ARTICOLO n. 59 / 2025

NANNI MORETTI E LA PALLANUOTO

Per meglio comprendere uno scrittore, una scrittrice o un’artista alle volte non è necessario solo indagare nel suo stile, nel suo bagaglio culturale o nella biografia, ma potrebbe essere più efficace provare a capire che rapporto aveva o ha con lo sport. Chiunque dica che di sport non si occupa, dice una falsità (Walter Chiari, ndrperché tutta la vita è uno sport da fare. Un impasto di emozioni, paure, innamoramenti e amicizie, convinzioni e limiti da avvicinare e in alcuni casi da superare. Un campo fatto di regole dentro cui ritrovare se stessi e anche ritrovare di sé qualcosa che non si sapeva. In questa serie estiva indaghiamo il rapporto tra intellettuali, scrittrici, scrittori e artisti e lo sport, quello che amano o hanno amato, quello praticato e quello immaginato. Trovi tutti gli articoli della serie qui.

«Da quando ho iniziato a fare cinema voglio metterci la pallanuoto. Dicono che i miei sono film autobiografici e la pallanuoto è metà del mio tempo…» racconta Nanni Moretti in accappatoio, «…però non ci sono mai riuscito, è un ambiente troppo caratterizzato». Parla al microfono di Gianni Di Gregorio, regista di Pranzo di Ferragosto, che nel documentario del 1984 diretto da Marco Colli veste i panni di una sorta di investigatore privato, trench, sigaro e colonna sonora noire che lo accompagnano tra le strade di Roma Nord, in cerca di indizi per comporre il suo identikit. La prima scena che vediamo in Riso in bianco: Nanni Moretti atleta di se stesso è quella di una piscina: lui, l’oggetto dell’indagine, galleggia a peso morto indossando un costume azzurro con il tricolore. Sono gli anni tra Sogni d’oro, con cui Moretti vinse il Leone d’Argento a Venezia, e l’inizio delle riprese di Bianca, ha da poco compiuto trent’anni, vive il tempo di latenza tra un successo e l’aspettativa per il futuro: confermare o smentire il buon risultato, passare dalla categoria di giovane promessa del cinema d’autore italiano a quella di regista stimato o venire archiviato con «quello che fa sempre lo stesso film». 

Come scopriremo diversi anni dopo ne Il sol dell’avvenire, film di confessioni e di pareggio di conti con il passato, dove pure gli oggetti di scena riemergono dalle vecchie scenografie – la copertina di patchwork, il gelato – , quell’atteggiamento disinteressato, lucido, anche un po’ sornione, per non dire sprezzante, nei confronti del grande pubblico (che in Sogni d’Oro, per capirci, era «di merda») maschera una certa inquietudine nei confronti delle reazioni che i suoi film generano, sia tra il bracciante lucano, il pastore abruzzese e la casalinga di Treviso, che verso i critici. «Quei registi che se un film va male danno la colpa ai critici mi fanno pensare ai miei compagni di squadra di pallanuoto che quando si perde si dà la colpa agli arbitri», spiega incalzato dalla voce narrante, sempre in accappatoio, sempre tra i suoi elementi: l’acqua e l’obiettivo. Lo si potrebbe dedurre dal film sulla pallanuoto che poi in effetti ha fatto nel 1989, Palombella rossa, che Moretti ha un legame forte con questo sport, ma nuotando qualche bracciata più in là, oltre l’associazione tra lui e la cuffia, si scopre che il fondale è più profondo di quanto pensassimo. Pallanuoto e cinema sono infatti gli elementi di un bivio esistenziale morettiano: da un lato ciò che sarebbe potuto diventare, pallanuotista di serie A, dall’altro ciò che poi è diventato, regista di serie A. 

La palombella, come è noto anche a chi non pratica sport acquatici di squadra, è il pallonetto. Moretti da piccolo diventa particolarmente bravo a eseguire questo tiro parabolare in porta, ai tempi in cui esordiva con la sezione pallanuoto della Lazio e in cui veniva convocato con la Nazionale giovanile: il suo ruolo nella squadra, ironia della sorte o forse no, era quello del regista. Non disponendo di una grande forza muscolare, si concentra sulla tattica, fa di necessità virtù e sfrutta i mezzi che ha per diventare un grande giocatore, stessa strategia che mette in pratica nella realizzazione dei suoi primi film. Pochissimi soldi, pochi attori – anzi, all’inizio quasi nessuno, escluso amici e parenti che poi sono diventati protagonisti del Moretti-verse – poche inquadrature, macchina fissa, nessun dolly, sempre lo stesso protagonista, Michele Apicella, alter ego neanche così tanto alter, agglomerato di nevrosi e di idiosincrasie, ossessioni, i dolci, le scarpe, e vanità, mi si nota di più se non vengo o se vengo e sto in disparte. 

