Francesco Zucconi

ARTICOLO n. 79 / 2025

L’ARANZULLIZZAZIONE DEL WEB

All’inizio non ci avevo fatto caso. L’intervista era passata sottotraccia, o forse mi ero soffermato sui dettagli sbagliati: lo stile di vita disciplinatissimo, il culto del corpo, il primato del codice. E invece avevo mancato il punto. Dell’intervista dal BSMT del maggio 2024 – riascoltata mesi dopo – è tornata a colpirmi una frase: «Finirà male per tutti. Già adesso, il cinquanta percento dei lavori che vengono fatti in ufficio è inutile. Con l’Intelligenza Artificiale è probabile che questa soglia salga al novanta percento. Per cui la vera domanda è capire che cosa faranno le persone non nei prossimi dieci, ma nei prossimi cinque anni. Anche un sito come www.aranzulla.it potrebbe non avere più senso». A parlare è Salvatore Aranzulla, punto di riferimento nazionale per le guide passo-passo, l’uomo che ha insegnato agli italiani a non odiare la tecnologia: come fare il backup, togliere i popup, installare la stampante, accedere al modem…

Come è possibile, viene da chiedersi riascoltando il podcast, che il Virgilio degli aspiranti “integrati” assuma toni “apocalittici”? Perché mai, delle vecchie e nuove tecnologie, prendersela proprio – e così esplicitamente – con l’Intelligenza Artificiale? Insomma, cosa sta succedendo? Sta succedendo che non cerchiamo più su Google, almeno non come prima. ChatGPT, Gemini, Perplexity: ci rivolgiamo direttamente all’oracolo, saltando il motore e ciò a cui dava accesso, ovvero link, finestre, piattaforme, autori, dibattiti… Google stesso e così i social network cambiano pelle: snippet, risposte AI, anteprime che ti dicono tutto senza farti cliccare nulla. La rete si dissolve nel momento stesso in cui, puntualmente, ti risponde. All’interno di tale scenario, non è difficile immaginare l’affiorare – nel blogger, informatico e imprenditore italiano – di un sentimento di crisi, come se le forme del nuovo tendessero irrimediabilmente ad assomigliare alla sua creatura, conducendola verso un inimmaginabile compimento. 

Si potrebbe dire che Aranzulla ha vinto troppo bene. Con il suo sito ha creato uno modello e uno stile: contenuti che ti prendono per mano e anticipano i tuoi problemi, le tue esigenze. Ogni gesto è dunque scomposto, sezionato, spiegato. E ora quel modello trova piena affermazione nel web delle chat. Ovviamente, le Intelligenze Artificiali non copiano www.aranzulla.it, ma lo magnificano: espandono all’infinito la logica del tutorial, la sequenza ordinata di passaggi, la risposta istantanea a ogni micro-esigenza del quotidiano. Ma fanno anche qualcosa in più: spingono questo modello verso l’autonomizzazione, non limitandosi a suggerire all’utente come risolvere un problema, ma facendo in modo di risolverlo direttamente. Che si tratti di scrivere un’e-mail, generare un codice, completare un modulo o installare un software o un hardware, l’intervento umano tende ormai a ridursi a uno scroll di supervisione o a un clic di conferma, quando servono.

Potremmo chiamarla “aranzullizzazione del web”. Una tendenza a concepire la rete in termini di problema e soluzione, dove ogni contenuto è ridotto a guida, dove ogni messaggio punta a rispondere e risolvere prima ancora che tu abbia finito la domanda. Non più sapere, ma tutorial e iter. Non più percorsi, ma scorciatoie. Ecco allora il sentimento che sembra affiorare nell’intervista dal BSMT: non la sconfitta, ma il completamento; non la decadenza, ma il paradosso di un’anonima antonomasia. Quando altre voci iniziano a somigliare alla tua – ma sono più rapide, capillari ed efficaci – la tua presenza diventa meno indispensabile. Sei diventato il template.

In mezzo a tanti discorsi, non vorrei che qualcuno interpretasse questo pezzo come una riflessione sul modello di business dell’imprenditore italiano. Non vorrei nemmeno che fosse letto come una critica indiscriminata ai tutorial online e all’affermazione dell’IA. Piuttosto, si tratta di provare a ragionare liberamente, tra il serio e il faceto, su alcune tendenze tecnologiche e culturali del presente. Se si può parlare di aranzullizzazione del web è perché una certa concezione di internet (e non solo) improntata sull’identificazione di questioni o problemi, sul loro management e dunque sull’idea di trasformare tutto in un processo operativo era già ben presente al di fuori dal sistema dell’IA e della rete stessa. Se, quantomeno in Italia, l’espressione “aranzullizzazione del web” rende l’idea, è precisamente perché descrive una condizione di internet, così come di altri possibili ambienti dell’esperienza, in quanto concepiti non tanto per navigare, abitare o transitare, ma per risolvere e ottimizzare sotto la guida di un tutore o per tramite di un set di regole di esecuzione ben definito. 

