Luca Ravenna

ARTICOLO n. 36 / 2025

TROVATI UN LAVORO

Qualche giorno fa ero su un regionale con un amico.
Eravamo seduti in prima classe e giocavamo a beccare chi sarebbe stato rimandato in seconda classe dal controllore come molte volte è successo a noi, magari qualche anno fa. 
Il mio amico avrebbe dovuto prendere un volo per Malpensa per tornare a Londra, dove vive. Lui odia volare. Io odiavo volare, ora non è più così, chiacchierando, come a volte succede fra amici, gli ho provato a spiegare come mi sono fatto passare la paura di volare. 

Estate 2022. 
Seduto al posto 1-A di un volo Ryanair che mi stava portando in Sardegna, stavo leggendo Hanno tutti ragione di Paolo Sorrentino.
Commosso per una frase che mi si è tatuata in testa: «Tutto ciò che desidera un bambino è il sorriso di un adulto». Frase che anche ora non riesco a scrivere senza sentire un tonfo al cuore, ho chiuso il libro e non so per quale motivo, ho iniziato a strofinare le mie mani l’una contro l’altra e a guardarle. 

Gli unici segni di fatica sulle mie mani erano i calli per il tennis e una cicatrice che mi porto dietro da quando a 7 anni mi sono tranciato l’indice della mano sinistra in una sdraio. 
Non c’è altro. Non ci sono segni di fatica. Se lo sapessi suonare e se le mie dita non fossero storte come le gambe di un calciatore, si potrebbero definire mani da pianista.

L’aereo si stava preparando all’atterraggio all’aeroporto di Cagliari e il giorno seguente sarei salito sul palco per l’ennesima replica del mio spettacolo di quell’anno, così mi sono trovato a pensare che faccio un lavoro che non lascia alcun segno sulle mani, ma proprio nulla e mi sono messo a ridere da solo.
Ho sempre avuto un rapporto molto particolare con il mondo del lavoro. 
Sapevo che mio padre ne faceva uno legato all’economia, che lo teneva fuori di casa dalle 8 di mattina alle 8 di sera. Ma nemmeno m’interrogavo su cosa fosse.

Lo dico senza vantarmene, ma fino ai vent’anni ho sempre parlato del lavoro come se si stesse nominando un frutto esotico di cui avevo visto qualche foto in giro, senza mai assaggiarlo.
«Ah sì, il lavoro… Sì sì… Ne ho sentito parlare… E com’è, com’è?».
Da bambino non sapevo assolutamente cosa avrei voluto fare. Cambiavo idea in base all’idolo del mese. Di Pietro è la persona più importante d’Italia a inizio anni 90? Farò il suo lavoro – non sapevo nemmeno cosa volesse dire “Pubblico Ministero”. Roberto Baggio sbaglia a Pasadena nel 94? Io non sbaglierò, sarò il 10 della nazionale. Yuri Chechi vince ad Atlanta? Benissimo, farò il ginnasta. Il medico che mi ha messo i punti al dito della mano fa il medico? E allora eccomi: Dottor Luca Filippo Ravenna, specializzazione “medico”. 

Tutte cazzate, tutta fantasia, di base mi piaceva raccontare quelle storie a chiunque avesse voglia di ascoltarmi.
Non che non ci abbia provato anche con i cosiddetti lavori veri.
Ho fatto il cameriere su una terrazza a Trastevere. 
A 24 anni, avevo annunciato ai miei amici che avrei lavorato, con l’enfasi di un emigrante italiano che parte per le Americhe in cerca di fortuna.
L’amico che mi ha passato questo impiego serviva da bere in due locali al tempo e in più studiava al Centro Sperimentale insieme a me. 
L’ho sempre considerato un esempio enorme su come si debbano fare le cose per davvero, magari senza avere il sostegno economico della famiglia, com’è successo a me.

