ARTICOLO n. 90 / 2025

LEONORA CARRINGTON

Il dipinto si apre come una storia già cominciata. 

Una distesa di tinte ocra, verdi e panna si piega in forme che sembrano addormentate. In primo piano, una figura bianca attraversa un ponte di pietra; sul palmo della mano regge una fiamma. Più in dietro, una mandria di buoi procede seguendo un ritmo antico, indipendente da noi. Sulla destra, una grotta rivela una creatura leonina dorata: vuole custodire qualcosa, o qualcuno. Il cielo, invece, stende una promessa di luce non mantenuta.

Tutto è connesso, anche se non sappiamo come. 

Mi avvicino e mi allontano dal quadro di Leonora Carrington, The Elements (1946), esposto a Palazzo Reale di Milano nella retrospettiva a lei dedicata. L’opera è una dichiarazione d’intenti, forse una soglia: introduce il tema del viaggio e dello sradicamento, della ricerca di una casa e di una comunità; evoca la processione, il mondo sotterraneo, la natura ancestrale, il sogno. Un paesaggio che, prima di tutto, appartiene alla mente.

Lo guardo a lungo: sento che sarà il dipinto che mi resterà più impresso dopo la visita. E più lo guardo, più penso che The Elements sembra realizzato da Brueghel e Bosch dopo che hanno litigato e fatto la pace. Cerco altri dettagli, indizi che mi aiutino a capire la storia.

Poi qualcosa mi distrae. 

È un uomo, con due donne. Spiccano delle scarpe lucide, occhiali spessi da appassionati d’arte. Eppure ho l’impressione che abbiano risparmiato sull’audioguida; lui, infatti, che sembra il più interessato dei tre, tiene il cellulare in vivavoce. Dal dispositivo un’entità metallica, comincia a spiegare, instancabile, qualcosa che non riguarda ciò che ho davanti.

Cerco di restare concentrato, ma i tre si fermano proprio alle mie spalle, al cospetto di un altro quadro, un autentico capolavoro: Le tentazioni di Sant’Antonio (1945).

Così precipito in una situazione debordiana, paradossale: guardo un’opera, ma nella testa mi rimbombano le informazioni su un’altra, che non vedo. Alla fine non capisco più niente – né di questa, né di quella.

Muovo qualche passo in là. Ma rischia di crearsi quella situazione che capita anche nei supermercati, quando incroci un cliente fastidioso, o meglio, uno che vive l’esperienza in modo diverso dal tuo, e finisce per deambulare alla tua stessa velocità: ti fermi davanti agli scaffali, e lui si ferma; ti sposti di corsia, e lo ritrovi lì, a pochi centimetri, con il carrello mezzo vuoto. Un cliente dal quale non riesci più a liberarti, nemmeno alla cassa. Nemmeno al parcheggio. 

Per evitare che accada, per uscire dal binario su cui il caso ci ha allineati, torno nelle sale precedenti, a rileggere i cartelli con le note biografiche di Carrington (1917-2011).

Nel 1946 vive già in Messico. Ha sposato Emerico “Chiki” Weisz, fotografo ungherese, e nella casa di calle Chihuahua mette radici nuove. Lì nascono i suoi due figli, Gabriel e Pablo, e la sua vita sembra ritrovare un po’ di quiete – la prima dopo anni di fughe e smarrimenti. Per capire quanto costi quella quiete, però bisogna tornare indietro. 

Carrington nasce nel Lancashire, in Inghilterra, in una famiglia agiata e insofferente alla sua precoce indipendenza, un’insofferenza che la spinge prima alla ribellione, poi al crollo.

Infatti, nell’agosto del 1940, nel manicomio di Santander dove la rinchiudono, subisce trattamenti brutali. Tre anni dopo, nel raggelante Giù in fondo – una sorta di memoriale visionario – scrive: «Il ritorno alla coscienza fu doloroso; credevo di essere stata vittima di un incidente d’auto; il luogo evocava un ospedale, e un’infermiera di aspetto repellente, simile a un’enorme bottiglia di candeggina, mi spiava. Sentivo dolore e mi accorsi di avere mani e piedi legati con cinghie di cuoio. Più tardi seppi che ero entrata in quel posto lottando come una tigre».

E ancora prima del ricovero forzato in Spagna, Carrington vive la guerra, la prigionia di Max Ernst – suo amico e amante – le frequentazioni con i surrealisti, le giornate trascorse in Francia e in Italia a dipingere e a credere, con una fiducia quasi infantile, che l’arte e l’amore potessero bastare. A ricordare quel legame con il Surrealismo, e con Ernst in particolare, in mostra c’è un dipinto del 1938: Double Portrait.
Lei siede a terra, calzari dorati e gonna finissima, lo sguardo fisso su di noi, implacabile. Di fronte, Ernst: avvolto in un fiammeggiante azzurro, dello stesso colore che ha negli occhi, sembra il direttore di una centrale nucleare. Alle loro spalle, un cavallo è travolto da un’onda scura che si solleva e inghiotte parte dello spazio. Tutto intorno, l’atmosfera vibra tra sogno e ricordo.

Va detto che la tela non racconta un episodio preciso, ma registra una tensione: l’attrazione e la distanza, l’inizio e la fine di un legame. Ogni figura resta autonoma, eppure legata alle altre da una forza invisibile, la stessa che tiene insieme ciò che, inevitabilmente, la vita separa.

In quella tensione si intravede già un altro fattore essenziale del lavoro di Carrington: il sogno. Non un territorio parallelo alla veglia, ma la prosecuzione naturale di quella stessa energia che sulla Terra spinge le cose a cercarsi, a dividersi, a trasformarsi. 

