ARTICOLO n. 70 / 2025
NUOTARE DA SCRITTRICI E DA SCRITTORI
di cosa parliamo quando parliamo di sport
Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndr) perché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato. Trovi tutti gli articoli della serie qui.
L’acqua esercita un’attrazione che molti hanno cercato di raccontare. La poetessa canadese Anne Carson ha parlato della «lenta ipnosi di saggezza verso cui nuota il nuotatore» (Antropologia dell’acqua, 1995). Quando si prova per la prima volta il piacere di stare in acqua senza paura vuol dire che si è compiuto il passaggio cruciale dal saper stare a galla e nuotare a uno stato di confidenza: la gioia di liberare energie fisiche e mentali che ciascuno ha dentro di sé, di abbandonarsi al divertimento, a fantasticherie creative. «Siamo fatti di acqua e di tempo …la bellezza è nascosta nell’acqua”, ha scritto il poeta Iosif Brodskij.
Magia del nuoto: appena si immerge il nuotatore resta sospeso nell’elemento liquido come nei sogni. Nei sogni spesso nuotare è volo. Si entra in acqua dimenticando a terra ogni scampolo di realtà: identità, ricordi, immagini, passato e presente. Si diventa acqua nell’acqua. Corpo che si fa acqua, mente che si fa acquatica. Ci vuole talento per arrivare a questo. Il biologo marino americano Wallace J. Nichols ha parlato di Blue Mind (titolo del suo libro, 2018), inventandosi una piccola sfera trasparente color mare per dare forma concreta a una mente acquatica.
Si può imparare molto sulle persone dal modo in cui affrontano l’acqua. Si dice che il nuoto sia adatto agli introversi solitari che macinano vasche su vasche in piscina o chilometri in mare, il corpo interamente concentrato in se stesso, nel respiro, nei movimenti. Per questi nuotatori l’acqua diventa droga, intensa esperienza dei sensi. In acqua non si annoiano, pensano, cantano, meditano («Acqua e meditazione sono sposate per sempre», Melville, Moby Dick, 1851). Se in mare tiene compagnia la grande sinfonia delle profondità, in piscina si può ascoltare musica, per assecondare il ritmo di cuore e respiro: sistole/diastole, espirazione/inspirazione. Non a caso nel nuoto il respiro gioca un ruolo primario come nella meditazione: soffio d’aria in acqua, alito che attraversa le arterie e va a ossigenare la mente. Respiro degli oceani, respiro della terra, respiro degli elementi senza i quali non ci sarebbe vita. Respiro che si fa profondo nella meditazione, nel nuoto che è pensiero.
Entrare in acqua a nuotare è una cerimonia che esige calma, lentezza, preliminari minuziosi, rituali peculiari e ripetitivi.
Gli atleti nuotatori, virtuosi dello stile, ormai assuefatti all’odore indelebile del cloro, amano l’acqua delle piscine. Sono affezionati alla riga nera del fondo vasca che li aiuta a mantenere la direzione corretta, senza sbandare sui galleggianti delle corsie, al punto che taluni temono il passaggio in acque aperte (mari, fiumi, laghi). A meno che non siano avvezzi a competizioni in acque libere, si disorientano quando cercano di tenere gli occhi aperti a guardare i fondali: vedono abissi popolati di pericoli, macchie scure come voragini pronte a inghiottirli. Eppure, nuotare in mare, in acque saline che danno sostegno al corpo, fa una differenza sostanziale.
