Andrea Pomella

ARTICOLO n. 60 / 2025

MURAKAMI, LA CORSA, L’OSSESSIONE

Di cosa parliamo quando parliamo di sport

Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndr) perché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato. Trovi tutti gli articoli della serie qui.

Lessi L’arte di correre di Murakami appena fu pubblicato in Italia da Einaudi con la traduzione di Antonietta Pastore. Era il 2009, e se non ricordo male avevo iniziato a correre da circa tre anni.

Non correvo con sistematicità, facevo due o tre uscite alla settimana, preferibilmente al tramonto. Salivo in macchina e raggiungevo una strada alberata in aperta campagna, campi dorati a destra e a sinistra, grilli, uccellini e poco altro. La strada era un cul-de-sac lungo settecentocinquanta metri che terminava davanti al cancello di una vecchia villa. Insomma, parcheggiavo la macchina all’ombra e iniziavo a correre avanti e indietro. Ogni andirivieni contava un chilometro e mezzo. Potevo farlo al massimo per sei volte, nove chilometri in tutto, prima di rimettermi alla guida sudato e sfatto verso casa.

A quel tempo non partecipavo alle gare, non conoscevo nulla della tecnica di base della corsa, usavo un abbigliamento approssimativo, facevo tutti quegli errori che molto presto conducono i runner improvvisati a un infortunio, e quindi alla frustrazione, e quindi alla decisione di smettere di correre (ho proseguito ostinatamente così per molti anni, lasciando e riprendendo la pratica della corsa, prima di iniziare a fare le cose come si deve). La stessa cosa potrei dire della scrittura. In quegli anni ero uno scrittore senza regole, puro istinto, innamorato del gesto ma facile all’avvilimento. E quindi, quando Murakami pubblicò quella raccolta di brani a tema podistico, lo lessi perché era esattamente il libro di cui avevo bisogno: l’autoritratto di uno scrittore che corre. Potevo desiderare qualcosa di meglio?

A onor del vero il libro fu per me una delusione. Nell’arte di correre (il titolo americano occhieggiava a Carver, What We Talk About When We Talk About Love, solo che al posto di Love c’era Running, un giochetto che poi si sarebbe ripetuto in decine di altri libri), Murakami rifletteva sul legame che unisce il suo corpo in movimento alla sua mente creativa, tracciando una specie di autobiografia di un corridore. Nulla di diverso da quello che mi aspettavo. Ma mancava qualcosa. Cosa, l’avrei scoperto anni dopo, quando questo genere di scritture avrebbe conosciuto la sua stagione più felice.

Mancava la spada. Ecco. Intendo la spada che usa il samurai per squarciarsi il ventre nel suicidio rituale. L’immagine è un po’ forte, mi rendo conto. Benché Murakami in quel libro non si sottraesse dal raccontare di crampi, dolori insopportabili alle gambe, pustole da eccessiva esposizione solare, il libro era attraversato da una quieta stagnazione, dal sospetto di una continua rimozione. Non affondava mai la lama nelle proprie viscere squadernando l’unica cosa che davvero mi interessasse: l’ossessione. Perché è del tutto evidente che Murakami abbia vissuto gran parte della sua vita nell’assoluta ossessione che muove molti esseri umani alla corsa sulle lunghe distanze. Ma ciò che trapelava attraverso quelle pagine sembrava più che altro un tentativo di definire cosa NON fosse per lui la corsa. Non un’attività fisica. Non un modo per mantenersi in forma. Non un vezzo da scrittore di successo. E neppure parte di una routine salutista. E di conseguenza il suo memoir non era un trattato motivazionale né un diario sportivo.

Il senso del suo lavoro poteva essere racchiuso in una frase che compariva nelle prime pagine: “Coprire a passo di corsa lunghe distanze è semplicemente consono al mio carattere, mi fa sentire felice”.

