ARTICOLO n. 31 / 2024
MI DIMETTO DALLA MIA CLASSE. MA SEI IMPAZZITƏ?
Confini sociali, sessuali, istituzionali e del lavoro
Non si cambia classe sociale come una camicia. Oggi quella camicia è una camicia di forza. Immobilismo, conservazione o declassamento. In questo scenario solo qualcuno si conquista il diritto alla “mobilità sociale”. Cantanti, sportivi o imprenditori, talvolta incarnati nella stessa persona, per esempio. Gli altri sono alle prese con un dilemma: difendere o perdere quel poco, o molto, che i genitori hanno conquistato nell’epoca d’oro degli anni ’60-’70-’80, definiti “gli anni gloriosi”. Il Novecento è una questione di eredità. Patrimoniale. Per i migranti, tranne qualcuno compreso nelle categorie sopra menzionate, nemmeno quella.
Se c’è un discorso sulla questione sociale oggi è quello della promessa tradita dell’“ascensore sociale”, e in particolare delle classi medie “basse” o povere. Al tempo della pretesa “fine delle classi sociali”, quella “media” è ancora legittimata a parlare, anche perché sui suoi valori è costruita buona parte della comunicazione massmediale. Il terrore di tornare indietro, verso mondi arcaici senza nome – da cui i nonni e i padri di quelle classi provenivano – toglie il fiato e aumenta la paura. Anche perché una società come questa non ha pietà per i “falliti”. Chi invece non ha nulla, tranne le catene, è contemplato solo come minaccia, oppure è compatito come “escluso” o “povero”.
L’ascensorista
C’è stata un’epoca che ha atteso un Messia. Quella attuale attende inutilmente il tecnico degli ascensori. L’ascensorista è una metafora che ha trasformato la società in un condominio dove un ascensore sale e scende. Lui è il protagonista del racconto della mobilità sociale. Occupa il ruolo della mano invisibile del mercato, è la forma secolarizzata della provvidenza, è la metafora dell’assunzione in cielo, dell’investitura carismatica, o della predestinazione.
L’ascensore sociale è sempre stato guasto. E, quando ha funzionato, lo ha fatto grazie alla lotta di classe. La “mobilità sociale” non è una metafora del mercato, ma è l’effetto di un attrito con esso, oltre che della manifestazione di una soggettività irriducibile alla logica dello scambio tra una domanda e un’offerta. Eppure a questo è ridotta, a una lotta di classe malintesa e mascherata. Ci si concentra sull’immagine di una società-piramide, non sul problema di chi ha creato la scala, su chi manda il tecnico quando l’ascensore si blocca o sul potere di chi decide che la ricchezza va in un senso e la povertà nell’altro.
Nella metafora dell’ascensore sociale è sempre entrata solo un’élite che accede alle posizioni superiori. Può essere ampia quanto si vuole, ma non può evidentemente raccogliere tutta la popolazione. Tutti non entrano nella stessa cabina. A turno potrebbero farlo? Forse anche sì, ma se tutti andassero all’ultimo piano l’intero palazzo crollerebbe. La metafora, pur assurda, ha una logica stringente.
Sebbene le frontiere si siano allargate, al tempo rimpianto dai più dei “trenta gloriosi”, il sociologo Paul Pasquali ha ipotizzato che l’ascesa sociale abbia escluso almeno un terzo della popolazione con un basso livello di istruzione. Questo è accaduto in Francia. è ragionevole pensare che in un paese come l’Italia che ha conosciuto un notevole cambiamento anche grazie alla scuola e all’università “di massa”, gli esclusi siano stati molti di più. Nonostante una relativa redistribuzione della ricchezza, causata dai tentativi spesso drammatici di allargare la base sociale della democrazia, il potere è rimasto lo stesso, indipendentemente dagli esiti che i singoli vissuti, pur valorosi, hanno avuto.
Il cortocircuito è iniziato con l’inarrestabile riduzione delle possibilità (sociali, professionali, relazionali) della classe media. Non è stato dunque l’accesso mancato ai piani alti dei lavoratori con una scarsa istruzione, ma quello di chi ha lottato ed è stato selezionato per ottenere meriti, capacità e riconoscimenti che non si sono tradotti né in posti di lavoro adeguati, né soprattutto con una sicurezza economica che in passato è stata barattata con la rinuncia a cambiare la gerarchia che stabilisce i poteri.
Annie Ernaux
Annie Ernaux sarebbe stata un caso esemplare di “ascensione sociale”. Lei, figlia di piccoli commercianti provinciali, è diventata scrittrice di successo in Francia e premio Nobel per la letteratura. I suoi romanzi hanno descritto cosa significa emanciparsi in una società dove i ruoli sono fissati e solo agli individui “meritevoli” è permessa la scalata.
