Alice Valeria Oliveri

ARTICOLO n. 59 / 2025

NANNI MORETTI E LA PALLANUOTO

Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndrperché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato. Trovi tutti gli articoli della serie qui.

«Da quando ho iniziato a fare cinema voglio metterci la pallanuoto. Dicono che i miei sono film autobiografici e la pallanuoto è metà del mio tempo…» racconta Nanni Moretti in accappatoio, «…però non ci sono mai riuscito, è un ambiente troppo caratterizzato». Parla al microfono di Gianni Di Gregorio, regista di Pranzo di Ferragosto, che nel documentario del 1984 diretto da Marco Colli veste i panni di una sorta di investigatore privato, trench, sigaro e colonna sonora noire che lo accompagnano tra le strade di Roma Nord, in cerca di indizi per comporre il suo identikit. La prima scena che vediamo in Riso in bianco: Nanni Moretti atleta di se stesso è quella di una piscina: lui, l’oggetto dell’indagine, galleggia a peso morto indossando un costume azzurro con il tricolore. Sono gli anni tra Sogni d’oro, con cui Moretti vinse il Leone d’Argento a Venezia, e l’inizio delle riprese di Bianca, ha da poco compiuto trent’anni, vive il tempo di latenza tra un successo e l’aspettativa per il futuro: confermare o smentire il buon risultato, passare dalla categoria di giovane promessa del cinema d’autore italiano a quella di regista stimato o venire archiviato con «quello che fa sempre lo stesso film». 

Come scopriremo diversi anni dopo ne Il sol dell’avvenire, film di confessioni e di pareggio di conti con il passato, dove pure gli oggetti di scena riemergono dalle vecchie scenografie – la copertina di patchwork, il gelato – , quell’atteggiamento disinteressato, lucido, anche un po’ sornione, per non dire sprezzante, nei confronti del grande pubblico (che in Sogni d’Oro, per capirci, era «di merda») maschera una certa inquietudine nei confronti delle reazioni che i suoi film generano, sia tra il bracciante lucano, il pastore abruzzese e la casalinga di Treviso, che verso i critici. «Quei registi che se un film va male danno la colpa ai critici mi fanno pensare ai miei compagni di squadra di pallanuoto che quando si perde si dà la colpa agli arbitri», spiega incalzato dalla voce narrante, sempre in accappatoio, sempre tra i suoi elementi: l’acqua e l’obiettivo. Lo si potrebbe dedurre dal film sulla pallanuoto che poi in effetti ha fatto nel 1989, Palombella rossa, che Moretti ha un legame forte con questo sport, ma nuotando qualche bracciata più in là, oltre l’associazione tra lui e la cuffia, si scopre che il fondale è più profondo di quanto pensassimo. Pallanuoto e cinema sono infatti gli elementi di un bivio esistenziale morettiano: da un lato ciò che sarebbe potuto diventare, pallanuotista di serie A, dall’altro ciò che poi è diventato, regista di serie A. 

La palombella, come è noto anche a chi non pratica sport acquatici di squadra, è il pallonetto. Moretti da piccolo diventa particolarmente bravo a eseguire questo tiro parabolare in porta, ai tempi in cui esordiva con la sezione pallanuoto della Lazio e in cui veniva convocato con la Nazionale giovanile: il suo ruolo nella squadra, ironia della sorte o forse no, era quello del regista. Non disponendo di una grande forza muscolare, si concentra sulla tattica, fa di necessità virtù e sfrutta i mezzi che ha per diventare un grande giocatore, stessa strategia che mette in pratica nella realizzazione dei suoi primi film. Pochissimi soldi, pochi attori – anzi, all’inizio quasi nessuno, escluso amici e parenti che poi sono diventati protagonisti del Moretti-verse – poche inquadrature, macchina fissa, nessun dolly, sempre lo stesso protagonista, Michele Apicella, alter ego neanche così tanto alter, agglomerato di nevrosi e di idiosincrasie, ossessioni, i dolci, le scarpe, e vanità, mi si nota di più se non vengo o se vengo e sto in disparte. 