Tutto qui? Ebbene sì. So che molti corridori si riconoscerebbero in una verità così semplice. E non c’è nulla di male ad ammettere che praticare uno sport ci rende felici. È che forse da uno scrittore della sua levatura mi aspettavo qualcosa di più. Ero animato dallo stesso pregiudizio che non mi ha mai fatto apprezzare fino in fondo i romanzi di Murakami? Può darsi. Eppure se penso all’opera narrativa di Murakami non fatico a scorgere connessioni sotterranee con la corsa. Ed è proprio questo che mi ha spinto a parlare di ossessione, qualcosa che di solito fa a cazzotti con l’idea di felicità.

Molti dei protagonisti dei romanzi di Murakami sono esseri solitari che abitano il proprio corpo e la propria mente con un senso di straniamento e di stupore, spesso immersi in routine ripetitive, nella musica, nel silenzio, nel vuoto. La corsa, pur non essendo sempre presente, si riflette nella struttura stessa delle sue narrazioni: nelle lunghe digressioni, nei movimenti ipnotici, nella pazienza con cui costruisce i suoi universi alternativi. Romanzi come Norwegian WoodKafka sulla spiaggia o 1Q84 hanno una qualità meditativa che rimanda alla corsa come pratica di interiorità. Il tempo della narrazione si dilata, si tende come un lungo tragitto da percorrere riducendo al minimo il dispendio energetico. Anche quando accade qualcosa di misterioso o surreale, Murakami non forza il ritmo, lascia che il lettore cammini – o corra – al suo fianco, che entri nel respiro del testo. C’è insomma una conoscenza dei meccanismi fisici e filosofici che sottendono alla pratica della corsa, ma lui ne fa un uso che ricorda molto certi saggi che lasciano balenare verità estremamente profonde in una sentenza semplice e quasi banale. Dev’essere un modo di pensare tipicamente orientale.

Nato nel 1949, Murakami inizia a correre regolarmente all’inizio degli anni Ottanta, dopo aver deciso di chiudere il jazz bar che gestiva a Tokyo per dedicarsi a tempo pieno alla narrativa. È un cambiamento radicale, e la corsa, introdotta quasi per necessità, si trasforma presto in un’esigenza vitale. Scrivere è un lavoro sedentario. Eppure richiede una quantità straordinaria di energia mentale. Correre diventa allora la contropartita fisica a quello sforzo immateriale, serve a bilanciare il corpo con la mente, a purificare i pensieri, ad affinare la resistenza e la tenacia, virtù fondamentali tanto per il podista quanto per lo scrittore.

Murakami corre ogni giorno, si sveglia presto, percorre almeno dieci chilometri, partecipa a una maratona all’anno, si dedica persino al triathlon. In questo regime rigoroso non c’è fanatismo, ma una precisa visione del mondo. La corsa, come la scrittura, non si improvvisa. È un impegno quotidiano con se stessi, una forma di ascesi moderna. In un articolo di un paio di anni fa apparso su «Fortune» firmato da Mari Yamaguchi confessa che la forza trainante della sua attività è ancora la corsa, anche adesso che ha abbondantemente superato i settanta. È la sua routine mattutina quotidiana: “Tradurre, correre e collezionare dischi usati”.

Quando mi è stato chiesto di scrivere questo articolo, dunque, la prima cosa che ho fatto è stato rileggere L’arte di correre. Ho sempre pensato a quanto sia bello parlare dei libri letti dieci o venti o trent’anni fa, libri che non si è mai più riletto, commentando solo ciò che si è conservato, con tutte le mancanze e le approssimazioni, catturandone un sapore, uno sbuffo rimasto a galleggiare nell’aria, un chiarore remoto, in una parola, un ricordo, che spesso è ingannevole. Ma in fondo è proprio l’inganno teso dal tempo che fa la bellezza di un libro, e quindi la sua persistenza. Perché quando parliamo dei libri lo facciamo sempre mentre li stiamo già dimenticando. In questo caso però ho voluto sommare le due esperienze: il ricordo del libro e la fresca rilettura.

