ARTICOLO n. 42 / 2025
SCRIVERSI LA VITA DA SOLA
il cinema secondo eleanor Perry
Da quando esiste, raccontare come si fa cinema è uno degli aspetti fondamentali del cinema stesso. Negli ultimi anni hanno così sempre più assunto rilevanza le storie e le vite di chi il cinema lo scrive, ovvero gli sceneggiatori. Del resto fare cinema, come sosteneva Mario Monicelli, era il ripiego di chi non era stato in grado di di diventare uno scrittore. Così come più volte ha ribadito anche Woody Allen definendosi più che un regista un romanziere mancato, anche se proprio questo settembre il regista newyorkese (ora che non gira più film) esordirà con il suo primo romanzo, Che succede a Baum? in corso di pubblicazione in Italia da La nave di Teseo.
La figura dello sceneggiatore sembra riassumere al meglio la follia e la frustrazione di chi ha dato corpo con le sue parole al mito del cinema da Hollywood fino a oltreoceano, vivendo nell’ombra e spesso dovendo cedere al narcisismo dei registi quali celebrati geni assoluti della scena. Così la riscoperta con il film Mank del 2020 diretto da David Fincher della figura di Herman J. Mankiewicz quale sceneggiatore di Quarto potere e parte integrante del successo del capolavoro di Orson Welles, ha riaperto un po’ il dibattito su quelli che sono i mestieri del cinema e il ruolo di chi spesso dietro le quinte permette ai registi come agli attori di mettere realmente insieme le parti di cui è composto un film. Spesso centinaia di persone che per il pubblico vivono nei pochi secondi in cui i loro nomi compaiono come piccole scritte che scorrono velocissime sul grande schermo nei titoli di coda.
Di tutte queste persone lo sceneggiatore rappresenta un po’ la sintesi perché è colui che scrive il film dandogli corpo, ma è anche colui che vede quel corpo mutare a seconda delle scelte del regista. Una figura dunque di collegamento tra la parola e l’immagine, ma anche spesso un capro espiatorio che riesce a reggere il colpo solo ingoiando amaro e spesso bevendo non poco alcol.
Un mondo che per lungo tempo è stato quasi sempre ad appannaggio di autori maschi, ma è in quel quasi che s’inseriscono alcune straordinarie sceneggiatrici, per l’Italia basti citare Suso Cecchi D’Amico di cui ora Einaudi grazie alla cura di Caterina D’Amico e Francesco Piccolo porta in libreria La fortuna di esser donna. Senza di lei buona parte del grande cinema italiano del Novecento semplicemente non esisterebbe.
E per gli Stati Uniti non può non essere chiamata in causa Eleanor Perry, che seppe restituire ai lettori americani un’autobiografia in forma di romanzo che a oggi racconta come pochi altri testi letterari la fatica di lavorare in mondo di maschi (oltre che la loro congenita stupidità) e l’incredibile assurdità del mondo del cinema sempre in disperata tensione tra trionfo e dramma. Un testo pienamente letterario e ricchissimo di sorprendenti intuizioni.
Delle varie stesure che compongono l’elaborazione di una sceneggiatura cinematografica, quella riportata su pagine di colore azzurro è l’ultima, quella definitiva. Era infatti abitudine a Hollywood nei vari passaggi di rettifica e modifica del testo di utilizzare pagine colorate per ogni stesura. E Pagine azzurre (Sur) è il titolo del romanzo di Eleanor Perry che, tradotto empiricamente da Marco Rossari, mette al centro il lavoro di una sceneggiatrice, Lucia Wade alter ego non troppo celato dell’autrice del romanzo.
Eleanor Perry è stata infatti una delle più importanti sceneggiatrici americane tra gli anni Sessanta e Ottanta: candidata all’Oscar nel 1962 e vincitrice di un Emmy nel 1966 per l’adattamento cinematografico di A Christmas Memory di Truman Capote e nel 1972 per The House Without a Christmas Tree. Sposata con il regista Frank Perry, Eleanor ha condiviso e spesso diviso meriti e successi, fino al divorzio avvenuto nel 1971. La separazione porterà l’autrice a un nuovo percorso di consapevolezza oltre che di indipendenza.
Se il legame con il marito aveva favorito l’avvicinamento di Eleanor Perry alla scrittura cinematografica, al tempo stesso Perry si era però vista relegata come autrice in un cono d’ombra, dentro al quale le sue qualità venivano solo in minima parte riconosciute. L’ambiente cinematografico, sopratutto a Hollywood, rifletteva infatti le discriminazioni di genere tipiche della società americana degli anni Sessanta, ma con una ferocia e un cinismo tipici di un ambiente di lavoro che non solo era maschilista, ma lo rivendicava consapevolmente come un merito e un diritto pienamente acquisito.