Eppure, il Michele Apicella di Palombella rossa, il suo film più intimo, dal momento che si svolge tutto in un campo da pallanuoto, la sua vocazione giovanile e poi passione da adulto, con l’espediente metaforico della partita, è anche il film in cui il protagonista è meno stereotipatamente morettiano del solito. Certo, ci sono le citazioni cult, lo schiaffo alla giornalista, le parole sono importanti, il canto a mollo, con il sentimento popolare che nasce da meccaniche divine, ma c’è anche, soprattutto, l’amnesia: Moretti fa dimenticare al suo protagonista, dirigente del Pci, tutto ciò che c’è stato prima di lui, che in una lettura più ampia è ciò che sta per fare il partito della sinistra italiana a pochi anni dalla Bolognina, ma che, al contempo, è anche ciò che il regista vorrebbe fare con sé. 

Consapevole di aver creato un cinema personale, particolare, non per una generazione ma per un gruppo di amici, «a malapena rappresento me stesso», dice in Sogni D’Oro, non per un intero paese ma per una città, o meglio per il quartiere di una città, Prati, che però, contro ogni sua stessa previsione, diventa invece universale, Moretti si stacca dalle sue nevrosi domestiche – «qualcuno dice che quando finiranno queste nevrosi finiranno anche i miei film», confessa a Colli – e sposta la rappresentazione della realtà verso un piano simbolico. La pallanuoto come campo di astrazione, attorno al quale ogni personaggio racchiude allegoricamente un pezzo del presente, in dialogo con il partito, e la pallanuoto come luogo di scontro, parallelo a quello retorico del programma televisivo dove il protagonista è chiamato a rispondere. E poi, soprattutto, la trasferta, il pubblico nemico che intona cori all’unisono, il palazzetto di Acireale, la squadra che gioca fuori casa, come il politico che parla in una tribuna con tutti contro, l’avversità diffusa e soffocante dentro la quale si è messo lui stesso, come singolo ma anche come parte di una squadra. 

Durante le riprese di Palombella rossa, Moretti si ruppe un mignolo, in una delle tante inquadrature fatte per mettere in scena la rissa tra lui e un altro giocatore. Ha ancora il dito storto, segno indelebile di quella prima produzione di un suo lungometraggio con la Sacher film; la seconda sarà il documentario sul dibattito interno al Pci nei giorni funesti di Occhetto, La cosa, che comincia proprio in una sezione siciliana, chissà se per coincidenza o per continuità. È questo contrasto tra fisico e metafisico che rende Palombella rossa così peculiare, così pieno di idee, di problemi e di ostacoli complessi e al contempo così elementare come lo schema di uno sport, creato apposta per essere seguito nella semplicità di poche regole e molta azione. La scelta della pallanuoto come veicolo narrativo, come cornice di senso, è un modo per rendere davvero personale un cinema tacciato di autoreferenzialità. Un’altra tattica geniale di un bravo giocatore, oltre che di un bravo regista, finge il distacco con la lontananza di una metafora, mentre mette in scena la parte più profonda e privata di sé, quella legata a un dato biografico sospeso e irrisolto, la scelta di chi si vuole diventare e cosa si vuole fare da grandi, le possibilità che restano aperte anche solo nella fantasia del cosa sarebbe successo se.

Alla fine di Riso in bianco, tra una partita a calcetto, una corsa in bici, un palleggio a tennis, Moretti dice che stanno per finire le dieci settimane di riprese di Bianca e che nel tempo libero continua a fare sempre qualcos’altro. «Questo qualcos’altro mi serve a trovare la concentrazione, la tensione e il nervosismo per fare il mio film» spiega, indossa una tuta da ginnastica, poi la maglia della Lazio in un torneo di calcetto nonostante sia un tifoso della Roma. «Mi serve a superare l’imbarazzo e addirittura a recitare, mi serve a trovare la sfacciataggine per raccontare me stesso. Quindi, fare sport non perché fa bene, perché si frequenta un ambiente sano, tutt’altro, o perché rilassa, non rilassa, o perché distrae, non distrae. Fare sport perché è un esercizio, un allenamento per essere in qualche modo, anche nel cinema, atleti di sé stessi». Non sappiamo come sarebbe stato Moretti pallanuotista professionista, regista della Nazionale, palombista implacabile. Moretti regista di film, invece, per fortuna lo vediamo ancora.