Eppure, il Michele Apicella di Palombella rossa, il suo film più intimo, dal momento che si svolge tutto in un campo da pallanuoto, la sua vocazione giovanile e poi passione da adulto, con l’espediente metaforico della partita, è anche il film in cui il protagonista è meno stereotipatamente morettiano del solito. Certo, ci sono le citazioni cult, lo schiaffo alla giornalista, le parole sono importanti, il canto a mollo, con il sentimento popolare che nasce da meccaniche divine, ma c’è anche, soprattutto, l’amnesia: Moretti fa dimenticare al suo protagonista, dirigente del Pci, tutto ciò che c’è stato prima di lui, che in una lettura più ampia è ciò che sta per fare il partito della sinistra italiana a pochi anni dalla Bolognina, ma che, al contempo, è anche ciò che il regista vorrebbe fare con sé. 

Consapevole di aver creato un cinema personale, particolare, non per una generazione ma per un gruppo di amici, «a malapena rappresento me stesso», dice in Sogni D’Oro, non per un intero paese ma per una città, o meglio per il quartiere di una città, Prati, che però, contro ogni sua stessa previsione, diventa invece universale, Moretti si stacca dalle sue nevrosi domestiche – «qualcuno dice che quando finiranno queste nevrosi finiranno anche i miei film», confessa a Colli – e sposta la rappresentazione della realtà verso un piano simbolico. La pallanuoto come campo di astrazione, attorno al quale ogni personaggio racchiude allegoricamente un pezzo del presente, in dialogo con il partito, e la pallanuoto come luogo di scontro, parallelo a quello retorico del programma televisivo dove il protagonista è chiamato a rispondere. E poi, soprattutto, la trasferta, il pubblico nemico che intona cori all’unisono, il palazzetto di Acireale, la squadra che gioca fuori casa, come il politico che parla in una tribuna con tutti contro, l’avversità diffusa e soffocante dentro la quale si è messo lui stesso, come singolo ma anche come parte di una squadra. 

Durante le riprese di Palombella rossa, Moretti si ruppe un mignolo, in una delle tante inquadrature fatte per mettere in scena la rissa tra lui e un altro giocatore. Ha ancora il dito storto, segno indelebile di quella prima produzione di un suo lungometraggio con la Sacher film; la seconda sarà il documentario sul dibattito interno al Pci nei giorni funesti di Occhetto, La cosa, che comincia proprio in una sezione siciliana, chissà se per coincidenza o per continuità. È questo contrasto tra fisico e metafisico che rende Palombella rossa così peculiare, così pieno di idee, di problemi e di ostacoli complessi e al contempo così elementare come lo schema di uno sport, creato apposta per essere seguito nella semplicità di poche regole e molta azione. La scelta della pallanuoto come veicolo narrativo, come cornice di senso, è un modo per rendere davvero personale un cinema tacciato di autoreferenzialità. Un’altra tattica geniale di un bravo giocatore, oltre che di un bravo regista, finge il distacco con la lontananza di una metafora, mentre mette in scena la parte più profonda e privata di sé, quella legata a un dato biografico sospeso e irrisolto, la scelta di chi si vuole diventare e cosa si vuole fare da grandi, le possibilità che restano aperte anche solo nella fantasia del cosa sarebbe successo se.

Alla fine di Riso in bianco, tra una partita a calcetto, una corsa in bici, un palleggio a tennis, Moretti dice che stanno per finire le dieci settimane di riprese di Bianca e che nel tempo libero continua a fare sempre qualcos’altro. «Questo qualcos’altro mi serve a trovare la concentrazione, la tensione e il nervosismo per fare il mio film» spiega, indossa una tuta da ginnastica, poi la maglia della Lazio in un torneo di calcetto nonostante sia un tifoso della Roma. «Mi serve a superare l’imbarazzo e addirittura a recitare, mi serve a trovare la sfacciataggine per raccontare me stesso. Quindi, fare sport non perché fa bene, perché si frequenta un ambiente sano, tutt’altro, o perché rilassa, non rilassa, o perché distrae, non distrae. Fare sport perché è un esercizio, un allenamento per essere in qualche modo, anche nel cinema, atleti di sé stessi». Non sappiamo come sarebbe stato Moretti pallanuotista professionista, regista della Nazionale, palombista implacabile. Moretti regista di film, invece, per fortuna lo vediamo ancora.

ARTICOLO n. 58 / 2025