ARTICOLO n. 85 / 2025
CENERENTOLA ERA UNA STRONZA
In collaborazione con I Wonder Pictures pubblichiamo un pezzo su The Ugly Stepsister di Emilie Blichfeldt. Nei cinema dal 30 ottobre. Scopri le sale qui.
E se Cenerentola non fosse poi questa gran persona? E se fosse sempre stata una stronza bugiarda?
Se la vicenda in cui lei è vittima di un complotto famigliare fosse un po’ più complessa di come ci è stata raccontata dai fratelli Grimm e da tutte le versioni che nei secoli hanno ricostruito una delle favole più famose del mondo?
E se l’ossessione per la bellezza a ogni costo fosse più potente di qualsiasi sortilegio e più truce di un incantesimo di magia nera?
È questo il punto di partenza di The Ugly Stepsister (Den Stygge Stesøsteren è il titolo nella sua versione originale norvegese) di Emilie Blichfeldt, film presentato al Sundance Film Festival che si concentra sulla figura di Elvira, la maggiore delle due sorellastre di Cenerentola.
La storia, che sfocia in un body horror davvero ben fatto perciò non proprio adatto ai deboli di stomaco, è sviluppata attorno al personaggio di Elvira, succube della propria madre, Rebekka, e soprattutto della sua ossessione per i soldi, la giovinezza e la bellezza.
La giovane primogenita dovrebbe, costretta dalla madre, trovare marito per risanare il tracollo finanziario a cui la famiglia era andata incontro dopo la morte del padre di Agnes, ovvero Cenerentola all’anagrafe: l’uomo, anziano truffatore nullatenente, sposandosi con Rebekka avrebbe infatti fregato lei e le sue due figlie, con la complicità tacita della stessa Agnes, che sapeva benissimo della condizione economica in cui versava il vecchio padre.
In totale bancarotta, la madre-matrigna si concentra quindi sulla primogenita Elvira, unica da poter far maritare (la secondogenita, Alma, è infatti troppo piccola: non ha ancora raggiunto il menarca. Cosa che, per onestà storica, ai tempi rinascimentali in cui dovrebbe svolgersi la storia, non ha ahimè mai fermato alcune nozze). E per farla maritare si focalizza su un’occasione specifica: il ballo organizzato dal principe del regno, tale Julian, che è in cerca di moglie e ha invitato tutte le vergini del regno a palazzo per trovare tra loro una consorte degna del suo nome.
C’è un solo problema nello svolgimento di questo piano di ricostruzione finanziaria: Elvira è brutta. Almeno: è considerata non avvenente, non aderente agli standard di bellezza del mondo delle favole.
Nel regno di Swedlandia infatti i canoni estetici corrispondono per filo e per segno a quelli che incarna Cenerentola. Biondissima, capelli morbidi e lisci, viso stondato e nasino alla francese.
Per rendere bella sua figlia però Rebekka è disposta letteralmente a tutto.
E così inizia una corsa sanguinosa verso la ricerca della bellezza, che diventa un’ossessione per la stessa Elvira, disposta a subire vere e proprie torture fisiche pur di ottenere il nasino alla francese, un corpo magrissimo e gli occhi da cerbiatta.
Tra scene gore che ricordano molto The Substance, momenti di puro body horror e una scrittura ironica e irriverente, The Ugly Stepsister ci racconta e ci mostra di come la ricerca della bellezza diventi per Elvira una vera e propria questione di vita o di morte. Ma quasi subito da spettatori e spettatrici capiamo che questa stessa ricerca non nasce da lei, da un suo spasmodico desiderio o disagio psichico, da una sua autodeterminazione, da un suo capriccio, bensì dall’esterno: tutto e tutti intorno a lei rinforzano costantemente il concetto di inadeguatezza dei corpi femminili considerati non canonici e le ricordano quanto lei, a quei canoni, non corrisponda affatto. E lo fanno con brutale violenza verbale, come a voler sottolineare la mancanza di appartenenza al clan dei giusti della giovane primogenita con la forza del bullismo.