ARTICOLO n. 53 / 2025

“THE END”: UNA VITA NEL BUNKER

il cinema di Joshua oppenheimer

In collaborazione con I Wonder pubblichiamo un testo di Alice Valeria Oliveri su The End di Joshua Oppenheimer dal 3 luglio al cinema e sui suoi documentari The Act of Killing e The Look of Silence presenti sulla piattaforma I Wonderfull

Non è passato molto tempo da quando Hadja Lahbib, commissaria all’Uguaglianza e alla Gestione delle crisi dell’Unione Europea, ci mostrava in un video con tono ironico alla What’s in my bag ma in versione Survival edition di cosa si componesse il kit di sopravvivenza consigliato da Bruxelles per la guerra e le crisi. Una power bank, dei contanti, fiammiferi, del cibo in scatola: se non fosse che siamo nel mezzo di due guerre atroci e a un passo dall’Occidente, governati da solide figure politiche che indossano cappellini promozionali, nel pieno effetto del riscaldamento globale e a qualche anno di distanza da una pandemia, avremmo forse potuto sintonizzarci meglio con il piglio scanzonato di Lahbib, pensando quel kit più come la preparazione del nostro zainetto per L’Isola dei Famosi che come emanazione simpatica ma anche pratica di un possibile conflitto nucleare.

Oltre agli errori di comunicazione più evidenti di quel video, c’è qualcosa nel sottofondo delle parole pronunciate dalla commissaria UE che risuona in modo insopportabile. È la sensazione di essere presi in giro due volte: la prima perché ciò che offre non è una soluzione ma una microscopica e ridicola toppa, la seconda perché è chiaro che, nel caso di un’emergenza di quel tipo, non sarà il nostro coltellino svizzero a salvarci dalla devastazione. È il teorema del Titanic, le scialuppe non bastano per tutti e c’è chi ha comprato un biglietto in prima classe, gli altri possono indossare il salvagente e sperare che con il cambiamento climatico l’acqua dell’oceano sia un po’ meno fredda di quella in cui affonda Leonardo Di Caprio incartapecorito. Ed è il tema centrale di The End, il musical post-apocalittico, se così possiamo definirlo nella sua trama fatta di un futuro che solletica il presente, di Joshua Oppenheimer, regista già noto per i suoi documentari, ora alle prese con un genere che si presta in modo peculiare sia all’ambientazione che ai personaggi del suo film.

La mescolanza di forme narrative cinematografiche, del resto, non è una pratica estranea a Oppenheimer: in The Act of Killing, documentario con cui ha esordito nel 2012, vediamo gli autori del colpo di Stato in Indonesia del 1965, sfociato in una delle più gravi epurazioni del Novecento, che rimettono in scena i loro atti criminali. Ciò che la storia postuma ha definito tra le più violente e disumane cacce ai comunisti di tutti i tempi diventa una messa in scena tragicamente surreale poiché ricreata dai suoi protagonisti, vecchi paramilitari che oggi vestono i panni di borghesi benestanti e che si prestano a questo gioco di finzione basato sulla realtà dei loro stessi omicidi. Anche in The look of silence, del 2014, Oppenheimer racconta il massacro in Indonesia, ma da un punto di vista diverso, ossia la storia di Adi, un uomo che ha perso suo fratello per mano di alcuni membri del Komando Aksi nell’eccidio del Silk River e che incontra direttamente i responsabili di questo omicidio per ricostruire faccia a faccia la verità della storia, non solo familiare ma anche del suo paese e di un genocidio di cui purtroppo non si parla così tanto.

Con The End Oppenheimer ci porta da tutt’altra parte, anche se lo stile provocatorio dei suoi documentari non sparisce, si trasforma. Diventa infatti il presupposto stesso del genere musical a fare da miccia per la provocazione: se per antonomasia le canzoni nei film fungono da strumento consolatorio, addolciscono le immagini, avvolgono il racconto con una patina onirica che fa da filtro alla narrazione, nel caso di The End la funzione è opposta. La metafora della musica come rifugio dalla realtà e strumento di evasione diventa letteralmente un bunker dentro il quale una famiglia di ricchissimi speculatori si nasconde dopo un’apocalisse climatica creata dai loro stessi affari. Il mondo attorno a loro è diventato un deserto di sale e tenebre, ma dentro quel nascondiglio ricoperto da opere d’arte preziosissime, un padre, una madre, un figlio e tre persone selezionate solo in funzione del loro compito strumentale all’interno dell’economia domestica – maggiordomo, medico, amica subalterna ai bisogni della padrona – simulano un’esistenza normale. 

