ARTICOLO n. 71 / 2025

L’ARTE DELLE DONNE

Elisabeth Sparkle è un’attrice la cui fama è giunta al capolinea. Da tempo conduce un programma di aerobica in tv, ma il suo produttore non è soddisfatto e vuole rinnovarlo nel format e nella conduzione. Proprio nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, la donna intercetta una telefonata che ne anticipa il licenziamento. Sconvolta dalla notizia, Elisabeth rimane coinvolta in un incidente stradale ed è in ospedale che un infermiere le suggerisce di partecipare a un programma di ringiovanimento.

Inizia così The Substance, il film diretto dalla regista francese Coralie Fargeat, uscito nelle sale italiane nell’autunno dello scorso anno. L’ho recuperato, con l’ormai consueta lentezza che mi caratterizza, solo pochi giorni fa e sono rimasta entusiasta non solo per il tema affrontato, cioè l’invecchiamento, da una prospettiva femminista, ma anche per il genere entro cui si colloca. Il film si pone infatti al crocevia tra il body horror — il cui oggetto di indagine è la trasformazione del corpo, come insegna David Cronenberg — e il gonzo. L’approccio di Fargeat alla narrazione è eccessivo, violento e fortemente immersivo al pari di pellicole come Natural Born Killers o Gummo, che hanno reso celebre il genere.

The Substance è diventato il pretesto per nuovi interrogativi: quante registe di pellicole gonzo o body horror conosco? E quante autrici che abbiano esplorato questi o altri generi ritenuti tradizionalmente maschili? Al pari del cinema, sembra infatti che alcuni generi letterari – dall’epica alla fantascienza, dal romanzo d’avventura all’horror – non siano appannaggio delle donne. Nel lungo percorso che ci porta a esplorare i miti intorno a cui si è sedimentata l’idea di femminilità, non potevamo che dedicare un approfondimento alla scrittura e alle arti visive per provare a rispondere a qualche domanda: perché la letteratura femminile fatica ancora a essere riconosciuta come parte integrante del canone alto? E perché i nomi delle donne vengono spesso confinati entro generi specifici, mentre quelli degli uomini sono considerati parte dell’arte “alta”, celebrati come geni e innovatori di correnti?

Chiamata a interrogarsi e scrivere del rapporto tra donne e romanzo, Virginia Woolf afferma che, per potersi dedicare a un’arte come la letteratura, il genere femminile abbia bisogno prima di potersi sostenere economicamente e, poi, di una stanza tutta per sé. Insomma, non si può scrivere se non si dispone di tempo e spazio per poterlo fare. Privata dell’uno e dell’altro, il destino della donna sembra quello di essere narrata, anziché narrarsi. Scrive, ancora, Woolf: «Se la donna non avesse altra esistenza oltre a quella riservatale nella narrativa degli uomini, potremmo immaginarla come una figura di estrema importanza […]. Nella realtà essa veniva rinchiusa, picchiata e gettata nella sua stanza». 

La docente Azélie Fayolle ha dedicato al tema della scrittura delle donne il suo lavoro di ricerca. In Scrivere femminista cerca di contrastare un vecchio adagio che riassume con queste parole: «Le donne non fanno letteratura, se non (cattiva) letteratura da (brave) ragazze». Relegate a generi considerati minori, come la scrittura autobiografica, sacrificate sull’altare di una presunta oggettività che diventa metro per assicurare universalità all’opera, per tanto tempo le autrici hanno occupato gli scaffali più isolati delle librerie mentre scomparivano dalle antologie in uso a scuola. È anche per contrastare questa tendenza che lo studioso Johnny Bertolio ha dedicato alle autrici un intero volume, non a caso intitolato Controcanone, pensato per gli istituti superiori, al fine di dare risalto al contributo che le donne hanno saputo offrire alla letteratura. 

Tuttavia, se vogliamo smettere di analizzare il contributo delle donne nell’arte, nel cinema e nella letteratura unicamente in relazione al corpo di chi le produce, è necessario seguire il ragionamento di Fayolle. Dobbiamo, cioè, superare l’idea che l’opera sia il semplice riflesso di un’identità biologica e iniziare, invece, a riconoscerla per ciò che è: una produzione femminista.

Seguire questo approccio implica, come prima cosa, riconoscere l’esistenza del “feminist gaze” che Fayolle descrive come «il legame tra lo sguardo delle femministe sul mondo e la sua realizzazione nelle loro opere». Questo concetto trascende il female gaze, costrutto proposto dalla critica Iris Brey in opposizione a quello di male gaze, di cui Laura Mulvey scriveva negli anni Settanta. Al centro del discorso di Fayolle infatti non c’è la diversa esperienza che le donne fanno della vita in ragione di uno specifico posizionamento biologico, bensì la ricerca di uno stile capace di rappresentare l’esperienza sociale di un genere — considerato subalterno — e il conseguente tentativo di resistenza all’oppressione subita. Sono molte le autrici che si pongono questo obiettivo; tra le voci più interessanti spicca quella di Virginie Despentes, non solo per il suo King Kong Theory, ma soprattutto per Scopami! in cui mette in scena la violenza subita senza alcuna forma di erotizzazione, svelando in questo modo la pervasività della cultura dello stupro e i danni che genera.

