ARTICOLO n. 51 / 2025

COME UNA SCHEGGIA

un'intervista di elisa teneggi

Di Helen Garner e della sua scrittura si bisbiglia nel panorama internazionale “che sa”. È il segreto meglio custodito d’Australia, almeno secondo il Guardian, almeno per qualche tempo. Fino a quando, cioè, l’opera di questa autrice nata nel 1942 non ha svalicato. Helen Garner esordì con Monkey Grip – tradotto in italiano con Come piombo nelle vene – nel 1977. Entrambi i titoli, pur da lati diversi, fanno riferimento alla stretta dell’eroina e della dipendenza, protagonisti effettivi della prima opera della scrittrice. Aveva trentacinque anni, una carriera da insegnante già avviata, era madre e aveva vissuto in una comune, catturata dal bel sogno di un’umanità libera anzi liberata, presente a se stessa.

Non fu così. Nora, la sua prima protagonista, l’ebbe da imparare sulla sua pelle anzi in quei luoghi dove scorre il sangue e tutto, dentro di noi, sembra formarsi. La storia di un amore tossico e tossicodipendente spulciava tra le pagine di vita della stessa Garner; per questo fu tacciata di faciloneria, di patetismo, di diaristica e non di letteratura. D’altronde in Garner, e già in quel primo romanzo, si trovavano il problema e la cura, le istanze di un femminismo risvegliato alla coscienza e il suo opposto che non ne è la negazione, bensì il presentimento di un fallire senza via di scampo.

Ma è troppo facile dire che Garner era avanti, che precorreva. Troppo facile derubricare il groviglio di coscienze e consistenze messe in atto al cuore infranto e narrativamente fortunato di una giovane from down under, all’altro estremo del mondo. «A volte avevo paura di diventare troppo mascolina, di perdere la tenerezza», fa dire l’autrice a Nora che forse non lo sa o magari lo sente, che quello che teme di perdere, a ogni modo, non sarà mai suo.

Come piombo nelle vene è stato portato in Italia l’anno scorso da Nottetempo con la traduzione di Milena Sanfilippo. E quest’anno è arrivato anche un secondo titolo, Piccoli preludi, così trasposto da The Children’s Bach, del 1984. Il carattere centrale è di nuovo una donna, Athena. Anche lei ha una relazione, ma questa volta la facciata è promettente: due termini pericolosissimi da far incontrare.

Difatti il gioco non regge, deflagra, alla minima scossa di vento. E se nel romanzo d’esordio il punto di vista era granitico e per questo discutibile, Piccoli preludi quasi non lascia respiro, rifratto in una miriade di cristalli. La prosa scatta, i nessi causali appena intuibili. Sono fiotti di luce, «la parola migliore è quella non detta». Pare la medesima storia su uno sfondo diverso. A cambiare è in primis quello di carta che accompagna il parolare di Garner, o detta in altro modo, con leggera variazione sulla citazione (si trova a p.87), «leggerti è come intrattenere una conversazione lunga e intrigante».

Ma preludi a che cosa, poi? A quello che Garner descrive attraverso l’esperienza di Athena come “l’universo morale della vita moderna”. A una costruzione di frase ancora più precisa per descrivere un atto sessuale. A noi che continuiamo a sfogliare e quasi non ci crediamo, che Helen Garner ha 82 anni e noi che ci diciamo intellettuali non ne avevamo ancora sentito parlare.

Funziona così. «Perhaps she too might never apologize, never explain» – “forse nemmeno lei si scuserà mai, si spiegherà mai”. È una frase di John Arbuthnot Fisher, ammiraglio britannico di epoca vittoriana ed edoardiana. Non contraddirsi mai. Non spiegare mai. Non scusarsi mai. Vale anche, nel modo più luminoso possibile, per Helen Garner (a cui venne pure detto di “avercela fatta” solo perché suo marito era uno scrittore, ah, il suo terzo marito dal quale è separata, Murray Bail), nata Ford, e la sua prosa. Che è una scheggia, come lei. Afferratela, se vi riesce.

Elisa Teneggi: Come guarda indietro a Come piombo nelle vene, quarantasette anni dopo la sua prima pubblicazione?
Helen Garner: Mi ha molto sorpresa e lusingata scoprire che Come piombo nelle vene vada ancora forte – e che anche oggi le persone lo accolgano con tanto affetto. Quando ripenso al mio primo libro, mi rendo conto di quanto fossi ingenua a trentacinque anni, di quanto non avessi idea di come “scrivere un romanzo”, nonostante avessi studiato letteratura all’università negli anni Sessanta e avessi letto centinaia di romanzi.

