ARTICOLO n. 92 / 2025
LA RICERCA DEL GRAAL COME UN GRANDE GIOCO
Come scoprire il Graal, di Claudio Lagomarsini (Einaudi) – libro davvero straordinario, miniatura accademica e affresco narrativo a un tempo solo – è un racconto scientificamente corretto che traccia l’arco della più importante reliquia mai trovata della Storia del Cristianesimo, e forse della Storia tutta. Sceneggiatura-saggio avvincente, dal Medioevo e fino all’età moderna, dal mattino degli evangelisti fino alla Seconda Guerra Mondiale, inquadra il Graal sia stato oggetto non solo di romanzi cavallereschi, ma anche di studi accademici, collezionismi ansiosi, esplorazioni e speculazioni magiche.
Forse il modo migliore di leggerlo è immaginare la ricerca del Graal come un ‘grande gioco’ culturale e spirituale che ha avvinto l’Occidente per mille anni almeno, e quindi niente di meglio che ripescare la fondamentale rivista Le grand Jeu, fondata tra gli altri da Renè Daumal intorno al 1930, e leggere queste parole:
“La grazia unita all’atteggiamento ha bisogno, come abbiamo detto, di talismani che le comunichino la loro potenza, di alimenti che nutrano la sua vita. Uno di noi diceva recéntemente che il suo spirito prima di tutto cercava di mangiare. Tra le sue sensazioni egli cerca ciò che può nutrirlo. Invano la sua fame si trascina dai musei alle biblioteche. Ma uno spettacolo, in apparenza insignificante, improvvisamente gli dà il cibo (uno steccato, un’ostrica viva). La sensazione sconvolgente di un attimo ha restituito in una volta forze incalcolabili alla sua vita inquieta. Sono questi attimi eterni che cerchiamo ovunque, che i nostri esti, i nostri disegni forse faranno nascere in qualcuno, dati speso ai loro creatori nello choc delle loro scoperte e di cui i nostri tentativi cercano la ricetta. In simili attimi assorbiremo tutto, inghiottiremo Dio per diventare trasparenti fino a scomparire.”
Queste parole, scritte in realtà da Gilbert-Lecomte, amico e sodale dell’autore de Il monte analogo, compaiono nel primo numero della rivista, e rappresentano bene la tensione nascosta di una corrente che anima la nostra cultura di moderni e post-moderni, ed è lungo i flussi di questa corrente che io mi sono appassionato alla vicenda del Graal fin da ragazzo, mescolando scettico esoterismo, volo fantastico, gioia sperimentale. O se vogliamo tradurre in altri termini, spiritualità contenuta, fantasy e arte d’avanguardia. La misura con cui ho letto il libro dell’archeologo italiano è esattamente a metà fra queste aree disciplinari, o attitudini culturali, ed è per questo che mi sono risolto a pensare che di Come scoprire il Graal bisognerebbe fare una mostra, magari a Siena, nel complesso ex-ospedaliero di Santa Maria alla Scala, che sta tornando ai fasti che merita. D’altronde la fame di lettori autrici scrittori e appassionate per il tema delle reliquie è una corrente carsica che con regolarità emerge dalle zone più sepolte del sentire collettivo e individuale: basti pensare, solo guardando agli ultimi due mesi di uscite editoriali e solo in Italia, a un romanzo con evidenti venature saggistiche e storiche come l’ottimo thriller religioso L’ombra della sindone di Edoardo Crisafulli (Vallecchi, 2025), valente diplomatico di ampio corso che peraltro ha servito in Ucraina nei giorni più bui dell’invasione russa, e che per questo di simboli spirituali e del loro carico politico-magnetico se ne intende: in fondo la Sindone, di cui il suo romanzo è un’indagine narrativa insieme popolare e raffinata, sul solco di certi libri di Fruttero e Lucentini, cos’altro è se non un ‘fido maestro sostituto’ per il Graal?
Tornando a Lagomarsini, ho letto il libro con in testa un’idea un po’ folle farne una mostra, non solo perché alterno il lavoro di scrittura con quello di curatela, ma perché nessun ‘talismano’ come il Graal – eccezion fatta, forse, per la Sindone, appunto – si presterebbe alla multiforme interpretazione degli artisti. Salta alla mente l’indimenticata ‘direzione scenica’ che Christoph Schliegensief, uno dei più controversi nomi del panorama contemporaneo tedesco, purtroppo mancato troppo presto, aveva impresso al suo Parsifal wagneriano a Bayreuth nel 2004, quando sul podio dell’orchestra c’era Pierre Boulez.
