Fabio Pedone

ARTICOLO n. 87 / 2025

“TI RICORDI DI ME?” UNA SILLABA PER JOYCE

C’era da scommetterci. Con Joyce non abbiamo ancora finito, e forse non abbiamo nemmeno cominciato. Con un autore come lui, maestro clandestino di stolentelling (“narrubare”, suona così la traduzione del Finnegans Wake che ho curato con Enrico Terrinoni), quel Joyce copista auricolare sempre chino a scribacchiare sui suoi taccuini malgrado i malanni agli occhi e le angosce esistenziali, ostinato e subdolo intarsiatore di citazioni altrui piegate a nuovi scopi, il rischio per il lettore, eventualmente anche avvertito, è sempre doppio: da un lato affiora in lui la tentazione di farsi complice, cedere al magnetismo seduttivo dei richiami che come sirene si svegliano nella sua biblioteca mentale, con il pericolo palese di andare a trovare nel testo anche quello che non c’è; dall’altro potrebbe restare intimidito di fronte all’idea abnorme che questo scrittore strapotente stia enciclopedizzando anche il futuro (detto per iperbole) o sia misteriosamente in grado di “citare tutto”.

Lo sa Andrea Cortellessa, che dai territori da lui ben dissodati dell’italianistica si è spinto entro la wilderness tutta da esplorare di una perigliosa “quête indiziaria” joyciana a partire da tre clic di riconoscimento dovuti alla rilettura di Italy, il poemetto di Pascoli dove più deciso è il suo sperimentalismo linguistico. Il libro si intitola Forse che sìJoyce fra Pascoli e Gadda (Quodlibet), e convoca sotto la sua lente, in stretta triangolazione, anche un altro celebre finale letterario sospeso, quello del Pasticciaccio, con la probabile negazione freudiana di Assunta Crocchiapani di fronte alle domande inquisitorie del commissario Ingravallo: pronto, dopo quel sonoro rigetto di responsabilità, a «ripentirsi, quasi» (quasi come, mi verrebbe da pensare, i bambini pieni di vergogna che nel Purgatorio se ne stanno muti con gli occhi a terra, «ascoltando / e sé riconoscendo e ripentuti»: è Dante rampognato da Beatrice per il suo “traviamento”).

Quanto al poemetto pascoliano, il conclusivo «Sì» della bambina Molly, detto per la prima volta in italiano dopo tanti «Yes» in inglese, si intreccia a una data oltremodo significativa: il giorno della Candelora (2 febbraio), che non sarebbe potuto sfuggire al superstiziosissimo Joyce se avesse messo gli occhi su questo testo. Il  di un’altra Molly, ovvero la protagonista del finale soliloquio di Ulysses (uscito con inesausto lavorio di autore editrice e quasi ammattiti tipografi il 2 febbraio 1922, quarantesimo genetliaco di Joyce), potrebbe essere allora la spia di una potenziale genesi: un’ispirazione suscettibile di schiudere orizzonti interpretativi forieri di ripercussioni inaudite, aperte a ulteriori indagini. E dunque, coincidenza: le ultime parole di Ulysses (ambientato nel 1904) figlie lontane, si direbbe, di un poemetto pascoliano del 1904 in cui i temi portanti sono l’emigrazione, l’esilio linguistico, la patria perduta. Ma è così? Esiste una prova inconfutabile? O rischiamo di arrenderci a un’evidenza che in effetti non ha luogo?