Per i surrealisti il sogno è ben più di un rifugio; è uno strumento che serve a perforare la realtà, a mostrarne le crepe. Carrington, tuttavia, ne fa un uso diverso, visceralmente intimo. Per lei il sogno è un linguaggio. A guardarle bene, le figure che popolano le sue tele nascono da una necessità di sopravvivenza: trovare uno spazio in cui poter rimettere insieme i frammenti del mondo cosciente. Un rimedio per continuare a credere nella realtà, in una realtà che include anche l’invisibile. E l’indicibile.

«Noi scegliamo i nostri iniziati fra persone che abbiano già esperienza del dolore e delle difficoltà della vita a tre dimensioni», scrive in un passaggio de Il cornetto acustico (1974), un romanzo allucinato e graffiante, abitato da vecchie signore che complottano contro la morte e parlano con le stelle. È un testo che rovescia ogni logica, pieno di incubi, alchimie e travestimenti, dove l’assurdo non è mai gratuito: serve a dire ciò che la realtà, da sola, non riesce a spiegare.

Penso a quelle pagine mentre continuo il percorso della mostra. Ogni sala mi sembra una stanza di quel libro: abbacinante, imprevedibile, leggermente pericolosa. Passando da un quadro all’altro riconosco i frammenti di una stessa mente, e, quasi senza accorgermene, finisco per accodarmi al trio di appassionati che avevo incontrato all’inizio. L’uomo, nel frattempo, ha preso l’abitudine di ripetere a voce alta le parole chiave dell’audioguida, scandendole con tono da predicatore, mentre le due donne lo seguono in silenzio, annuendo.

Un po’ grazie a loro, un po’ per conto mio, capisco che Carrington è stata molte cose. Di certo non solo un’artista. Qualche giorno dopo la visita ritrovo un passaggio di Giù in fondo che sembra rispondere a questa sensazione: «Sentivo che, grazie al sole, ero androgina, la luna, lo Spirito Santo, una gitana, un’acrobata, Leonora Carrington e una donna […]. Ero la persona che rivelava le religioni e portava sulle spalle la libertà e i peccati della terra trasformati in conoscenza, l’unione dell’uomo e della donna con Dio e il Cosmo, tutti uguali fra loro».

Carrington, quindi, si percepiva come custode di un potere autentico, verificabile, un’energia che aveva qualcosa di magico nel senso più profondo del termine. 

Il Mago, figura antica dei Tarocchi e presenza costante nelle sue opere, è la chiave di questa visione: colui che agisce sulla materia con la forza del pensiero, che piega la realtà grazie all’accuratezza del rito. La mente e la mano, nel Mago, coincidono: ciò che una immagina, l’altra realizza.

A tal proposito, Carrington scrive una frase memorabile: «Le mie mani si capivano e la loro abilità era decuplicata». È un’immagine che riassume la sua idea di creazione: un atto in cui la volontà e l’istinto coincidono, in cui la mente pensa e il corpo esegue senza esitazioni. 

Da questa fusione nascono arte e magia, entrambe generate dallo stesso luogo – l’immaginazione – e capaci di scorgere ciò che di solito rimane nascosto negli interstizi della realtà, dietro le sembianze più comuni.

In mostra ci sono molti dipinti che suggeriscono questa possibilità, ognuno con segreti diversi. Quello che più mi ha colpito, però, porta un titolo inequivocabile: El Nigromante (1950).

Al centro del quadro, una figura vestita di bianco e nero, il volto romboidale tagliato a metà; tiene il braccio sollevato, dove si appoggia una piccola creatura pelosa, scimmiesca, con sei arti che si attorcigliano in un modo incerto, a metà tra la supplica e l’offerta. Di fianco a loro, un tavolo che contiene un animale dal corpo tozzo, forse una iena o un tapiro, e una piramide di uova azzurre che brillano appena. Accanto alle uova, un’ampolla trasparente racchiude un essere in gestazione – un pangolino, o qualcosa che gli assomiglia solo in parte – immerso in un liquido lattiginoso. Sullo sfondo, geometrie grigie e rosse si incastrano con la precisione di un enigma. Dalle pareti, piccole forme alate, simili a insetti o petali, confabulano tra loro.

Tutto appare ordinato, eppure instabile, come se ogni elemento potesse mutare funzione da un momento all’altro. Il mago, o negromante, non domina la realtà: la interroga, la osserva mentre si trasforma, la prepara alla riconciliazione con il dolore.

E il dolore, nelle opere di Carrington, non distrugge: istruisce. Non è una condanna, ma un passaggio necessario; è ciò che ci spinge a cambiare, a capire meglio noi stessi.

Questo, a mio avviso, è il punto decisivo, e spiega perché Carrington meriti la massima attenzione. È un’artista unica nell’immaginare la donna non in opposizione all’uomo, né come agente di un potere destinato a sostituirne un altro, ma come principio di conciliazione, forza che unisce ciò che è diviso, che ridistribuisce la conoscenza e trasforma la paura dell’ignoto in una possibilità di apprendimento.

Donna, sogno, magia: tre sostantivi che indicano un processo capace di smontare il mito dell’io indivisibile e di sostituirlo con qualcosa di più radicale: un’identità sempre in fermento.

In un testo lucidissimo, Animale Umano Femminile (1970), Carrington scrive: «Io sono potrebbe essere un’invenzione disonesta, che in realtà designa una moltitudine. Je pense donc je suis, ma perché? […] Se la mia identità coincide con i miei pensieri, allora potrei essere qualsiasi cosa: dal brodo di pollo a un paio di forbici, un coccodrillo, un cadavere, un leopardo o una pinta di birra».

ARTICOLO n. 89 / 2025