ARTICOLO n. 43 / 2025

SCRIVERE È RICORDARE MALE

un'intervista di Giancarlo liviano d'arcangelo

Autofiction. Al solo sentire questa parola c’è ormai chi ribolle sulla sedia. C’è chi cerca una via di fuga, chi si strappa i capelli, chi tirerebbe fuori la rivoltella. E chi, semplicemente, si rifiuta di leggere. O al contrario, c’è chi non chiede altro, nient’altro che gettarsi in pasto all’esperienza altrui, nient’altro che calarsi come uno stafilococco nelle cellule recondite e in frammenti di vite intime scritte e descritte, con il desiderio di imparare qualcosa da mettere a frutto nella propria. Una cosa è certa. Negli ultimi anni il mercato editoriale ha al tempo stesso assecondato e nutrito l’interesse dei lettori per una forma espressiva virtuosa ma difficile da onorare, che raggiunge i suoi picchi letterari grazie ad autori come W.G. Sebald – dei suoi saggi narrativi il grande Pietro Citati diceva «Nessuno aveva il suo dono fondamentale: trasformare la vocazione metafisica in scienza naturale e la scienza naturale in vocazione metafisica» – o da Emmanuel Carrère, abile come pochi altri a immergersi compatto in specifici universi di senso – che si tratti di religione, di atti terroristici o della psiche di un assassino – per poi riemergere dischiuso, germogliato, grazie a una capacità di mimesi e di analisi fuori dal comune.

Anche in Italia gli esempi virtuosi con diverse interpretazioni non mancano, dal primo Walter Siti a Emanuele Trevi, dal Paolo Giordano di Tasmania ad Antonio Franchini, ma il problema principale delle mode è da sempre l’approssimazione che contraddistingue la riproducibilità su larga scala, e i tanti, troppi testi iscritti all’anagrafe del genere più amato del momento non sempre centrano l’obiettivo minimo della rilevanza. Come hanno sottolineato in molti, scrittori e critici, l’ipertrofia dell’io narrante si è cimentata negli ultimi anni su un’infinità di storie di dolore, di malattia, di maternità e paternità, quasi che l’assunto di base sia sofferenza uguale diritto a scrivere, come se l’esperienza di per sé costituisse una chiave d’accesso all’arte.

Ma che la scelta espressiva di un autore ricada sul memoir, sull’autofiction esplicita o sul romanzo di finzione in cui l’io imperversa e coincide in larga parte con la vita di chi scrive, alla fine è sempre il connubio tra stile e contenuto, tra qualità della scrittura e dell’elaborazione del pensiero a rendere un’opera significativa, la visione di mondo, non la semplice aderenza a un modello di tendenza o di successo.

In questo quadro, Donnaregina di Teresa Ciabatti, uscito da poco per Mondadori, si staglia nella direzione giusta, lampeggia come un Ufo (accostamento non casuale), e distaccandosi da ogni aspettativa ordinaria del lettore o da ogni pregiudizio. È un mise en abyme della genesi del libro che il lettore sta leggendo, con l’autrice penna del Corriere della Sera su temi culturali, sul costume, sull’adolescenza o intenta a intervistare VIP della società dello spettacolo di colpo teletrasportata a intervistare Peppe Misso detto ‘O nasone, uno dei boss più potenti e sanguinari in almeno tre decadi di camorra partenopea, sulla cui coscienza gravano almeno centocinquanta morti ammazzati. 

Nei lunghi mesi di gestazione – l’intervista si centuplicherà in un libro autobiografico che Misso decide di volerle affidare – l’autrice vive la sua vita, una vita quotidiana borghese, fatta di avvenimenti ordinari, come un trasloco e il bisogno di curare la carriera, e poi all’improvviso è stretta nella morsa di pericoli topici, come la malattia della migliore amica e le tendenze suicidarie della figlia. 

Ma in Donnaregina, la visione di mondo e l’universalità, che a mio parere sono il vero punto d’arrivo di una narrazione in autofiction, esplodono per contrasto nell’opposizione tra questa vita ordinaria, comune, di chi scrive, e la vita inimitabile del boss Misso, che rifiuta in toto i codici borghesi per obbedire a codici diversi, interni all’ambiente in cui O’ nasone è cresciuto. Codici che obbediscono ad assoluti come onore, orgoglio, machismo, irriducibilità di fronte alla volontà altrui, consapevolezza ed esaltazione della finitudine. E poiché Ciabatti ha attraversato negli anni tutte le forme espressive legate all’io, è con lei che voglio addentrarmi nei meandri della scrittura-testimonianza.

Teresa, in Donnaregina ho trovato una sorta di montaggio ejzenstianiano, attrazioni tra due vite inavvicinabili, dal cui attrito tra opposti viene fuori quello che Zanzotto chiamava il fatto nuovo, il cortocircuito tipico della poesia. È stata per lei una costruzione cercata, mirata trovata in corso d’opera?
In principio il rapporto tra biografia di Giuseppe Misso e voce narrante era tutto a favore di Misso. Ho impiegato anni a trovare la misura tra le parti attraverso un lavoro di sottrazione e di montaggio. Solo scrivendo e riscrivendo ho capito che la sfera privata della giornalista doveva prendere il sopravvento sulla storia di Misso in una specie di assorbimento graduale – mai rispecchiamento. La morte reale che mette in ombra la morte narrata. L’emergenza, la necessità di vivere, che vince sulla contemplazione. Per scrivere questo romanzo ho tenuto a mente una definizione di Cesare Garboli su Natalia Ginzburg: «Un’azione piratesca», «un anticorpo che uccide i bacilli narrativi». Lui parla de Le piccole virtù, ma descrive perfettamente anche Caro Michele.

