Federico Boccaccini

ARTICOLO n. 89 / 2025

PENSARE NON BASTA: JOHN R. SEARLE

Nel romanzo The Pages (2008) di Murray Bail, il corpo di un pensatore solitario giace dimenticato nel bush australiano, e ciò che rimane di lui sono mille pagine di riflessioni disperse, abbandonate al vento. Due studiosi arrivano da lontano per leggerle: aprono i quaderni, ma scoprono che ogni frase è una domanda sospesa, un pensiero senza voce. Il filosofo non c’è più; restano il testo, la traccia, il movimento del pensiero che continua senza il suo autore.

Così accade nella realtà anche quando muore un grande filosofo. Dopo la scomparsa di John Rogers Searle, avvenuta il 17 settembre 2025, resta una serie di opere, un mucchio vertiginoso di parole. La filosofia, per Searle, era un atto linguistico: oggi è il linguaggio stesso a sopravvivergli, a farlo parlare ancora.

In un articolo pubblicato su The New York Review of Books nel 2011, intitolato Is just thinking enough?, Searle risponde al collega Colin McGinn, che aveva recensito con entusiasmo ma anche con qualche riserva il suo libro Creare il mondo sociale (2010). McGinn accusava Searle di sostenere che solo attraverso il linguaggio sia logicamente possibile costruire realtà istituzionali. Ma Searle non parlava di possibilità logiche: parlava di noi.

«Sostengo» – scriveva – «che la realtà istituzionale umana richiede una rappresentazione linguistica sia per la sua creazione sia per il suo mantenimento. McGinn ritiene che io stia affermando che sia logicamente impossibile che esistano esseri capaci di avere tali fatti senza linguaggio. Io non faccio nessuna simile affermazione. Sto parlando degli esseri umani, non di possibili dèi».

Quel passo, oggi, suona quasi come una confessione metodologica: Searle non intendeva dettare leggi metafisiche, ma descrivere con precisione empirica ciò che accade nella nostra specie. È il linguaggio, e non la pura mente, a generare le strutture del mondo umano. Senza parole condivise non c’è promessa, non c’è diritto, non c’è verità. Il filosofo smonta così l’antica illusione cartesiana secondo cui il pensiero basta a se stesso: “pensare” non è “fare”. Solo la parola pubblica, la parola pronunciata, costruisce l’istituzione della realtà, pensare solo non basta. 

In queste righe Searle ribadiva il nucleo della sua ontologia sociale e, insieme, il suo temperamento: il gusto della chiarezza, la volontà di distinguere con nettezza ciò che è umano da ciò che è divino, ciò che è possibile da ciò che è reale. Era un filosofo della mente e del linguaggio, ma anche un moralista nel senso classico: credeva che la verità non avesse bisogno di mistero, ma di grammatica.

Quando, quattordici anni dopo, Colin McGinn pubblica nel suo blog del 27 settembre 2025 la notizia della morte dell’amico e rivale, la scena cambia tono. L’annuncio è accompagnato da una lettera di Jennifer Hudin, segretaria personale di Searle a Berkeley per quarant’anni. La missiva racconta una fine silenziosa e amara. Negli ultimi due anni di vita il filosofo era stato trasferito dalla sua casa di Berkeley a Tampa, in Florida, dove sua nuora, Andrea, lo aveva collocato in una casa di riposo. La storica abitazione californiana – teatro di decenni di seminari e di discussioni con studenti e colleghi – era stata svuotata e messa in affitto. Tutti i suoi libri venduti, le sue cose disperse. Pare che nessuno potesse più contattarlo, una fine triste, solitaria y final.

Hudin scrive anche del periodo precedente, segnato da un’inchiesta dell’Università di Berkeley, per presunte molestie sessuali. La segretaria racconta che il senato accademico lo aveva giudicato non colpevole, ma il Rettorato annullò quel verdetto e gli revocò lo status di professore emerito. Dopo oltre sessant’anni di insegnamento, Searle fu così escluso dalla stessa istituzione che aveva contribuito a rendere celebre. Nessun memoriale ufficiale è stato e sarà organizzato a Berkeley. L’università dominicana di filosofia e teologia tenterà di ricordarlo.

Si deve prudenza nel riferire questi fatti, che restano controversi e in parte non verificabili, ma il quadro che emerge è quello di un pensatore tagliato fuori dalla comunità che aveva formato. Il destino di Searle, nei suoi ultimi anni, ricorda talvolta il paradosso che lui stesso aveva analizzato: l’atto linguistico come fondazione della realtà sociale. Il silenzio che circondò la sua fine sembra, tragicamente, l’inversione del principio che aveva guidato la sua filosofia.

Eppure, prima di quel silenzio, Searle aveva costruito una voce potente. Nato a Denver nel 1932, figlio di un ingegnere e di una medica, studia alla University of Wisconsin–Madison e vince una borsa di studio per Oxford. Si forma sotto la guida di J. L. Austin e P. F. Strawson. Da Austin eredita la passione per l’analisi degli atti di linguaggio, da Strawson l’attenzione alla logica dell’ordinario. Nel 1959 ottiene il dottorato e viene subito chiamato a UC Berkeley, dove insegnerà per più di mezzo secolo.

