Andrea Pomella

ARTICOLO n. 41 / 2025

CORRERE UNA MARATONA

È il 16 marzo 2025 e sto per correre la mia seconda maratona, quella di Roma. Siamo quasi in trentamila, ammassati nelle griglie di partenza intorno al Colosseo. Mentre saltello sul posto per difendermi dal freddo mi guardo intorno e mi viene da farmi una domanda: cosa spinge trentamila persone a svegliarsi alle cinque del mattino nell’ultima domenica d’inverno e correre per quarantadue chilometri e centonovantacinque metri? È una domanda che ha molte risposte, nessuna esatta, tutte confutabili. Soprattutto ognuno ha le sue. Ciò che posso fare quindi è cercare di spiegare cosa spinge me.

La prima risposta che riesco a darmi ha un che di bizzarro. In realtà non rientra neppure tra i motivi principali che mi spingono a partecipare a una maratona, ma nel più ampio discorso che voglio affrontare ha comunque un suo rilievo. La corsa è l’unico sport che permette di presentarsi al via (gareggiare mi sembra un termine esagerato) insieme a dei professionisti. Non avrò alcuna possibilità di batterli e neppure di avvicinarmi ai loro tempi, ma correrò sulle loro stesse strade, fermandomi agli stessi ristori, passando per gli stessi punti di cronometraggio intermedi che cronometreranno anche loro. È un po’ come scendere in campo con la nazionale di calcio durante una partita dei mondiali, ma senza fare danni.

Il lato agonistico, che pure per molti esiste, per me non è una priorità. E se lo è, lo è solo per gli aspetti che riguardano la competizione con me stesso, la tensione al miglioramento, l’esplorazione delle possibilità. Ma c’è qualcosa di più importante. Nel mio caso non so bene se correre per così tanti chilometri rientri più nella categoria sport, psicologia, filosofia o perfino letteratura. Ogni attività sportiva è un miscuglio di discipline disparate. Ma nella corsa le componenti non sportive entrano in gioco in misura maggiore. Perché correre in fondo è un gesto umano primordiale. Una volta ho sentito un allenatore porre una domanda a una platea: “Il bambino impara prima a correre o a camminare?” La platea rispose compatta: “Camminare”. Al che lui replicò: “Sbagliato. Se osservate un bambino che compie i suoi primi passi vi accorgerete che il motivo per cui mette un piede davanti all’altro è che quello è l’unico modo che ha per evitare di spiaccicarsi con la faccia sul pavimento. Esattamente ciò che fa la corsa”. In effetti la corsa è questo: uno sbilanciamento del corpo in avanti, controllato e continuo, che produce movimento. In altri termini: la corsa è un’eterna caduta che non si realizza mai. Una delle principali ragioni per cui mi trovo al chilometro zero di quarantadue, quindi, è che mi piace cadere molto a lungo.

Non sarà un caso se tra i parametri biomeccanici che un corridore deve tenere d’occhio quando corre ci sia la cadenza, ossia il numero di passi al minuto. L’etimologia lo fa derivare dal latino cadentia, participio neutro plurale di cadĕre, quindi “l’insieme delle cadute”. Un corridore con una buona tecnica di corsa si dice che cada in media centottanta volte al minuto. Considerato che per completare la maratona correrò per quattro ore, faccio un calcolo veloce e stimo che oggi cadrò quarantatremila e duecento volte.

Tutto ciò assomiglia moltissimo a certi sogni in cui sogniamo di precipitare, per poi destarci di soprassalto. Si dice che in quei casi il brusco risveglio sia un espediente evolutivo che si è sviluppato dall’antica abitudine umana di dormire sugli alberi, una specie di allarme messo in atto dal nostro cervello per evitare di piombare giù dal ramo. L’interpretazione psicologica per questo tipo di sogni richiama paure difficili da controllare, senso di vulnerabilità e insicurezza. Tutte cose di cui effettivamente soffro. In ogni caso amo l’idea che correre sia un lungo sogno continuamente interrotto e alimentato dalla mia mancanza di stabilità.