Seguendo la prospettiva proposta da Fayolle, accediamo allora a un’altra realtà, quella che per tanto tempo è stata occultata. Le donne hanno scritto e fatto arte, ma il più delle volte è passata sotto silenzio perché non c’erano orecchie o occhi capaci di decodificarla. 

Lo spiega bene Linda Nochlin quando, negli anni Settanta, prova a rispondere a una domanda scomoda: “perché non ci sono state grandi artiste?”. In un periodo in cui l’essenzialismo spingeva a considerare “l’arte femminile” come un sottogenere di quella maschile, la scrittrice ricorda come «artiste e scrittrici mostrano più somiglianze con i loro colleghi maschi, della stessa epoca e corrente di pensiero, che non tra di loro». L’interrogativo, allora, non è altro che la punta di un iceberg di pregiudizi «che riguardano il significato dell’arte, la natura delle capacita umane in generale e della superiorità in particolare, nonché il ruolo che l’ordine sociale gioca in tutto ciò». A queste parole sembra far eco Fayolle quando afferma che «il rifiuto, fino a tempi recenti, del termine autrice, attestato già nel XVI secolo, dimostra che l’esclusione dai diritti politici e da qualsiasi forma di riconoscimento letterario sono andate di pari passo».

Insomma, se quando rivolgiamo il nostro sguardo al mondo della letteratura, dell’arte o del cinema facciamo fatica a ricordare nomi di autrici, artiste o registe, è perché le regole del gioco sono sempre state scritte in modo da escluderle o penalizzarle sistematicamente. A una conclusione analoga giunge anche Woolf quando, in Una stanza tutta per sé, si chiede cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella, Judith, incredibilmente dotata dello stesso talento. Mentre William frequentava una grammar school e faceva pratica in teatro, la sorella non avrebbe potuto godere delle stesse libertà: «Bussò all’ingresso degli artisti, voleva recitare disse. Gli uomini le risero in faccia. L’impresario berciò qualcosa riguardo ai barboncini che danzano e alle donne che recitano […]». La storia sarebbe andata così, conclude Woolf, aggiungendo che sarebbe stato impossibile che una donna potesse avere il genio di Shakespeare perché un talento come il suo «non nasce tra lavoratori, ignoranti e servi». 

Ciò che Woolf metteva in discussione, all’inizio del secolo scorso, non era l’esistenza di donne straordinarie, ma le condizioni che rendevano possibile il riconoscimento del genio. Ed è proprio su questo punto che, anni dopo, si sofferma Linda Nochlin, individuando uno dei meccanismi chiave dell’esclusione femminile nell’idea stessa di genialità. Il mito del “genio maschile” è lo specchio di un sistema in cui il “genio” è colui che ha avuto accesso alle opportunità necessarie per sviluppare le proprie capacità — come la formazione, le istituzioni e il riconoscimento sociale — privilegi di cui le donne non hanno goduto. L’idea del genio è, in altre parole, una costruzione culturale che premia alcuni percorsi e ne oscura altri, escludendo dal canone le opere di chi, per ragioni di genere, non ha potuto inserirsi nei circuiti del potere artistico e intellettuale. Non è un caso che le donne, pur avendo scritto, dipinto e composto, siano rimaste a lungo relegate a generi considerati minori, mentre ai loro colleghi uomini è stato concesso di essere letti, studiati e tramandati come figure universali.

Fayolle fa notare che, a differenza delle opere maschili, quelle femminili, anche quando costituiscono il resoconto di un’esperienza (non importa se reale o inventata), possiedono sempre una forza collettiva. Curioso pertanto che proprio questo aspetto, che nelle opere degli uomini viene considerato segno di universalità, quando espresso dalle donne sia stato invece usato per relegarle a un sottogenere, privandole di legittimità e valore nel canone letterario. 

Scopami! e The Substance sono solo due esempi della produzione letteraria, artistica e cinematografica innervata di “feminist gaze” e finiscono per rappresentare due esempi perfetti di deviazione dall’ideologia dominante — spazi di «contro-discorso» li definisce Fayolle — in cui la storia può essere rielaborata in modo diverso, assumendo altri punti di vista e decostruendo il falso concetto di naturalità oggettiva. Il canone femminista, indipendentemente dalla forma stilistica in cui si manifesta, non si limita a raccontare al pubblico un fatto privato, come una violenza subita o cosa significhi, per una donna, invecchiare: gli conferisce un valore politico. Lo stile femminista procede dai margini, perché questo è l’unico luogo che gli è concesso per formarsi, e ha la forza dell’obliquità. Ma, come insegna Dickinson, l’obliquità non è un sotterfugio: è una strategia di luce. È il modo in cui la verità, negata e respinta, trova comunque una via per farsi strada, per abbagliare senza accecare, per riscrivere il mondo senza chiedere permesso.

ARTICOLO n. 70 / 2025