Da australiana, ero ancora abbastanza ignara da credere che tutto ciò che fosse culturalmente interessante e importante accadesse altrove – in Europa, in Inghilterra, in America – e che la letteratura fosse appannaggio perlopiù degli uomini. Però scrivere era la sola cosa che amassi sul serio, l’unica in cui ero brava. E avevo l’impressione che, contenuti nel diario che scrivevo ogni giorno, ci fossero gli inizi di qualcosa che avrebbe potuto evolvere in una storia: la mia relazione con un uomo dipendente dall’eroina. Una storia che, ovviamente, non poteva che finire in un disastro. Così continuavo a tenerne traccia, man mano che accadeva. Quando ripenso a quel libro, a volte a scioccarmi è proprio la relazione che sta al centro della vicenda, per il suo carattere masochista e autodistruttivo; ma amo rileggere delle comuni in cui vivevamo io e la mia bambina, del calore e dell’affetto di quelle comunità, di quando ridevamo, cantavamo, uscivamo a ballare o raggiungevamo la piscina in sella a una bicicletta. 

E.T. Il mondo contenuto nel romanzo era implacabile: con la Storia che è andata avanti, che eredità ha lasciato? Ne vede equivalenti tra i giovani (e non) di oggi?
H.G. Non so se fosse un mondo implacabile. Di certo era un mondo piuttosto selvaggio – la gente non faceva che entrare e uscire di schianto dalle vite altrui. Eravamo una generazione che si era emancipata grazie all’invenzione di metodi contraccettivi affidabili, e questo cambiò tutto, soprattutto la vita delle donne. Ma, neanche a dirlo, l’utopia gloriosa che credevamo imminente – quella di un amore libero senza possessività o gelosia – si è rivelata una fantasia. La natura umana, le ferite dell’infanzia, l’invidia e la gelosia, l’oscurità che abita la nostra anima… Nessuna di queste cose è stata sconfitta… È chiaro che non è andata così. Non sapevamo nulla di psicologia. Credevamo solo che le persone dovessero controllare le proprie emozioni. La nostra era un’ingenuità quasi risibile.

E.T. Parlando di giovani: il mito dello scrittore giovane mi sembra più in salute che mai. Che cosa ne pensa, di questo desiderio della società di trovare eroi, spesso da bruciare in fretta?
H.G. Negli anni Ottanta ho fatto parte, per tre stagioni, della giuria di un premio letterario dedicato ad autori Under30. Per i primi due anni, quasi tutti i libri candidati erano firmati da uomini. Così decidemmo di alzare il limite d’età a trentacinque, e fu solo allora che le candidature femminili presero a fioccare. In un solo anno l’equilibrio tra generi si ribaltò completamente. Da lì capii che, mentre i giovani uomini si lanciano con spavalderia, le donne arrivano solo più tardi. Scrivere bene richiede una certa esperienza di vita, insieme al dolore e alla perdita, persino una certa saggezza – e le donne (in una maniera che ritengo avveduta) impiegano più tempo a fidarsi di se stesse, a convincersi che ciò che hanno da dire meriti di essere letto. Inoltre, quando ero giovane, non esistevano corsi di scrittura creativa. Ci si faceva strada da sole, in privato. Oggi il talento giovanile viene individuato presto e alimentato a forza. E, talvolta, avvizzisce e si prosciuga.

E.T. Rimaniamo sulla scrittura. Lei ha detto, una volta: «Mi hanno detto che “questa non era letteratura”. Però aveva a che vedere con la gioia del tenere la lingua tra le mani. Creando frasi, ci si trasforma in scrittrici». Qual è il ruolo dello scrittore, nella cultura e società contemporanea?
H.G. Non ho mai avuto una risposta a questa domanda. Mi interessa più plasmare frasi che avere un ruolo nella cultura e nella società. Immagino che, se lavoro sodo e rendo le mie frasi il più possibile buone e veritiere, magari avranno un effetto sulla psiche degli altri. O sui loro cuori.

E.T. Quando si scrive e non si fa autofiction, l’equilibrio tra finzione e realtà può farsi labile. Come l’ha vissuto lei nella sua carriera, e scrivendo Come piombo nelle vene soprattutto?
H.G. Gran parte del mio lavoro deriva – o trae ispirazione – dalla mia esperienza personale o dalle mie osservazioni sull’esperienza altrui. L’invenzione da zero non è il mio punto forte. Ma ho imparato che anche quando parti da qualcosa di “realmente accaduto”, puoi immergerti così a fondo nel tessuto di ciò che stai affidando alla carta che il legame con la realtà si allenta – e un’ora dopo ti accorgi di aver scritto qualcosa che nemmeno sapevi di pensare. Sono momenti rari, ma preziosissimi. Come un dono. Da una fonte misteriosa. Probabile che sia il tuo stesso inconscio. Ma non lo saprai mai. Lo puoi soltanto accettare, con gratitudine, e continuare a lavorare.