Anche se fosse totalmente campata in aria l’ipotesi di Forse che sì (e a mio avviso non lo è, per fondati motivi) ci sarebbe comunque molto da imparare da questo libro. Altri – fra cui Carmen Gallo, Giacomo Jori, Enrico Terrinoni – hanno commentato e commenteranno nel dettaglio le risultanze del periplo di Andrea Cortellessa fra il carattere del primo Joyce, supercilioso artefice del non serviam in esilio volontario permanente a Trieste, nonché socialista con un penchant nazionalistico, «misogino e un filo antisemita», e l’uomo maturo che con Ulysses e il suo protagonista ebreo irlandese Bloom si apre a una visione (dell’umano e del femminile) corrispondente all’esatto opposto della triade “Dio Patria e Famiglia”, come ha spiegato lo stesso Cortellessa nel corso del Bloomsday alla “Sapienza” di Roma il 16 giugno scorso (organizzato su impulso di Gaetano Lettieri). Si aggiunga il corollario del madornale crollo pascoliano imputabile alla conferenza sulla Grande Proletaria (1911), con cui il poeta del “fanciullino” abbracciava improvvidamente il nazionalismo e l’aggressione italiana alla Libia. Qui a me importa recare alla discussione, e alla raccolta di potenziali pezze d’appoggio nel campo indeterminato di questa filologia ottativa (quasi), un esile mattoncino che potrà far pendere il “tour de forse” ermeneutico dalla parte di un più convinto Sì. In tal modo corrispondenze a livello molecolare, congetture, cellule verbali e illazioni interpretative troveranno magari la forza di divenire ipotesi e cognizioni meno incerte, da cui ripartire nella vivace, curiosa, inebriante e sempre “caleidoscettica” conversazione comunitaria su Joyce. 

Ma prima di addure al dossier un nuovo indizio testuale (avvertendo del fatto che probabilmente non si tratta della fatale “pistola fumante” dell’eureka a cui ogni buon critico di solida formazione aspira, ma ci siamo molto vicini) dobbiamo chiarire cosa significa per Joyce citare e quanto è audace il suo uso delle citazioni nei capolavori del 1922 e del 1939 che hanno rivoluzionato la coscienza della scrittura letteraria: Ulysses e Finnegans Wake. L’indefesso arrovellio annotatorio di Joyce (croce e delizia delle api operaie della “critica genetica”), fatto di frammenti sciolti, appunti, disiecta membra strappati al contesto, parole irrelate, qui pro quo, voci orecchiate, aneddoti distorti e tendenziosamente riusati, mi fa sempre pensare al processo che in architettura si definisce spoliazione. Gli elementi lapidei, gli spolia di un antico edificio (mettiamo, la Basilica Giulia del Foro romano, o il Colosseo) vengono sottratti al contesto originario: traslati altrove, entrano a far parte della compagine di una chiesa paleocristiana o romanica, o di una facciata quattrocentesca. Generando una nuova lettura di un nuovo testo architettonico formato da pezzi di recupero rimescolati, di varia origine, e la cui informazione germinale si è a volte perduta. Nel concetto di spoliazione, peraltro, scende in campo una metafora militare, quella delle spoglie sottratte al nemico vinto ed esibite in trionfo al ritorno a Roma. Così è chiaro che il prelievo citazionale, in tutto il ventaglio di modalità possibili che trascorre dall’obbedienza pedissequa alla sfrenata parodia, è anche un atto di violenza, celata o palmare sopraffazione, non solo di omaggio e rispettoso ossequio (la traslazione è anche tradurre altrove le reliquie, le spoglie, di un corpo santo). Mascheramento e détournement tramutano un testo in un gesto, un gesto di sostituzione, reimpiego e impulso al disordine, di sberleffo dissacratorio o sia pure vendetta contro il potere che è sempre la linfa vitale della lingua: il vero tema ossessivo di Joyce, insieme al tradimento. 