Non è l’efficienza a inquietare, ma la sua inevitabilità: l’idea che ogni margine di incertezza sia presuntivamente previsto, ridotto, pre-processato. Dopo anni in cui abbiamo assistito allo sdoganamento e alla glorificazione dell’errore, in quanto imprescindibile occasione di crescita individuale e collettiva – perché “certi successi non li puoi ottenere se prima non hai toccato il fondo” – eccoci adesso alla strumentalizzazione del dubbio nella logica delle chat. Ad affermarsi in questo modo non è solo una nuova retorica fatta di domande e risposte serrate – che caratterizza le chat ma si rinviene in modo crescente anche in altri ambiti – ma una visione del mondo. Tutto ciò come se non si potesse più essere online altrimenti che per risolvere qualcosa, mitigare un rischio, ottimizzare un processo e massimizzare un valore. Come se non ci fossero più biciclette da inforcare e marciapiedi da passeggiare o – senza scomodare il poeta – tastiere da scrivere e spazi fisici o virtuali da progettare.

Mentre sono l’utente di un servizio di problem solving, sono anche la materia prima di tale processo, senza che sia del tutto possibile comprendere quali problematiche ciò comporterà nell’immediato e nel medio e lungo periodo, né a chi chiedere di rispondere a tale dubbio. Da un lato, ciò che viene prodotto – la risposta – è il risultato di un calcolo sulle regolarità linguistiche e contenutistiche estratte da un’immensa massa di dati testuali: non riflette la realtà, ma le modalità statisticamente più plausibili con cui simili questioni sono state formulate e risolte nel corpus da cui il modello ha appreso. Dall’altro, ogni mia esitazione – insieme a quelle di miliardi di altri – diventa un dato utile a perfezionare algoritmi, ottimizzare contenuti, orientare offerte. La messa a punto dei contenuti non si esaurisce nel momento dell’interazione: ogni risposta accettata, ogni clic di conferma o mancata obiezione rinforza implicitamente una direzione, un modo di intendere la soluzione. Come dire che ogni incertezza è già valore futuro, ogni possibile domanda è già una categoria di mercato. Tutto contribuisce ad alimentare un’infrastruttura che mira ad anticipare, prevenire, prevedere. Tutto è insomma risolvibile o già risolto, nella misura in cui il problema è continuamente spostato altrove, laddove – sollevato dai feedback ottenuti – non me lo pongo più. 

L’IA tende ad anticipare ogni dubbio, tende a rispondere prima ancora che venga espresso, consegnandoci la promessa di un mondo senza questioni. Eppure, se tutto si spiegasse da sé, non ci sarebbe più nulla da chiedere. Da tale punto di vista, è come se l’IA fosse in anticipo – speculandovi – rispetto a un ritardo che non è in grado di colmare, come appoggiata su un dirupo del quale prova a rispondere ma che non le appartiene. Forse è proprio in questa vertigine che si producono le “allucinazioni”: quei momenti in cui le IA affermano con estrema sicurezza cose fittizie, nel senso di plausibili ma prive di riscontro. Non si tratta di semplici errori, ma di scarti strutturali, dovuti al fatto che questi modelli generano risposte sulla base di regolarità statistiche presenti nel linguaggio e nell’enciclopedia implicita dei contenuti circolanti: producono ciò che ha più probabilità di essere detto in un certo contesto. Eppure, proprio in tale dinamica di funzionamento, proprio nel fenomeno delle allucinazioni – una volta riconosciute come tali – potrebbe risiedere un potenziale sperimentale e creativo: un’occasione per mettere radicalmente in discussione, a ogni occasione, tanto le fonti quanto i processi di costruzione del sapere. In ambito creativo, queste sviste possono diventare spunti per idee nuove – castelli di carta e laboratori del possibile – capaci di rigenerare la visione e la comprensione stessa della realtà. Sul piano scientifico e comunicativo, la tendenza all’allucinazione da parte delle IA può invece stimolare il controllo critico dei contenuti, favorendo un processo di produzione del sapere che, proprio perché consapevole di delegarne una parte, non dà nulla per scontato.