Ebbene, c’era nell’arte di correre un passaggio di cui mi ero totalmente dimenticato, un passaggio importante. Mentre si trova a Cambridge nel Massachusetts per prepararsi alla maratona di New York, Murakami si inoltra in una notevole riflessione: “L’attività artistica, fin dalle prime fasi del suo sviluppo, ha in sé una componente malsana e antisociale”, scrive. “Proprio per questo tra gli scrittori – tra gli artisti in genere – non sono pochi quelli che nella vita quotidiana si comportano in maniera sregolata e asociale”.

A questa malattia dell’anima, contrappone un antidoto: “Dobbiamo costruirci un sistema immunitario specifico che possa neutralizzare quel pericoloso, se non fatale, elemento tossico che abbiamo dentro di noi”.

Questo antidoto lo individua nella forza fisica, nella cura del corpo. Nel suo caso, nella corsa. Conclude: “Per manipolare qualcosa di veramente malsano è necessario condurre una vita più sana possibile. Questa è la mia tesi”.

E lo fa (sorpresa!) dopo averci raccontato, tra le altre cose, di aver corso in passato un’ultramaratona di cento chilometri stressando il corpo oltre ogni limite, e in tempi – aggiungo – ancora avventurosi in cui non si prestava la necessaria attenzione a cose come l’alimentazione in gara, l’idratazione, e tutte quelle piccole e grandi strategie che oggi qualsiasi runner minimamente informato conosce bene.

La “componente malsana” curata con una forza altrettanto malsana che tuttavia si ritiene sana. Nella lettura di quasi vent’anni fa mi era sfuggito il vero passaggio ossessivo. Murakami aveva sfoderato – eccome – la spada del samurai: ero io a non essermene accorto.

ARTICOLO n. 41 / 2025

CORRERE UNA MARATONA

È il 16 marzo 2025 e sto per correre la mia seconda maratona, quella di Roma. Siamo quasi in trentamila, ammassati nelle griglie di partenza intorno al Colosseo. Mentre saltello sul posto per difendermi dal freddo mi guardo intorno e mi viene da farmi una domanda: cosa spinge trentamila persone a svegliarsi alle cinque del mattino nell’ultima domenica d’inverno e correre per quarantadue chilometri e centonovantacinque metri? È una domanda che ha molte risposte, nessuna esatta, tutte confutabili. Soprattutto ognuno ha le sue. Ciò che posso fare quindi è cercare di spiegare cosa spinge me.

La prima risposta che riesco a darmi ha un che di bizzarro. In realtà non rientra neppure tra i motivi principali che mi spingono a partecipare a una maratona, ma nel più ampio discorso che voglio affrontare ha comunque un suo rilievo. La corsa è l’unico sport che permette di presentarsi al via (gareggiare mi sembra un termine esagerato) insieme a dei professionisti. Non avrò alcuna possibilità di batterli e neppure di avvicinarmi ai loro tempi, ma correrò sulle loro stesse strade, fermandomi agli stessi ristori, passando per gli stessi punti di cronometraggio intermedi che cronometreranno anche loro. È un po’ come scendere in campo con la nazionale di calcio durante una partita dei mondiali, ma senza fare danni.