Annie Ernaux, protagonista dei suoi romanzi, ha una storia tutt’altro che individuale. Nel suo racconto che ibrida l’autobiografia, il saggio storico e sociologico, la filosofia e il romanzo emerge un’epopea collettiva. Quella di una lotta di classe in cui una società ha sfidato il razzismo “interno” contro il proletariato e la classe media inferiore, mettendo in crisi la divisione sociale dei ruoli.
Dell’Io, protagonista di molta “autofiction” di oggi, Ernaux fa un uso strategico. Per lei l’Io – forma al tempo stesso maschile e femminile – è uno strumento esplorativo per catturare le sensazioni, guida all’autenticità della ricerca e impegno a rompere la solitudine «delle cose sofferte e sepolte», a «pensare in modo diverso a noi stessi». «Quando l’indicibile viene alla luce, è politico».
«Per quanto mi riguarda, è vero che non riesco a pensare ad altro che alla scrittura. Ho sempre pensato che la scrittura fosse un modo di intervenire nel mondo… Non ho mai voluto che i libri fossero qualcosa di personale per me. Non è perché mi sono successe delle cose che le scrivo, ma perché sono successe, quindi non sono uniche… Quando l’indicibile diventa scrittura, è politica. Certo, le cose le vivi personalmente… Ma non devi scriverle in modo che siano solo per te. Devono essere transpersonali, ecco cosa devono essere» (A. Ernaux, Le Vrai Lieu. Entretiens avec Michelle Porte, 2014).
La scrittura come confessione di classe originaria o elettiva è “transpersonale”, nel senso che si connette con coloro che sono invisibili, non sono in grado di scrivere, ma hanno altri codici con i quali hanno tradotto il loro desiderio di emancipazione. La scrittura parla sia con i laureati all’Ecole Normale Supérieure consacrati professori universitari che con gli operai, i borghesi, gli inquieti e i non classificabili che hanno rifiutato di aderire alle aspettative borghesi o aristocratiche dei loro genitori.
Ernaux ha inoltre insistito sulla duplice espressione: “ho tradito la mia razza”, “ho tradito la mia classe”. L’ambivalenza è dovuta sia a un equivoco epistemico e politico diffuso nel movimento operaio alle cui origini, come ha spiegato anche Michel Foucault in Bisogna difendere la società, la “razza” e la “classe” si sovrapponevano e confliggevano.
Ernaux ha scritto che sessant’anni fa l’espressione “Scriverò per vendicare la mia razza” riecheggiava il grido di Rimbaud: “Sono di una razza inferiore da tutta l’eternità“. Aveva 22 anni. Studiava letteratura in un’università di provincia, tra ragazze e ragazzi, molti dei quali appartenenti alla borghesia locale.
La “razza” è quella comune degli oppressi al di là del colore della pelle e delle appartenenze sociali e nazionali. La classe “tradita” è quella di nascita. Il suo tradimento è l’effetto di una rivolta diffusa contro i meccanismi che riproducono la società oppressiva così com’è.
In un libro come L’evento, storia di un’interruzione di gravidanza, è apparso chiaro che la rivolta contro l’oppressione di classe camminava insieme a quella contro lo Stato che condannava le donne ad abortire illegalmente. La scrittura è uno strumento di liberazione sociale e femminista. Vendicare la “razza” significa vendicare sia la “classe” che “il mio sesso”. Sono “la stessa cosa”.
La lotta contro la metaforologia neoliberale basata sull’ascensore sociale è stata alimentata anche dal libro di Didier Eribon Ritorno a Reims. Un libro che ha recepito le istanze maturate da Ernaux e ha contribuito a un ricco dibattito letterario e politico al quale ha partecipato un altro scrittore, Edouard Louis con un romanzo come Il caso Eddy Bellegueule.
All’intersezione tra donna, razza e classe sulla quale ha riflettuto Ernaux, Eribon ha aggiunto un altro aspetto: il rapporto tra l’appartenenza di classe e l’omosessualità. Figlio di una famiglia operaia, dunque di una classe più chiaramente schierata nel conflitto di classe, Eribon ha dovuto difendersi dallo stigma omofobo nel suo ambiente di provenienza.
«Per me – ha scritto – fu capitale la frase di Sartre nel suo libro su Genet: “L’importante non è quel che si fa di noi, ma quel che facciamo noi stessi di ciò che hanno fatto di noi”» (D. Eribon, Ritorno a Reims, p.91).
Lo studio fu un modo per liberarsi dallo stigma sessuale. Eribon andò a Parigi dove trovò più semplice vivere la sua sessualità.
«Ero segnato nel profondo da due verdetti sociali: un verdetto di classe e un verdetto sessuale. Non si sfugge mai alle sentenze di questo tipo. E porto in me il segno dell’una e dell’altra. Poiché in un momento della mia vita entrarono in conflitto l’una con l’altra, dovetti forgiare me stesso facendo giocare l’una contro l’altra» (D. Eribon, Ritorno a Reims, pp.196-197).