Non so se queste metafore dell’anticipo sul ritardo e del dirupo rendono l’idea, e bisognerebbe migliorarle e correggerle, fino a prendere sul serio ciò che provano a dire dello scenario tecnologico contemporaneo. Ma il punto è che molto probabilmente siamo disposti a ignorare tutto ciò che comportano, ovvero a fregarcene di questioni apparentemente fumose. Sebbene persistano resistenze e si moltiplichino le riflessioni critiche sulle implicazioni etiche e politiche delle nuove tecnologie, le crescenti interazioni con le IA restituiscono una tendenza all’integrazione. E, forse, dopo questa prima fase di diffusione al servizio degli utenti, ciò che le IA prospettano, sul medio periodo, non è soltanto la perdita di posti di lavoro descritta da Aranzulla nell’intervista dal BSMT, ma l’affermazione di un mondo in cui non ci sia più nulla da chiedere o da risolvere in proprio, ovvero un mondo in cui ogni processo venga delegato a un grande algoritmo di risoluzione dei problemi basato su principi economici preimpostati. Si tratterebbe di un mondo nel quale, sprofondati in una festività radicale, potremmo posizionare le nostre sedie da campeggio in prossimità di uno schermo in cui il grande spettacolo dell’IA si darebbe in qualche modo a vedere.

Per concludere sul filo dell’insostenibile leggerezza del medium: in un web dove tutto si spiega da sé, cosa ci resta da cercare sul sito fondato da Salvatore Aranzulla? Perché fargli visita? Resta il gusto di perdersi un po’, di leggere una “guida vera”, un libretto delle istruzioni come non se ne vedono da un sacco di tempo, fatto di passaggi umani, eventuali errori di battitura, disegni sbiaditi e rischio di improperi dietro l’angolo, nel processo di installazione. 

Forse, tra qualche decennio, qualcuno aprirà una vecchia copia cache di www.aranzulla.it in un museo del web, e chiederà a una IA di spiegargliela. La risposta sarà perfetta. Ma qualcosa sarà andato perso per sempre.

ARTICOLO n. 55 / 2025

L’ANIMALE SPOSTA LA SCENA

Su Felice Cimatti. "Studi" alla Fondazione Baruchello

Chi ascolta la radio conosce la voce di Felice Cimatti, presenza regolare nei programmi di approfondimento culturale di Radio Tre. Chi segue il dibattito teorico contemporaneo si imbatte facilmente nei suoi libri, al crocevia di diversi interessi. Filosofo del linguaggio, da anni Cimatti porta avanti un pensiero sull’animalità intesa come soglia critica del linguaggio, della coscienza, della storia. Ma il microfono della radio e la tastiera del computer sono solo alcuni dei suoi strumenti di lavoro.

La mostra di Cimatti, in corso alla Fondazione Baruchello di Roma, si intitola Studi, dove la parola “studio” è da intendersi come laboratorio: più simile a una ludoteca o a un terrario che a una biblioteca. Appena entrati, ci si trova davanti a una scrivania ingombra di oggetti: un computer, una lampada, un cartello con la scritta “divieto di caccia”, e poi una serie di miniature di animali, manichini, etc. È una specie di introduzione, un invito a pensare altrimenti il gesto dello studiare, come una pratica che si svolge in tanti modi diversi, come un pensare “con le mani”, per riprendere un’espressione di Carla Subrizi nel testo introduttivoalla mostra.

Nelle sale che compongono il percorso si incontrano dunque installazioni caratterizzate da una componente sperimentale, ma anche da una presenza fisica, materica, a tratti organica. Ci sono cose: mappe, disegni, giocattoli, rottami. Piccoli animali sfilano lungo spazi cartografici, si appoggiano su lamiere sfondate dalla ruggine e, quasi sicuramente, piene di tetano. Su una vecchia mappa di Roma si accovacciano figure plastiche – agnelli e giraffe, leoni e pecore – da scatola delle meraviglie, sogno d’infanzia e paccottiglia d’adulti. La geografia – tecnica culturale di rappresentazione della terra – è infestata da ipo- o iperoggetti, troppo piccoli o troppo grandi, sempre e comunque eccessivi rispetto alla scala. È come trovare una lumaca sopra un mappamondo, inconsapevolmente impegnata in una traversata transoceanica che, mentre la compie, disarticola la mappa e riconfigura un territorio. Oppure, rovesciando la prospettiva, è un po’ come un combattimento tra formiche che, agli occhi di un bimbo, diventa un interminabile match di Subbuteo. Ogni spostamento è minimo, ma abbastanza da provocare un accidente ai nostri modelli di mondo. È un’invasione silenziosa, tenera, destabilizzante.

In altre opere, o studi, quegli stessi animali si affastellano in una scatola o in un teatrino delle marionette interamente dipinti di bianco, provocando un cortocircuito tra il gioco d’infanzia e l’ipotesi di un’estinzione umana, tra il “play” e la scorreria. È come se lo spazio scenico – oppure il “white box” dell’arte contemporanea – fosse ora sottoposto a un nuovo, duplice, registro della presenza: plasticamente manipolabile, se ci si riferisce alla natura di giocattolo degli elementi che compongono l’assemblaggio; incontrollabile o, quantomeno, evasiva con riferimento alla predominanza della dimensione animale. Ma, a ben vedere, in entrambi i casi, la scena non è tanto “invasa” o “infestata” – come ho scritto sopra – quanto abitata o percorsa da una molteplicità fattuale. 