E non fu un fatto semplice e scontato per Eleanor Perry riuscire così a ritagliarsi un ruolo comunque centrale nell’industria cinematografica, dovendo anche scontare un divorzio che aveva in quegli anni in particolare, evidenti implicazioni professionali. Perry acquisì in ogni caso fama e successo, partecipò ai movimenti femministi e fu anche protagonista di una contestazione, al Festival di Cannes nel 1972, contro il manifesto (poi ritirato) di Roma di Federico Fellini in cui appariva una donna posizionata come la Lupa capitolina.
Pagine azzurre mostra oggi, forse ancora più di quando fu pubblicato per la prima volta nel 1979, la forza di una testimonianza forte e radicale sul far cinema e sul prezzo pagato dalle donne che vi lavorarono, ma ha anche soprattutto un’insita qualità letteraria assolutamente non banale. Perry offre una profonda ed efficace capacità di raccontare quel rapporto complicato e spesso violento che intercorre tra donne e uomini, e lo fa con l’ironia e la sagacia di chi ha uno sguardo disincantato come resistente.
Ambientato negli anni Sessanta, Pagine azzurre descrive un momento cruciale per Hollywood, probabilmente allora al massimo del suo splendore, anche se già apparivano evidenti le prime incrinature che ne mineranno radicalmente la struttura produttiva e non, almeno fino al rinnovamento che prenderà corpo nel decennio successivo.
Un sistema, quelli degli anni Sessanta proposto da Hollywood, dunque datato e ancorato a dinamiche sia industriali che narrative ormai totalmente superate. Un’industria cinematografia e dell’immaginario ancorata a una visione delle relazioni di genere del tutto simile a una qualunque industria pesante o attività commerciale dell’epoca. Un aspetto che segnalava un’evidente incapacità di cogliere nella società, seppur tra molte contraddizioni, un cambiamento necessario oltre che doveroso e in parte già in atto.
Lucia Wade, la protagonista del romanzo, affronta durante le sue giornate di lavoro una totale mancanza di considerazione. Da parte degli uomini – suoi colleghi – che la circondano più che altro di attenzioni non richieste e poco professionali. Nel migliore dei casi viene considerata paternalisticamente come una figlia, ma mai come una collega o come dovrebbe essere una socia in affari.
Quella che Perry mette in scena è una lotta estenuante e l’autrice la descrive con chirurgica precisione. Porta sulla pagina, cioè, che cosa significa essere donna in un mondo di soli uomini in cui il potere non viene condiviso mai, nemmeno nominalmente. Anche solo ottenere una targa con il titolo di coproduttrice resta infatti un obiettivo assolutamente irraggiungibile per Lucia, impresa epica descritta da Perry in pagine tanto ironiche quanto disperate.
Lucia Wade scrive, pensa e progetta film mentre attorno tutto sembra muoversi solo per denigrare ed elidere il suo lavoro. Wade si trova così costretta ad adoperare un cinismo che non vorrebbe esprimere. Una forma di conformazione al sistema deprimente e dolorosa.
La narrazione si sviluppa in chiave di commedia, senza però che i toni o le usurpazioni vengano ammorbidite o mimetizzate, ma anzi per esaltare il ridicolo di un maschilismo ottuso e stupido. Pagine azzurre potrebbe essere già una pellicola di Billy Wilder con Walter Matthau e Shirley MacLaine. Tuttavia Perry riesce a dare al racconto una dignità molto più precisa di quello che avrebbe potuto fare lo stesso Wilder, comunque immerso in un brodo culturale maschile e in parte anche maschilista da cui difficilmente si sarebbe potuto emancipare pienamente.
Il campo di gioco dentro al quale è costretta Eleanor Perry resta infatti radicalmente opposto alla visione del mondo che lei vorrebbe proporre. Solo una grande lucidità letteraria e una straordinaria capacità inventiva le ha permesso di tradurre una sofferenza enorme in ironia. Una vera e propria dichiarazione d’amore per il cinema e per la sua scrittura. Oggi il mondo del cinema è cambiato, ma evidentemente ancora non ancora sufficientemente per lasciarsi certe storie alle spalle. Leggere Pagine azzurre è uno stimolo per le nostre coscienze quanto una sorprendente scoperta letteraria che merita spazio e lettori. Perché il cinema non è mai solo il cinema in sé, è la vita raccontata su uno schermo che tocca e colpisce alle volte felicemente altre volte dolorosamente, una storia da cui nessuno può sentirsi escluso.