Ella Marciello

ARTICOLO n. 83 / 2025

DI MAGMA E DI SABBIA

Note su una fase pre-rivoluzionaria

Ho imparato a riconoscere il momento in cui una soglia viene superata. Non arriva con fanfare, annunci, frecce luminose a indicare la via. Assomiglia piuttosto a quando realizzi che una relazione è finita settimane – o mesi o addirittura anni – prima che si riesca a dirlo ad alta voce. Lo status quo era già insostenibile, solo che continuavamo a comportarci come se non lo fosse.

La manifestazione del 3 ottobre ha reso evidente qualcosa che già sapevamo. Milioni di persone stavano elaborando la stessa rabbia, spesso in silenzio, spesso da sole davanti a uno schermo, con la sensazione di essere le uniche a vedere, le uniche a non riuscire a voltare lo sguardo. Il digitale viene accusato di essere il luogo della performatività vuota, del gesto che non costa niente. Ma a un certo punto, quelle stesse persone che discutevano nei commenti, che si passavano analisi e testimonianze, sono scese in piazza. E quando lo hanno fatto, portavano con sé mesi di elaborazione collettiva, un linguaggio comune già costruito, connessioni già stabilite.

Gli schermi hanno reso impossibile ignorare. Hanno mostrato ciò che i media tradizionali preferivano non rendere visibile. E poi i corpi hanno occupato le strade, perché alla fine è lì che si misura la possibilità concreta di interrompere il normale funzionamento delle cose. È nei corpi che si esperisce la vulnerabilità condivisa, la potenza del numero.


Il tuo governo fornisce armi a chi compie una pulizia etnica, l’opposizione parlamentare tace o balbetta frasi di circostanza. Esiste una soglia oltre la quale ciò che è umano in noi esige di prendere posizione, dove restare dentro il gioco significa perdere qualcosa di essenziale. Il gioco è truccato, lo sappiamo, le regole scritte per garantire che nulla di sostanziale possa davvero cambiare.

Due milioni di persone hanno bloccato l’Italia per tre giorni. Le arterie del Paese – autostrade, stazioni, piazze centrali – si sono intasate di una presenza che rifiutava di scorrere via, inceppando il metabolismo della produzione e del consumo.

Per tre giorni, milioni di persone hanno trasformato il loro corpo in ostacolo, in frizione. Siamo diventati sabbia negli ingranaggi. Abbiamo scelto di muoverci dove il sistema aveva bisogno che stessimo fermi e di fermare ciò che doveva scorrere: il traffico, la produzione, il ritmo quotidiano dell’economia.

Le città moderne sono progettate per questo. Il capitale deve circolare, le merci devono muoversi, chi lavora deve raggiungere le aziende. Se milioni di corpi occupano gli spazi progettati per il transito rifiutando di transitare, tre giorni bastano perché l’illusione della normalità cominci a sfaldarsi. Diventa chiaro quanto l’ordine esistente dipenda dalla nostra cooperazione quotidiana. Quanto sia sottile il velo che separa il funzionamento dalla paralisi.

Le istituzioni, dalle loro poltrone, guardano tutto questo con disprezzo e paura insieme. Continuano a pensare che la politica vera si faccia altrove, nei palazzi, attraverso mediazioni che noi non possiamo controllare. Ma al contempo sentono qualcosa sfuggire, la loro capacità di contenere il dissenso dentro i canali previsti scivola un po’ più lontano. Fuori da quei palazzi sta emergendo qualcosa di diverso, una soggettività politica che si muove senza le strutture consolidate della militanza tradizionale, senza i leader riconosciuti che dovrebbero incarnarla. Chi studia e occupa istituti e università. Chi lavora e si organizza al di fuori dei sindacati ufficiali. Attivisti e attiviste che tessono reti transnazionali. Persone che hanno smesso di credere che il loro ruolo si esaurisca nel depositare una scheda ogni cinque anni, che hanno capito che la democrazia o è qualcosa di più o è solo il nome che diamo alla nostra passività organizzata.

La complicità con un genocidio ha funzionato da catalizzatore, rendendo impossibile continuare a separare ciò che accade lontano da noi da ciò che struttura la nostra vita quotidiana. La Palestina è diventata specchio. Un baratro molto più buio in cui riconoscere i meccanismi di oppressione che attraversano ogni livello della nostra esistenza, che ci riguardano direttamente anche quando preferiremmo pensare che va tutto bene, che è tutto ok, anche quando ci diciamo che non ci possiamo lamentare.


