hanno inteso come metafora della società, come una gara olimpica, status symbol o anche come il surfista di Malibu che prende un reddito di base. Per Deleuze è diverso. Il surfer è un “personaggio concettuale”. Il suo movimento tra le onde consiste nello scivolare sulle energie della natura invece di correre, saltare, tuffarsi. Il surfista può tornare dal mare con gli occhi iniettati di sangue per quello che ha provato affrontando le onde. Prendere un’onda può anche essere come lanciare i dadi.
Il gioco dei dadi è importante per Deleuze. Antiche sono le origini di questo gioco. I dadi più antichi sono stati trovati in Mesopotamia. Per Sofocle si giocava a dadi nelle pause della guerra di Troia. Per il poeta francese Mallarmé un gioco a dadi non abolirà il caso. Semmai lo istituisce volta per volta, lancio dopo lancio, ha osservato Deleuze. Nel gioco si esercita l’umorismo. Deleuze può essere divertente quando scrive, e quando parla. Per chi ha passione, consiglio di leggere/ascoltare le sue lezioni.
Prendiamo un argomento serissimo per i filosofi: l’ontologia. Oggi è una scolastica postmoderna usata per parlare di cellulari o di Antropocene. Se non parli di ontologia, non sei nessuno. E se invece facessimo una partita a dadi? A ogni lancio, ecco un nuovo “Essere” e un altro “Divenire”. Questo è l’umorismo: il Fondamento che si cerca, così come la sua mancanza, sono un colpo di dadi. Ciò che conta non è tanto il risultato, l’essere o il fondamento o l’assenza, ma la ripetizione del lancio. Ciò che conta per Deleuze è la differenza tra l’uno e l’altro. La differenza in quanto tale.
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A pensarci bene è la differenza che attrae quando emerge nello sport. Cosa fa la differenza? Lo stile, quando cioè la differenza si organizza per continuare a fare la differenza. Sta qui il suo problema: non si può chiedere a qualcuno di fare sempre una differenza. Ma lo stile resta.
I cambiamenti di stile sono un’invenzione degli atleti. Deleuze li ha chiamati “trasformazioni qualitative”. Mentre i “progressi quantitativi” sono i modi in cui vengono battuti i record. Gli inventori di nuovi stili sono “mediatori qualitativi”. E non sono le stesse persone che diventano “campioni quantitativi”. Ovviamente possono coincidere. Creare uno stile non significa solo inventare nuove mosse, ma creare “una serie collegata di posture fisiche”. Gli stili emergono pubblicamente quando gli atleti hanno successo. E sono riproducibili anche su vasta scala. E ciò vale anche per tutta la vita.
Deleuze ha visto nello sport il momento in cui emerge una qualità singolare, non riducibile a una proprietà di qualcuno (i “campioni”). Sono i tennisti, i surfisti, i giocatori di bocce a esprimere una qualità che si produrrà ovunque. Il problema è: come si mette ciascuno nelle condizioni di fare nello stesso modo?
È un problema di democrazia. La genealogia di Deleuze e di Guattari in Che cos’è la filosofia (l’ultimo libro scritto insieme da questa formidabile coppia di amici filosofi che si sono sempre dati del “Voi”) è interessante. Anche loro sono tornati nelle città greche alla ricerca della democrazia. Si sono fermati all’agone (agôn), lì dove si esprime la rivalità tra i pretendenti all’oggetto desiderato. Questi “pretendenti” sono “uomini liberi” che “competono”. Alla fine la democrazia è “un atletismo generalizzato”. Così come la democrazia che ha preteso di darle una forma ed è rimasta spesso prigioniera nei suoi limiti aristocratici. In fondo anche il filosofo è un atleta. Deve superare i propri limiti. Per questo il filosofo è l’“amico” o “amante” (philos) della saggezza (sophia), quella di chi impara a correre resistendo alla fatica, quella dell’esausto che impara ad affrontare il proprio esaurimento. Il pensiero, in fondo, è una questione di allenamento, esercizio, sperimentazione. Così potrebbe essere anche la vita.
La democrazia, lo sappiamo in Italia dopo il referendum dell’8 e 9 giugno 2025, esclude chi non è “libero”, cioè chi non ha la cittadinanza. Nell’antica Grecia erano esclusi gli “schiavi”, e così anche le donne e chi fisicamente e mentalmente non era capace, o non era giudicato esserlo. Ma questa divisione non è definitiva, è interna alla stessa definizione di democrazia.
Deleuze e Guattari dicono: pensiamo l’agone, cioè l’agonismo che si esprime anche nella lotta politica, a partire da chi non ha la lingua, da chi balbetta perché non ha le basi per parlare una lingua straniera, oppure parlare la lingua del paese come una lingua straniera. Esercizio di umorismo: togliere serietà all’idea di maggioranza. Dentro la maggioranza non c’è “nessuno”.
Nessuno, in francese, si dice anche Personne. Dunque, si dice anche persona. Insomma, dentro una persona non c’è nessuno, ma questo nessuno è popolato da moltitudini. Siamo tutti minoranze, possiamo in compenso formare “blocchi di alleanze” per uscire dalla minorità. Anche le maggioranze ne sono ostaggio. Il gioco della politica è tremendamente serio, non lo si fa per sport. Anche se, in fondo, lo sport ha preso la forma di questo agone.