Il lato agonistico, che pure per molti esiste, per me non è una priorità. E se lo è, lo è solo per gli aspetti che riguardano la competizione con me stesso, la tensione al miglioramento, l’esplorazione delle possibilità. Ma c’è qualcosa di più importante. Nel mio caso non so bene se correre per così tanti chilometri rientri più nella categoria sport, psicologia, filosofia o perfino letteratura. Ogni attività sportiva è un miscuglio di discipline disparate. Ma nella corsa le componenti non sportive entrano in gioco in misura maggiore. Perché correre in fondo è un gesto umano primordiale. Una volta ho sentito un allenatore porre una domanda a una platea: “Il bambino impara prima a correre o a camminare?” La platea rispose compatta: “Camminare”. Al che lui replicò: “Sbagliato. Se osservate un bambino che compie i suoi primi passi vi accorgerete che il motivo per cui mette un piede davanti all’altro è che quello è l’unico modo che ha per evitare di spiaccicarsi con la faccia sul pavimento. Esattamente ciò che fa la corsa”. In effetti la corsa è questo: uno sbilanciamento del corpo in avanti, controllato e continuo, che produce movimento. In altri termini: la corsa è un’eterna caduta che non si realizza mai. Una delle principali ragioni per cui mi trovo al chilometro zero di quarantadue, quindi, è che mi piace cadere molto a lungo.

Non sarà un caso se tra i parametri biomeccanici che un corridore deve tenere d’occhio quando corre ci sia la cadenza, ossia il numero di passi al minuto. L’etimologia lo fa derivare dal latino cadentia, participio neutro plurale di cadĕre, quindi “l’insieme delle cadute”. Un corridore con una buona tecnica di corsa si dice che cada in media centottanta volte al minuto. Considerato che per completare la maratona correrò per quattro ore, faccio un calcolo veloce e stimo che oggi cadrò quarantatremila e duecento volte.

Tutto ciò assomiglia moltissimo a certi sogni in cui sogniamo di precipitare, per poi destarci di soprassalto. Si dice che in quei casi il brusco risveglio sia un espediente evolutivo che si è sviluppato dall’antica abitudine umana di dormire sugli alberi, una specie di allarme messo in atto dal nostro cervello per evitare di piombare giù dal ramo. L’interpretazione psicologica per questo tipo di sogni richiama paure difficili da controllare, senso di vulnerabilità e insicurezza. Tutte cose di cui effettivamente soffro. In ogni caso amo l’idea che correre sia un lungo sogno continuamente interrotto e alimentato dalla mia mancanza di stabilità.

Ha scritto un poeta russo: «Ti ringrazio, o Signore, per la dolcezza del respirare» (Valerij Brjusov, La preghiera). Correre per quarantadue chilometri significa anche sperimentare un altro modo di respirare. O forse no, il respiro è sempre quello. A cambiare è la consapevolezza, il modo in cui un atto naturale viene riposto in un sistema più vasto, molto più vasto di me. Perché inspirare ed espirare non sono solo due momenti di uno stesso gesto che all’interno della fisiologia umana garantisce la sopravvivenza del mio corpo. Sono soprattutto i due principi che regolano l’universo. Il battito del cuore, il moto ondoso, l’esplosione di una supernova, il Big Bang stesso, ogni cosa rientra in questa dualità. Contrazione ed espansione. Un tempo, quando correvo, pensavo, pensavo troppo, e immerso com’ero in tutto quel pensare il mondo smetteva di essere il mio elemento. Così correvo raggrinzito tra le pareti della mia mente, con il risultato che presto finivo per sfiancarmi. Ciò aveva ripercussioni anche sulla prestazione. Non era soltanto un rovello interiore, era qualcosa che aveva degli effetti misurabili.

Ora invece quando corro non penso a niente. Vivo come al di là della vita. Mi lascio andare a certe piccole epifanie, come rendermi conto all’improvviso che si può allentare i muscoli della faccia, distendere un certo nervo del piede, dimenticare di possedere la lingua, gli occhi, le unghie. Contraggo e rilascio continuamente, faccio parte dell’universo oscillante e ogni nuova inspirazione è una palingenesi.