Al centro del percorso ci si imbatte poi in una serie di disegni. Da lontano, appaiono come masse compatte, ombre sospese. Ma sono stormi? La vera domanda non è capire quante rondini servono per poter dire che è primavera, ma in che modo riconosciamo questa coreografia sospesa. È l’insieme a rivelare lo stormo, oppure bisogna avvicinarsi e distinguere un volatile dopo l’altro? Lo stormo è qualcosa che si intuisce a colpo d’occhio o che si costruisce a partire dai dettagli? Paradossalmente, più ci si accosta a questi disegni, più le macchie si frantumano in un’estetica della moltitudine, come a suggerire che ci sono stormi dentro lo stormo: uccelli minuscoli – quasi insetti – delineati con un tratto che si ripete con variazioni minime e costanti. Disegnare lo stormo diventa insomma un’occasione per riflettere sui processi percettivi e cognitivi mediante i quali osserviamo, interpretiamo e organizziamo il mondo. Non si tratta di un passaggio lineare dal particolare al generale o viceversa, ma di un continuo oscillare tra configurazioni a loro volta variabili.

Si intitola Studi, ma potrebbe essere anche qualcosa di più altisonante, tipo “Infanzia e storia naturale”. L’infanzia, secondo la trattazione agambeniana, come momento in cui il vivente accede al linguaggio e si costituisce in quanto soggetto. La storia naturale intesa invece come pratica scientifica di osservazione del vivente, ma anche come interrogazione critica della centralità dell’umano e del linguaggio. Nella mostra di Cimatti è come se questi due momenti precipitassero l’uno dentro l’altro. Gli animali giocattolo sono tanto souvenir d’enfance che reperti museali: fossili, simulacri, ricostruzioni. Di fronte a ognuna delle opere in mostra ci troviamo, in altre parole, in bilico tra il precoce e il postumo. E viene da chiedersi perché non esistano sul mercato figure umane in scala coerente con questi animaletti di plastica. È forse per questo motivo – una questione di scarsità – che la figura umana risulta assente da questi assemblaggi? A ben vedere, non si tratta per Cimatti di evocare l’umano come soggetto mancante da reintegrare o rimpiangere. Siamo piuttosto di fronte a un processo, dove anche l’animale tende a oltrepassare sé stesso, nell’animaletto di plastica e viceversa. Chi visita la mostra e osserva queste opere è, a sua volta, invitato a spingersi verso il bimbo che con quegli animaletti cresce giocando e poi dimentica tutto.

Il rapporto tra il ludico e il materico attraversa tutte le opere in mostra, mettendo sotto pressione le forme di rappresentazione che fanno da supporto o fondale e, in particolare, la cartografia e il teatro. Da un lato, l’utilizzo di animali in miniatura e il ricorso al modello della maquette ribadisce il carattere derivato, umano, di tali assemblaggi. Dall’altro, tutte le tecniche culturali e forme antropiche di partenza sono come sospinte, spostate, verso un ambiente originario, pulsionale, impersonale. Dopo tanto parlare di loro nella teoria contemporanea, è come se gli “attanti” si fossero stancati di restare dietro le quinte oppure di addossarsi invisibili – come infiniti acari – lungo le pieghe di velluto di un sipario. Sono loro i nuovi attori in scena, sono i tarli che si adagiano sugli assi di legno degli spazi sovvenzionati dal Ministero della Cultura. La loro presenza non è eroica, difficilmente è divistica. Oscilla tra il grottesco e il sommesso; come se la soglia tra soggetto e contesto si fosse dissolta e al suo posto rimanesse una scena incerta. Potremmo parlare di détournement o, meglio, di una dérive transpecista: non più il progetto umano che reinventa lo spazio, ma il punto interrogativo del nonumano (animale o animaletto) che già si trova qua e non chiede il permesso. 

E poi, nella sala più bella, torniamo a guardare la serie di scatole luminose. Una di queste è molto semplice: una lastra opaca lascia intravedere delle piccole tracce nere al suo interno. Sono insetti o, forse, la loro riproduzione a grandezza naturale. Sono gli ospiti dei nostri soffitti, nelle plafoniere, nei battiscopa, nei racconti di Franz Kafka. Lo spettacolo finisce e ci troviamo nel salotto di casa, nel divano, nel letto. Nell’abitare promiscuo fatto di soglie e mediazioni, ma senza dentro né fuori.