ARTICOLO n. 81 / 2025
Di Ray Banhoff
“EDDINGTON”: QUANTO FACCIAMO PENA, SPIEGATO BENE
In collaborazione con I Wonder Pictures pubblichiamo un pezzo su Eddington di Ari Aster. Nei cinema dal 17 ottobre. Scopri le sale qui.
Ho letto grandi titoli e grandi critiche su questo film dopo averlo visto, ma nessuna mi convinceva veramente. Non capivo perché… Si ok la società americana, il thriller spiazzante e bla bla bla. Ma francamente se vi aspettate questo, rimarrete delusi. L’analisi da fare è: come mai non se ne salva uno? Di questi personaggi intendo… Che film ha scelto di fare Ari Aster? E perché?
In due ore e mezzo non c’è un personaggio, tra i tanti che compaiono, con cui empatizzare. Umanamente fanno tutti schifo. Sono miserabili, cattivi, ridicoli e mediocri e i pochi buoni che appaiono vengono uccisi. Lasciate stare che questi personaggi siano trumpiani, suprematisti, complottisti o pacifisti. Il film non parla di questo! Non parla della crisi “americana”, il film parla di un certo rincoglionimento di massa di tutta la straviziata civiltà occidentale. Parla di noi. Parla di persone insicure che cercano di definirsi tramite la loro reputation online. Esiste qualcosa di più ridicolo della reputation?
In Eddington abbiamo: degli adulti che non sanno fare gli adulti, che cercano continuamente il consenso per non scatenare le ire woke; dei pazzi complottisti; dei ragazzini dipendenti da smartphone che si professano saggi. Ti verrebbe voglia di entrare dentro lo schermo e dargli una sberla, come a dire: svegliatevi, sembrate rincoglioniti! Esattamente come nella nostra realtà.
Fuori dalla retorica da vecchi possiamo dire che il mondo, da quando abbiamo delegato la nostra reputazione ai like piuttosto che al successo concreto nella nostra comunità, ha lasciato tutti meno soli si, ma un po’ più isolati? E atteggiati a scemi che fanno balletti con le tette fuori o proseliti pur di aver consens.? Lo sappiamo, ma fingiamo di non essere messi così male.
La rabbia nascosta del protagonista è la stessa che proviamo noi comuni mortali quando ascoltiamo senza ribellarci: gli ospiti dei talk politici in tv con le loro frasi retoriche; il sindaco locale che si atteggia ma non ha concluso niente; i discorsi a tavola dello zio indottrinato dai media; il commesso del comune che ti dice: lo sportello è chiuso, dopo solo un minuto dalla fine dell’orario. E tu che sei uscita dal lavoro, che hai parcheggiato in divieto, che anche oggi non farai in tempo ad andare in piscina vorresti solo dirgli: santo cielo, che ti costa?
«Dov’è la tua rabbia?» urla la suocera di Joe Cross, il protagonista, al culmine di una litigata. La risposta vera? È repressa. Joe tiene tutto dentro, per paura di perdere consenso, affetto, reputazione. Lo guardi e pensi: che rammollito. Ma siamo tutti così, o quasi.
Questo è il sentimento del film. Per forza non ha convinto i cinefili o i critici che lo ritengono “confusionario”. C’erano il cast stellare e tutti i grandi temi per farne un antagonista di Civil War, ma non sembra stia succedendo ed è un peccato. La gente spera di vedere Fargo 2, ma i tempi sono cambiati. Il cinema è cambiato.
Primo: Eddington parla di qualcosa di invisibile che sta dentro di noi e che ci fa soffrire e che non diciamo: la pagliacciata dell’autorealizzazione negando il nostro vero io, la ricerca del consenso modellandoci per piacere a tutti; secondo: Eddington aveva bisogno di altre ore di svolgimento. Se fosse stato una serie tv anziché un lungometraggio, sarebbe stato acclamato come un capolavoro. D’altra parte Breaking Bad, Peaky Blinders, Game of Thrones non avrebbero avuto lo stesso senso racchiuse in un film di due ore e mezzo.