Siamo circondati da racconti in chiave eat the rich, dalla santificazione internettiana di Luigi Mangione agli asteroidi di Dont Look Up, sublimiamo le ingiustizie sociali e i paradossi che ci passano davanti agli occhi, tra un Bezos che invade Venezia per il suo matrimonio e Katy Perry che paga un milione di dollari per stare dieci minuti nello spazio, con storie in cui alla fine, a pagare, sono i potenti, mentre nella realtà tutto resta identico. La chiave inedita di Oppenheimer, in questo senso, sta proprio nell’assenza di rivincita che vorremmo vedere in un film come The End: la critica al presente, con la distruzione del pianeta per mano di pochi senza scrupoli, è chiara, ma lo è altrettanto anche l’impossibilità di risoluzione di questo stato per mano di una singola persona, che in questo caso è la giovane donna che riesce a entrare nel rifugio dall’esterno. Tutti loro, nessuno escluso, covano il ricordo di un momento in cui hanno fatto del mors tua vita mea l’unica strategia di sopravvivenza, e tutti loro, all’interno di quel sistema isolato che hanno creato per simulare la realtà, sono consapevoli della mancanza di senso che sta alla base di una sopravvivenza a scapito del resto del mondo. A cosa serve conservare le opere dei grandi pittori impressionisti  e appenderle sulle pareti della propria casa se nessuno, eccetto chi li possiede, può vederli? A cosa serve l’arte stessa, nella sua bellezza, se rimane nascosta sotto terra mentre il mondo fuori brucia?

A queste domande rispondono le canzoni. Non canzoni allegre né di rottura rispetto al tono drammatico e volutamente asettico del film, ma malinconiche e poco coinvolgenti, rassegnate, traduzioni musicali dei pensieri più inconfessabili dei protagonisti, voci della coscienza che rimbalzano sulle pareti della prigione dentro cui devono vivere se vogliono sopravvivere. Tilda Swinton, che interpreta la madre della famiglia, ex ballerina del Bolshoi, collezionista d’arte scrupolosa e apprensiva, è forse il personaggio a cui riesce meglio l’operazione di autocoscienza musicata, in un dialogo immaginario con la sua, di madre, che ha lasciato indietro nel mondo distrutto, senza offrirle la possibilità di salvezza che invece hanno avuto lei e suo marito e che ricorda con i pensieri che fanno tutte le persone distanti dalle loro origini. Avrei potuto passare più tempo con te? Ti ricordi quando facevamo questa cosa insieme? Swinton parla da sola, o meglio, canta in solitudine aggiungendo solamente altra inquietudine all’atmosfera già rarefatta della sua quotidianità inutile. 

Nella puntata Once more with feeling della serie televisiva cult Buffy – l’Ammazzavampiri tutti i protagonisti cominciano a cantare senza sapere perché. Lo scopriamo solo a un certo punto dell’episodio, quando chi canta e balla senza sosta comincia a morire per autocombustione: la felicità spensierata del musical si trasforma in terrore, non è per gioia incontenibile e diffusa che la città è diventata una Broadway a cielo aperto ma per mano di un demone che vuole eliminare la razza umana a colpi di tip tap e armonizzazioni a cappella. In un modo simile anche se con risultato diverso, l’espediente contrastante tra forma e contenuto di The End, la sicurezza che genera la musica, ciò che associamo alla voce di nostra madre che ci fa addormentare o alla felicità adolescenziale dei nostri gusti che si formano, è l’involucro asfissiante dentro cui sopravvivono persone sole, senza alcuna concezione della collettività e del bene comune. La vita prosegue dentro al bunker, nascono bambini, si scrivono libri, si preservano i quadri, ma sono semi piantati nel sale, lo stesso che li avvolge e li protegge. È un kit d’emergenza per i disastri nucleari presentato come un simpatico compagno di viaggio, una canzoncina con cui alleggerire il senso di oppressione, mentre fuori, la realtà, è tutto tranne che un «canta che ti passa».