Elvira finirà per ingoiare un uovo di tenia, mutilarsi, avvelenarsi, sottoporsi a torture fisiche e psicologiche per adeguarsi al mondo fatato dei belli e per essere scelta da un uomo, nello specifico caso un uomo viscido, mediocre, poco intelligente ma che simboleggia la menzogna patriarcale per eccellenza: raggiungere la desiderabilità agli occhi maschili è l’unico vero grande riscatto sociale a cui le donne possono ambire.
Un riscatto sociale basato sul più grande e superficiale ricatto che ci sia, ovvero quello che equipara l’apparenza estetica al potere, e il potere alla libertà. Ma anche questa è una bugia, che Elvira impara sulla propria pelle – per davvero, non in senso metaforico.
In un contesto sociale centrato completamente sull’estetica, far parte del circolo eletto dei “belli” è un requisito-cardine anche nel nostro mondo, non solo in quello immaginifico di Swelandia. Pensiamo all’industria del beauty e al mito della bellezza descritto da Naomi Wolf nel suo The Beauty Myth: il valore morale dato alla bellezza è un ideale rigido, irraggiungibile e imposto, una costruzione (e costrizione) sociale mutevole, dettata dal periodo storico, della classe sociale e del contesto politico in cui si vive. E dal capitalismo che si nutre delle insicurezze che la società consapevolmente crea nelle donne.
Elvira è una figura ipercontemporanea, nonostante il suo essere fuori dal tempo e dallo spazio che noi conosciamo: è intrappolata in una gabbia dorata che limita la sua libertà e che la porta a ossessionarsi continuamente sui dettagli del suo corpo ritenuti “inadeguati”. Ma Elvira in quella gabbia ci è finita senza saperlo, convinta che la via intrapresa sia realmente quella corretta.
La mutilazione, la primordiale chirurgia estetica rappresentata nel film e la diet culture che la vuole piccola, esile e che occupi poco spazio, sono concetti anche a noi molto familiari. Concetti che da secoli rispondono alla regola non scritta, brutale e rigorosamente declinata al femminile del “chi bella vuole apparire, un po’ deve soffrire”.
Ed Elvira soffre, soffre tantissimo. Come tutte noi mortali, nei nostri “rituali di bellezza” che a volte sfociano perfino nell’autolesionismo. Ed Elvira – e noi con lei, noi come lei – pensa di desiderarlo e meritarlo, quel dolore. Crede che tutto quel soffrire sia un mezzo per raggiungere l’emancipazione da una vita considerata mediocre o addirittura miserabile, come fosse un martirio. Ma questa è un’altra, ennesima bugia.
Non solo nelle favole, ma anche nel mondo degli umani.
Ma gli umani, a differenza degli archetipi delle favole, hanno avuto modo di studiarle a fondo, queste maledette bugie.
Mona Chollet, giornalista, scrittrice, femminista svizzera, ci spiega benissimo questo paradosso che vuole che la bellezza porti alla libertà e al potere.
Nel suo saggio Beauté fatale, Chollet analizza come il culto della bellezza spinga le donne a considerare la cura del corpo e l’estetica come segni di emancipazione, quando in realtà molto spesso si tratta di nuove forme di dipendenza e alienazione. E questo avviene perché l’industria del beauty ha trasformato l’idea di “prendersi cura di sé” in un dovere consumistico, confondendo autodeterminazione con imposizione esterna.
E ogni dovere consumistico, unito a proiezioni continue di modelli irreali e rappresentazioni irraggiungibili, crea un’eterna insoddisfazione che porta Elvira, come tutte noi, a volere sempre di più. O sempre di meno: un chilo in meno, un centimetro in meno, una ruga in meno.
Eppure non è facile distaccarsi da queste dinamiche.
Certo, penso che Wolf e Chollet abbiano indubbiamente ragione: qualcosa non torna, anche quando siamo convinte di fare determinate scelte estetiche per noi stesse finiamo quasi sempre nel ripetere schemi che conosciamo e che validano una certa immagine prefissata e proiettata costantemente nella nostra testa e proveniente da un punto esterno a noi.