Nell’autofiction spesso entrano in gioco le vite delle persone care o vicine ai protagonisti. È una sorta di furto. In Donnaregina per esempio è palpitante la vicenda di Camilla, la figlia della voce narrante, e di M., la sua migliore amica. Come ha vissuto queste appropriazioni?
La protagonista di Donnaregina, come quella de La più amata e di Sembrava bellezza, non è esattamente me. Piuttosto una proiezione mai idealizzata. Questo personaggio, ammesso che sia lo stesso per i tre libri e non credo, è più una tipologia umana, un carattere, ebbene questo personaggio è l’accumulo di mie parole non dette e di miei gesti non fatti.Fin da ragazza immaginavo quel che vivevo con esiti diversi, mettendo in un scena una me più intrepida e sfacciata. La trasformazione a cui sottopongo me stessa la applico anche agli altri personaggi, le mie perciò non sono appropriazioni, piuttosto rielaborazioni, il più delle volte invenzioni. Mio marito non è professore universitario. Mia figlia non ha ventitré anni.

Lei si è espressa con successo nella fiction pura (che poi contiene sempre a mio avviso inscindibili momenti di autoanalisi e autobiografia), che differenze trova con la forma espressiva adottata in Donnaregina?
A un certo punto ho sentito il bisogno di essere più disturbante. Parlare in prima persona è stato un mezzo, così come la scrittura quasi confidenziale che dà l’idea di una confessione intima. A quella forma io arrivo con fatica – sottrazioni, riscritture, ripetizioni ossessive, nessi saltati. È la forma, insieme al tono, che dà la sensazione al lettore di compiere un’intromissione. Questo cercavo. In futuro non so.

I lettori sempre di più si avvicinano ai libri con l’ottica di utilizzare l’esperienza altrui a scopo di insegnamento, quasi per capire qualcosa di più di sé? È d’accordo? Cosa serve a un’opera testimoniale per essere un altrove utile all’arricchimento del lettore? O non le interessa questo aspetto?
Un’opera per me deve testimoniare il presente, nel contenuto o nella forma. Il resto non conta. L’idea dell’arricchimento, l’ambizione di voler arricchire il lettore è narcisistica, di più: sconfina nell’abuso di potere.

Influisce secondo lei sull’esplosione dell’autofiction nel mercato editoriale la tendenza nata ed esplosa su internet di fare delle proprie esperienze, anche le più insignificanti, un modo di rapportarsi al pubblico? Perché siamo così interessati alla vita degli altri?
Non credo all’autofiction, ma alla postura da autofiction. E dunque al romanzo che usa le maniere dell’autofiction.

In che modo è riuscita a sospendere il giudizio? Avere di fronte a sé un uomo come Misso di certo pone anche questioni morali sui perimetri invalicabili della scrittura, se esistono. In che modo ha affrontato la questione e com’è riuscita a risolverla?
Per indagare la natura umana è necessario conoscere la persona che ti trovi davanti senza condizionamenti. Io ho conosciuto un uomo gentile, paziente. Buon padre, marito impeccabile. Come il Giuseppe Misso del presente, quello che ho incontrato io, si concili con il superboss del passato è il romanzo.

La realtà è un campo d’indagine sempre controverso e a mio parere Donnaregina testimonia proprio questa apparente lontananza fra mondi che poi entrano in collisione. La scrittura di questo libro in che modo ha modificato il suo approccio al reale?
C’è una frase che Misso scrive nel suo libro, I leoni di marmo: «Se prendi un bambino di Napoli e lo porti in Inghilterra, imparerà l’inglese, se prendi un bambino inglese e lo porti nei bassifondi di Napoli, imparerà il linguaggio della strada». All’inizio mi pareva una giustificazione posticcia. Ma incontrando Misso, scrivendo di lui, ho capito il vero significato di quelle parole, ho visto l’indicazione contenuta: allargare lo sguardo al contesto. Ossia considerare tempo, luogo, condizioni sociali e molto altro. Misso entra in carcere per la prima volta a 14 anni. Finisce al Filangeri per un furto in un negozio di elettrodomestici. Quello che vive in carcere e che lui racconta come normalità sono torture. Un ragazzo che subisce quelle torture per mesi, anni, quando esce ha bisogno di un sistema che lo aiuti a reinserirsi, necessita di un mondo che gli mostri altre possibilità. Se questo non c’è, se fuori c’è solo la strada, diventa complicato scegliere altro – ecco il bambino di Napoli.

Chi scrive in prima persona sta in realtà cercando di fare i conti con la propria vita?
Per me scrivere è innanzitutto ricordare male.

ARTICOLO n. 44 / 2025