E.T. È strano, in qualche modo sconfortante, notare che alcuni temi soprattutto legati alla quotidianità della donna sono ancora attuali, nel 1977 come nel 2025. Lei si è dichiarata femminista: che cosa vuol dire, oggi, essere femministe? Che cosa voleva dire negli anni Settanta?
H.G. All’inizio degli anni Settanta, quando il femminismo mi travolse, lo shock fu enorme. Era come se fossi rimasta sott’acqua per tutta la vita e all’improvviso fossi riemersa prendendo una grossa boccata d’aria, e mi guardavo intorno con stupore. Tutto ciò che riguardava gli uomini e le donne, l’ingiustizia delle nostre diverse posizioni nella società, le disuguaglianze nelle nostre vite – ogni cosa risplendeva di una luce insopportabilmente intensa e brillante. Pensai: «Oh! Adesso sì che ho capito! Ecco perché sono sempre stata così infelice!». Fu meraviglioso, per un po’. Speravo che, una volta spiegato con chiarezza alle persone di buon senso e buona volontà, il femminismo avrebbe trasformato il mondo. Poi, con l’età, ho compreso che molte delle lotte che pensavamo di poter dirimere con la ragione, il confronto e il cambiamento politico sono eterne. Che il nostro destino, come esseri umani, è continuare a combatterle. Facciamo piccoli passi avanti, però non sono irreversibili e comportano sempre un prezzo. Allora l’arte deve esistere proprio per questo: per ricordarci costantemente che c’è del buono in noi e che, pur con tutti i nostri fallimenti, esistono la bellezza, i giardini, le biciclette, la generosità, il calcio, il ballo, la musica, le risate, i bambini, il coraggio, i cani e la gentilezza più amorevole. Perché altrimenti precipiteremmo nella disperazione e moriremmo.

E.T. In Come piombo nelle vene, Nora è tanto indipendente, madre in senso lato (anche dei suoi uomini), quanto proprio da quegli uomini parzialmente dipendente, sembra. L’hanno mai criticata per questa dualità?
H.G. Non esistono donne indipendenti. E nemmeno persone indipendenti. Tutti noi dipendiamo gli uni dagli altri, sempre.

E.T. Passiamo a Piccoli preludi, dove si nota innanzitutto una diversità stilistica, un passo narrativo diverso rispetto alla scrittura di Come piombo nelle vene. Anche il punto di vista narrativo cambia, diventa diffuso, come fosse un alveare.
H.G. Sì, per la prima volta scrivo in terza persona.

La gioia più grande che ho provato scrivendo questo libro è stata capire come passare di continuo da un punto di vista narrativo all’altro. È stato divertentissimo (lo sottolinea, nda). Quando oggi ripenso a Piccoli preludi, non ricordo neanche come ci sia riuscita. A volte penso persino che a scriverlo sia stata un’altra donna, una scrittrice più felice e più sicura (e più capace) dal punto di vista tecnico. Non ricordo come sia riuscita a conferirgli quel movimento così veloce, come abbia fatto a fidarmi di me stessa al punto da mantenere quel ritmo leggero e rapido.

E.T. Cambia anche il passo della protagonista, in un certo senso, che assomiglia a una delle possibili versioni di Nora, o una Nora più consapevole.
H.G. Secondo lei chi è la protagonista? Immagino che si riferisca ad Athena. Athena ha un bambino con una grave disabilità. Questo è il colpo del destino che segna la sua vita e la sua disposizione nei confronti della vita. È bloccata, prigioniera del dovere, e ogni minuto di ogni giorno cerca d’imporsi di accettare questo dovere senza lamentarsi. La considero una persona fuori dal comune, sensibilissima, una donna di una pazienza e di un’autodisciplina assolute. Ma quando arriva Philip – così scapestrato, affascinante e incurante dei sentimenti altrui – la fortezza del suo autocontrollo si incrina, e lei fa l’impensabile: scappa.

E.T. E commenta anche in un modo diverso le situazioni che si presentano nel libro. Per esempio, a pagina 120 dell’edizione italiana parla dell’universo morale della vita moderna. Una presa di consapevolezza che mi avrebbe stranito se fosse arrivata da Nora.
H.G. Sì, però arriva da Dexter, che lotta per tutto il libro (anzi, per tutta la vita) contro quella che lui chiama «la vita moderna» – per poi scoprire, quando sottoposto a una pressione fortissima (vale a dire, un’infedeltà sessuale dettata dalla disperazione) che persino lui ne viene inghiottito. Il libro non sa se riuscirà mai a tornare alle sue vecchie convinzioni e abitudini. Io adoro Dexter. Come sottolinea Philip al bar, è un «un animo nobile».

E.T. Negli ultimi anni sono fioriti titoli come “la più grande romanziera di cui non avete mai sentito parlare”, per riferirsi a lei. Che effetto le fa?
H.G. Mi fa ridere. È quello che in inglese viene definito “a back-handed compliment”, una specie di falso complimento. È stato stranissimo che in altri paesi sia stata scoperta a quest’età, ho 82 anni. Non ho mai ambito a farmi pubblicare fuori dall’Australia. Non pensavo che il mio lavoro fosse abbastanza valido. E ora, di colpo, scopro che invece lo è. Non potrei essere più sorpresa.

E.T. Scrive ancora? In caso la risposta sia no, che persona si diventa, senza scrittura?
H.G. Sì, scrivo ancora. Senza scrittura mi impigrisco, mi deprimo e mi annoio: resto sdraiata a letto tutto il giorno, a leggere e a dimenticare libri interi. Ho appena pubblicato un libro intitolato The Season, parla della squadra di football australiano di mio nipote adolescente. Mi dicono che fa piangere nonne e uomini adulti. E tanto mi basta per farmi morire felice.

ARTICOLO n. 50 / 2025