Ha scritto un poeta russo: «Ti ringrazio, o Signore, per la dolcezza del respirare» (Valerij Brjusov, La preghiera). Correre per quarantadue chilometri significa anche sperimentare un altro modo di respirare. O forse no, il respiro è sempre quello. A cambiare è la consapevolezza, il modo in cui un atto naturale viene riposto in un sistema più vasto, molto più vasto di me. Perché inspirare ed espirare non sono solo due momenti di uno stesso gesto che all’interno della fisiologia umana garantisce la sopravvivenza del mio corpo. Sono soprattutto i due principi che regolano l’universo. Il battito del cuore, il moto ondoso, l’esplosione di una supernova, il Big Bang stesso, ogni cosa rientra in questa dualità. Contrazione ed espansione. Un tempo, quando correvo, pensavo, pensavo troppo, e immerso com’ero in tutto quel pensare il mondo smetteva di essere il mio elemento. Così correvo raggrinzito tra le pareti della mia mente, con il risultato che presto finivo per sfiancarmi. Ciò aveva ripercussioni anche sulla prestazione. Non era soltanto un rovello interiore, era qualcosa che aveva degli effetti misurabili.

Ora invece quando corro non penso a niente. Vivo come al di là della vita. Mi lascio andare a certe piccole epifanie, come rendermi conto all’improvviso che si può allentare i muscoli della faccia, distendere un certo nervo del piede, dimenticare di possedere la lingua, gli occhi, le unghie. Contraggo e rilascio continuamente, faccio parte dell’universo oscillante e ogni nuova inspirazione è una palingenesi.

Quattro mesi fa ho corso la mia prima maratona. Quattro mesi non sono abbastanza per dimenticare, ma se penso a quella maratona non ho ricordi nitidi. Perché quando corro si spegne tutto, dentro e intorno a me. Non è una semplice corsa la mia, è un volo a occhi chiusi. Conservo lampi di volti sconosciuti a bordo strada, uccelli in traiettoria radente, il disegno pavimentale delle strade del centro di Firenze, uomini in giacca che escono dalla hall di un albergo di lusso, corridori sfiancati con le mani sulle ginocchia, lampi, lampi, lampi attraverso un tempo in cui non sono praticamente esistito, in cui mi sono tramutato in un animale in corsa senza coscienza, storia, interiorità, discernimento, una pura macchina organica il cui unico intento è lesinare energia per non cedere.

Tutto questo è bello? Divertente? Sano? Non so, non posso dirlo. So che invecchiando la corsa diventa sempre più simile al sonno: un vuoto dolce e imprescindibile in cui la vita si dissolve.

A questa tendenza all’amnesia contribuisce la concentrazione, certo, ma anche una chiusura caratteriale che dalla vita mi porto nella corsa. Io quando corro non parlo con nessuno, nemmeno in gara, rispondo solo ai rari saluti che mi rivolge qualche spettatore a bordo strada. Non tanti a dire il vero, ma è una cosa che mi capita spesso. Gli sconosciuti faticano a rivolgermi la parola, forse per via di un’espressione respingente che ho stampata sulla faccia mio malgrado. Sono un solitario, questo è certo. Mi sento perfettamente solo anche correndo insieme a trentamila persone. Faccio caso anche a questo nella griglia di partenza della maratona di Roma. La corsa per me è il corrispettivo di uno spazio calmo, uno di quei luoghi sicuri in cui le persone possono attendere assistenza in caso di emergenza. Nel mio caso l’emergenza, il terremoto, l’incendio, è la vita stessa.

Spesso collochiamo le idee, le sensazioni, i concetti, in un luogo, e tingiamo quel luogo di un colore, di una luce, e li rendiamo visibili. Sono luoghi secondari della nostra vita, posti frequentati magari una volta sola, cent’anni fa. Ecco. Da bambino avevo una grande cassa in giardino in cui tenevo i miei giochi. La cassa era sul retro, dove non si andava quasi mai. Quando penso alla corsa mi viene in mente quell’ala disabitata del giardino. Per me la corsa è collocata nella stessa luce turchese che sfumava verso l’arancio (quella parte del giardino dava a ovest, dove il cielo al tramonto diventava un’immensa buccia d’albicocca). Lì mia madre stendeva il bucato. Quando corro, la corsa è un lenzuolo azzurro che si muove come un lago.

ARTICOLO n. 25 / 2025

PENSARE A NIENTE

C’è un documentario su Netflix che s’intitola Don’t Die e racconta un anno della vita di Bryan Johnson, un miliardario americano che dedica l’intera giornata alla cura del corpo, con l’obiettivo minimo di ringiovanire, e quello massimo di vivere per sempre. Per centrare almeno uno dei due obiettivi fa una vita di merda (ça va sans dire). Bryan ingurgita un diluvio di pillole, segue una dieta implacabile, si allena come un atleta professionista. Non solo. Il suo corpo ogni giorno è sottoposto a una routine delirante: infrarossi, trasfusioni di plasma, terapie geniche. Il tutto gestito da un algoritmo. Questo programma ha un nome, Blueprint Project, e un costo di due milioni di dollari l’anno.