La storia del nuoto competitivo in acque libere è ricca di protagonisti di imprese memorabili che hanno contribuito alla popolarità di questo sport nel mondo. Personaggi diventati famosi hanno votato interamente al nuoto la propria esistenza: due fra questi, l’americano Johnny Weissmuller (Tarzan) e l’australiana Annette Kellerman, campioni pluripremiati, lasciate le competizioni, sono diventati attori di cinema, di vaudeville, di esibizioni acquatiche. La prima donna ad attraversare il Tamigi e la Manica (1926), l’americana Gertrude Ederle, donna robusta ma dotata di grazia, aveva fatto del nuoto una passione ma soprattutto un progetto di vita. Tuttavia, a quarant’anni si sarebbe ritirata a insegnare nuoto ai bambini sordi, dopo che un’epidemia di morbillo e soprattutto la lunga permanenza in mare l’avevano privata dell’udito. Benjamin Franklin, scrittore, intellettuale, grande uomo politico, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti (il suo volto di Primo Americano ammicca sorridente ancora oggi sulle banconote da 100 dollari, pur non essendo stato Presidente), oltre che grande scienziato benefattore dell’umanità come inventore (parafulmine, illuminazione stradale, stufa), era dotato di energia e creatività inesauribili dal momento che teneva allenati corpo e mente con il nuoto, compiendo esibizioni come l’attraversamento del Tamigi, dando lezione ai giovani, battendosi affinché il nuoto diventasse pratica obbligatoria nelle scuole. Tutti costoro toccarono traguardi d’età ragguardevoli per la loro epoca (Weissmuller 80 anni, Kellerman 88, Ederle 98, Franklin 84) grazie al beneficio che il nuoto esercita sulla salute e sulla costituzione fisica (esemplare il caso della Kellerman, la quale, bambina colpita da poliomielite, riuscì a liberare le gambe da scomodi e dolorosi tutori e irrobustirle).
Se molti di loro seguirono la pratica di corsi di nuoto dopo i primi rudimenti appresi in famiglia, Franklin fu l’unico precoce nuotatore autodidatta: prese dimestichezza con uno dei primi manuali di nuoto, The Art of Swimming di Melchisédech Thévenot (1696). Dopo prove su prove a secco e in acque marine, perfezionò da solo il suo stile a crawl, inventando le pinne. A dire il vero, anche Leonardo da Vinci, nuotatore, nel suo trattato sulle acque aveva messo a punto non solo gli stili (stile libero e dorso), ma aveva inventato un rudimentale salvagente, pinne per mani e piedi. Di qualche anno posteriore a Leonardo, il reverendo britannico Everard Digby pubblicò nel 1587 un libro bellissimo di testi e disegni (De arte natandi, successivamente tradotto, The Art of Swimming), che segna l’atto di nascita di una disciplina (e dei suoi canonici quattro stili) destinata ad attecchire soprattutto presso gli inglesi, sino a diventare sport propizio alla salute, al benessere, al piacere, ma soprattutto autentica mania. Con il medesimo titolo, The Art of Swimming, uscì nel 1879 il manuale del capitano Matthew Webb, comandante di navi mercantili e recordman britannico (primo uomo ad aver attraversato il canale della Manica nel 1875 in meno di 22 ore). Nel 1938, Weissmuller pubblicò un libretto dedicato al crawl americano, dal titolo Nuotare è facile come camminare, corredato da fotografie della sua alta figura a costume bianco intero che mostra i movimenti corretti a secco: bracciata, colpo di gambe, posizione di testa e bocca durante la respirazione. Nel piccolo saggio Swimming the American Crawl aveva nominato l’amica Gertrude Ederle, quasi coetanea, compagna di squadra alle Olimpiadi di Parigi del 1924.
Esiste poi una categoria a sé, totalmente differente dalle precedenti: gli scrittori nuotatori. Dal momento che hanno una vita interiore molto ricca, la beatitudine che traggono dall’acqua si intreccia in loro con la pratica della scrittura che se avvantaggia: il fluire ondivago dell’acqua ispira i moti del pensiero, della fantasia.
Il poeta e filosofo francese Paul Valery ha inventato la felice definizione di fornication avec l’onde per alludere all’intimità, alla voluttà di un accoppiamento con l’acqua acuito dai sensi: lo stato di estasi che prova un corpo denudato capace di percepire con ogni fibra il magnetismo attrattivo dell’acqua. Il respiro contribuisce a ossigenare cuore, polmoni, sangue, liberando la testa da ogni affanno, predisponendo a un assetto di meditazione creativa, ideale preludio alla scrittura.
Non lontano da Bournemouth, Sanditon, località marina di villeggiatura del Regno Unito, offrì il titolo a un romanzo incompiuto di Jane Austen (scritto nel 1817, postumo 1871), dove l’autrice tesse le lodi di un mare «che danza e scintilla nella freschezza e nella luce», che cura i raffreddori, stimola l’appetito, tira su il morale, tonifica. Per altro a Lyme, sul mare, nella contea del Dorset, è ambientato anche il romanzo Persuasione(scritto fra il 1815 e 1816, postumo 1818): la Austen amava i bagni di mare e nuotava proprio in quelle acque, interrompendo di tanto in tanto la stesura.