Le proiezioni alla presenza del regista:

  • Giovedì 3 luglio – ROMA – cinema Barberini – 20:00 
    The End  INTRODUZIONE+Q&A
  • Venerdì 4 luglio – MILANO – cinema Beltrade – 20:40
    The End INTRODUZIONE+Q&A
  • Sabato 5 luglio – BOLOGNA – CINEMA RITROVATO omaggia Oppenheimer
    The Act of Killing – Cinema Modernissimo – 18:00
    The Look of Silence – Piazza Maggiore – 21:45
  • Domenica 6 luglio – MILANO – Anteo Palazzo del Cinema – 10:00
    The End – Lezione di Cinema con Simone Soranna al termine

ARTICOLO n. 44 / 2025

QUESTA SONO IO

Questa sono io (Woman Of) di Małgorzata Szumowska, Michał Englert con Małgorzata Hajewska-Krzysztofik, Joanna Kulig, Bogumila Bajor, Mateusz Wieclawek è in uscita nelle sale il 29 maggio distribuito da I Wonder Pictures. Guarda qui il trailer e trova qui la sala più vicina a te.

Per noi nati troppo tardi da poter godere appieno dei benefici del Novecento e troppo presto per essere nativi digitali, le televisioni private erano quanto di più vicino all’anarchia di internet e dei contenuti che offre. È su Antenna Sicilia, alla fine degli anni Novanta, che ho scoperto l’esistenza di un anime giapponese dal titolo Ranma ½. Troppo esplicito per finire sulle reti Fininvest, troppo poco educativo per passare dalla Melevisione, Ranma ½ si guardava un po’ di nascosto. La storia di questo ragazzo che, una volta a contatto con l’acqua calda, si trasformava in una bellissima ragazza, creando scompiglio nel villaggio, era percepito come ambiguo, proibito. In realtà, nel suo modo di raccontare ciò che oggi definiremmo «fluidità di genere», era estremamente libero, soprattutto agli occhi di chi aveva ancora addosso poche sovrastrutture che ne filtrassero il senso.

Non credo sia un caso che negli anni prima della pubertà ci travestiamo con disinvoltura da personaggi immaginari senza che questa cosa sia ricoperta da strati di ironia. È negli anni in cui si guardano i cartoni animati che anche il genere, parola che oggi fa da arma nucleare nel campo di battaglia delle guerre culturali, si flette, cambia, si adatta a seconda dell’esigenza: giocando con i miei coetanei, avrei dato qualsiasi cosa pur di essere come Ranma e diventare maschio. Niente, per ciò che ricordo di quella fase della mia vita, mi suggeriva che ci fosse vergogna nel volersi immaginare con un’altra forma, sensazione del tutto opposta a quella che invece accompagna l’adolescenza nella graniticità dell’affermazione della propria identità. Del resto, crescere vuol dire indurirsi, non solo nelle cartilagini che diventano ossa, ma anche nei pensieri che si cristallizzano e si trasformano in opinioni, limiti, pregiudizi. «Riuscirai a chiamarmi Ariela?» chiede la protagonista di Questa sono io, il film di Malgorzata Szumowska e Michal Englert, a sua madre, dopo che per molti anni, o meglio decenni, è stata Andrzej. La risposta ovvia, in un sistema di valori che ammette la libertà dell’autodeterminazione, è sì. Quella che ottiene Ariela, invece, è molto distante dall’agilità con cui si dà per scontato che la propria identità possa mutare. 