Quattro mesi fa ho corso la mia prima maratona. Quattro mesi non sono abbastanza per dimenticare, ma se penso a quella maratona non ho ricordi nitidi. Perché quando corro si spegne tutto, dentro e intorno a me. Non è una semplice corsa la mia, è un volo a occhi chiusi. Conservo lampi di volti sconosciuti a bordo strada, uccelli in traiettoria radente, il disegno pavimentale delle strade del centro di Firenze, uomini in giacca che escono dalla hall di un albergo di lusso, corridori sfiancati con le mani sulle ginocchia, lampi, lampi, lampi attraverso un tempo in cui non sono praticamente esistito, in cui mi sono tramutato in un animale in corsa senza coscienza, storia, interiorità, discernimento, una pura macchina organica il cui unico intento è lesinare energia per non cedere.

Tutto questo è bello? Divertente? Sano? Non so, non posso dirlo. So che invecchiando la corsa diventa sempre più simile al sonno: un vuoto dolce e imprescindibile in cui la vita si dissolve.

A questa tendenza all’amnesia contribuisce la concentrazione, certo, ma anche una chiusura caratteriale che dalla vita mi porto nella corsa. Io quando corro non parlo con nessuno, nemmeno in gara, rispondo solo ai rari saluti che mi rivolge qualche spettatore a bordo strada. Non tanti a dire il vero, ma è una cosa che mi capita spesso. Gli sconosciuti faticano a rivolgermi la parola, forse per via di un’espressione respingente che ho stampata sulla faccia mio malgrado. Sono un solitario, questo è certo. Mi sento perfettamente solo anche correndo insieme a trentamila persone. Faccio caso anche a questo nella griglia di partenza della maratona di Roma. La corsa per me è il corrispettivo di uno spazio calmo, uno di quei luoghi sicuri in cui le persone possono attendere assistenza in caso di emergenza. Nel mio caso l’emergenza, il terremoto, l’incendio, è la vita stessa.

Spesso collochiamo le idee, le sensazioni, i concetti, in un luogo, e tingiamo quel luogo di un colore, di una luce, e li rendiamo visibili. Sono luoghi secondari della nostra vita, posti frequentati magari una volta sola, cent’anni fa. Ecco. Da bambino avevo una grande cassa in giardino in cui tenevo i miei giochi. La cassa era sul retro, dove non si andava quasi mai. Quando penso alla corsa mi viene in mente quell’ala disabitata del giardino. Per me la corsa è collocata nella stessa luce turchese che sfumava verso l’arancio (quella parte del giardino dava a ovest, dove il cielo al tramonto diventava un’immensa buccia d’albicocca). Lì mia madre stendeva il bucato. Quando corro, la corsa è un lenzuolo azzurro che si muove come un lago.

ARTICOLO n. 25 / 2025

PENSARE A NIENTE

C’è un documentario su Netflix che s’intitola Don’t Die e racconta un anno della vita di Bryan Johnson, un miliardario americano che dedica l’intera giornata alla cura del corpo, con l’obiettivo minimo di ringiovanire, e quello massimo di vivere per sempre. Per centrare almeno uno dei due obiettivi fa una vita di merda (ça va sans dire). Bryan ingurgita un diluvio di pillole, segue una dieta implacabile, si allena come un atleta professionista. Non solo. Il suo corpo ogni giorno è sottoposto a una routine delirante: infrarossi, trasfusioni di plasma, terapie geniche. Il tutto gestito da un algoritmo. Questo programma ha un nome, Blueprint Project, e un costo di due milioni di dollari l’anno.

Durante il racconto che fa di sé, Bryan parla del suo passato di imprenditore rampante sopraffatto da una tipica sindrome da burnout: la sua vita privata andava in pezzi e l’unica cosa che gli veniva facile era non alzarsi più dal letto. Era giunto alla conclusione che il suo problema fosse il cervello. Adesso invece, da quando cioè ha affidato la cura del corpo a un algoritmo, non deve più pensare a niente e sta enormemente meglio.