L’opera joyciana fomenta e provoca il commento, invita a osare e chiosare partendo da enigmatici prelievi letterari, ma stimola anche a indagare tutta la vibrazione spettrale di quell’aura periferica composta da riviste, canzoni, teatro, advertising, formule liturgiche, filastrocche, barzellette e storielle, cultura orale stradaiola da osteria e da pub che ha sempre nutrito la sua scrittura. In questo enciclopedismo parodistico, sotto il bricolage delle frasi pullula una memoria fantasma intessuta di frammenti di sapere che hanno perso il riferimento esplicito alla loro prima origine, copie difformi e sfuggite di mano, schegge disperse dopo lo scoppio di quell’”immenso paesaggio di futilità e anarchia” (teste T.S. Eliot) che è la storia umana con i suoi miti, codici e riti; non altrimenti poteva essere capace Joyce di inventariare una città, le sue voci, reinventarne i percorsi intricati entro il corpus della cultura occidentale e il corpo fisico dell’essere umano riproiettato su una mappa mentale.  

E perciò chiunque si accosti a questo artista da non candido lettore ha da tener presente che dovrà affrontare notevoli e inopinati “problemi di copia”. La citazione, diceva Mandel’stam nella sua mirabile Conversazione su Dante, è una cicala, canta, si fa sentire; ma è anche vero che può essere come un brigante in agguato per strada, in attesa di calare sul sorpreso-ozioso lettore strappandogli un assenso, come ha avvertito Walter Benjamin in Strada a senso unico. Molto di quanto leggiamo nelle pagine joyciane è travasamento, travisamento (infine traviamento) di seconda mano, déja lu, parola “riraccontata”, ricreata, eco diffratta con estro performativo e “riautoriale”, ma oggi non ce ne rendiamo più conto: basti pensare che la celebre frase-motto, consueta se non abusata nella vulgata joyciana, sulla storia umana (“un incubo da cui sto provando a risvegliarmi”) origina probabilmente da una lettera del poeta Jules Laforgue: «La storia è un vecchio incubo variopinto che non sembra sospettare che gli scherzi migliori son quelli più corti» (marzo 1882).

Quando il frammento staccato, sparso e sperso è di breve entità e corpo leggero, non porta più con sé la memoria dell’origine, e si rende disponibile alle più varie deformazioni e misletture. È capitato con due parole latine che Stephen Dedalus pensa (o il narratore esterno interpola) durante le sue rimuginazioni aristoteliche in Proteo, il terzo episodio di Ulysses. Sentendosi minacciato da Mulligan, da lui visto come un cane che abbaia, avverte il soffio di una propria voce interiore: «Terribilia meditans»Per decenni i commentatori non hanno trovato una fonte di questa che, nel suo corsivo, sembra una didascalia o appunto una citazione strappata a qualche libro sacro. Ho ipotizzato in altra sede (si veda il numero di maggio 2025 della Romanic Review), sulla base dei superstiti quaderni di appunti joyciani, che la fonte primaria possa nascondersi nell’Etica Nicomachea di Aristotele commentata da Tommaso d’Aquino (quando discute il sentimento umano della paura, e la morte per acqua), e a sussidio di un’idea di “partita doppia” del costume citatorio già viva nel Joyce ulissico aggiungo che, fedele a quel principio di inversione attivo nel libro fin dall’introibo sulla Martello Tower, l’autore possa averla incrociata con un’altra fonte, stavolta scritturistica: il Salmo 105 sulle peripezie di Israele, che poteva leggere pure nel suo amato Swedenborg, e recita: «Confitemini Domino et invocate nomen eius, / annuntiate inter gentes opera eius. / Cantate ei et psallite ei, / meditamini in omnibus mirabilibus eius»Accidenti. Insomma, potremmo chiosare: Terribilis est locus iste. 