La sua opera d’esordio, Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio (1969), fonda la moderna teoria pragmatica del linguaggio. Gli enunciati non sono solo descrizioni ma azioni: promettere, ordinare, dichiarare, ringraziare. Ogni frase, se compiuta secondo regole, produce effetti nel mondo. La differenza fra “dire” e “fare” non è ontologica ma linguistica: dire può essere un modo di fare. Questa intuizione, nata da Austin ma resa più rigorosa da Searle, diventa la base di un’intera filosofia della comunicazione, della logica e del diritto.

Negli anni Ottanta Searle estende la teoria all’ambito della mente. Della intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza (1983) e La riscoperta della mente (1992) rovesciano il funzionalismo dominante: la coscienza, sostiene, non è un software che gira su un hardware cerebrale, ma un fenomeno biologico irriducibile. Celebre resta l’argomento della “Stanza Cinese” (1980): un individuo può manipolare simboli in una lingua sconosciuta seguendo un manuale, rispondendo correttamente senza comprendere nulla. Così, un computer può simulare la comprensione senza possederla. Per Searle, la vera intelligenza implica intenzionalità intrinseca, non meramente derivata dalla manipolazione di simboli.

Negli anni Novanta la sua ricerca si sposta dalla mente al mondo sociale. La costruzione della realtà sociale (1995) e Creare il mondo sociale (2010) formulano una teoria coerente dei fatti istituzionali. Searle distingue fra “fatti bruti”, come il peso di una pietra, e “fatti istituzionali”, come il valore del denaro o l’autorità di un giudice. Questi ultimi esistono solo grazie a regole costitutive che attribuiscono funzioni di status: “X vale come Y nel contesto C”. Il matrimonio, la proprietà, la moneta non sono illusioni collettive ma oggetti ontologici di secondo ordine, radicati nell’intenzionalità condivisa. In questo senso, Searle recupera e trasforma la lezione di Aristotele e di Wittgenstein insieme: la realtà sociale è il luogo dove la parola e l’essere coincidono. Nasce l’ontologia sociale. Un’intuizione che il “Laboratorio di ontologia” di Torino diretto da Maurizio Ferraris ha portato e diffuso in Italia.

Il tratto distintivo della sua filosofia è la fedeltà alla realtà empirica. Nonostante la complessità logica dei suoi argomenti, Searle parla sempre degli esseri umani in quanto tali: organismi biologici dotati di coscienza e linguaggio. La sua forma di “realismo biologico” respinge il dualismo mente-corpo e il riduzionismo computazionale, cercando un terreno intermedio fra scienza e fenomenologia. È una filosofia che non teme la chiarezza: l’idea che la verità debba essere oscura gli era del tutto estranea.

La sua prosa, limpida e assertiva, gli attirò simpatia e ostilità in egual misura. Attaccò il relativismo postmoderno di Foucault e Derrida, denunciandolo come “sintomo di un nichilismo verbale”. Difese la libertà accademica, ma rifiutò le mode del pensiero decostruttivo. Per questo fu considerato, negli anni 2000, una figura anacronistica: un metafisico nel tempo del costruzionismo sociale. Tuttavia, il suo influsso resta profondo. Le sue idee hanno plasmato linguistica, scienze cognitive, teoria del diritto, economia istituzionale, e persino le discussioni sull’Intelligenza Artificiale. L’argomento della “stanza cinese”, spesso citato in etica dell’IA, continua a segnare la linea di confine fra imitazione e coscienza.

Quando Searle muore, nel settembre 2025, la notizia passa quasi in sordina. Ma lentamente il dibattito sul suo lascito si riaccende. In un’epoca in cui le macchine generano linguaggio e gli algoritmi producono decisioni sociali, la sua filosofia appare più attuale che mai: ricorda che ogni costruzione artificiale presuppone un atto d’intenzione collettiva. Il mondo, per Searle, non è un insieme di dati ma un insieme di significati condivisi.

Così, solo e dolente in Tampa, la sua morte lo riporta al cuore delle sue stesse teorie. La realtà istituzionale della filosofia – l’insieme di libri, cattedre, citazioni – è ciò che consente al suo pensiero di continuare a esistere. 

Alla fine resta il libro. Non un volume soltanto, ma la costellazione di opere, lezioni, articoli che costituiscono il tessuto vivo di un pensiero. Dopo la morte di John Searle, ciò che rimane non è soltanto la memoria biografica o la cronologia dei concetti, ma l’impressione che il suo linguaggio continui a lavorare dentro chi lo legge: come se il mondo non avesse smesso di essere costruito dalle parole che lui aveva messo in moto.

In The Pages, il filosofo del deserto lascia un manoscritto smisurato che altri cercano di comprendere. Non trovano un sistema, ma un campo di domande, un movimento del pensiero che sopravvive al suo autore. Così anche le “pagine” di Searle rimangono aperte: non spiegano, interrogano; non concludono, proseguono. L’uomo è scomparso, ma le sue parole – come quelle del filosofo di Bail – continuano a costruire il mondo che egli ha lasciato, una pagina alla volta.