Quando mi guardo allo specchio so che molte delle scelte che ho fatto e faccio sulla mia pelle non sono tutte figlie dell’emancipazione, anzi.
Forse l’unica reale emancipazione che ho agito sul mio corpo è stata quella del voler metaforicamente uccidere la tela su cui avrei potuto lavorare, ricoprendo il mio corpo per la sua quasi totalità di tatuaggi molto visibili e molto coprenti. Nel coprire, ho liberato.
Ma non posso però dire di essermi ancora del tutto liberata dalle dinamiche di un potere che non vedo ma che percepisco perfettamente e sento molto vivo dentro di me, e lo odio, nel suo muoversi come una tenia nelle mie viscere, perché so che è sbagliato, ma come Elvira alle volte non posso fare altro che assecondarlo.
Ma, a differenza di Elvira, io a quel potere so dargli un nome. E come me, milioni di donne hanno imparato a dare un nome a questa tenia che ci portiamo dentro e che alle volte ci corrode e altre volte ci fa sentire apparentemente bene. Abbiamo imparato, grazie agli studi di genere e alla filosofia e politica femminista, a capire da dove arrivassero certe azioni e reazioni che erroneamente credevamo impulsi o moti innati delle nostre menti. E riconoscerli ci ha rese sicuramente più libere. Sapere della loro esistenza ci permette ogni giorno di essere consapevoli della presenza della tenia nel nostro intestino che vuole mangiarci ma a cui noi non lo permettiamo mai del tutto.
E questo ci ha rese meno appetibili agli occhi dell’industria della bellezza e meno soggette alle regole della società patriarcale.
Ma la tenia in qualche modo deve pur nutrirsi, e se non lo farà dalle donne, troverà altri organismi ospite.
Negli ultimi anni, un sistema similare di prigionia estetica sta infatti interessando anche i giovani uomini, che soprattutto nel mondo digitale delle comunità incel, si stanno avvicinando alla sfera del cosiddetto Lookmaxxing, ovvero la pratica di massimizzare (“to max out”) il proprio aspetto fisico attraverso ogni mezzo necessario, anche rudimentali interventi estetici caserecci, diete restrittive, body modification e allenamenti. Una vigoressia maschile in tutto e per tutto.
Sembra dunque evidente che, in un momento storico in cui le donne si stanno sempre più avvicinando a un nuovo, ennesimo risveglio politico femminista, le vittime del sistema patriarcale e della beauty Industry siano diventate i giovani uomini.
Non ci resta dunque che trovare una via d’uscita collettiva da questo eterno gioco al massacro, proprio come fa Elvira.
E quella via, purtroppo per gli incel, risiede proprio nel femminismo.
Secondo Audre Lorde, che decolonizza il concetto bianco ed eurocentrico di bellezza, per liberarci dalla pressione del mito della bellezza dobbiamo proprio ripartire dalla differenza e dalla sua celebrazione.
bell hooks aggiunge anche che la riscoperta della diversità tra corpi e identità è un atto di profonda ribellione politica, capace di resistere e respingere ogni tentativo di controllo da parte della società patriarcale e dei suoi modelli imposti.
Modelli che Cenerentola incarna alla perfezione: silenziosa, minuta, delicata, che non chiede mai e non alza mai la voce.
Anzi, spesso, come raccontato nel film di Emilie Blichfeldt, è proprio connivente con il sistema in cui è inserita e che vuole mantenere perché lì ha l’illusione di avere del potere.
La sorellastra brutta e la sua truce storia mi hanno ricordato una cosa preziosa, ovvero che la quintessenza della rappresentazione patriarcale si trova proprio nei modelli archetipici che vivono nelle nostre favole tradizionali europee. Quindi per liberarci della tenia e della sua fame infinita, oltre alle pratiche femministe, dobbiamo uccidere le favole.
Tanto sono tutte una menzogna.
E comunque Cenerentola era una davvero una grandissima stronza.