Paragonare il desiderio di un bambino o di una bambina di cambiare abiti e giocare a vivere nelle convenzioni estetiche del genere opposto, come fa la protagonista di Questa sono io nella prima parte del film, a una disforia di genere è chiaramente un’esagerazione. Immedesimarsi nella sensazione di gioia e completezza che prova una persona costretta a vivere con un nome e un sesso che non è il suo e che finalmente può sentirsi libera di essere chi vuole, invece, è un esercizio semplice se ci sforziamo di ricordare tutte le volte in cui l’elasticità dei nostri pensieri ci ha concesso di immaginarci altro dal modo in cui siamo percepiti. Questa sono io racconta quarant’anni della vita di una persona che, partendo da un’infanzia in cui indossare lo smalto per le unghie e rubare qualche abito da donna sembrava solo un modo per giocare, ha capito gradualmente non solo che il corpo con cui era nata non era il suo, ma anche che il mondo che la circondava non avrebbe fatto niente per aiutarla a diventare ciò che desiderava. È la storia di un pensiero facile da comprendere, se osservato con lo strumento dell’immedesimazione narrativa, che si scontra con la durezza di un rifiuto incomprensibile. O meglio, perfettamente comprensibile se lo collochiamo nella sfera dei divieti e degli ostacoli che si frappongono tra la felicità di chi sente di essere Ariela nonostante sia nata Andrzej e la sua realizzazione. 

L’argomento è scivoloso. Tutto ciò che riguarda le persone transgender, dai percorsi psicologici a quelli farmacologici, dai diritti negati al linguaggio appropriato da usare è potenziale materiale di scontro. Chi non lo vive in prima persona difficilmente può capirlo, così come chi strumentalizza questa realtà nella maggior parte dei casi non ha idea di cosa comporti un percorso di transizione, se non in una versione stereotipata e superficiale. La YouTuber Natalie Wynn, sul suo canale di approfondimento filosofico e politico ContraPoints, ha spesso parlato della sua transessualità raccontando le miriadi di sfaccettature che la transizione comporta, anche in termini teorici: se un comico intelligente come Ricky Gervais crede che si possa paragonare la disforia di genere con il volersi sentire uno scimmione, come in una sua famosa battuta su Caitlyn Jenner, vuol dire che la consapevolezza della complessità di un percorso simile è davvero bassa, e che il senso stesso del dark humor, che risiede nella cura del dettaglio, viene sacrificato in favore della trivialità. Cosa succede, allora, in Questa sono io, se le tappe e le emozioni sono rappresentate con la lunghezza necessaria a capire la profondità di una storia simile? 

Succede che la rigidità del pensiero adulto lascia spazio alla morbidezza dell’infanzia, in cui anche noi persone cisgender ci siamo lasciati guidare dalla fluidità. Succede che, nella storia di Andrzej, che lotterà tutta la vita per essere Ariela, contro la sua famiglia che non la accetta mai davvero, contro il governo polacco, contro gli ostacoli materiali che incontra, dai farmaci costosissimi ai medici che sottovalutano il suo disagio, vediamo una trasformazione. Non solo quella di una persona, ma anche quella di un paese che passa dal comunismo al capitalismo, tra gli anni Ottanta e il presente, con i murales Solidarność e il volto di Wojtyla che aleggia alle spalle dei protagonisti. Una trasformazione che, come prova la vicenda di Ariela, è parziale, incompleta. La libertà che dovrebbe accompagnare il futuro e il riconoscimento dei propri diritti non è universale, e la vita che Ariela vorrebbe vivere per essere ciò che sente di essere da quando è bambina ma che ha potuto cominciare a esprimere solo da grande è il prodotto di una società che ancora non accetta la sua diversità, tra burocrazie ostili e irrisione dal mondo circostante. 

Ariela osserva la sua vita dall’alto, arrampicandosi su trespoli che le consentano di guardare la piccola città di provincia in cui nasce e cresce senza che questa guardi lei. Quando scende, gli altri si accorgono che esiste: moglie, figli e amici comprendono, seppur con grande difficoltà, la natura del suo disagio, proprio perché conoscono l’interezza della sua storia. Conoscono i colori trasognati e sfumati dei suoi primi anni di giovinezza, il passaggio a quelli più scuri che avvolgono un’età in cui lo scontro con la realtà della sua inadeguatezza diventa anche un ostacolo per la vita sociale e il lavoro. La vita di Ariela in Questa sono io è un racconto delicato e infantile di una trasformazione dolorosa che prende tutto il peggio di un’età adulta lastricata di barriere. Noi spettatori, per capirla, siamo chiamati a pescare da quei sentimenti leggeri e malleabili che ci hanno fatto credere, in un altro momento della nostra vita, di poter essere chi volevamo, proprio come Ariela e chi come lei desidera poter vivere in un altro sé stesso per poter essere sé stesso.