Il libro di Andrea Cortellessa manifesta una necessità ormai imprescindibile: occorre che italianisti e anglisti incrocino le loro varie competenze per illuminare ancora più a fondo il problema delle influenze joyciane nel suo periodo triestino, prima del suo dislocarsi a Zurigo, prima di iniziare il lavoro più fervido su Ulysses (già concepito nel suo germe ideale, quale racconto, nel 1906-7)Così, «cercando cercando cercando / quel vecchio qualcosa», per rubare due versi a Pascoli, mi è avvenuto di incorrere in altre suggestioni. Qual è il problema, sapere se Joyce (amando o disamando Pascoli) avesse letto effettivamente Italy? Ma lui il 30 giugno 1913, a poco più di un anno dalla morte del poeta, per accreditarsi come giornalista e scrittore in italiano verga una lettera (con una serqua di referenze allegate, fra cui quella di Francini Bruni, direttore della Berlitz School di Trieste) a Adolfo Orvieto del «Marzocco» per chiedere  di pubblicare sulla rivista fiorentina – che peraltro tanto aveva fatto per diffondere e difendere Pascoli – il suo saggio-conferenza Daniele Defoe. Proposta rifiutata, probabilmente a motivo della posizione antinglese del giovane artista che aveva già scritto, ma ancora non dato alle stampe, Dubliners e gran parte del Portrait.

Sulla rivista (fondata, fra l’altro, il 2 febbraio 1896: ricordarsi del suo gusto maniacale per le date) comparirà poche settimane dopo una manchette della casa editrice Zanichelli: Poesie complete di Pascoli in dieci volumi in ottavo, «a condizioni di favore per i lettori del Marzocco», «Lire 48». E già nel 1912 era uscita la réclame delle Poesie varie curate dalla sorella Maria. In astratto, è dunque possibile pensare che Joyce, “giornalista triestino” con quasi nessun libro pubblicato a sua firma all’epoca, si sia procurato o abbia letto il volumetto dei Primi poemetti al più tardi a fine 1913 tramite la mediazione del toscano Francini Bruni, colloquiando con il quale avrà assimilato i canoni estetici della rivista. E nel primo invio postale per gli affezionati lettori erano fra l’altro compresi anche le Myricae e i Canti di Castelvecchio. Poi, dovendo spostarsi a Zurigo con la famiglia allo scoppio della Grande Guerra, l’irlandese si sarà lasciato dietro quel volume, andato perduto (o appunto glielo aveva prestato qualcuno, cosa non infrequente). Quanto a Francini Bruni, che dopo l’uscita di Ulysses gli dedicherà una risentita conferenza, Joyce intimo spogliato in piazza, afferma che il suo poeta italiano preferito era il facile e romantico Giovanni Prati.

Proprio non si riesce a credere a questa supposta preferenza joyciana che sembra più l’effetto di un malizioso, beffardo scambio di persona, un’impostura giocata ai suoi danni da parte dell’ex amico inacidito: Prati al posto di Pascoli. Difficile, del resto, pensare che Joyce, ventenne affamato di letture che si voleva soprattutto poeta, arrivi a Trieste dall’Irlanda agli inizi del Novecento avendo già eletto Dante come stella polare, e con un deciso apprezzamento per D’Annunzio, ma ignorando di sana pianta l’altro grande poeta il cui nome si spandeva per tutta Italia. A nulla approda uno spoglio dell’epistolario joyciano se vi cerchiamo menzionato a chiare lettere il nome del poeta di San Mauro; anche nelle molte missive inedite di prossima uscita in un’edizione online, a quanto comunica William Brockman che le sta curando, il buio è totale. John McCourt (studioso che ha lavorato sul rapporto di Joyce con l’italiano e ha dato alle stampe una imprescindibile biografia, Gli anni di Bloom) ha fatto notare che solo una volta, nell’inedito Book of Days del fratello Stanislaus, compare il nome di Pascoli: definito da James “word-mongerqualcosa come “venditore ambulante di parole”.  

