ARTICOLO n. 37 / 2025
Di Edith Joyce
CAPPOTTINI GIALLI E ALTRE COSE CHE (NON) FANNO PAURA
the legend of ochi
In collaborazione con I Wonder pubblichiamo un testo su The Legend of Ochi, nelle sale cinematografiche dall’otto maggio
C’è una bambina con un cappottino giallo e lo sguardo altrove. C’è suo padre, intrappolato in una divisa, che, come un militare, espone i suoi piani di assalto al bosco, suo fratello e un manipolo di soldatini maschi più o meno armati e molto arrabbiati. La bambina si chiama Yuri ed è il motore della storia.
The Legend of Ochi è una favola gentile, una storia che si muove veloce e va dritta al punto. Un viaggio dell’eroe – o meglio, dell’eroina – che non ne segue i canoni. Yuri non tentenna. Yuri non ci pensa due volte alla sua chiamata. Yuri sa cosa deve fare e lo fa, anche se sembra una tartaruga con la testa nel guscio. O almeno, così la descrive suo padre. In un piccolissimo e remoto villaggio del nord, sull’isola di Carpathia, a Yuri hanno insegnato ad aver paura della notte. Più che della notte, delle creature che la popolano: gli Ochi.
Eppure, quando Yuri trova un cucciolo di Ochi ferito, nel bosco, con la zampetta pelosissima stretta nella morsa di una trappola piazzata dal padre e dal suo manipolo di ragazzini castrensi, non ci pensa due volte ad avvicinarsi alla creatura. È grande quanto un cucciolo di cane, ricoperto di un manto lanoso che ha il colore della terra rossa. Il muso è azzurro, ha occhi grandi e liquidi e orecchie allungate. È tenero, tenerissimo.
Più che una storia di creature spaventose, infatti, The Legend of Ochi è una storia di esseri umani spaventati. Sono i grandi che hanno cominciato ad aver paura degli Ochi. Del resto, sono i grandi che insegnano ai bambini come si sta al mondo, e sono i grandi a tramandare ai bambini le loro paure. Finisce sempre che, in un modo o nell’altro, ai figli viene chiesto di farsene carico. Ecco, gli Ochi sono la perfetta sublimazione di ciò che i grandi temono, a torto o a ragione, e che i figli imparano a temere allo stesso modo. Ci sono sempre i figli che incarnano lo stesso terrore dei genitori, lo fanno proprio, diventano addirittura più spaventati e arrabbiati di chi li ha messi al mondo. È grazie a loro che si perpetua l’eterno ciclo della paura.
Nel film, il manipolo di bambini armati ne è un esempio. Ci sono figli, invece, che hanno la capacità di mettere in dubbio, guarire sé stessi e i propri genitori, spezzando la trasmissione transgenerazionale del terrore. Yuri, nel bosco, si trova davanti una creatura che le hanno insegnato a temere e che, a sua volta, ha paura di lei. Yuri lo dichiara che non vuole fargli del male, ma il piccolo Ochi soffia e le fa vedere i denti, proprio come i gatti quando si spaventano. E non importa che l’Ochi sia tenero, anzi tenerissimo. Una cosa può essere innocua, ma se ti hanno insegnato a temerla, farà paura lo stesso.
Del resto, pensiamo all’esteso campo delle fobie. La metro è una cosa innocua – lo è davvero? – per chi la prende tutti i giorni. Eppure, c’è chi la teme. Yuri fa un piccolo salto di fede e si avvicina: cerca di medicare la zampetta dell’Ochi, come primo atto di riparazione di quella ferita transgenerazionale. Ma non basta. Come parliamo, io e te, che di comune abbiamo solo il terrore reciproco? Yuri, per comunicare con l’Ochi, tira fuori da una scatoletta un set di denti aguzzi, come quelli dei costumi da vampiro di Halloween, e li indossa. E con i denti aguzzi, simili a quelli dell’Ochi, inizia a ringhiare per farsi capire perché entrambi conoscono solo il linguaggio della paura e della violenza. Chi conosce violenza parla con violenza, ringhiando: è un piano su cui ci si può incontrare, ma non può essere l’unico.