Sono durato circa tre settimane sulla terrazza di quell’hotel, sbagliando ogni tipo di ordine, mentendo ai clienti sulla mancanza di ingredienti per cocktail che comunque non avevo voglia di imparare a fare, facendo sparire di tutto dal bar, portando amici a scroccare ogni sera. 
Prima avevo fatto il babysitter per un paio d’anni, da adolescente , fino ad essere cacciato con ignominia per essermi presentato con 90’ di ritardo, fattissimo, con gli occhi che parevano una Velvet Cake. 
Ma il peggiore di tutti i momenti in cui mi sono trovato a fare qualcosa che avrebbe avuto a che fare con un compenso è stato nell’inverno del 2009. 
Mi era stato affidato il compito di consegnare circa 500 calendari, in bici, usando solo il Tuttocittà per navigare una Milano in preda ai classici spasmi pre Natale. Venivo pagato 1€ a calendario. 
Sono riuscito nell’impresa di consegnarne 200, e con quei soldi ho pagato un TNT affinché consegnasse i restanti 300, chiedendo disperatamente a mio fratello minore una mano per aiutarmi economicamente. 

Fu quella la settimana più stressante della mia vita, correndo in bici ascoltando i Franz Ferdinand, sacramentando  verso chi non aveva suddiviso a dovere le buste con i calendari, lamentandomi di tutto e di tutti. Pedalavo furente per Milano, nell’attesa di sapere se sarei entrato o meno al Centro Sperimentale, tra l’altro inseguito da un’amica che aveva paura di essere rimasta incinta di me. 
Sembrava una scena tagliata da Juno, di Jason Reitman: Il 21 dicembre, spingendo la bici a mano, sotto la neve, di notte, davanti al Castello Sforzesco, con questi calendari che mi uscivano dallo zaino, dalle tasche,  disperato ho iniziato a gettarli sotto la neve, certo che sarei diventato padre di lì a poco e la mia carriera come autore, scrittore, ecc… sarebbe finita prima di cominciare in questa metafora non troppo velata di me che getto calendari, quindi, giorni, mesi, anni, una vita, la mia, sotto la neve, per cosa? Per 200 euro? 

No, lavorare non ha mai fatto per me.
Ero ostinatamente la persona sbagliata, con pochissima pazienza, un ego smisurato e poca voglia di imparare.
Non ci sono altri lavori che non abbiano avuto a che fare con la scrittura nella mia vita. Ma quelli si sa, non sono lavori veri – come se uno non ci pagasse le tasse, ma lasciamo stare, è un altro discorso.
Sceneggiatore, autore e poi comico. 
Con fortune alterne, certamente.

Lavoro di squadra, lavoro da singolo, consegne quasi mai rispettate, folate di emotività, scrivere di notte ma non per necessità, perché di giorno passavo il tempo camminando per Roma con le cuffie nelle orecchie a perdermi totalmente nella fantasia di come avrei voluto raccontare qualcosa, senza poi tradurla sulla pagina che un decimo di quello che avevo in testa.
Ho sempre pensato di non essere portato per nulla che non fosse il gioco, il divertimento, il cazzeggio, tutta roba che col lavoro non avrebbe nulla a che fare. 
Non lo scrivo per irritare nessuno che stia leggendo, lo scrivo perché è giusto essere sinceri.
Poi un giorno, a febbraio del 2014, sono salito sul palco per la prima volta, per cinque lunghissimi minuti, che andarono relativamente bene, nulla di che. Non appena sono sceso, ho raggiunto la mia ragazza di allora, che era forse più emozionata di me, e le ho detto: «Io questa cosa da adesso non smetterò mai più di farla».

Senza mostrare la sfumatura di un sorriso.  Serio come non ricordo di essere mai stato in vita mia. Né prima né dopo.
Anche gratis, non me ne frega nulla, questo è. 
E da quel momento è cambiato qualcosa in me, qualcosa che auguro a chiunque di vivere.
Più passava il tempo e più vedevo che al pubblico iniziavano a piacere i miei pezzi, più mi trovavo in situazioni in cui qualcuno mi chiedeva con una punta di malizia: ma lo fai di lavoro?
E io rispondevo: non ci crederai, ma mi pagano per farlo. 

Così quando mi scrivono su YouTube: cercati un lavoro vero! Che è certamente un commento tipico di chi sminuisce i lavori legati al mondo dello spettacolo, io non me la prendo mai, perché trovo che abbiano ragione al cento per cento. 
Perché ho totale rispetto di qualsiasi professione, se fatta e raccontata con passione, è sempre meritevole di attenzione e totale stima. 
Sapessi cos’altro fare, lo farei, ma solo per divertimento, per poi poter tornare sul palco a raccontarlo, perché per motivi che non so spiegare, che non so giustificare a me stesso, penso di fare l’unica cosa utile a me e, lo dico con immensa modestia ma anche un minimo di obiettività, faccio l’unica cosa che possa risultare utile anche per gli altri. 

