ARTICOLO n. 91 / 2025

IL MITO DEL PERDENTE E LA VIOLENZA INACCETTABILE

In collaborazione con I Wonder Pictures pubblichiamo un pezzo suThe Smashing Machine di Ben Safdie che arriverà nei cinema italiani dal 19 novembre. Scopri le sale qui.

Con The Smashing Machine, prodotto da A24 con protagonisti Dwayne Johnson ed Emily Blunt, Benny Safdie firma il suo primo film in solitaria a cinque anni dall’uscita di Diamanti grezzi. Dopo lo spiantato gioielliere ebreo alle prese con i debiti e la malavita newyorkese, Safdie ha voluto raccontare la parabola di un altro loser: Mick Kerry, uno dei pionieri delle arti marziali miste, quando l’MMA stava ancora cercando una forma riconoscibile e l’UFC, l’Ultimate Fighting Championship, ovvero la lega di eventi di questo settore più grande al mondo, muoveva i primi passi verso quello che oggi è uno show business che raggiunge mezzo miliardo di spettatori. 

Come in molti film che hanno al centro la lotta e i lottatori, la tensione è tutta nella mise en abyme tra vita fuori e dentro il ring. Mick Kerry (che nella fisicità di un atleta di sport di combattimento come Dwayne Johnson ha trovato un interprete anche troppo perfetto) diventa in poco tempo il campione indiscusso del circuito giapponese Pride, lottando interi tornei in un’unica giornata e contrattando volta per volta il proprio cachet. Allo stesso tempo, Mick cerca di contenere la sua dipendenza da oppiacei, senza veramente mai riuscirci. Il rapporto con la moglie Dawn è piagato anche dalla sua difficoltà di tornare “civile” dopo aver conosciuto la forma più pura della tensione. 

Kerry non è un violento nel privato, ma la dedizione e il controllo estremo sul proprio corpo, che lui pratica per permettersi una vita decente, lo porta solo a desiderare pace e silenzio prima di tornare in palestra o nell’ottagono. I soldi non sono comunque il motivo principale della sua ossessione; non c’è alcun’aspettativa di riscatto sociale nella forma estrema della sua attività. Nel film, la casa di Mark è un’ordinaria villetta middle class, con tutte le piccole cose di cattivo gusto di una sitcom americana anni Novanta.

Non si aggira per le ville di lusso di campioni come McGregor o Mayweather, ma in ambienti domestici dove la forza diventa goffaggine e il mito del guerriero vittorioso che torna nella reggia si trasforma in una routine qualunque. Solo la palestra e la ripetizione di atti controllatissimi gli dà pace. E questo emerge soprattutto nel rapporto con l’amico, avversario e allenatore Mark Coleman, anche lui interpretato da un altro ex lottatore di MMA, Ryan Bader. Solo Mark conosce la sconfitta e il sacrificio come lui: nella scena in cui lo va a trovare in ospedale dopo che Kerry ha rischiato di morire per un’overdose, la timidezza tutta maschile di due (un campione che non riesce a tenersi insieme e un secondo classificato che però a casa trova una moglie e dei figli ad aspettarlo) non regge e solo con lui, con l’avversario di sempre, Mark può piangere. Non con la moglie, che pure non ha colpe. Ma dietro la superficie sempre ripetitiva del biopic sportivo, come in tutti i film di Safdie in formazione singola o meno, si nasconde una riflessione più ampia: che cosa rende accettabile la violenza, la sopraffazione di uno sull’altro e il rischio imperdonabile di perdere al giorno d’oggi?

Come ha cercato di raccontare una scrittrice del calibro di Joyce Carol Oates in Sulla boxe (66thand2nd, tr. Leonardo Maria Pignatello), la lotta è sempre un atto innaturale, forzato, perché è la scelta consapevole di correre un rischio mortale senza un apparente motivo. Lo stile e la tecnica nelle arti marziali e negli sport di combattimento, infatti, sono tutto: sono il limite oltre il quale si può perdere anche abbattendo un avversario, quindi interrompendo la sospensione di incredulità che permette allo scontro di sembrare vero. La lotta è anche per questo una pratica associata per tradizione alla mascolinità e alla guerra, ma forse per un motivo a volte incompreso: non in quanto espressione bestiale, memore di una supposta origine violenta delle relazioni umane, bensì come forma estrema di controllo, di perseveranza, quindi di sacrificio per qualcosa di più grande del sé. Che sì, per secoli e ancora oggi, è stato preludio e poi materia della guerra. Ma a uno sguardo più attento, come aveva intuito in un’intervista il sociologo Alessandro Dal Lago (tra i primi in Italia a occuparsi di arti marziali miste a livello accademico), in merito al suo libro Sangue nell’ottagono. Antropologia delle arti marziali miste (Il Mulino 2022), «tanto più il limite della violenza si alza, tanto più le inibizioni si moltiplicano».

L’MMA oggi, rispetto all’eroicità di pionieri come Mick Kerry, ha anche un’altra faccia, che è quella ultramoderna dello streaming, dove in un’idea razionale di show business si rende visibile e godibile e avvincente quello che in realtà cerchiamo di non vedere, che sconvolge la nostra calma. l’UFC, rispetto al crudo e inelegante scambio tra fighter messo in scena nel film di Safdie, ha moltiplicato gli stili ed enfatizzato tutto quello che è fuori dall’ottagono (il trash talk, i profili da street fighter dei vari atleti, le faide) per illudere spettatori e spettatrici che di regole ce ne siano in realtà sempre di meno, e che la violenza per cui pagare l’abbonamento a una piattaforma di streaming o un biglietto per un incontro siano quasi incontrollabili. Quasi reali. 

ARTICOLO n. 90 / 2025