Nel viaggio per riportare l’Ochi dalla sua famiglia, è il linguaggio a evolvere. Dai denti aguzzi fino al corpo che parla senza bisogno di parole. C’è un bruco blu: blu come il muso dell’Ochi e blu come gli occhi della bambina. L’Ochi lo vuole mangiare, ma Yuri prende la sua zampa, la ferma, e gli mette il bruco sulle dita. È un amico, non si mangiano gli amici. Il bruco appoggiato sulle dita dell’Ochi è un primo germoglio di alleanza: la promessa è quella di non farci male tra noi e non fare male neanche al prossimo. Eppure, ci si fa male anche senza volerlo, anche se ti tengo al sicuro dentro uno zainetto rosso per riportarti dalla tua famiglia. Il morso dell’Ochi cambia tutto. Cambia, innanzitutto, il colore del braccio di Yuri che diventa bluastro e pieno di pustole. Cambia anche il rapporto tra l’Ochi e la bambina che ora lo capisce. Lo capisce davvero. Ora parlano lo stesso linguaggio e i trilli dell’Ochi non sono più gorgheggi senza significato.
Adesso quel trillo significa “insetto” oppure “assaggia”. “Casa è mamma” trilla l’Ochi. “Mi manca”, aggiunge. “A me no” gorgheggia la bambina. A Yuri hanno detto che la mamma l’ha persa proprio per colpa degli Ochi, che se n’è andata via, ma lei non sa né dove né perché, e le risposte di suo padre non le bastano né vi ha mai creduto del tutto. Se l’Ochi vuole ritornare a casa, Yuri cerca di trovarne una che possa chiamare sua. La gioia senza freni di Yuri che salta nel bosco perché finalmente ha imparato la lingua del suo piccolo amico è l’entusiasmo che ci prende il cuore quando sentiamo di padroneggiare finalmente qualcosa. Yuri crede di aver trovato finalmente la chiave, ma non è così.
Yuri e il suo amico si perdono, dopo un attacco nel bosco da parte del padre di Yuri – convinto che la figlia sia stata rapita dall’Ochi – e dei suoi piccoli scagnozzi. È proprio così: quando pensi di essere riuscito a capire una cosa, quella cosa ti sfugge dalle mani. Forse perché, per capirla davvero, non puoi capirla da solo, specialmente se l’Ochi non è solo un cucciolo carino figlio di animatronica e matte painting, ma è il simbolo di un nodo transgenerazionale che solo transgenerazionalmente si può sciogliere. Yuri ritrova la madre che, chiusa nella sua casa isolata dal mondo, ha delle risposte e delle spiegazioni da dare. Ma Yuri è arrabbiata, com’è arrabbiato chi riceve un’eredità scomoda. È arrabbiata con la madre che l’ha lasciata sola, senza una spiegazione. Sono sempre più terrificanti e spaventose le spiegazioni che la mente si crea quando non conosce la verità, piuttosto che la verità in sé, per quanto dolorosa sia (è per questo che ai bambini si dovrebbe dire sempre tutto!). E anche se ora le spiegazioni le ha, Yuri è destinata a ripartire da sola, per ritrovare il suo amico e riportarlo a casa.
C’è una caverna che tutti cercano di raggiungere: Yuri per riportare l’Ochi dalla sua mamma, la madre di Yuri per non lasciare andare via la figlia per la seconda volta, il padre di Yuri e il suo manipolo di ragazzini per riportare la figlia a casa e uccidere dei mostri che, in realtà, non sono mostri e non lo sembrano neanche. Per un padre è più facile dirsi che la figlia è stata rapita, e che proprio la cosa che ha sempre temuto l’ha portata via. È la spiegazione più semplice, che rafforza quello in cui ha sempre creduto: facevo bene ad aver paura! Eppure, a volte, i padri sono costretti a fare i conti con dei figli che li superano in consapevolezza.
E ci sono padri che sono disposti a chiedere scusa, a fare proprio il coraggio dei figli (anche ad ascoltare il black metal degli Hell Throne!) e avvicinarsi anche loro a quella cosa spaventosa e scoprire che, alla fine, non fa così paura. The Legend of Ochi è un viaggio che nasce dall’individuo, ma che può risolversi solo nella collettività: nella caverna, l’Ochi stringe finalmente la sua mamma. Yuri, in quell’abbraccio, si accorge che le manca la propria. Il padre, ormai senza divisa, senza armatura, un Willem Dafoe, quasi nudo e scheletrico, ordina ai ragazzini scemi di non sparare. Non è più il tempo del terrore.
Scopri le sale in cui vedere The Legend of Ochi qui.