Essere pagati per qualcosa che ci soddisfa è l’unico modo per sentirsi parte integrante della società. In un paese così strano come il nostro, dove il diritto, non dico alla felicità, ma almeno alla serenità, dove quel diritto è messo da parte in nome di uno spreco di sacrifici e anni e fatica per avere poi una gioia futura che arriverà, sì ma quando? Come? 
Costruire la socialità mattoncino dopo mattoncino, rispettando l’altro e il modo in cui apporta qualcosa alle cerchie vicine a lui – ma partendo da se stesso – dovrebbe essere l’obiettivo di un paese attento e vigile. 
Come in una storia d’amore, non puoi amare nessuno se non ami te stesso, così dicono.
Questa cosa con il lavoro dovrebbe valere ancora di più. 

Io, lo scrivo di nuovo a scanso di equivoci, sono un nato fortunato, mi sono perso, ho mentito a me stesso per anni e poi quando ne ho avuto la possibilità, mi sono allineato col mio desiderio di quando ero piccolo: raccontare cazzate.
So che pare nulla, so che non è un lavoro necessario, ma è per me fondamentale. E se ciò che si fa non è fondamentale per noi stessi, non lo sarà di certo per gli altri. 
L’aereo sta per atterrare a Cagliari: sto ridendo pensando alle mie mani da fata.
A picco sul mare, le ali inclinate in una di quelle manovre che ti fanno interrogare sulle leggi della fisica: immobili sul bellissimo cielo sardo. Normalmente io in queste situazioni soffocavo attacchi di panico che esplodevano come colate di lava dal cuore, ma non quel giorno:  ho guardato fuori e mi sono detto qualcosa che assomigliava a “tu più di così non potevi fare” e di fila mi sono trovato a pensare, se adesso l’aereo cade, tu hai fatto quello che potevi e quello che volevi. 

Se l’aereo cade tu sei allineato con te stesso. 
Più di questo spettacolo non potevi fare, è il tuo lavoro, è la tua passione, hai un culo così enorme che nessuno potrà mai dirti il contrario e all’improvviso, come se il bambino e l’adulto dentro di me si fossero sorrisi a vicenda, la paura di cadere in aereo è sparita.
Ora magari questa cosa può essere utile a qualcuno o magari no, sicuramente è utile a me per poter prendere più aerei, perché sono un mezzo per fare altro e fare ancora quel che mi piace.

Questa cosa l’ho augurata al mio amico in treno che mi ha guardato e ha detto: io lavoro con gli immigrati a Londra, sono laureato in Psicologia:
«Eh, appunto».
«Appunto che?»
«Se è quello che ti piace, non devi avere paura».

ARTICOLO n. 54 / 2024

UMORISMO

le parole del futuro

Quali parole – volenti e nolenti – ci porteremo nel futuro? Che significato hanno oggi e assumeranno domani per noi e per il mondo in cui siamo immersi? Nelle prossime settimane daremo forma a un vero e proprio lemmario con cui indagare il significato e il senso di termini ritenuti centrali dalle autrici e dagli autori coinvolti.

“Capacità di rilevare e rappresentare l’aspetto comico della realtà”.

Bene, lo scopro ora. Non mi ero mai posto il dubbio in precedenza. Non sapevo cosa fosse o forse lo sapevo senza saperlo, come tutti.

Qualche giorno fa stavo facendo un caffè con una macchinetta simil-Nespresso a casa della mia ragazza. Normalmente quando carico la cartuccia e sono insieme a lei fingo di essere in un ufficio milanese e mi metto a fare l’imitazione di un fantomatico capo ufficio fluido sui cinquanta anni che importuna in modo uguale giovani donne e giovani uomini, facendo valere il peso della sua innata simpatia.

“Avete letto quella pazza su Magazine coso? Ma quella è da internare o no?”
“No raga… io non ce la faccio!”
“Come va con la casa? Trovato qualcosa?”
“Ah, solo zone terribili? Cazzo con quel che ti paghiamo… Ahhahaha…”
“Come va con il pezzo per Gucci? Venuto figo? Camicetta top oggi eh… ahahahah”
“Mi Ami? Andati? Flop? Top? Droga?”
“Raga le cialde sono finite, facciamo la solita raccolta?”

