ARTICOLO n. 58 / 2025

“FUNERALOPOLIS”, INVOCANDO LA TEMPESTA

In collaborazione con I Wonder Pictures pubblichiamo un testo di Jonathan Bazzi su Funeralopolis che sarà in sala al Cinema Beltrade di Milano venerdì 11 luglio alle ore 21:40, alla presenza del regista Alessandro Redaelli e del co-autore Ruggero Melis

Vash e Felce sono due amici della periferia milanese come tanti altri, solo che si fanno di eroina. Funeralopolis, documentario miliare del cinema indipendente italiano, uscito nel 2017 e rimasto incagliato nei pensieri di tanti, potrebbe essere presentato così, ma farlo sarebbe, in realtà, impreciso e soprattutto rischioso.Perché le definizioni flirtano spesso con gli stereotipi e le immagini depositate nel sentire comune, mentre l’esordio di Alessandro Redaelli riesce in un movimento che si rivela opposto. Nel degrado c’è tenerezza, nell’autodistruzione fisica e mentale non smette di brillare la vita: non c’è giudizio, in questo anno e mezzo di riprese in bianco e nero, accumulate tra le case e le strade di una Milano nettuniana, residuale, psicotropa e pazza. Una città inesistente, sebbene urlante, dato che non accede alla rappresentazione ufficiale, non produce discorso. Una città negata, che a tratti sembra un altro pianeta, o la faccia in ombra dello stesso corpo celeste, perché entra in cortocircuito con la frenesia performativa, nemesi della svettanza immobiliare e finanziaria che tutto sta fagocitando.

Bresso, Sesto, Rogoredo, il Cimitero Monumentale – meta illegale delle meditazioni notturne dei due protagonisti – e una serie di appartamenti (spesso occupati) di cui nessuno sa, dove, per salvarsi, ci si avvelena. In Funeralopolis non c’è messaggio, monito, e neppure compiacimento. In questa storia di corpi che si fanno di tutto, c’è esattamente solo quello che c’è: proprio quest’adesione totale, questa camera che è solo occhio, registrazione di stordimenti, esaltazioni e non detti, permette inversioni e ribaltamenti. Ciò che sulla carta sarebbe (solo) estremo, disturbante, rivela di continuo altro: l’anomalia del balordo/tossico/reietto viene usata di solito per tenere a distanza, delimitare e allontanare da noi la devianza, questo film ha la sua mossa segreta nel far vedere invece che, se ci si sosta, nello stereotipo, se si ha modo di trascorrerci del tempo, in queste vite da scansare e maledire, succedono cose. Buffe, delicate, epiche, che non ti aspetti. Ed è un metodo applicabile ovunque, valido sempre.

In tutto questo infilarsi aghi nelle braccia e nel collo, tagliarsi, fumare qualsiasi cosa, pippare, vomitare, sfondare crani con mazze da baseball e approssimarsi all’arresto cardiaco, ci si appassiona a volti che non vorremmo mai fossero i nostri (né vorremmo trovarci davanti). Ci si appassiona e inquieta per l’autolesionismo di tipi umani che nella vita, specie se veniamo dai margini, abbiamo evitato, temuto – i maschi tirati e cattivi che ci hanno più volte fatto cambiare marciapiede o fingere telefonate. Ma anche ci si commuove e immedesima: innamorati, finiamo per scoprirci fratelli dei nostri presunti nemici. In questa storia di droga e disperazione qui e là scoccano scintille: l’arte, se è tale, forse finisce sempre per comporre, rammendare. Anche, e anzi soprattutto, quando è respingente. Quando racconta, da vicino, qualcuno che sta dall’altra parte. Che tipo di esperienza è quella che porta a provare tenerezza per le stesse cose che odi? Estetica, conoscitiva, liberatoria, fatale: sono felici, credo, i progetti narrativi che lasciano a ciascuno il compito di definirli.