Bisogna un po’ salvare la critica joyciana dagli esercizi di ammirazione: Forse che sì, in cui Cortellessa ha messo bene in luce i cedimenti del giovane Joyce a una certa atmosfera plumbea di quei tempi (con l’influsso di Weininger sulla cultura triestina), lo dimostra. Penso che quel darsi la mano fra anglisti e italianisti a cui accennavo più su vada sperimentato leggendo anche le riviste d’epoca “a orocchi aperti”. Ci sono tante zone ancora da illuminare del Joyce triestino che inizia paziente a covare il feto immane di Ulysses. Personalmente a incuriosirmi è per di più la possibilità che, da patito della scena qual era in gioventù, abbia tenuto presente anche l’opera di Pirandello. Il quale, lo sappiamo, non avrebbe ignorato l’irlandese all’apogeo della sua fama, firmando l’appello per la fine della messa al bando di Ulysses negli Stati Uniti e in un’intervista del 1931 accennando con toni ammirati alla sua «visione continuamente svariante [che] ha qualcosa di polifonico». Joyce e Pirandello – il cui tratto comune di scrittori era saper rendere comiche le più terribili angosce  – furono invitati assieme in alcune occasioni pubbliche a Parigi. Sarà possibile che un altro passo famoso di Ulysses, quello in cui Stephen insegnando a scuola si chiede che piega avrebbe preso la storia umana se Pirro o Cesare non fossero stati assassinati, derivi in filigrana da un’osservazione di Pirandello («se il naso di Cleopatra fosse stato più lungo, chi sa quali altre vicende avrebbe avuto il mondo», L’umorismo), a sua volta ripresa da un pensiero di Blaise Pascal?

Le coincidenze allusive si inanellano, si riproducono in scie di riflessi che poi ripartono diramandosi lungo vie autonome. Ma lo spettro dell’iperdeterminazione è sempre in agguato: non possiamo leggere tutto smontando le parole a piacimento, ma possiamo basarci su sovrimpressioni, giunture eloquenti, mutazioni che saltano all’occhio. Giocando di sponda, ricostruendo comunque esperienze possibili a partire dalle lacune, con una buona coscienza storica, chissà dove si potrà arrivare. Per mio conto ho compiuto un tentativo di ricerca di nuove fonti in Pascoli convocando nella discussione, già durante il Bloomsday della Sapienza di Roma, una delle poesie dei Canti di Castelvecchio (1903) in cui, esattamente come in Italy, si verifica uno scambio fra morte e vita, passato e futuro (vale a dire fra nonna e nipote) e il tema soggiacente è la continuità delle generazioni, il passaggio del tempo, l’accettazione della vita.

Riporto le prime tre stanze: 

LA NONNA
Tra tutti quei riccioli al vento,
tra tutti quei biondi corimbi,
sembrava, quel capo d’argento,
dicesse col tremito, bimbi,
sì . . . piccoli, sì . . .


E i bimbi cercavano in festa,
talora, con grido giulivo,
le tremule mani e la testa
che avevano solo di vivo
quel povero sì.


Sì, solo; sì, sempre, dal canto
del fuoco, dall’umile trono;
sì, per ogni scoppio di pianto,
per ogni preghiera: perdono,
sì . . . voglio, sì . . . sì!

Eh sì. L’art d’être grand-mère. Perché è possibile, a mio avviso, persuadersi di questo plurale , passare dalla pur feconda congettura a un nuovo convincimento di un influsso pascoliano su Joyce? Perché qui traspare con maggiore evidenza il pattern ritmico-rimico, la cadenza che ritornerà in Ulysses, non solo la ripetizione in anafora del , non solo la corrispondenza lessicale (voglio) ma uno schema trifasico che potrebbe essere l’impronta da cui poi una memoria prensile e polimorfa come quella di Joyce sarà stata abile a trarre, anni dopo, l’enunciazione finale di Penelope. La poesia uscì dapprima sul Marzocco nel 1899, e in quel sì ripetuto si rivela un’allusione al carme LXI di Catullo, l’imeneo: usque dum tremulus movens / cana tempus anilitas / omnia omnibus annuit. («fin quando la canuta vecchiaia, / ciondolando la tremula tempia, / a tutto e a tutti faccia cenno di sì») [vv. 161-63].