Per l’emancipazione individuale per realizzare una transizione sociale di successo serve un’“ascesi: un lavoro di sé su di sé. In un doppio senso: nel riappropriarmi e nel rivendicare il mio essere sessuale ingiuriato nel primo caso; nello strapparmi dalla mia condizione sociale di origine nel secondo”.
Ma ciò ancora non bastava. Serviva la sua connessione con la liberazione politica, sociale e sessuale collettiva. Dunque, la coniugazione tra la singolarità e l’universalità nella concretezza dei vissuti collettivi. Nel frattempo qualcosa si era rotto nella politica delle “sinistre”. Quella socialista, dopo il 1983, era diventata sia neoliberale che conservatrice, aveva cioè rinunciato a trasformare il sistema capitalista ed era diventata “neoconservatrice”:
«Voleva rimpiazzare gli oppressi e i dominati di ieri – e le loro lotte – con gli “esclusi” di oggi – e la loro presunta passività –, e di piegarsi verso di loro come destinatari potenziali (ma silenziosi) di misure tecnocratiche destinate ad aiutare i “poveri” e le “vittime” della “precarizzazione” e della “disaffiliazione» (D. Eribon, Ritorno a Reims, p. 115).
Eribon ipotizza che la lotta di classe non sia stata perduta solo dalle trasformazioni produttive del capitale e dall’effettiva tenuta del “blocco conservatore” dopo il maggio ‘68. Fu sabotata dall’interno dai “partiti di sinistra e dai loro intellettuali di partito e di stato che pensavano e parlavano con un linguaggio da governanti e non più da governati”.
«Non si parlò più di sfruttamento o di resistenza, ma di “modernizzazione necessaria” e di “rifondazione sociale”; non si parlò più di rapporti di classe, ma di “vivere insieme”; non si parlò più di destini sociali, ma di “responsabilità individuale”. Fu giustificata la demolizione del welfare state e della protezione sociale, in nome di una necessaria individualizzazione (o decollettivizzazione, desocializzazione) del diritto del lavoro e dei sistemi di solidarietà e di ridistribuzione».
Il problema di Eribon è comprendere la ragione per cui la classe operaia, a cominciare dalla sua famiglia, ha iniziato a votare l’estrema destra della famiglia Le Pen a cominciare dagli anni Ottanta, proprio in coincidenza della svolta neoliberale della “sinistra”. La diga del partito comunista francese non è servita, è avvenuto uno spostamento. Ad avere contribuito a questo esito sarà stato il razzismo anti-immigrati in quel partito denunciato già all’inizio degli anni Ottanta. Ma, questa è la tesi di Eribon, la trasformazione è stata sia la causa che l’effetto di un cambiamento del “blocco sociale” che ha unito
«Ampi settori delle classi popolari fragilizzate e precarizzate a commercianti, a pensionati benestanti del Sud della Francia, se non addirittura a militari fascisti o a vecchie famiglie cattoliche tradizionaliste e dunque fortemente radicate nella destra, perfino nell’estrema destra. Entrando in nuove alleanze politiche, in nuove configurazioni politiche, questo gruppo – composto solo da una parte del vecchio gruppo mobilitato nel voto comunista – è diventato altro da quello che era un tempo. Le persone che lo costituivano pensarono se stesse, i loro interessi e i loro rapporti con la vita sociale e politica in modo totalmente differente» (pp. 47 e 117).
L’impotenza creata dalla crisi, e dall’incapacità delle sinistre di assemblare un nuovo blocco sociale che unisse la strategia della liberazione che Ernaux ha preso dai soggetti della rivoluzione del ‘68 a quella della classe operaia, è diventata rabbia. La classe sociale decostruita dai discorsi neoconservatori della sinistra, «ha trovato un nuovo modo di organizzarsi e di far conoscere il suo punto di vista».
Un punto di vista che contrappone il “noi” (francesi) a “loro” (immigrati) e sovrappone la lotta di classe a quella razzista. Ciò non basta a riavviare l’ascensore sociale, ma aggrava la separazione tra i subalterni e gli oppressi. In compenso la lotta per salire in una cabina bloccata è feroce. A quarant’anni dall’inizio del processo è ancora difficile uscire da questa trappola:
«Non ci si dissocia facilmente da un’appartenenza politica in cui si è mentalmente situati da molto tempo – fosse anche in modo instabile e incerto – per crearsi di punto in bianco un’altra appartenenza, vale a dire un altro rapporto con sé e con gli altri, un altro sguardo sul mondo, un altro discorso sulle cose e sulla vita».