Ma quel giorno ero stanco, ormai è un mese che mi trascino come uno zombie fra Milano e Roma fingendo di avere energie che non ho più. Ho terminato un tour bellissimo e molto intenso che mi ha portato in giro per l’Italia con il mio ultimo spettacolo. Sessantadue date in sette mesi. È stato esaltante, emozionante e stupendo, ma l’energia è completamente terminata e con essa anche la voglia di scherzare, ossia il desiderio di “rilevare e rappresentare l’aspetto comico della realtà”.

Quando mi capita di parlare con qualcuno, non apprezzo più le battute su di me, sono estremamente paranoico rispetto al mio aspetto fisico, non sopporto le persone che fanno ridere, vorrei stare in campagna circondato dagli animali per un mese.

Sia chiaro: non mi sto lamentando. Sono felice di fare il lavoro più bello del mondo. Essere pagato per dire barzellette piuttosto complesse – questo è di fatto il mio lavoro – è qualcosa che va al di là dei miei sogni più vividi. Ma per farlo con enorme sincerità bisogna per prima cosa cercare di essere sinceri con se stessi. E se proprio devo esserlo, ora mi sembra difficile cavare umorismo dalla realtà che mi circonda.

Come sempre succede in questi casi è bene fare il punto della situazione e cercare di ripartire provando a decifrare cosa sia l’umorismo per me. Provo quindi a buttare giù una sorta di elenco, di punti, di idee, di leggi che seguo quando provo a scrivere qualcosa di divertente.

Vediamo se tornano utili a qualcuno. Non è un decalogo, non è nulla, solo una serie di pensieri sulla risata, l’umorismo che cerco di tenere a mente sia quando lavoro, che nella vita di tutti i giorni.

– “È molto simpatico/a” è una bellissima cosa da dire di una persona.

– “È un coglione/una cogliona” è la stessa identica cosa, detta da qualcun altro.

– Il lavoro di un umorista è surfare come una lumaca sul filo di un rasoio o sulla lama di un coltello, questa similitudine è mia non di Marlon Brando/Colonnello Kurz in Apocalypse now.

– A cosa punti una persona che sceglie di guadagnare facendo ridere, non si sa. Così è. I traumi infantili, essere stato bullizzato, non avere altre forma di difesa se non quella dell’ironia; non saprei, mi sembrano tutte idiozie. È un fuoco che arde? Non ne ho idea né mi interessa ormai. Ma è un desiderio difficile da spegnere.

– Non esiste applauso, risata, commento, di chicchessia che possa anche solo lontanamente avvicinare l’istante in cui, camminando per strada e ripensando a qualcosa, porta alla risata fra sé e sé. Le battute migliori, le piccole fratture della realtà in cui infilare le dita per provare ad arrampicarsi su una parete che con un po’ di tecnica porta alla scrittura di un monologo che sia divertente per sé e poi, se si ha fortuna, anche per gli altri. Quelle spaccature hanno a che fare con l’infinito dialogo che si ha con se stessi.

– Depositato quel seme, con la tecnica (banalmente segnandoselo su un taccuino), si può pensare di far crescere qualcosa che verrà prima o poi presentato al pubblico. Se avrà senso e sarà condivisibile dalle persone in ascolto, non sta certo all’autore deciderlo.

– Non è mai un monologo, ma sempre un dialogo. Prima con sé stessi, poi con il pubblico.

– “Quella cosa non fa ridere”, come dicono alcuni, è una frase che non ha senso. La risata non è oggettiva. È soggettiva. “Quella cosa non fa ridere me, adesso, perché ho i cazzi miei”.“Come me adesso”: così va bene, così si può dire.

– Per il palco: bisogna scrivere come si parla. Non c’è nulla di meno umoristico della forma mancata, della forma fittizia. Se – come spesso succede – un comico parla in modo eccessivamente forbito o distante dal suo vero modo di masticare la lingua ci si stacca immediatamente.

– Dimenticare il punto precedente. C’è chi riesce benissimo a parlare in modo diverso sul palco. Ognuno ha il suo stile. La comicità non ha regole, ma solo effetti. Chiunque provi a dare delle regole o dei voti se ne deve andare a fare in culo.

– Stare sul palco e scrivere sono due lavori differenti.

– Ci sono grandi autori e grandi perfomer, non sempre le due cose coincidono.