Durante il racconto che fa di sé, Bryan parla del suo passato di imprenditore rampante sopraffatto da una tipica sindrome da burnout: la sua vita privata andava in pezzi e l’unica cosa che gli veniva facile era non alzarsi più dal letto. Era giunto alla conclusione che il suo problema fosse il cervello. Adesso invece, da quando cioè ha affidato la cura del corpo a un algoritmo, non deve più pensare a niente e sta enormemente meglio.

«Il cervello è la parte debole dell’essere umano», dice. Una cosa non priva di verità. Un’ovvietà forse. Ma nel pronunciarla, centra uno dei nodi su cui si sta giocando il futuro della specie umana: un futuro (ma diciamo pure un presente) che mira in ogni campo a sottrarre potere alla logica, al pensiero, alla conoscenza, al senno, cose che possono essere delegate alle macchine, a chi detiene il potere computazionale, alla ristretta minoranza che gestisce i big data, un futuro che ci sta progressivamente liberando dalla seccatura di dover pensare. E non è un caso che nel mondo tutto ciò che è legato alla cura del pensiero sia sotto attacco, che la scienza e il lavoro intellettuale siano deprezzati e umiliati, che la rappresentanza politica sia affidata a individui sempre più rozzi e ignoranti. Un processo che non inizia oggi, ma che è già in atto da secoli. Qualche anno fa Gerald Crabtree, un genetista dell’università di Stanford, dimostrò che la specie umana ha raggiunto l’apice della sua evoluzione cerebrale circa duemila anni fa, per poi scivolare verso un inarrestabile declino cognitivo.

Se lo scopo dell’Illuminismo era liberare l’uomo dall’incapacità di valersi del proprio intelletto – «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza» era il motto invocato da Kant – due secoli e mezzo dopo l’umanità sembra proporsi esattamente lo scopo contrario: abbi il coraggio di servirti di un’intelligenza altra. Non mi riferisco soltanto all’avvento dell’AI, cui nei prossimi tempi demanderemo in modo sempre più massiccio compiti e funzioni (benché al momento, malgrado i cupi allarmi, mi paia più utile che nociva), ma di una riscoperta del corpo, inteso come corpo pensante e gaudente, che inibisce la mente dal generare frustrazioni, sofferenze e dolore. Quello che si prospetta è uno scenario non di poco conto, che pone al centro una potente ridefinizione del concetto stesso di felicità.

Se infatti l’uomo del futuro non agirà obbedendo al cervello, ma ai polmoni, al fegato, al cuore (come sostiene Bryan Johnson), potrei provare fin da subito a immaginarne le conseguenze. La psicologia diventerà una disciplina inutile. Il sapere sarà un fardello che non ci riguarderà più, perché a farsene carico saranno i cloud. Non conosceremo tristezza, angoscia, depressione. Saremo idioti e felici, ma di una nuova forma di felicità. Se è vero che per Schopenhauer chi cerca attivamente la felicità va per forza di cose incontro a delusioni e frustrazioni, noi saremo felici, perché non sapendo più neppure cosa sia la felicità, avremo finalmente smesso di cercarla.

Nelle innumerevoli meditazioni che faccio su me stesso, un quesito cui torno spesso è: cos’è che mi rende davvero umano? Il rischio che corro è di cadere sempre nella vecchia trappola cartesiana del dualismo tra res extensa e res cogitans, finendo per far prevalere la seconda sulla prima. Sono umano perché penso. Ma il corpo non è estraneo al mio pensare. Se vogliamo dirla tutta, il corpo, per la parte organica che riguarda il cervello, contiene quel mondo astratto agitato da impulsi elettrici che è il pensare. E le stesse funzioni del corpo influenzano l’oggetto e la qualità delle mie speculazioni.

Se potessi rivolgere una domanda a Bryan Johnson, probabilmente sarebbe: sei proprio sicuro che le esperienze del corpo sono più concrete degli astratti pensieri?