«Il cervello è la parte debole dell’essere umano», dice. Una cosa non priva di verità. Un’ovvietà forse. Ma nel pronunciarla, centra uno dei nodi su cui si sta giocando il futuro della specie umana: un futuro (ma diciamo pure un presente) che mira in ogni campo a sottrarre potere alla logica, al pensiero, alla conoscenza, al senno, cose che possono essere delegate alle macchine, a chi detiene il potere computazionale, alla ristretta minoranza che gestisce i big data, un futuro che ci sta progressivamente liberando dalla seccatura di dover pensare. E non è un caso che nel mondo tutto ciò che è legato alla cura del pensiero sia sotto attacco, che la scienza e il lavoro intellettuale siano deprezzati e umiliati, che la rappresentanza politica sia affidata a individui sempre più rozzi e ignoranti. Un processo che non inizia oggi, ma che è già in atto da secoli. Qualche anno fa Gerald Crabtree, un genetista dell’università di Stanford, dimostrò che la specie umana ha raggiunto l’apice della sua evoluzione cerebrale circa duemila anni fa, per poi scivolare verso un inarrestabile declino cognitivo.

Se lo scopo dell’Illuminismo era liberare l’uomo dall’incapacità di valersi del proprio intelletto – «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza» era il motto invocato da Kant – due secoli e mezzo dopo l’umanità sembra proporsi esattamente lo scopo contrario: abbi il coraggio di servirti di un’intelligenza altra. Non mi riferisco soltanto all’avvento dell’AI, cui nei prossimi tempi demanderemo in modo sempre più massiccio compiti e funzioni (benché al momento, malgrado i cupi allarmi, mi paia più utile che nociva), ma di una riscoperta del corpo, inteso come corpo pensante e gaudente, che inibisce la mente dal generare frustrazioni, sofferenze e dolore. Quello che si prospetta è uno scenario non di poco conto, che pone al centro una potente ridefinizione del concetto stesso di felicità.

Se infatti l’uomo del futuro non agirà obbedendo al cervello, ma ai polmoni, al fegato, al cuore (come sostiene Bryan Johnson), potrei provare fin da subito a immaginarne le conseguenze. La psicologia diventerà una disciplina inutile. Il sapere sarà un fardello che non ci riguarderà più, perché a farsene carico saranno i cloud. Non conosceremo tristezza, angoscia, depressione. Saremo idioti e felici, ma di una nuova forma di felicità. Se è vero che per Schopenhauer chi cerca attivamente la felicità va per forza di cose incontro a delusioni e frustrazioni, noi saremo felici, perché non sapendo più neppure cosa sia la felicità, avremo finalmente smesso di cercarla.

Nelle innumerevoli meditazioni che faccio su me stesso, un quesito cui torno spesso è: cos’è che mi rende davvero umano? Il rischio che corro è di cadere sempre nella vecchia trappola cartesiana del dualismo tra res extensa e res cogitans, finendo per far prevalere la seconda sulla prima. Sono umano perché penso. Ma il corpo non è estraneo al mio pensare. Se vogliamo dirla tutta, il corpo, per la parte organica che riguarda il cervello, contiene quel mondo astratto agitato da impulsi elettrici che è il pensare. E le stesse funzioni del corpo influenzano l’oggetto e la qualità delle mie speculazioni.

Se potessi rivolgere una domanda a Bryan Johnson, probabilmente sarebbe: sei proprio sicuro che le esperienze del corpo sono più concrete degli astratti pensieri?

Il corpo dialoga con la realtà oggettiva del mondo attraverso i sensi. Se uno dei sensi viene meno, si interrompe una via di comunicazione tra noi e la realtà. Il corpo è lì, al confine. È la membrana esterna che tocca ciò che ci è estraneo per natura. E perciò è il nostro mezzo principale di conoscenza, è la sonda che raccoglie il materiale per il cervello, il quale poi lo rielabora e gli dà forma.

