ARTICOLO n. 64 / 2025
Di Giacomo Papi
CARMELO BENE E LO SPORT
Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndr) perché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato. Trovi tutti gli articoli della serie qui.
Esiste un video in bianco e nero in cui Carmelo Bene, in camicia di jeans sbottonata sul petto, cerca di delucidare la propria predilezione per Buster Keaton tra i comici mai nati e vissuti: «La realtà non esiste, o almeno non esiste come noi… quindi noi siamo l’unica realtà su una Terra che immaginandola sferica, colombiana, rotonda si è completamente unta di sapone e si scivola si scivola si scivola continuamente, e in qualche momento uno può fare anche qualche et voilà in equilibrio e questo Keaton lo fa, ogni tanto riesce a stare in piedi e tutto sta in piedi, e secondo te è bravura? Acché? Acché? Acché?».
Il grande attore e il grande comico, insomma, per Bene è qualcuno che riesce a tenere magicamente in equilibrio il proprio corpo su un mondo afflitto dalla gravità ma in perenne movimento, scrollato di continuo da raffiche di vento, cavalloni altissimi, scosse telluriche e leggi fisiche che ne minacciano la stabilità, e soprattutto fatto a forma di palla, cioè del solido più sfuggente, fluttuante, rimbalzante concepito dal Dio della geometria. È qualcuno, cioè, in grado di scrollarsi di dosso, grazie alla sua agilità, le costrizioni dello spazio e del tempo e ad annullare la massa, la cui formula, come si sa, è f/a, forza fratto accelerazione che a sua volta è una funzione della velocità, v=s/t, spazio fratto tempo, appunto. La mia ipotesi, dunque, è che questo coacervo concretissimo e astratto, misurabile e sfuggente, sia alla base dell’incontrovertibile e misteriosissimo amore che Carmelo Bene aveva per lo sport.
Il giornalista Giancarlo Dotto, che condivise la passione sportiva di Carmelo Bene, lo descrive in tuta azzurro turchino, zoccoli neri e una gitane senza filtro in bocca nella sua casa di via Aventina a Roma a strafarsi di boxe, sci alpino e di fondo, salto con l’asta, tennis, basket e calcio, ovviamente, in un’epoca in cui peraltro Internet e le tv tematiche non offrivano ancora l’onnipotenza della visione h/24. A corroborare la testimonianza di Dotto, ci sono altre innumerevoli tracce tra le quali citiamo: il libro-conversazione con enrico ghezzi (si firmava in minuscolo) Discorso su due piedi/il calcio (1998); il libro In ginocchio da te (2022) che raccoglie la rubrica Ripensandoci Bene uscita su Il Messaggero (1982-1985: la crisi arrivò quando Bene dichiarò che lo Stock’84 era disgustoso); le comparsate al Processo del lunedì di Aldo Biscardi; la disfida in Campidoglio con Gianni Brera sulla superiorità del gioco a zona rispetto a quello a uomo (1984); l’intervista a Vittorio Sermonti su l’Unità in cui chiese che ai mondiali di Spagna ci andasse tutto il Bari «tutt’al più con Castellini in porta» (1982), quella su Panta a Sandro Veronesi in cui si celebrano le gesta e il genio di Paulo Roberto Falcão (1998) e altri irrecuperati “scritti” su Tele+ (1997). Nonostante questo profluvio di parole, la sua teoria dello sport rimane avvolta da un fitto mistero, dovuto certo al suo istrionismo e al programmatico sabotaggio del principio di non contraddizione, ma anche, va detto, alla difficoltà intriseca della medesima.
Per chiarirla converrà accantonare per un attimo Buster Keaton in equilibrio su un mondo “unto di sapone” – “si scivola si scivola si scivola” – e partire, invece, da quel che sappiamo per certo sulle predilezioni e avversioni sportive di Carmelo Bene (le citazioni sono tratte alla rinfusa dai libri e interviste citate):
- «In principio era la boxe. I suoi rudimenti riecheggiano in ogni altro sport. Nella scherma e perfino nell’automobilismo»;
- Ray Sugar Leonard. «La sottrazione del corpo con Leonard arriva ai suoi vertici; Duran si va ancora lambiccando. Gli avevano assicurato che il suo avversario era sul ring. Non l’ha mai trovato. Le sue “mani di pietra” sbattendo contro il nulla si sono fatte male»;
- Cassius Clay «inventa un balletto da non confondere con quello del danceur Joe Louis, fantasista e stilista dal gesto leggiadro. Clay inventa l’essere ovunque, come il barocco inventa un policentrismo»;
- L’Italia del 1982 allenata da Bearzot è una delle squadre più detestabili della storia, un manifesto dell’anticalcio (con particolare riferimento a Claudio Gentile);
- «La marcatura a uomo è volgare. Si usava nelle tribù antropofaghe. La caccia all’uomo di certi nostrani terzini degenera, in non troppo dissimili mischie, bollori di femori, frattaglie, cosci, unghioni e chiappe».
