ARTICOLO n. 61 / 2025
CIAO BAMBINO
il film più bello dell'anno
Il film più bello dell’anno è per me Ciao bambino di Edgardo Pistone. Ho avuto il piacere di incontrare il regista una sera a Napoli e ho cercato di spiegare direttamente a lui i motivi del mio innamoramento.
Non so se ci sono riuscito, perché mi emoziono sempre di fronte alla bellezza. Ma poi per fortuna scrivo, e scrivere a volte mi aiuta a ordinare il caos della vita. La trama, copio e incollo da Wikipedia, è questa: «A Napoli sul finire dell’estate un diciannovenne si innamora di una giovane prostituta; quando suo padre esce dal carcere dovrà scegliere tra lui e l’amore per la ragazza». Non rivelo di più, per non rovinare la visione a chi il film non lo ha ancora visto e soprattutto perché non è importante. O meglio: perché mai come in questo caso la trama non è la sola cosa importante.
A Edgardo ho detto che da spettatore mi piacciono i film “formali”, e che il suo è uno di questi. Approfitto di questo spazio per dire non tanto a Edgardo (che lo sa già) ma a chiunque sia interessato che secondo me il cinema è forma, o meglio è qualcuno, un uomo-che-osa o un folle o un demiurgo, che lavora sulla forma. A me piacciono particolarmente quei film che questo lavoro lo mettono in mostra. Il che non vuol dire necessariamente meta-cinema, atti metalinguistici. No, il film che io adoro è quello in cui lo sfoggio di forma è evidente ma allo stesso tempo è reso (dal medesimo lavoro) naturale e non invasivo; l’ostentazione c’è ma non ostacola la visione. Per questo mi piacciono film che qualcuno bollerebbe facilmente come “estetizzanti”; quelli in cui ogni inquadratura e ogni movimento di macchina, e il rapporto di questi con la recitazione, o con altri codici, come ad esempio il sonoro, il montaggio e la musica, sono governati da un rigore che rasenta l’ossessione e la maniacalità. Ciao bambino è così: maniacale. Maniacale nel lavoro sulla forma. A livello tale che sembra dirti: “questo è il cinema, e si fa così; il resto è flusso di contenuti, informe, e lo trovi ovunque, basta scrollare sul telefonino, basta scartabellare la realtà”.
Ho letto delle recensioni in cui Ciao bambino, in maniera troppo telefonata, viene accostato a certo cinema di Pasolini; forse solo perché nel film recitano attori non protagonisti, forse per via del bianco e nero, forse perché viene messa in scena una storia di ragazzi selvaggi e sacri calati dentro sobborghi metropolitani degradati; sì, c’è un po’ di mezzo tutto questo. Tutto l’universo segnico pasoliniano nel film di Pistone c’è. Ma sarebbe ingiusto non riconoscere che c’è dell’altro. Perché ad esempio la volontà di fare cinema-pittura tipica degli esordi di Pasolini qui si fa in maniera alternativa, e dal mio punto di vista addirittura anche più matura e consapevole. Lì era sparata come fucilate isolate, ridotta a sprazzi di costruzione mentale in mezzo a un fluire selvaggio di immagini indocili. Qui la “pittura” scorre sempre, con costanza e controllo: ogni momento di Ciao Bambino è in potenza Mantegna, Botticelli, Casorati. E soprattutto ogni momento di Ciao Bambino riesce a essere pittura senza apparire atto di costruzione intellettuale.
Vedo tanti film commerciali, e vedo tanti film cosiddetti “d’autore”; vedo film in sala e vedo film e serie sulle piattaforme; sono un onnivoro e un curioso: mi piace il cinema di genere, mi piace la svolta autorale di certo cinema horror contemporaneo; vedo però assai di rado film in cui si avvera il sogno, in cui si sostanzia la vittoria della forma. Nei “film della vittoria” non c’è snobismo postmoderno, non c’è manierismo; no, nei film in cui vince la forma io vedo piuttosto sempre in controluce (come prova di sincerità) l’extra-film, ovvero ciò che sta al di fuori del girato e del montato, ciò che ha, con le scelte del processo creativo, portato al “prodotto”; vedo la volontà di fare le cose in un unico modo possibile, e il non voler scendere a compromessi. Il che significa ad esempio avere il controllo sulla storia, sul direttore della fotografia, sul montaggio, sulla musica, eccetera eccetera. Avere il controllo quando il budget è alto e a maggior ragione quando i soldi sono pochi. “Avere il controllo” significa avere il coraggio di darsi delle regole, e persino delle limitazioni. Non c’è arte dove tutto è possibile. È più probabile trovarla laddove abbiano avuto luogo delle scelte, anche sanguinose. Mi capita di vedere spesso film che, al contrario di Ciao bambino, hanno magari una buona sceneggiatura ma invece assolutamente nessun controllo dal punto di vista della cura dell’immagine. E si dirà, ok, ci sta, fa parte della poetica di alcuni registi, soprattutto di alcuni registi-autori che per scelta danno più importanza al codice scritto. E anche se non rientra nei miei gusti, va bene, per il sottoscritto anche questo cinema va bene a patto che sia, per l’appunto, una scelta consapevole. Capisco le difficoltà produttive, so che il film è un segno complesso in cui entra in gioco il saper domare tante potenziali variabili impazzite; ma a maggior ragione, non è questo un buon motivo per ringraziare il cielo ogniqualvolta ci appare (in sala, in streaming, ovunque) un’opera che è poetica sia dal punto di vista della sceneggiatura che dal punto di vista di tutto il resto, un audiovisivo in cui audio e visivo sono generati e fusi e danno vita al trionfo della forma sull’industria, sul mercato, sulla sciatteria della sedicente autorialità, e forse, in assoluto, sul mondo?