Le indicazioni di scena dello stesso Wagner – che come racconta il musicologo Alex Ross nel poderoso volume Wagnerismi è una sorta di antecedente della pluralità di volti che associamo al ‘contemporaneo’ – sembrano un sunto della formidabile avventura antropologica e archeologica di cui narra Lagomarsini: «Un raggio di luce: il Graal risplende in tutto il suo splendore. Una colomba scende dalla cupola sopra di esso». Negando dialetticamente la ‘voce del padrone’, e proprio nella culla dell’opera wagneriana, Schlingensief ambientò il Parsifal nell’Africa sub-sahariana, mescolando video azione scenica, caos puro, più vicina a un rituale antropologico che a una rappresentazione lirica. Sul palco, immagini video, simboli tribali, crocifissi e una lepre in decomposizione si mescolavano in una rotazione continua, simile a un sogno febbrile. Fischiato da molti e difeso da pochi, il suo allestimento è rimasto uno degli episodi più discussi e divisivi della storia recente di Bayreuth: un atto di iconoclastia radicale, da alcuni bollato come uno ‘scherzo’, che a distanza di vent’anni però assume nuove sfumature. Rivedersi l’operazione assurda di Schliegensief, che peraltro è scomparso poco dopo – dettaglio non trascurabile, visto che alcuni critici lo avevano accusato di aver letto il Parsifal come un dramma di ‘amore per la morte’ – trasformato Parsifal in una domanda ancora aperta – non solo sul senso dell’eredità wagneriana, ma anche e sopratutto su cosa significhi oggi cercare il Graal. Non è necessario provocare, per provocare pensiero: ma sono certo che se immaginassimo ciascun capitolo del libro di Lagomarsini come una stanza di un’ipotetica esposizione, avremmo una vera e propria quest non solo sul Graal ma anche sull’idea stessa di cosa sia l’arte oggi (che per molti di noi, spiriti secolarizzati orfani di varie cose) corrisponde a una sorta di inconquistabile scodella del Vero, più ancora che del Bello. Si aprirebbe con ‘Com’è fatto un Graal’, e qui si potrebbero invitare designer e architetti, penso al duo italiano Forma Fantasma, che potrebbero domandarsi, come fa l’autore, se davvero si trattasse di un ‘calice d’argento’, e cosa c’entri ‘il bacile di smeraldo’. Nell’intermezzo storico intitolato ‘Le reliquie dell’Ultima cena’ forse si potrebbe coinvolgere l’artista egiziano Wael Shawky, che ha realizzato magnifiche installazioni ispirate alla storia delle crociate viste dagli arabi. Per restituire un controcanto artistico al capitolo ‘I visionari di Glastonbury’, dove Lagomarsini si avventura nelle molteplici e curiose coincidenze di ‘cercatori del Graal’ tra l’Italia e la Gran Bretagna al volgere del 900, si potrebbero recuperare i ‘network’ di nomi accuratissimi e cospirativi del grande Mark Lombardi, anch’egli scomparso troppo giovane. Ne ‘La pista spagnola’, altra ramificazione della vicenda globale della sacra coppa, si potrebbe chiedere a un vero visionario dei dati come Trevor Paglen di individuare paragoni tra oggi e l’altro ieri, tra il digitale e il barocco, mentre il capitolo forse più interessante di tutti, ‘il Graal dei Nazisti’, potrebbe corrispondere a una grande azione performativa di Anne Imhof, titolare di una ricerca che è insieme intimamente wagneriana e queer. Ma è ne ‘Il sangue dei re’ che il testo prende una piega al contempo precisa e indistinta, precisa perché inappuntabile nella progressione di scoperte e connessioni, e indistinta perché più sembra avvicinarsi alla chiave del mistero, più essa sfugge. Sono pagine bellissime, pienamente saggistiche e pienamente narrative, che al pari dell’intermezzo sulle ascendenze letterarie del Graal (forse il vero ‘punto alfa’ della sua energica traiettoria dentro i meandri della nostra psiche collettiva), meriterebbero il dialogo con due artiste diversissime, Marina Abramovic e Sophie Calle. La prima, insieme all’ex compagno Ulay, ha iniziato una passeggiata lunga 2500 chilometri, il 30 marzo 1988, entrambi partendo dalle due estremità della Grande Muraglia cinese, per provare a raggiungere il Graal di una separazione/unione, della fine e dell’inizio di un amore – che è sempre un sacrificio, altro tema ovvio e pervasivo a queste atmosfere. La seconda, in quanto artista narrativa per eccellenza, potrebbe ripercorrere il cammino assai francese, ma come tutto il resto totalmente globale, che Lagomarsini mette in scena tenendo il lettore avvinto come Indy sulle tracce dell’Ultima Crociata.
Come scoprire il Graal è un saggio performativo: dire ‘vado a cercare il Graal’ significa già scoprirne l’ombra, che poi sfugge ancora. Farne una mostra equivarrebbe a rendere piena giustizia al suo soggetto, e allo sfrigolio millenario che genera in tutti noi.