Il regista Ari Aster ha dovuto lavorare su un tempo brevissimo, quando invece le sottotrame si moltiplicavano (Trump, cultura woke, Covid, George Floyd, complottismo, uso delle armi, social media, anaffettività, etc) e i personaggi perdevano spazio per approfondimenti psicologici. Eppure è proprio tutto questo caos che lo rende un film filosofico. Eddington somiglia alla nostra realtà: sovrastimolata e per questo condannante all’inazione. Scusate, non ho ancora parlato di trama.
Siamo nel New Mexico, in piena pandemia Covid nel 2020. Joaquin Phoenix è Joe Cross, lo sceriffo locale, Pedro Pascal è Ted Garcia, il sindaco uscente. Quando lo stato impone l’obbligo della mascherina per la pandemia, lo sceriffo si oppone pubblicamente sostenendo che il virus non sia mai arrivato in città. E va tutto a rotoli. La gente che non ha una fede propria si schiera: i buoni con la mascherina, i cattivi senza.
Eddington è la classica cittadina desolante della provincia americana, un luogo che ormai visivamente conosciamo meglio della piana di Gioia Tauro o del foggiano. Ci sono appena due strade lunghe e dritte e il negozio di armi è molto più grande e molto più appetibile della scuola. Qui nessuno appare felice, nessuno ride mai. Eppure tutti hanno una macchina enorme tipica degli americani, un lavoro, una famiglia, un’appartenenza religiosa, ma paiono automi. Tutti iperconnessi, impegnati in selfie e status, tutti con un lavoro diurno che li incatena al capitalismo e i sogni notturni di sfasciare l’ordine costituito.
Regna la noia e il perbenismo. Tutti recitano la parte dei buoni. Ma un conto è spacciarsi buoni online, un conto è esserlo.
Infatti pochi giorni dopo la morte di George Floyd, durante una protesta cittadina, la polizia cede a una dozzina di pischelli con lo smartphone, pronti a spacciare uno spintone dello sceriffo ripreso in video per repressione. Era l’unico atto adulto che avesse fatto il nostro Joe, ma subito lo rinnega e scappa. Però basta un barbone ubriaco e sporco, che tossisce su tutti per svuotare il corteo in un attimo. Che schifo, un povero! Ecco il personaggio più interessante del film, quello che incarna noi, l’inascoltato, colui che prova a scuotere tutti e soccombe.
Joe viene messo in discussione. La gente non sa chi scegliere: lui o il sindaco, in gioco c’è la reputazione. E i non detti che tutti sanno. Ted in passato ha stuprato Louise (Emma Stone), la moglie di Joe.
Una moglie con cui tuttavia Joe non fa sesso, che chiama Coniglietta nonostante lei lo odi. Una moglie completamente pazza e complottista che Joe condivide vivendo assieme alla di lei madre, altra megera che lo ricopre di vessazioni. In una casa che era «del vero sceriffo», il padre morto di Emma con cui Joe era di pattuglia. Manco la stella sul petto si è guadagnato il vecchio Joe, l’ha solo ereditata per fortuna. Crepet scuoterebbe la testa, Cacciari si incazzerebbe, la Lucarelli ci farebbe un libro su uno come Joe.
Ecco, uno così somiglia a Filippo Turetta, al maschio autore di femminicidio, ai tanti casi di cronaca che conosciamo.
Infatti per dimostrare a tutti che vale, Joe va a sfidare il sindaco, che lo tratta da moccioso e lo schiaffeggia in pubblico. Il sindaco! Un buonista che ha svenduto Eddington alle Big Tech inquinanti e che ha sfruttato l’abbandono di sua moglie per girare un pietoso spot in bianco e nero con il figlio orfano e farsi eleggere. Un pidocchioso del genere! Che affronto. Infatti da qui partirà una carneficina allucinata e splatter (parte migliore del film) che non voglio spoilerare.
Uccidi ma non vuoi morire, uccidi ma non vuoi morire. Questo verso di Piccole iene degli Afterhours sarebbe stato perfetto per la colonna sonora del film, peccato che gli americani artisticamente ci considerino solo fino al Rinascimento. Detto questo, vi lascio le sorprese finali e mi espongo: iperveloce eppure lento, pieno di difetti e con troppe storie. Secondo me questo è un film quasi perfetto.