(E ancora: «La marcatura a uomo esige a bordo campo uno staff di medici, infermieri, barelle, cani da guardia»);
- Il Brasile del 1982 allenato da Telê Santana è la più grande squadra di ogni tempo (Formazione: Valdir Peres, Leandro, Oscar, Luizinho o Paulo Isidoro, Júnior, Falcão, Sócrates, Cerezo, Sergihno, Zico, Éder);
- Paulo Roberto Falcão è «il più grande giocatore senza palla» che «equivale al giocatore senza mondo». «In quanto artista è al di sopra di qualsiasi giudizio»… «e allora si vide Paulo Roberto lungo la linea dell’ombra che traversava il campo, correndo verso la propria porta… Guarda caso, appena arrivato, un attaccante dell’Udinese fece un tiro, il portiere della Roma respinse, Edinho ribatté veramente di brutto e tirò una staffilata da sei o sette metri: Falcão gliela ribatté sulla linea, al centro della porta. Tac, così. Ecco dove stava correndo… Bisogna “prevedere”, non “vedere”. La “visione di gioco” è una balla, l’importante è la “previsione di gioco”»;
- Toninho Cerezo è «il più grande portatore di palla del mondo»;
- «La zona è gioco del sesto senso: né palla, né avversario, né dribbling»
(E ancora, «è l’assenza del gioco del calcio»: «Quando due squadre giocano a “zona” l’una è l’immagine allo specchio dell’altra. Non s’incontrano né si scontrano mai. Ognuna gioca di suo. Nella “zona” sono ventidue che giocano insieme. Nel “dribbling” sono undici contro undici»);
- Le partite si vedono allo stadio: «Lì soltanto hai la visione del fuorigioco, se una squadra è lunga o corta, se è un 4-4-2, un 4-5-1… Vedi tutti i fuorigioco, le chiamate che faceva Franco Baresi. “Qua!” “Föra!” “Dentro!” «Drio!”. La televisione segue la palla, invece. Tu della partita non vedi assolutamente niente»;
- Crujjff «era uno che giocava con la palla, senza palla, bendato», «l’inventore del calcio olandese»;
- «Van Basten, per me, è uno dei due, tre più grandi di ogni tempo». «Mandava a lambire il palo perché si tira così». «Era uno che più che giocare era giocato». «Se dovessimo citare, a parte Romario, un giocatore che da sé era un’orchestra direi Marco Van Basten» (Bene si offrì perfino di donare la propria cartilagine per salvare la caviglia del suo prediletto);
- Romario. «È il più grande perché è capace di una cosa: del quid che più conta: l’immediato». «Da che frequento il calcio l’ho visto solo con Romario». «Una specie di flagranza di lampo». «Nemmeno gli avversari la vedono, la palla, con Romario».
- Gianni Rivera gioca in «un altrove»;
- Il Nobel della letteratura a Dario Fo è «assurdo, è meglio Platini».
- Pelè e Maradona pervenuti appena appena.
- «Borg, per me, è il tennis»;
- «Edberg, per me, è il tennis»;
- Bubka il salto con l’asta;
- Bjorn Daehlie lo sci di fondo;
- Ingmar Stenmark quello alpino;
- Daley Thompson il decathlon.
Estrarre da questo elenco un denominatore comune non è facilissimo, ma il tono perentorio lascia pensare che Carmelo Bene attribuisse a sé stesso una visione organica dello sport. E se si guarda meglio, infatti, ci si accorge che tutto cospira verso la leggerezza e la sparizione, verso “la sottrazione del corpo” (Ray Sugar Leonard), il super-potere di diventare invisibili grazie alla previsione di gioco (Falcão) o alla fulminea velocità (Romario), alla rovesciata improvvisa che nasconde la palla al portiere (Van Basten) o alla capacità di tramutare la propria apparente, allampanata lentezza in fulmineità (Cruijff) o in una volée (Edberg).
Lo sport, per Bene, è gioco, ma il gioco è un simbolo del mondo poiché condivide qualcosa di profondo con l’arte, dunque con il senso stesso del bello e della vita: la possibilità di estrarre dal flusso del tempo e dalla gabbia dello spazio l’eternità istantanea del gesto grazie a cui all’improvviso, e solo per un attimo, qualcosa può apparire libero dal fardello del qui e ora, del prima e del poi, per diventare sublime. Era questa apparizione dell’eterno che Carmelo Bene cercava nello sport, come nel teatro, l’attimo perfetto in cui tecnica e natura, scomparsa e apparizione coincidono nella luce dell’essere.
