ARTICOLO n. 55 / 2025

L’ANIMALE SPOSTA LA SCENA

Su Felice Cimatti. "Studi" alla Fondazione Baruchello

Chi ascolta la radio conosce la voce di Felice Cimatti, presenza regolare nei programmi di approfondimento culturale di Radio Tre. Chi segue il dibattito teorico contemporaneo si imbatte facilmente nei suoi libri, al crocevia di diversi interessi. Filosofo del linguaggio, da anni Cimatti porta avanti un pensiero sull’animalità intesa come soglia critica del linguaggio, della coscienza, della storia. Ma il microfono della radio e la tastiera del computer sono solo alcuni dei suoi strumenti di lavoro.

La mostra di Cimatti, in corso alla Fondazione Baruchello di Roma, si intitola Studi, dove la parola “studio” è da intendersi come laboratorio: più simile a una ludoteca o a un terrario che a una biblioteca. Appena entrati, ci si trova davanti a una scrivania ingombra di oggetti: un computer, una lampada, un cartello con la scritta “divieto di caccia”, e poi una serie di miniature di animali, manichini, etc. È una specie di introduzione, un invito a pensare altrimenti il gesto dello studiare, come una pratica che si svolge in tanti modi diversi, come un pensare “con le mani”, per riprendere un’espressione di Carla Subrizi nel testo introduttivoalla mostra.

Nelle sale che compongono il percorso si incontrano dunque installazioni caratterizzate da una componente sperimentale, ma anche da una presenza fisica, materica, a tratti organica. Ci sono cose: mappe, disegni, giocattoli, rottami. Piccoli animali sfilano lungo spazi cartografici, si appoggiano su lamiere sfondate dalla ruggine e, quasi sicuramente, piene di tetano. Su una vecchia mappa di Roma si accovacciano figure plastiche – agnelli e giraffe, leoni e pecore – da scatola delle meraviglie, sogno d’infanzia e paccottiglia d’adulti. La geografia – tecnica culturale di rappresentazione della terra – è infestata da ipo- o iperoggetti, troppo piccoli o troppo grandi, sempre e comunque eccessivi rispetto alla scala. È come trovare una lumaca sopra un mappamondo, inconsapevolmente impegnata in una traversata transoceanica che, mentre la compie, disarticola la mappa e riconfigura un territorio. Oppure, rovesciando la prospettiva, è un po’ come un combattimento tra formiche che, agli occhi di un bimbo, diventa un interminabile match di Subbuteo. Ogni spostamento è minimo, ma abbastanza da provocare un accidente ai nostri modelli di mondo. È un’invasione silenziosa, tenera, destabilizzante.

In altre opere, o studi, quegli stessi animali si affastellano in una scatola o in un teatrino delle marionette interamente dipinti di bianco, provocando un cortocircuito tra il gioco d’infanzia e l’ipotesi di un’estinzione umana, tra il “play” e la scorreria. È come se lo spazio scenico – oppure il “white box” dell’arte contemporanea – fosse ora sottoposto a un nuovo, duplice, registro della presenza: plasticamente manipolabile, se ci si riferisce alla natura di giocattolo degli elementi che compongono l’assemblaggio; incontrollabile o, quantomeno, evasiva con riferimento alla predominanza della dimensione animale. Ma, a ben vedere, in entrambi i casi, la scena non è tanto “invasa” o “infestata” – come ho scritto sopra – quanto abitata o percorsa da una molteplicità fattuale. 