Transfuga, disertore, di classe
Un disertore di classe è una persona che ha superato le barriere sociali. Questo passaggio può avvenire in direzione dell’ascesa sociale (Ernaux), ma anche in direzione opposta (Eribon). Il disertore è un individuo che partecipa a un processo di massa, oppure un individuo che perde i contatti con tale processo. Quando accade può trovare una comunità globale di appartenenza – è il caso sia di Eribon che di Ernaux, il primo nell’accademia, la seconda nelle lettere. Ciò non toglie che entrambi continuano ancora oggi a voler uscire dalla loro terra di nessuno.
L’esito della loro lotta non dipende dalla volontà, dal talento, dal merito di un individuo, né dalla forza impersonale di un sistema, ma da un conflitto che si svolge anche dentro chi vuole uscire dai confini sociali, sessuali, istituzionali, capitalistici e del lavoro. Questo conflitto è generato dall’attraversamento dei confini – tanto sociali quanto spaziali – oppure dalla sua “riterritoralizzazione” all’interno di perimetri già dati che formano nuovi territori, anche immaginari.
Per spiegare il senso di questa lotta la filosofa spinozista Chantal Jaquet ha coniato il fruttuoso neologismo “transclasse” sul modello della parola “transgender” o “transessuale”. A suo avviso, sia Ernaux che Eribon sono un esempio di questa transizione trasformativa.
La parola transclasse, adattata dal concetto anglosassone di passaggio di classe [class-passing]. Passing è il titolo di un romanzo di Nella Larsen del 1929, indica l’azione di fuggire alla segregazione razziale e sessuale di una donna nera nell’America segregazionista. Tale “transizione” può avvenire in entrambi in sensi della linea del colore: il “nero” può fingere di essere bianco, ma anche il bianco può dire di essere “nero” (è raccontato nel 1961 in Black like me dal giornalista John Howard Griffin). Lo stesso può fare una donna che passa per un uomo, e viceversa. E ancora un gay che “passa” per un “uomo eterosessuale”.
La “finzione” si rende necessaria perché i transclasse devono affrontare un’ostilità tale che preferiscono mimare le convenzioni vivendo però quello che sono, cercando di sfuggire alla repressione. Il problema è sentito tra le donne che hanno dovuto affrontare la dominazione maschile nella classe operaia che cercava di emanciparsi, ma anche dagli omosessuali e dalle lesbiche, per non parlare dei trans oggi.
Un’interpretazione riduttiva ritiene che lo scontro sia confinato alle singole identità sessuali che legittimamente lo producono oggi. In realtà, proprio in ragione dell’estensione del concetto di “transclasse”, questi soggetti richiamano una potenzialità che risuona a partire dalla propria condizione individuale. Il processo è irriducibile a quello economicistico indicato dall’“ascensore sociale”. È tortuoso, inquietante e irriducibile a una misura unica. Il “passaggio di classe” non avviene solo rispetto alla gerarchia sociale e produttiva, ma anche rispetto alla posizione rispetto all’identità e alla differenza, la memoria e gli affetti, la sessualità e i poteri.
A differenza della narrazione sulle “classi popolari” usate come mascotte dell’ordine sociale dominante per alimentare l’ideologia del “capitalista umano”, il “passaggio di classe” è un’attività complessa non limitabile a un’ascesa o a una caduta in una scalata. Parliamo di un duplice lavoro: quello su di sé connesso a uno con gli altri. Tale nesso è considerato marginale o vincolato alla trasformazione dell’ordine economico e politico. Oppure è ostacolato, deriso e considerato “pericoloso”. L’idea di fuga, diserzione o tradimento, per di più talvolta legata a una trasformazione sessuale, aggrava le inquietudini in un tempo in cui si cerca di vincolare l’esistenza a un’idea di un ordine “naturale”. Non esiste nulla di peggio che essere considerati rinnegati in un momento in cui bisogna serrare le fila nella guerra guerreggiata, delle identità e dei commerci.
Jacquet è stata criticata perché l’ha limitata alla sfera individuale, mentre si tratterebbe di pensarla in termini collettivi: una soggettività si trasforma quando è connessa alla società, alle tecnologie, all’ambiente e all’economia. A tale proposito, ne Le tre ecologie lo psicoanalista e filosofo Fèlix Guattari parlava della connessione tra l’ecologia mentale, sociale e ambientale. Più che auspicare il passaggio di un individuo da una classe all’altra già formate, si tratterebbe dunque di realizzare una trasformazione di un mondo diviso in classi. Ma è evidente che un movimento non è separabile dall’altro. È la connessione dell’uno con l’altro che ieri, come oggi, è considerata insidiosa e, per questo, va bloccata. Una simile ipotesi manda in tilt le destre al potere, e sorprende sempre più spesso le “sinistre”. In questa impasse il desiderio di dimettersi dalla propria classe, e dal suo mondo, sembra una supposizione priva di fondamento.