Immaginiamo di vivere la condizione auspicata da Bryan Johnson, in cui la seconda fase del processo di conoscenza è abolita, in cui ci limitiamo soltanto a fare esperienza del mondo attraverso i sensi, potendo fare a meno della “parte debole dell’essere umano”, ossia della mente. Ho passato la scorsa estate a leggere quel libro sconvolgente sotto molteplici punti di vista che è il De rerum natura. Nel Libro IV, Lucrezio elenca una serie di inganni dei sensi (facciamo attenzione alla parola “inganni”): le stelle nel cielo che ci sembrano ferme anche se vagano nello spazio profondo, il soffitto che vortica quando i bambini finiscono il loro girotondo, il marinaio cui pare che il sole nasca dal mare e nel mare si inabissi, la rifrazione di un remo immerso nell’acqua che lo fa sembrare dritto, i raggiri del sonno e dei sogni. Aggiunge che la nozione di ciò che chiamiamo “verità” è plasmata sui sensi, perché riteniamo che i sensi siano la cosa più affidabile. I sensi invece sono plagiati dall’illusione, sappiamo che perfino i colori sono un’illusione, le tre dimensioni, la percezione dello spazio, il caldo e il freddo… Tutto è illusione. Non c’è niente di vero. A buon diritto si può dire che non esiste neppure la nozione di vero.

Lucrezio però non se la sente di tirare dritto su questa deduzione fino a negare l’universo intero, e finisce per dire che, nonostante tutto, dobbiamo nutrire la massima fiducia nei sensi, perché ciò che è vero per i sensi, è vero in assoluto. Se Lucrezio lancia il sasso e nasconde la mano lo si deve al fatto – dice lui – che se mettiamo in discussione i sensi, crolla l’intera struttura della nostra esistenza. Quindi tocca andarci piano nello scrutare in certi abissi.

È più o meno la cosa che mi disse una volta uno dei tanti psichiatri che ho conosciuto negli anni: “È innegabile che affacciarsi su quel gorgo sia una cosa affascinante. Ma è pericoloso. Molto. Perciò glielo sconsiglio”.

Tanto la mente quanto il corpo quindi sono inaffidabili. Nei giorni in cui sperimentavo dure terapie farmacologiche per combattere i sintomi di una feroce depressione, avevo l’impressione di essere a stretto contatto con la realtà, più di quanto non lo fossi mai stato in vita mia. Ma quella che vedevo era una realtà totalmente priva di significato, era il cadavere della realtà, che i non depressi tendono generalmente a rianimare attraverso la loro briosa fantasia.

Nei momenti di peggiore sconforto, in effetti, si smette di credere a tutto, in primo luogo ai propri sensi. Ciò che chiamo sconforto però è una gigantesca epifania, una visione stereometrica delle falsità con cui ci consoliamo in ogni istante della nostra vita. Quello che mi chiedevo è se il mio sconforto fosse davvero la conseguenza, e non piuttosto la causa che mi portava a osservare quanto fossero falsi i verdetti dei miei sensi. La psicologia dice che lo sconforto derivato dalla troppa consapevolezza è una deviazione. Ma non lo dice solo la psicologia: lo dice la sociologia, lo dicono le scienze politiche, lo dice il senso comune. Tutto dice che se avverto l’assoluta falsità della condizione umana, sono fuori dal consesso civile, ho deviato per la via inammissibile.

Per cancellare tutto ciò dalla mente di un solo individuo non bastano i miliardi e il tempo di cui dispone Bryan Johnson. La sua idea di felicità del resto è dolce fino al candore. La sperimento in parte ogni volta che mi alleno per correre una maratona. È una felicità data dalla distrazione dei pensieri, dalla concentrazione, dall’attenzione che pongo sui meccanismi corporei, respirazione, gesto, appoggio del piede, strategie di decontrazione muscolare, gli stessi principi applicati nella pratica della meditazione. Insomma, una fatica bestiale. Che per giunta ha effetti brevissimi. Perché quello che forse Bryan non ha capito, e con lui quella parte di umanità che ha deciso di delegare sempre più decisioni e azioni, è che pensare a niente è cento volte più sfiancante che pensare a tutto.