In Carmelo Bene la singolarità abolisce l’individualità, anzi l’abolizione dell’individualità – come nel gioco a zona – è la condizione stessa dall’apparizione del gesto del genio. Per questo Bene nutriva nei confronti del dribbling sentimenti ambigui: se da una parte «il dribbling è evasione dal corpo» e «i corpi dei dribblomani, palla al piede, si sottraggono alla vista, diventano scheletri senza peso, libellule malvage, scherzi crudeli, evasioni leggiadre dalla duplice bestiaccia che li minaccia, il corpo dell’avversario e il proprio», questa invisibilità e sottrazione si attua nell’uno contro uno, cioè nel confronto individuale, che è sempre un po’ volgare. Il dribblomane, insomma, non dimentica mai sé stesso, men che meno la palla, non si sottrae mai al mondo, a quella Terra su cui altrimenti non si può che scivolare rompendosi le corna. Non gioca mai in un «altrove», come Falcão, Cruijff, Van Basten o, come oggi, mi sia permesso di dirlo, a volte, Leão.
Per questo, infine, Carmelo Bene aveva a noia il risultato: i numeri, simbolizzati dai gol, dai set, dai tempi, dai record, affermano la singolarità, sono la negazione stessa della possibilità del continuum. Per questo sfotteva il tatticismo ideologico e sparagnino di Gianni Brera che di bello nello sport sapeva scorgere solo il risultato. La sua sagacia merita di essere riportata (quasi) per intero: «Perché il gioco (come “simbolo del mondo”) l’annoia tanto, se il Suo pennino tardo scapigliato ha addirittura consacrato un’idea del non-gioco, del contro-gioco. Ella ha fondato una Critica della pazzia pura, secondo cui contro il “ferro” terribile d’inimici invincibili, è necessità-virtù il disapprender confidenza con la sfera, sicché quegli avversari, così sgomenti d’incrociar le gambe con malcapitati ciclisti, abbiano a suicidarsi sulla griglia rugginosa delle nostre difese. Ella è dunque il teorico edipico del calcio criminale, dell’attentato “a uomo”, la Sua teoria ha mietuto vittime innumeri; e così negli stadi ci si annoia molto di più che all’università».
Per questo, credo, Carmelo Bene detestava anche il tifo e i tifosi. La ragione, sospetto, è la stessa: il tifo si nutre di risultati e di scontri singoli, di uno contro uno, mentre a Carmelo Bene interessava il concerto delle forze, l’orchestra, l’insieme: «Io tifo sempre per chi gioca meglio, per chi fa succedere qualcosa in quell’ora e mezza. Tifo, poi… Mi infastidisce la parola. Capisco il tifo del bambino: dopo, chi meno è cresciuto – o forse chi è cresciuto meglio – si porta dietro quell’amore strano per cosa mai vista, e sentita raccontare da Nicolò Carosio. E capisco il tifo indigeno: la squadra della tua città ti piace, perché ci giocano quelli della tua città: la Pro Vercelli, l’Ambrosiana Inter, oggi più o meno il Bari. Sennò che te ne frega? Un anno Collovati è l’uomo di Dio, l’anno dopo passa all’Udinese e tu lo fischi… Vuol dire che sei un imbecille. Odio quel tifo lì, fra giovanotti, per la rissa, fanno fumi colorati, guardano indietro. Poi ne riparlano tutta la settimana, in gergo, parlando parole sputate da altri. La loro lingua è chewing-gum usato. Causa efficiente del nostro cattivo calcio è, a mio avviso, l’assenza della lingua italiana. Ma su questo ci sarebbe da fare un paio di volumi. Hai sonno. Ciao».
Per noi comuni mortali è forse questo il mistero più grande: non si è mai capito per che squadra tifasse, nel segreto del cuore, se riuscisse davvero a essere così apollinicamente imparziale come diceva, lui, così dionisiaco. Il suo sarebbe in tal caso l’unico caso al mondo di fanatico sciolto, di fondamentalista senza fondamento, di ultras senza squadra. Quel che si sa è che nel marzo 1983 al Teatro Quirino di Roma pretese che tutta la Roma, Liedholm compreso, assistesse al suo Macbeth e che nel 1996 al Teatro Nazionale di Milano disse agli organizzatori di fare venire il Milan per Hamlet Suite, ma si presentò solo Filippo Galli. Eppure… eppure… c’è un’altra certezza, che potremmo estrarre dai suoi profluvi e mettere a chiosa – e a chiusa – dell’elenco da cui siamo ripartiti. È preziosa, ma quasi invisibile. La si trova, en passant, nel libro–conversazione con enrico ghezzi (e.g.). Ma non ci si illuda: non è la sua squadra del cuore, che rimarrà per sempre inviolabile. È la squadra per cui, nonostante tutto il suo odio per il risultato e gli schieramenti, Carmelo Bene nutriva un’umanissima antipatia, talmente viscerale da contraddire la sua stessa teoria:
«e.g. – Ho visto, sentendo e leggendo i tuoi scritti per Tele+, che sei mirabilmente ondi-vago. Prima: “La Roma è l’unica mirabile squadra”. Poi: “Unica squadra italiana, il Parma”. Dopo quindici giorni: “Si può guardare solo l’Inter”…
C.B. – No, l’Inter mai, la detesto».