ARTICOLO n. 48 / 2025
Di Marina Viola
UN FIGLIO CHE ESCE DALLE FILE
“Tutto l’amore che serve” di Anne-Sophie Bailly
Dal 19 giugno arriva al cinema Tutto l’amore che serve di Anne-Sophie Bailly distribuito nelle sale italiane da I Wonder che ringraziamo per la disponibilità e il supporto. Guarda il trailer qui e trova la sala più vicina a te in cui vederlo.
Ho visto il film Mon Indispensable, il cui titolo italiano è Tutto l’amore che serve, di Anne-Sophie Bailly in un momento della vita in cui mi è toccato affrontare la separazione tra me e mio figlio Luca, autistico a basso funzionamento, con la sindrome di Down e da poco anche epilettico. Ho provato la stessa sensazione descritta perfettamente da Roberta Flack, nella celebre canzone Killing me Softly:
Singing my life with his words,
Killing me softly with his song,
Telling my whole life with his words.
Tutto l’amore che serve racconta la storia di Mona, una mamma divorziata che vive in un piccolo appartamento parigino con Joel, suo figlio, un giovane adulto neurodivergente. Come chi vive questa realtà, il loro è un rapporto esclusivo e quasi ossessivo: la vita della madre è organizzata in base ai bisogni del figlio, e i suoi impegni devono combaciare con la routine di Joel, che frequenta un centro diurno e, nel pomeriggio, è seguito da un’assistente. Il film si apre con una scena in piscina in cui entrambi nuotano sott’acqua e si chiude con la nascita di una bimba, la figlia di Joel, che ho interpretato, azzardatamente, come l’inizio di una storia in una specie di liquido amniotico, di gravidanza e dunque di simbiosi, e termina con il parto, cioè la separazione del figlio dalla madre.
È una fotografia intima, che descrive la difficoltà di Joel di conquistarsi la sua indipendenza e quella della madre di lasciarlo andare. Mi sono molto riconosciuta in questa diatriba: è ineluttabile che i figli neurodivergenti siano vulnerabili, e i genitori diventino protettivi e si sentano indispensabili. Cosa saremo quando dovremo ammettere di non essere necessari come abbiamo sempre creduto? La regista ci offre molti simbolismi per descrivere la tensione tra i due. Mi sono ritrovata spesso in ciò che lei prova, dice e urla e nel suo estenuante e doloroso tentativo di tenersi suo figlio vicino, e allo stesso tempo desiderare più di ogni cosa di recuperare la libertà persa. Oltre alla scena iniziale in piscina, questo tema viene sottolineato dalla presenza di due uccellini in gabbia, due prigionieri che non vedono l’ora di essere indipendenti. Ho usato anch’io questa associazione nei miei scritti, quando cerco di raccontare la mia esperienza. Si vive in una prigione bellissima, dorata, piena di fiori, perché convivere con una persona diversa da me mi ha insegnato mille cose: l’empatia, la pazienza, un modo differente di comunicare e di interpretare il mondo. Ma è pur sempre una prigione.
Il più incisivo e devastante problema che i figli disabili portano con sé è la vulnerabilità. Si fa in fretta ad accusarli di qualcosa, a trattarli male o addirittura a usare violenza contro di loro. Quando si scopre che Océane, la compagna di Joel, è incinta, la reazione dei genitori è di volerlo denunciare per stupro. Mona reagisce a spada tratta, come se fosse la guardia del corpo del figlio, perché sa che lui non sarebbe in grado di difendersi. Questa fragilità, un’ingenuità congenita nelle persone con un cervello diverso, è il più grosso motivo di preoccupazione per noi genitori, soprattutto quando i figli scalpitano per essere indipendenti.
Personalmente, la decisione più difficile nel mio rapporto con mio figlio è quando abbiamo capito che, benché ci siamo sempre sentiti indispensabili, prima o poi ci siamo accorti che non è vero niente: non lo siamo più o forse non lo siamo mai stati. Inoltre, Luca ha il sacrosanto diritto di intraprendere una vita autonoma, per quanto possibile. Quasi due anni fa, io e mio marito abbiamo deciso, sebbene con grosse preoccupazioni e timori, di trasferire Luca in una casa-famiglia: è grande e, anche se le disabilità limitino la sua vita, era arrivato il momento del Grande Passo.
La storia di Mona e Joel spiega come, senza farlo apposta, noi genitori ci facciamo condizionare da quello che la società pensa dei nostri figli: anche noi li sottovalutiamo, pensiamo che i loro limiti siano molto più ristretti. Senza bisogno di spiegarlo, si percepiscono i dubbi di Mona: certamente Joel non riuscirà ad essere un buon padre; è ovvio che abbia bisogno di supporto, tanto che a un certo punto le taglia la crêpe nel piatto, come a dire che non è capace neanche di compiere azioni semplici. Li svalutiamo, questi nostri figli strani, forse per giustificare la nostra paura di perderli. Il fatto è che i nostri figli ci sorprendono sempre, e quando serve trovano la forza di affrontare situazioni che noi pensavamo inimmaginabili per loro. Joel diventa papà e riesce a raggiungere la sua autonomia, e Luca, nel suo piccolo, si è adattato velocemente alla sua nuova vita, che ha affrontato con molto più coraggio di noi.
Ma non è solo Joel a raggiungere l’indipendenza tanto cercata. Anche per Mona inizia una nuova fase di vita, a cominciare dall’incontro con un uomo che la capisce e la ama. In un momento di estrema frustrazione, gli spiega un concetto molto importante e anche molto naturale: quando lui la giudica per aver sottovalutato la gravità della scomparsa del figlio, Mona gli risponde più o meno così: “Ma tu cosa ne sai di me? Della mia vita con mio figlio? Cosa ne sai dei sacrifici che devo fare per stare con lui? Io volevo un figlio normale, va bene? Sì, normale anche se ormai è una parola che non si dovrebbe dire!”.
Per quanto sia sempre pericoloso giudicare i genitori, lo è ancora di più quando hanno un figlio fuori dalla norma, per dirla come Mona. La persona “normale” segue i canoni imposti dalla società; chi non ci riesce, è considerato a-normale, nel senso di emarginato, sfigato. Inutile. Ho attribuito le parole di Mona a una critica alla società, che non è ancora riuscita ad accogliere chi offre abilità diverse da quelle di tutti noi. E chi lo vorrebbe, un figlio così, che esce dalle file? Il suo sfogo rappresenta anche la speranza che un giorno tutti vengano considerati per quello che sono e non quello che non sono. Per questo, il film è molto importante.