ARTICOLO n. 82 / 2025

IL DISAGIO DI AMLETO, IL PRINCIPE DISOCCUPATO

Nel mio ultimo libro, La conquista dell’infelicità (Einaudi), racconto le origini del nostro bisogno di realizzazione personale, che non è altro che un bisogno di distinguerci dalla massa nella speranza di trovare un posto nel mondo. La tragedia della classe media contemporanea è stata però anticipata da alcuni celebri eroi letterari, attraverso i quali racconto la nostra condizione (Pubblichiamo di seguito un estratto da La conquista dell’infelicità, ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità). 

Essere o non essere? Il primo disagiato della storia si chiama Amleto. Bisogna capirlo: i doveri chiamano il principe a fare cose piuttosto «medievali» – uccidere lo zio usurpatore e regnare sulla Danimarca –, ma lui invece ha l’anima di un creator malinconico che passerebbe volentieri la giornata a fare lunghe dirette su Twitch per parlare del disturbo mentale che si è autodiagnosticato. 

Se Shakespeare nel Seicento voleva semplicemente dipingere un disadattato, per noi moderni Amleto è un modello di vita – «mio padre» come dicono sui social. Almeno dai tempi di Goethe ed Hegel. Il primo racconta, tra le altre cose, gli sforzi di Wilhelm Meister per mettere in scena con la sua compagnia la tragedia, «l’opera di un genio divino, che si avvicina agli uomini per insegnar loro, nel modo più dolce, a conoscere se stessi». Il secondo considera Amleto il prototipo dello studente universitario di Wittenberg (e forse pure delle altre città) «presso cui l’intelligenza e il sentimento sono estremamente sviluppati ma la potenza di azione pressoché assente». La nobile anima del principe, scrive il filosofo nella sua Estetica, pubblicata postuma nel 1835, «piena di disgusto per il mondo e la vita, sbattuta fra decisione, prove e preparativi di esecuzione, viene a soccombere per la propria esitazione e l’intreccio esterno delle circostanze». 

Sopra la testa di Amleto c’è uno strappo nel cielo di carta che esala angoscia: il mondo è sbagliato, «il tempo fuori di sesto». Il lamento del principe di Danimarca annuncia la miseria (relativa) della società opulenta, quattro secoli più tardi; circondata dalle merci ma afflitta da un terribile disagio. Ma che cosa turba Amleto? Amleto non si strugge per ciò che avviene nel suo mondo – la morte del padre, il tradimento della madre, l’amore per Ofelia – bensí si interroga sulla consistenza stessa di quel mondo. La modernità è il tempo della crisi perché porta con sé la consapevolezza che nulla è fisso e stabile, tutto può essere rivoluzionato e spostato. Il principe, perdendo il diritto ereditario sul regno, rinuncia al proprio destino e alla sua stessa identità: si scopre, in sostanza, disoccupato. «Si sente straniero», scrive Goethe, «persino in ciò che sin dalla giovinezza poteva considerare come sua proprietà». La sua proprietà e la sua posizione – per non parlare delle sue stesse pulsioni edipiche nei confronti dei genitori – ormai appartengono a un altro. Lo zio Claudio, assassino di Amleto senior e amante di sua madre, ha letteralmente preso il posto di Amleto. Venuto a cadere il senso della sua vita, cade il senso di tutto quello che lo circonda. 

Sorge un naturale imbarazzo a mettere per iscritto queste poche parole: «Il senso della vita». Perché al timore devozionale per quello che sembra essere il problema filosofico per eccellenza succede il fastidio per la sua definitiva banalizzazione: ogni guru del management che si rispetti insisterà sull’importanza di restituire il senso perduto del lavoro, osservando che l’essere umano aspira a qualcosa di più alto della semplice soddisfazione dei suoi bisogni materiali. Ma va’? Eppure del senso della vita parleremo spesso in queste pagine, perché è da lí che derivano la percezione di scarsità e di abbondanza, la soddisfazione e la delusione, la distinzione tra essenziale e superfluo, la dinamica delle motivazioni umane e tante altre cose. Se i pensatori medievali sembrano ignorarla bellamente, persi nella contemplazione del Dio cristiano, la domanda sul senso della vita tormenta invece gli antichi e i moderni: si lega indissolubilmente al problema della realizzazione personale. 

Da questo punto di vista, il male metafisico di Amleto ha una causa molto prosaica, potremmo dire oggi «socioprofessionale»: il principe di Danimarca non serve più a niente, per lui non c’è piú posto nel mondo. Il primo disagiato è anche il primo spostato. Reciso dalla linea della discendenza, è un declassato. Educato a regnare, non gli resta nulla da fare se non coltivare il proprio disagio. 

Non stupisce che tanti lettori, negli ultimi due secoli, abbiano potuto immedesimarsi in questo personaggio: Amleto è il primo grande deluso della letteratura occidentale. In ciò la sua figura si sovrappone a un altro eroe moderno, concepito a pochissimi anni di distanza, Alonso Quijano detto Don Chisciotte della Mancha. Secondo il grande critico letterario Erich Auerbach: 

Cervantes mette in evidenza fin dal principio della sua opera dove si trovi l’origine della confusione mentale di Don Chisciotte: è la vittima di un ordinamento sociale entro cui egli appartiene a un ceto senza funzione; fa parte di questo ceto, non può liberarsene, ma non ha, in quanto soltanto membro di esso, senza ricchezze e senza relazioni altolocate, nessun’attività o compito; e sente trascorrere la sua vita senza senso, come se fosse paralizzato. 

Un altro spostato. Don Chisciotte si mette al riparo dal disincanto rifugiandosi in una narrazione autobiografica di comodo, e quando rinsavisce finisce per morire: era l’autoinganno che lo teneva in vita in un mondo in cui non c’era piú posto per lui. 

Oggi siamo tutti Amleto, principi decaduti di un regno immaginario, esiliati nelle terre del realismo capitalista. Ma ai tempi di Shakespeare, quel malessere doveva sembrare piuttosto eccentrico e forse indecifrabile. La reazione naturale di un principe spodestato, in fondo, avrebbe dovuto essere quella di fare a fette l’usurpatore senza perdersi troppo a lungo in speculazioni metafisiche. Quelle che oggi ci appaiono come tirate straordinariamente poetiche e filosofiche, a partire dal celebre «Essere o non essere?», servivano al drammaturgo per dipingere un uomo irrisolto, incapace di agire secondo le aspettative del suo ruolo e del suo tempo; insomma, espressioni di una debolezza assolutamente condannabile e dagli esiti tragici. Ancora a metà Settecento, Voltaire denunciava nell’Amleto un’opera «grossolana e barbara» che gli sembrava il «frutto dell’immaginazione di un selvaggio ubriaco». 

Bisogna attendere i romantici per vedere esaltato il principe di Danimarca come precursore del «male del secolo»: il sentimento di non trovare posto nel mondo condiviso dalla gioventù europea del primo Ottocento. Trovare posto nel mondo: ecco un problema relativamente nuovo, caratteristico della nuova epoca di mobilità sociale, nella quale siamo entrati dopo la rivoluzione liberale – l’era degli spostati.

ARTICOLO n. 81 / 2025