ARTICOLO n. 47 / 2025
UNO SPAZIO PER ACCOGLIERE
Gianni colombo a como
Il 28 maggio 1983, a Como, viene inaugurato il Monumento alla Resistenza Europea progettato da Gianni Colombo. L’opera si articola in una struttura in cemento armato, quasi interamente rivestita in serizzo della Val Masino. Tre grandi scale, con gradini disposti secondo inclinazioni diverse, conducono verso un punto centrale: è lì che si alzano tre lastre in acciaio corten, su cui sono incise frasi tratte dalle lettere dei condannati a morte.
Il lungolago di Como è già contraddistinto da due presenze importanti: il Tempio Voltiano e il Monumento di Terragni. Colombo non le ignora, anzi; il suo intervento si costruisce in dialogo con esse, evitando ogni gesto invasivo o autoreferenziale. Ma la sua attenzione va anche alla vita che anima questo spazio: chi passeggia, chi corre, chi si ferma a scattare una foto, a sedersi vicino all’acqua, a chiacchierare o ascoltare musica. Il Monumento si inserisce in questo flusso con discrezione, diventandone parte senza spezzarne il ritmo, affinché la memoria storica possa abitare i gesti semplici della quotidianità.
La prima volta che ho visitato il Monumento era il 1987. Avevo quattro anni e, com’è naturale, non ne conservo alcun ricordo. Ci sono tornato lo scorso aprile, in occasione della mostra Il movimento sospeso. Gianni Colombo e il Monumento alla Resistenza Europea, curata da Marco Scotini.
È allora che scopro come la nascita dell’opera sia stata tutt’altro che semplice. Nell’aprile del 1977 viene indetto un concorso pubblico: arrivano proposte da tutta Italia, ma la commissione incaricata non è soddisfatta della qualità dei progetti. L’amministrazione comunale decide così di cambiare approccio e affida la scelta a una nuova giuria di esperti: Carlo Bertelli, Vittorio Gregotti, Pierre Restany, Gillo Dorfles e Maurizio Calvesi.
Il 18 maggio 1979 il Comune affida ufficialmente a Colombo, già noto per il suo Spazio elastico, l’incarico di elaborare una proposta per il Monumento. Dai resoconti emerge con chiarezza l’entusiasmo con cui l’artista milanese accoglie questa sfida, si reca spesso a Como, esplora i luoghi con attenzione, valuta soluzioni, immagina un’opera capace di dialogare con l’acqua e con il paesaggio urbano.
Ma l’entusiasmo iniziale si scontra presto con una realtà complessa: si aprono discussioni sui costi e sul significato stesso dell’intervento. A queste tensioni si aggiungono ostacoli tecnici, che costringono Colombo a rivedere il progetto, modificando sia la struttura che la sua collocazione originaria.
Ciononostante, il Monumento prende forma.
Colombo stesso, in una sorta di dichiarazione d’intenti, lo descrive come «un itinerario aperto alla percorribilità dei visitatori. Non dunque solo forma visibile, ma vivibile». Il Monumento, insomma, non nasce per essere contemplato da lontano, ma per essere attraversato, abitato, esplorato fisicamente. Il visitatore diventa, come scrive l’artista, «il centro mobile dell’intera struttura».
Non siamo di fronte a una scultura celebrativa nel senso classico, ma a uno spazio pensato per accogliere; un luogo che invita alla riflessione interiore, ma anche – se possibile – al confronto, al dialogo, che parte dal senso profondo della Resistenza e lo rilancia come esperienza viva, condivisibile.
Colombo esprime chiaramente il desiderio di allontanarsi dal linguaggio monumentale tradizionale, con i suoi toni enfatici, la retorica celebrativa, l’eroismo rappresentato in modo melodrammatico e idealizzato, ricordando come proprio quel linguaggio appartenga a una visione della storia e del potere contro cui la Resistenza ha lottato.
Il risultato è un’opera che cambia con lo sguardo, con il passo di ognuno, con la luce che la colpisce. Un invito a guardarsi dentro e intorno.
In tal modo, pur nella sua immobilità, evoca un senso cinetico: le lastre centrali, in particolare, sembrano ruotare lungo traiettorie immaginarie, come se disegnassero un’apertura, un’estensione verso una dimensione più ampia.
Le frasi incise – testimonianze di chi ha dato la vita per la Resistenza – sono tentativi, spesso laceranti, di mantenere un contatto con chi resta. Fra tutti, uno mi colpisce per la sua disarmante semplicità: “Dite alla mamma che non pianga”.
In sei parole, l’abisso: la consapevolezza della fine, il legame inscindibile con chi ci ha generati, e un gesto di protezione che si afferma proprio nell’istante della massima fragilità. “Dite alla mamma che non pianga” fa risuonare la voce di chi, pur sapendo che tra un attimo non ci sarà più, prova a consolare attraverso un messaggio che mira, anche nella situazione più tragica, a esprimere ciò che di più umano ci definisce: l’amore incondizionato.