Flaubert nuotava a Trouville-sur-Mer in Normandia da bambino e nella Senna più tardi: dopo notti passate a scrivere, si tuffava due volte al giorno nel fiume per trovare refrigerio e liberare la mente. Gide nuotava nudo a Vaucluse in Provenza per poter sentire sulla pelle gli effetti delle sorgenti solforose. Ispirato, nel 1894 in una lettera all’amico Paul Valery scrisse: «Stasera sono felice, perché nel pomeriggio ho fatto il bagno completamente nudo in un verde torrente di montagna; e poi, per asciugarmi, mi sono rotolato nell’erba tiepida».
Ogni scrittore nuotatore inventa e adatta a se stesso una liturgia speciale, assai diversa dalle fasi preparatorie degli atleti nuotatori, proprio perché va incontro all’acqua come a un appuntamento amoroso.
Colette, nuotatrice d’istinto e sensi, non fu la prima o la sola a denudarsi in mare per sentire sulla pelle l’abbraccio acquatico salino. Prima di entrare in acqua stava lungamente seduta a riva a fissare la superficie del mare bretone dalle maree fredde e incalzanti. La madre le aveva insegnato che l’occhio è il primo contatto col mondo, dal quale passa tutto il resto. C’era nel suo guardare una voracità di bocca, di orecchi, di tatto, di odori, come se l’immagine fosse il punto d’incontro dei sensi e il limite da superare per una fusione di corpo e anima. «Guardare il mare è guardare il grande tutto», avrebbe detto Marguerite Duras.
Molti anni prima di Colette, e come lei, Goethe era avvezzo a disfarsi dei vestiti, riponendoli in ordine sulla sedia in giardino. Camminava a piedi nudi sull’erba sino al margine del prato, scrutava i cieli, entrava lentamente nel laghetto, anche d’inverno, perché l’acqua fredda irrorava muscoli, cuore, membra e cervello. Soltanto dopo una nuotata poteva dedicarsi al lavoro mattutino alla scrivania. Abituato all’ascolto di sé, mentre nuotava sentiva l’esultanza della mente: impossibile non amare la vita, pensava, la vita, la scrittura, il nuoto.
All’interno della sua tenuta a Jasnaja Poljana, Tolstoij disponeva di un fiume, il Voronka, dove andava a nuotare dopo lunghe cavalcate, partite a tennis, passeggiate. Finiva in acqua per liberarsi dalla stanchezza. Invitava a nuotare amici e parenti, ma mai avrebbe immaginato che il suo illustre ospite italiano, Cesare Lombroso, venuto da lontano proprio per conoscerlo e discutere con lui di leggi, di umanità, di scienza, potesse quasi annegare. Come lo vide annaspare, con possenti bracciate corse ad afferrarlo per i capelli, appena in tempo, non senza un segreto compiacimento.
Robert Stevenson, di salute fragile, di respiro corto, non poteva fare a meno di buttarsi in acqua da ragazzo mentre il padre girava per mari e isole della Scozia a riparare fari, portandolo con sé affinché imparasse l’arte ingegneristica che era stata ancor prima l’occupazione del nonno. Lo scrittore aveva messo a punto da solo uno stile di nuoto goffo, un misto tra crawl americano e nuotata alla marinara con la testa alta. Quando si trattò di scegliere un luogo lontano dove andare a vivere dedicandosi alla scrittura, Stevenson scelse le isole Samoa e una casa affacciata sul mare, la cui presenza vivificante, ben visibile dallo studiolo, ispirava le sue narrazioni.
Jack London, guerriero nella vita, aveva il mare dentro di sé, dal quale non poté mai tenersi lontano. «E adesso vado a nuotare», così terminava quasi sempre le lettere agli amici, dopo le mille parole quotidiane che si dava da programma per la scrittura romanzesca. Grande nuotatore, cultore del corpo, quando conobbe Charmian, bella, giovane, temeraria, incontrò la compagna ideale per le interminabili nuotate finalmente a due. Nelle acque del Pacifico, in California, nuotavano senza vestiti per ore, poi si stendevano al sole.
Katherine Mansfield sapeva bene quanto il nuoto possa affinare l’immaginazione. Fin da bambina, nuotando nella baia di Crescent in Nuova Zelanda, aveva sperimentato che nuotare con genitori e fratelli era condividere un patto di affetti. La sua acqua, il suo mare erano un rimedio contro ogni ferita. In acqua, solo in acqua, percepiva la felicità del vivere, smemorandosi di tutto, in uno stato di grazia indicibile che trasferiva nella scrittura. Era capace di nuotare di notte, vestita, sciogliendo solo il turbante e lasciando danzare i lunghi capelli sulla superficie.