Felce e Vash stanno sempre insieme, anche se molto diversi: uno trentenne, laureato in architettura, introspettivo, alle prese con il fantasma del padre e il sogno di vivere nei boschi; l’altro più giovane e con la terza media, istrionico e vagamente satanista. A unirli c’è la passione per il rap horrorcore e le sostanze, ma soprattutto c’è il bisogno di altro, di altrove. Un’inquietudine che ha il senso di una ricerca dai mezzi discutibili e scapestrati, uno stare sotto al cielo ammucchiando risposte in modo caotico e masochista, in assenza di stelle comete. Nei discorsi tra una pera e l’altra Felce e Vash parlano di morte e ruota del karma, paleo-cristianesimo, vite passate e ritorno alla natura: tutto viene dissacrato e, per questo, riportato in vita.

«Certo che Dio non esiste, noi siamo qui abbandonati da soli»: nel gesto assurdo e autodistruttivo di questi due ragazzi qualunque, che hanno tante energie ma nessun buon motivo per contenerle, s’infiammano intuizioni sulla differenza tra il bene e il male, il potere e i suoi abusi, la possibilità della cura. Il titolo del documentario, tra l’altro, oltre a collegarsi alla suggestiva scena dell’incursione di notte tra i loculi del Monumentale, è anche quello di un brano di Vashish prodotto da Felce, in cui a un certo punto il testo recita: «Sono l’autoritratto dei mali che ha fatto la società, il mondo brucia e io con lui, spero non ti offendi se appicco incendi, serve luce nei tempi bui».

«Se sei merda o felice, è solo questione di risposta agli input esterni», dice Felce in una delle scene del film, mentre fuma in strada. «Avevo otto anni e gli occhiali da vista nuovi», continua. Pagati quattrocentomila lire, la madre passa il giorno a raccomandarsi di trattarli bene. «Quando si giocava a calcio dicevo sempre agli altri bambini: state attenti, non tiratemi le pallonate in faccia». Alain, dodici anni, più grande, lo fa apposta: gli occhiali cadono e si rigano: «Avevano tre giorni di vita. L’ho buttato a terra, ho preso un sasso e ho iniziato a darglielo in faccia. Alla fine aveva il naso tutto storto da un lato: i genitori in una settimana hanno cambiato casa». E continua: «Ovviamente quando sono tornato a casa mia madre me le ha date: questo circolo vizioso della vita è così. Te le danno e tu le dai a qualcun altro». Infine Vash chiude: «Da bambino vuoi essere in pace con tutti, quando questo ti è negato dentro ti cresce un rancore della madonna». Tutto giusto e insieme tutto sbagliato: non si dice mai che le dipendenze e la sofferenza psichica hanno spesso a che fare con un eccesso di vita e consapevolezza, non con la loro mancanza. 

Una volta finito di vedere il film ho avuto l’impulso di superare il ruolo di semplice spettatore: volevo sapere che ne è stato di Felce e Vash. Ho pensato di scrivere al regista, che ho conosciuto, nel 2021, sul set di Positivə, progetto che racconta l’esperienza di chi convive, oggi, con la diagnosi dell’HIV. Ma avevo paura di imbattermi in qualcosa di tragico e irrecuperabile, di andarmi a cercare a forza un finale spietato per la storia rimasta in sospeso. Il martirio raccontato senza filtri dal film, pensavo, non è sostenibile a lungo: a dieci anni dalle riprese non mi sarei stupito se fossero morti entrambi. 

Quasi senza volerlo poi sono finito sui loro profili Instagram: Vash ha postato fino a pochi giorni fa. Sembra si dedichi intensamente alla musica, anche se non più insieme all’amico. Dalle foto sembra anche aver preso qualche chilo, dettaglio che tra me e me ho collegato a un rinnovato istinto di autoconservazione, alla possibilità che si sia dato la famigerata calmata. Felce, che alla fine del film mette in pratica il suo progetto e si inoltra, torso nudo e fucile, nel bosco, ha invece il profilo privato. Non ho trovato da nessuna parte tracce recenti di sue attività online. La bio recita: «Trasformista visionario. Amante del presente. Alle spalle, terra bruciata. Innanzi, dei germogli danzano al vento, invocando la tempesta che verrà».

ARTICOLO n. 57 / 2025