«…and his heart was going like mad and yes I said yes I will Yes». Nel finale di Ulysses, quell’I will non è solo Molly che dice sì a sé stessa, alla vita, al passato con i suoi molti scarti e storture, aprendosi alla rigenerazione (lo ha ricordato Carmen Gallo), ma è anche una traduzione di quell’aria del Don Giovanni (“Vorrei e non vorrei, / mi trema un poco il cor”) che lei stessa richiama nella pagina precedente (presto non son più forte) e incarna per via “sonoremantica” il tema del tradimento su cui Bloom rimugina per tutte le sue peregrinazioni dublinesi, sbagliando, la prima volta, la citazione in italiano, per lui «lingua bellissima» (“Voglio e non vorrei”). 

Non sarebbe illecito leggere ritmicamente questa cadenza con le categorie interpretative dei mimemi di Marcel Jousse, padre gesuita a cui si deve L’antropologia del gesto e le cui lezioni, come sappiamo da Mary Colum, Maria Jolas e altri testimoni, Joyce avrebbe seguito a Parigi. Le ultime parole di Penelope manifestano una embricazione trifasica, con I said / I will (ho detto [che] lo farò) a rappresentare gli elementi dell’agire fra l’agente (yes) e l’agito (Yes). In questo “bilateralismo recitatore”, come lo definisce Jousse, funziona quel dondolante “parallelismo dei membri” che nutre la ritmica dei Salmi. 

In fondo, se vogliamo attenerci alla metafora della filiazione simbolica senza carne che percorre tutto Ulysses, e si ripercuoterà poi nel Pasticciaccio gaddianostiamo cercando anche noi le prove di una ri-generazione, una filiazione traslata, spettrale o mancata dal  della nonna dei Canti di Castelvecchio, rifratto in quello esclamativo della piccola Molly di Italy, poi proiettato, rigiocato, complicato nello Yes che conclude il “romanzaccione” di Joyce. «Ritornerai?», dicono i bambini a Molly alla fine del poemetto pascoliano (ed è un po’ la domanda che potremmo fare a una Citazione personificata) ricevendone finalmente il Sì in italiano; «Ti sei dimenticato di me?», chiede il ventaglio di Bella/Bello a Leopold Bloom nel sogno acido di Circe, quando lui vive tutte le allucinazioni caosmiche della sua ambizione maschile. L’everyman ulissico cambierà sesso sentendo un bisogno di maternità e risponderà “Nes. Yo.” all’ambiguo ventaglio (anticipando quella coincidentia oppositorum che diverrà in seguito la forza nascosta del “palinsenso” di Finnegans Wake).

Certo, comparaison n’est pas raison, ma qui sentiamo più che un’aria di famiglia, fra le nonne (le donne) di Pascoli e Penelope-Molly (tessitrici!) c’è uno stampo, un cliché che si trasmette dai morti ai vivi, una epifonia che ci persuade per via di suono e di memoria. Ad accomunare Pascoli e Joyce, al di là degli individuali e diversi “family umbroglia”, è il loro formidabile orecchio, la sapienza fonosimbolica, l’attenzione ai segnali oscuri, impalpabili, che tracimano dal mondo dei morti in quello dei viventi. A volte tante lucciole fanno lanterna, e mi sento di dire che non può essere solo il criterio genealogico derivato dall’imitatio classicistica la bussola per lavorare sull’uso e il riuso delle citazioni in Joyce, in cui l’impronta sonora si libera dalla sua stessa radice testuale. 

Sia che decidiamo di leggere queste triangolazioni come corrispondenze sinottiche, sia che in mancanza di una prova di lettura accettiamo lo strabismo delle congetture, siamo comunque davanti alla testimonianza elusiva di un dialogo a distanza fra morti e non (ancora) nati: fra un querulo vecchio puer che voleva morire – anzi, non esser mai stato – e una giovane donna che afferma (in un sussurro o a piena voce), accettando il sangue delle ferite e la linfa del desiderio, un destino di rigenerazione. Per sé, per tutte, per tutti noi, sì.