Un’altra cosa che non ho detto a Pistone è ciò che io, a 52 anni, penso a proposito del concetto di salvezza. Ciao bambino, che è in fondo la storia di un tentativo di salvezza, mi ci ha fatto riflettere. Lui mi ha parlato della componente autobiografica del suo film, e mi ha accennato al suo rapporto con il padre. “Ho cercato di salvare mio padre anche io”, mi ha detto, ne non ricordo male. Quello che non ho detto io e che avrei voluto dire, in macchina, nella notte, mentre lui guidava, è che onestamente credo che salvare (o provare a salvare qualcuno) sia l’unica cosa sensata della nostra esperienza di esseri umani. Penso che non ci sia nessun altro senso nello stare al mondo. Almeno una persona diversa da te devi provare a salvarla (salvare se stessi non conta, quella è sopravvivenza, oppure propaganda di certe religioni). Anche un cane va bene, o un albero. Non sono un santo: sono stato cinico ed egoista nella mia vita, e lo sono ancora, ma ho capito che per non morire dentro devo amare fuori.
Ho bene impresso in testa – è il primo ricordo cosciente di bambino che ho – di quando sono caduto dentro l’acqua gelida del lago Trasimeno maledetto perché mi sporgevo sul bordo a cercare di pescare con la mano chissà quale immaginario pesce; e mi ricordo le mani di mio padre che mi afferravano da sotto le ascelle e mi tiravano fuori. Io, con il mio cappottino di loden inzuppato fradicio, le scarpe, il berretto da cacciatore ancora in testa e tutto il corredo da bambino invernale in gita. Ero così infreddolito e scioccato e bagnato, che non riuscivo a pronunciare parole. Nemmeno piangevo. Mi sarei sentito in colpa poco dopo, e avrei belato a dirotto; eppure, quello che voglio dire è che il salvataggio era per me scontato; non c’era dubbio che mio padre mi avrebbe salvato. Chissà cosa avrà pensato invece lui, non gliel’ho mai chiesto, e adesso è troppo tardi. Chissà se ci avrà pensato, al senso del rimandare il tempo della morte a qualcuno altro da sé, o se avranno agito “al suo posto” la natura, l’istinto, l’animale.
Mi è successo da padre, tanti anni dopo, di portare via di corsa mia figlia piccola da un appartamento in cui al piano sottostante stava divampando un incendio. Mi fiondai fuori dal palazzo, per le scale, scalzo, dopo il segnale di allarme dato da qualcuno, con A. di due anni in braccio. Mi ricordo di aver poi guardato dalla strada, insieme agli altri inquilini sfollati, il divampare delle fiamme che uscivano da una finestra. Arrivarono i pompieri, tirammo un respiro di sollievo, e pensai subito ad altro; non pensai, razionalizzando, a ciò che avevo fatto.
Sì, si può salvare un padre, o da padri salvare un figlio, perché si attiva di default un meccanismo automatico. Ma io sono convinto che a questo automatismo – nei periodi di pace e non di allarme – bisognerebbe avere il coraggio di pensarci, per analizzarlo, per impararne la struttura. Imparare a ripeterlo a comando. Come si dice che allenandosi si possano indirizzare i sogni, o rallentare il battito del cuore. Bisognerebbe attrezzarsi, dannazione, a studiare bene il funzionamento del salvataggio automatico. Togliere la spunta dall’opzione, non darla per scontato, così da usare il salvataggio solo con coscienza. Mettersi una volta tanto in mezzo. Non essere né vittima né carnefice (che la vita è di per sé un massacro) ma per una volta quello che sta in mezzo a bloccare l’ascia con le mani.