Il corpo dialoga con la realtà oggettiva del mondo attraverso i sensi. Se uno dei sensi viene meno, si interrompe una via di comunicazione tra noi e la realtà. Il corpo è lì, al confine. È la membrana esterna che tocca ciò che ci è estraneo per natura. E perciò è il nostro mezzo principale di conoscenza, è la sonda che raccoglie il materiale per il cervello, il quale poi lo rielabora e gli dà forma.

Immaginiamo di vivere la condizione auspicata da Bryan Johnson, in cui la seconda fase del processo di conoscenza è abolita, in cui ci limitiamo soltanto a fare esperienza del mondo attraverso i sensi, potendo fare a meno della “parte debole dell’essere umano”, ossia della mente. Ho passato la scorsa estate a leggere quel libro sconvolgente sotto molteplici punti di vista che è il De rerum natura. Nel Libro IV, Lucrezio elenca una serie di inganni dei sensi (facciamo attenzione alla parola “inganni”): le stelle nel cielo che ci sembrano ferme anche se vagano nello spazio profondo, il soffitto che vortica quando i bambini finiscono il loro girotondo, il marinaio cui pare che il sole nasca dal mare e nel mare si inabissi, la rifrazione di un remo immerso nell’acqua che lo fa sembrare dritto, i raggiri del sonno e dei sogni. Aggiunge che la nozione di ciò che chiamiamo “verità” è plasmata sui sensi, perché riteniamo che i sensi siano la cosa più affidabile. I sensi invece sono plagiati dall’illusione, sappiamo che perfino i colori sono un’illusione, le tre dimensioni, la percezione dello spazio, il caldo e il freddo… Tutto è illusione. Non c’è niente di vero. A buon diritto si può dire che non esiste neppure la nozione di vero.

Lucrezio però non se la sente di tirare dritto su questa deduzione fino a negare l’universo intero, e finisce per dire che, nonostante tutto, dobbiamo nutrire la massima fiducia nei sensi, perché ciò che è vero per i sensi, è vero in assoluto. Se Lucrezio lancia il sasso e nasconde la mano lo si deve al fatto – dice lui – che se mettiamo in discussione i sensi, crolla l’intera struttura della nostra esistenza. Quindi tocca andarci piano nello scrutare in certi abissi.

È più o meno la cosa che mi disse una volta uno dei tanti psichiatri che ho conosciuto negli anni: “È innegabile che affacciarsi su quel gorgo sia una cosa affascinante. Ma è pericoloso. Molto. Perciò glielo sconsiglio”.

Tanto la mente quanto il corpo quindi sono inaffidabili. Nei giorni in cui sperimentavo dure terapie farmacologiche per combattere i sintomi di una feroce depressione, avevo l’impressione di essere a stretto contatto con la realtà, più di quanto non lo fossi mai stato in vita mia. Ma quella che vedevo era una realtà totalmente priva di significato, era il cadavere della realtà, che i non depressi tendono generalmente a rianimare attraverso la loro briosa fantasia.

Nei momenti di peggiore sconforto, in effetti, si smette di credere a tutto, in primo luogo ai propri sensi. Ciò che chiamo sconforto però è una gigantesca epifania, una visione stereometrica delle falsità con cui ci consoliamo in ogni istante della nostra vita. Quello che mi chiedevo è se il mio sconforto fosse davvero la conseguenza, e non piuttosto la causa che mi portava a osservare quanto fossero falsi i verdetti dei miei sensi. La psicologia dice che lo sconforto derivato dalla troppa consapevolezza è una deviazione. Ma non lo dice solo la psicologia: lo dice la sociologia, lo dicono le scienze politiche, lo dice il senso comune. Tutto dice che se avverto l’assoluta falsità della condizione umana, sono fuori dal consesso civile, ho deviato per la via inammissibile.

Per cancellare tutto ciò dalla mente di un solo individuo non bastano i miliardi e il tempo di cui dispone Bryan Johnson. La sua idea di felicità del resto è dolce fino al candore. La sperimento in parte ogni volta che mi alleno per correre una maratona. È una felicità data dalla distrazione dei pensieri, dalla concentrazione, dall’attenzione che pongo sui meccanismi corporei, respirazione, gesto, appoggio del piede, strategie di decontrazione muscolare, gli stessi principi applicati nella pratica della meditazione. Insomma, una fatica bestiale. Che per giunta ha effetti brevissimi. Perché quello che forse Bryan non ha capito, e con lui quella parte di umanità che ha deciso di delegare sempre più decisioni e azioni, è che pensare a niente è cento volte più sfiancante che pensare a tutto.