L’impermanenza dell’acqua, immateriale e pervasiva, che permette a un corpo di farsi largo, di entrarvi senza lasciare forma di sé, senza trovare resistenza. Ma, amando l’acqua e il nuoto, come si fa a pensare di scegliere proprio l’acqua per andare incontro alla propria fine? Per affogarvi, contro ogni legge di galleggiamento?
Amava l’acqua e il nuoto Virginia Woolf. La sua famiglia possedeva una casa estiva (Talland House) a St Ives, in Cornovaglia: Virginia bambina era solita guardare le onde frangersi una sull’altra, al di là delle tende gialle («la più pura delle estasi»). Ma la perdita prematura della madre comportò la chiusura della casa e la fine di quelle parentesi felici.
La peculiarità del suo stile narrativo, quel flusso di coscienza che accavalla pensieri come nel movimento perpetuo dell’onda, trae ispirazione da una mente acquatica che sa che cosa significa vivere vicino al mare, immergersi, viaggiare sul mare. In una lettera a Vita Sackville-West scrive: «Una veduta, un’emozione creano nella mente un’onda di ritmo molto prima che si abbiano le parole per riempirlo». Almeno tre romanzi sono attraversati da questo suo sentimento del mare, visivo e sonoro, vissuto attraverso una crociera-viaggio alla scoperta di sé (La crociera, 1915), una gita al faro, pretesto per un ricordo d’infanzia dei genitori (Al faro, 1927), un flusso di coscienza dove il tempo nel suo andare avanti e indietro imita la risacca dei flutti (Le onde,1931).
Non lontano da Cambridge c’era un’oasi di assoluta tranquillità in un parco esteso, raggiungibile camminando lungo le rive del fiume Cam oppure su canoe. Al margine, la riserva naturale di Byron’s Pool attirava scrittori nuotatori: in quel laghetto il poeta Rupert Brooke invitava gli amici di Bloomsbury a nuotare con lui. Attratta dai «ridenti nuotatori incoronati di fiori», la Woolf si univa alla compagnia, denudandosi senza remore, assaporando momenti di essere fugaci ma inusuali. Nell’acqua scura dove aveva nuotato Byron, nell’acqua lacustre «che odorava di menta e di fango», Virginia provava un piacere mai disgiunto da quegli umori malinconico-depressivi che imprigionavano la sua anima nel pensiero della morte. Fu per questo che scelse la culla dell’acqua per abbandonare una vita che ormai le pesava come un macigno?
Doveva aver meditato lungamente il rituale: l’acqua non le era nemica, l’avrebbe accolta, lasciata passare, l’avrebbe addormentata con dolcezza, senza costringerla a percepire il gelo che poteva fermare il respiro. All’acqua amata da sempre poteva affidarsi, sarebbe stato un abbraccio seducente, calmo, un ritorno all’infanzia.
In una giornata di fine marzo del 1941, all’età di 59 anni, turbata da venti di guerra e dalle fasi depressive sempre più incalzanti, vestita di tutto punto, aveva in mente di agire scrupolosamente. Raggiunte le rive del fiume Ouse, appoggiò a terra il bastone. Ripensò alla lettera d’addio a Leonard, dove aveva misurato bene ogni parola: «Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà». Seduto alla scrivania, in una nuvola di fumo, Leonard stava lavorando, ignaro di tutto. Virginia andava riempiendo le tasche di sassi, grandi e piccoli, per essere sicura di andare a fondo, lei che sapeva nuotare bene: doveva impedirsi di muovere braccia e gambe, respirare, evitare di opporre resistenza all’acqua. Si sarebbe lasciata andare come quando, bambina, d’estate, amava sentire l’acqua del mare sfiorarle il collo come una carezza.
Iniziò a camminare, risoluta, gli occhi fissi sulla superficie limacciosa del fiume. Il freddo ghermiva il corpo, le irrigidiva muscoli, pensieri. Tornò a udire la voce di sua madre, dopo tanto tempo, «Madre, arrivo», rispose in un sussurro. Quando l’acqua le lambì la gola, pensò che forse sarebbe stata ancora in tempo, poteva voltarsi, tornare indietro. Salvarsi?