– Per trovare qualcosa di divertente da raccontare bisogna non ascoltare chi si ha davanti. Non è facile da spiegare né da accettare, ma è fondamentale ascoltare con mezzo orecchio. Con l’altro è necessario stare concentrati su se stessi. È doloroso perché può allontanare le persone, ma almeno per me funziona così. Se cerco qualcosa di divertente non posso ascoltare veramente chi ho di fronte.

– Di sicuro sono abbastanza abituato a cercare il pensiero laterale rispetto a tutto quello che accade intorno a me. Non saprei contare le volte che mi è stato rinfacciato il fatto di aver preferito una battuta di fronte alla possibilità di ascoltare il momento in cui mi trovavo, per il puro gusto di dire qualcosa di divertente. Da questo punto di vista non mi considero un artista, gli artisti veri sono quelli che sanno ferire gli altri, io qua e là potrei averlo anche fatto, ma ora come ora non saprei.

– Detto questo, amen. C’è di peggio.

– Ridere è sempre bello e giusto. Nessuno si è mai lamentato di aver riso per un’ora, era la frase con cui chiudevo le prime sere che organizzavo a Milano qualche anno fa. Non penso di aver mai detto nulla di più sincero sull’umorismo in vita mia.

– Niente ha senso finché non si trova qualcuno a cui raccontare di sé. Se non si ha qualcuno a cui raccontarlo è bene tenere un diario, una chat fittizia. Qualcosa per cui si possano mettere in fila delle immagini, dei momenti, una traccia. Più sono struggenti, più c’è lo spazio per ridere, solo che magari sarà qualcun altro a farlo notare. Fa niente. Esistiamo solo in base ai rapporti con gli altri. Anche questa frase è mia!

– Non esiste nulla finché non lo si racconta e finché non si cerca il lato divertente di qualsiasi storia, sennò quella storia rischia di essere solo una lamentela.

– Il tempo per una battuta è l’unica cosa che non si può insegnare. È qualcosa di magico, di inafferrabile. È una partitura scritta con l’inchiostro invisibile. Qualcuno la sa scrivere, ma solo per se stesso. Altri non lo sanno fare. È brutale da dire, ma così è.

– C’è sempre spazio per un aneddoto divertente, c’è sempre spazio per il ricordo di una storia. Chi non ha tempo o voglia di ascoltarli non merita la compagnia che gli viene regalata. Non sto parlando di palco, sto parlando di vita. Per fortuna esistono tante persone fra cui cercare ed esiste, se uno vuole, a un certo punto anche il palco.

– Non esistono momenti divertenti della propria vita che nel ricordarli non feriscano con la nostalgia. Quando si finisce di ridere e il rinculo degli ultimi singulti si spegne – magari a cena fra amici – e si afferra il bicchiere in tavola e si passa ad altro – a un amaro, al caffè, al conto – il sorriso si schiude sapendo che la storia è finita e si torna alla realtà. Come una folata di vento che fa sbattere la finestra. Il ricordo è passato, la storia anche e la vita anche. Quell’istante è per me struggente e dolorosissimo. Ma ce ne saranno altri, magari anche di più belli.

– Io diffido anche da chi mangia troppo in fretta, non mi piace che qualcuno ordini per il tavolo a cena, non amo chi parla di sesso senza che ci sia confidenza estrema. Non sopporto chi guida veloce in macchina o in generale si vanta di imprese esagerate al volante. Non sopporto chi parla di evasione fiscale o chi parla di soldi in generale. Non sopporto chi urla il proprio giudizio su un film mentre è ancora in sala o peggio a teatro.Ma soprattutto non sopporto chi non ride o ci tiene a dare l’impressione di non ridere mai, di non perdere tempo con l’umorismo. Non le persone che ridono poco o hanno una risata difficile. Parlo proprio delle persone sempre serie. Inculatevi! Trovatevi fra di voi al circolo degli inutili e andatevene a fare in culo tutti insieme.

– L’umorismo è come una carie nei denti. Fa male, ma senza non si possono espiare i propri peccati.

Quando si fa ridere qualcuno per qualcosa è una soddisfazione enorme. Non c’è nulla di più convincente a livello umano dell’ascoltare una risata, ma non bisogna dimenticarsi che la prima da ascoltare e da non dimenticare è la propria risata. Perché ridiamo solo per un motivo: per sentirci meno soli.