Al centro del percorso ci si imbatte poi in una serie di disegni. Da lontano, appaiono come masse compatte, ombre sospese. Ma sono stormi? La vera domanda non è capire quante rondini servono per poter dire che è primavera, ma in che modo riconosciamo questa coreografia sospesa. È l’insieme a rivelare lo stormo, oppure bisogna avvicinarsi e distinguere un volatile dopo l’altro? Lo stormo è qualcosa che si intuisce a colpo d’occhio o che si costruisce a partire dai dettagli? Paradossalmente, più ci si accosta a questi disegni, più le macchie si frantumano in un’estetica della moltitudine, come a suggerire che ci sono stormi dentro lo stormo: uccelli minuscoli – quasi insetti – delineati con un tratto che si ripete con variazioni minime e costanti. Disegnare lo stormo diventa insomma un’occasione per riflettere sui processi percettivi e cognitivi mediante i quali osserviamo, interpretiamo e organizziamo il mondo. Non si tratta di un passaggio lineare dal particolare al generale o viceversa, ma di un continuo oscillare tra configurazioni a loro volta variabili.

Si intitola Studi, ma potrebbe essere anche qualcosa di più altisonante, tipo “Infanzia e storia naturale”. L’infanzia, secondo la trattazione agambeniana, come momento in cui il vivente accede al linguaggio e si costituisce in quanto soggetto. La storia naturale intesa invece come pratica scientifica di osservazione del vivente, ma anche come interrogazione critica della centralità dell’umano e del linguaggio. Nella mostra di Cimatti è come se questi due momenti precipitassero l’uno dentro l’altro. Gli animali giocattolo sono tanto souvenir d’enfance che reperti museali: fossili, simulacri, ricostruzioni. Di fronte a ognuna delle opere in mostra ci troviamo, in altre parole, in bilico tra il precoce e il postumo. E viene da chiedersi perché non esistano sul mercato figure umane in scala coerente con questi animaletti di plastica. È forse per questo motivo – una questione di scarsità – che la figura umana risulta assente da questi assemblaggi? A ben vedere, non si tratta per Cimatti di evocare l’umano come soggetto mancante da reintegrare o rimpiangere. Siamo piuttosto di fronte a un processo, dove anche l’animale tende a oltrepassare sé stesso, nell’animaletto di plastica e viceversa. Chi visita la mostra e osserva queste opere è, a sua volta, invitato a spingersi verso il bimbo che con quegli animaletti cresce giocando e poi dimentica tutto.

Il rapporto tra il ludico e il materico attraversa tutte le opere in mostra, mettendo sotto pressione le forme di rappresentazione che fanno da supporto o fondale e, in particolare, la cartografia e il teatro. Da un lato, l’utilizzo di animali in miniatura e il ricorso al modello della maquette ribadisce il carattere derivato, umano, di tali assemblaggi. Dall’altro, tutte le tecniche culturali e forme antropiche di partenza sono come sospinte, spostate, verso un ambiente originario, pulsionale, impersonale. Dopo tanto parlare di loro nella teoria contemporanea, è come se gli “attanti” si fossero stancati di restare dietro le quinte oppure di addossarsi invisibili – come infiniti acari – lungo le pieghe di velluto di un sipario. Sono loro i nuovi attori in scena, sono i tarli che si adagiano sugli assi di legno degli spazi sovvenzionati dal Ministero della Cultura. La loro presenza non è eroica, difficilmente è divistica. Oscilla tra il grottesco e il sommesso; come se la soglia tra soggetto e contesto si fosse dissolta e al suo posto rimanesse una scena incerta. Potremmo parlare di détournement o, meglio, di una dérive transpecista: non più il progetto umano che reinventa lo spazio, ma il punto interrogativo del nonumano (animale o animaletto) che già si trova qua e non chiede il permesso. 

E poi, nella sala più bella, torniamo a guardare la serie di scatole luminose. Una di queste è molto semplice: una lastra opaca lascia intravedere delle piccole tracce nere al suo interno. Sono insetti o, forse, la loro riproduzione a grandezza naturale. Sono gli ospiti dei nostri soffitti, nelle plafoniere, nei battiscopa, nei racconti di Franz Kafka. Lo spettacolo finisce e ci troviamo nel salotto di casa, nel divano, nel letto. Nell’abitare promiscuo fatto di soglie e mediazioni, ma senza dentro né fuori.

ARTICOLO n. 54 / 2025