Se le lettere d’addio costituiscono il cuore emotivo del Monumento, è nel testo scritto da Scotini per accompagnare la mostra – arricchita da disegni, modelli e materiali d’archivio esposti allo Spazio Natta di Como – che si coglie il suo significato più profondo: «Nell’ipotetico punto di convergenza delle rampe il corso del tempo si riduce ad un punto, si blocca e muta regime: si trasforma in un istante perpetuo, si eternizza».
A differenza delle opere precedenti di Colombo, dove il movimento accompagna il fluire – potenzialmente infinito – del tempo (basti pensare alle Strutturazioni degli anni Sessanta, o alla Bariestesia, con i suoi moduli che propongono sempre un’ascesa e una discesa), nel Monumento alla Resistenza Europea si apre uno spazio che sembra segnare una sospensione. Un arresto del movimento: come se il tempo stesso – quello della memoria collettiva, ma anche quello della memoria personale – si fermasse.
Qualche giorno dopo l’inaugurazione della mostra, chiedo a mia madre di raccontarmi la mia prima visita al Monumento, avvenuta nel 1987. Mi dice che, appena ho visto le scale, le ho domandato se fosse un gioco per i bambini. Lei mi ha spiegato che no, non lo era, ma si trattava di un simbolo per ricordare chi aveva combattuto per la nostra libertà.
Naturalmente, a quattro anni non potevo afferrare davvero quel concetto, così lei ha aggiunto che il Monumento era una cosa preziosa. Ed è lì che si è aperto il paradosso: il Monumento era prezioso, senza dubbio, ma costruito per essere attraversato; e infatti, senza troppe esitazioni, ci sono salito sopra, ho cominciato a correre, a giocarci attorno, passando più volte attraverso quella soglia in cui il corpo diventa misura dello spazio, e lo spazio si trasforma in consapevolezza di sé.
Già allora, forse senza saperlo, il Monumento per me era diventato uno specchio delle relazioni, una mappa emotiva che prende forma nel contatto, nella presenza.
A tal proposito, mia madre racconta che, nel momento in cui ho iniziato a salire i gradini, è affiorato il suo lato più apprensivo: mi ripeteva di stare attento, di andare piano, di tornare indietro.
Visto che non riusciva a fermarmi, alla fine ha deciso di salire anche lei. Ricorda di essersi mossa con cautela, non tanto per timore di danneggiare qualcosa, quanto per la difficoltà nel trovare un equilibrio.
Colombo, descrivendo la Bariestesia – l’opera fatta a scale che ha ispirato la logica del Monumento – parla di «un’indagine fatta veramente attraverso la fisicità del piede». Non tanto, dunque, un’esperienza di instabilità, quanto un esercizio di percezione: un modo per risvegliare i sensi, per prendere consapevolezza del proprio corpo nello spazio.
Mia madre racconta che, mentre lei si ostinava a salire con metodo, razionalizzando ogni passo, io mi muovevo seguendo l’istinto: gattonavo, mi arrampicavo, scivolavo, rotolavo; insomma, non cercavo di capire, piuttosto trasformavo ogni movimento in un’esplorazione.
Ed è proprio questo il punto: Colombo mira a mettere in crisi le regole già acquisite, a disinnescare quei meccanismi che diamo per scontati.
Mentre mia madre si prende una pausa dal racconto, mi torna in mente una domanda che la pediatra di mio figlio ci fece durante una visita: voleva sapere se fosse in grado di salire e scendere le scale da solo. All’inizio mi era sembrata una curiosità secondaria, sicuramente meno importante rispetto, per esempio, all’uso del linguaggio o al peso corporeo. Ma la pediatra aveva spiegato che proprio quel gesto, all’apparenza semplice, è in realtà carico di significato: rivela molto sullo sviluppo della coordinazione, sulla percezione del corpo nello spazio, sull’autonomia.
E in effetti, più un bambino impara a salire le scale, più consolida una parte profonda della propria struttura cognitiva.
Così, al di là del suo significato storico e culturale, la prima forma di intelligenza espressa dal Monumento si rivela qui: nella capacità di farci mettere in discussione quelle strutture comportamentali che abbiamo interiorizzato con fatica; nella capacità di spingerci a cambiare punto di vista su noi stessi.
E questo cambiamento non avviene solo per effetto dei gradini inclinati e irregolari, ma perché la scala stessa perde la sua funzione abituale: non serve più a collegare un piano a un altro, un sopra a un sotto.
La scala di Colombo spalanca nuove possibilità.
Infatti mia madre racconta che, a un certo punto, mi ero convinto che il Monumento fosse una nave dei pirati. E lei, che fino ad allora si era limitata a osservare da lontano, mi aveva raggiunto: dalla cima di una rampa aveva finto di scrutare l’orizzonte, come se cercasse un’isola nascosta; e così, in un istante, il lago di Como si era trasformato in un oceano, e noi in due viaggiatori senza alcuna voglia di tornare a casa.