Il genocidio a Gaza e lo sfruttamento del lavoro precario, l’occupazione militare e la violenza delle frontiere, l’apartheid e la segregazione urbana delle nostre città, il controllo sui corpi delle donne e la violenza di genere che permea l’organizzazione sociale: tutto questo condivide la stessa logica, quella che riduce gli esseri umani a mezzi da gestire, forza lavoro da sfruttare, numeri elettorali da conquistare, vite da amministrare come variabili di bilancio. Sono manifestazioni diverse di un unico magma di dominio che si espande, si infiltra, assume la forma del contenitore che lo accoglie, si adatta a ogni contesto senza mai perdere la sua natura.

Il femminismo ha insegnato da tempo che il personale è politico e che la violenza che si consuma nelle case e quella che si esercita fuori condividono la stessa grammatica del controllo. L’oppressione domestica e quella statale, il dominio sul corpo individuale e quello sul corpo sociale legati da un filo rosso: forme diverse attraverso cui il potere si perpetua, si naturalizza, diventa così radicato da apparire come l’unico ordine possibile, così familiare da sembrare inevitabile.

Quando un popolo cerca di sottrarsi al controllo, può essere represso. Eliminato nel silenzio che segue la violenza. La sua cancellazione viene coperta da una coltre di giustificazioni che si stratifica nel discorso pubblico. Discorsi sulla complessità della situazione. Sulla necessità di essere realisti. Su quanto sia ingenuo credere che le cose possano cambiare davvero. Sul diverso da noi. Alibi che si moltiplicano fino a rendere tollerabile ciò che dovrebbe tenerci svegli la notte. E questa desensibilizzazione funziona in ogni struttura di dominio perché opera in modo progressivo: trasforma l’orrore in statistica, lo rende normale attraverso la ripetizione, inevitabile attraverso la rassegnazione. È il linguaggio con cui il potere si assolve dalle proprie responsabilità, il meccanismo retorico attraverso cui la violenza si nasconde in piena vista, così radicata nel funzionamento quotidiano delle cose da non meritare più nemmeno un commento, un sussulto, una reazione.


Questa stratificazione di alibi, oggi, ha crepe nuove. Sente la pressione di corpi che rifiutano di essere riassorbiti, di voci che rifiutano di essere silenziate, di una rabbia che non accetta più di essere gestita attraverso i canali della politica istituzionale. Milioni di persone hanno capito che la storia si scrive nei conflitti reali, nelle strade dove i corpi si espongono e rivendicano uno spazio di esistenza a cui sono state costrette ad abdicare, nel proprio essere ingranaggi funzionanti.

Chi scende in piazza ritrova ciò che la vita atomizzata del tardo capitalismo ha sistematicamente distrutto: la possibilità di essere parte di qualcosa che eccede i confini del sé individuale. La scoperta che la solidarietà è una pratica concreta, un modo di stare al mondo. Che insieme si può avere più forza, più lucidità, più coraggio. La sociologia dei movimenti sociali lo ha dimostrato ripetutamente: le trasformazioni profonde nascono quando una minoranza sufficientemente determinata smette di accettare e comincia a immaginare – e soprattutto a praticare – alternative concrete. La differenza tra aspettare che il mondo cambi e prendere parte attiva al suo cambiamento, anche senza garanzie di successo, anche sapendo che il percorso sarà lungo, difficile, senza gioia istantanea. Eppure, quella gioia, abbiamo ricominciato a provarla.

Ma la domanda che ci poniamo ora è forse la più difficile: cosa ne facciamo, della rivoluzione?

Non nel senso romantico del termine, non l’immagine che ci hanno venduto – quella del momento insurrezionale, dell’assalto al palazzo, del prima e del dopo nettamente separati. Quella fantasia ci ha paralizzati per decenni, ci ha fatto credere che o si cambia tutto in un colpo solo o tanto vale non muoversi. La rivoluzione come evento spettacolare che risolve, che conclude, che inaugura l’era nuova. Una favola comoda per chi preferisce aspettare piuttosto che sporcarsi le mani con la complessità del presente.

Quello che stiamo imparando è diverso: la rivoluzione come processo, come proliferazione di fratture nel tessuto dell’esistente. Non sarà un progetto unico da realizzare ma una molteplicità di pratiche che erodono, sabotano, reinventano. Occupare spazi e sottrarli alla logica del profitto. Organizzare forme di mutualismo che rendano meno ricattabile chi lavora. Costruire reti di cura che non passino per le istituzioni. Bloccare, ancora e ancora, quando necessario.

Il rischio, d’altra parte, ci parla: senza una forma definita, questa energia può disperdersi, frantumarsi in mille rivoli che non comunicano tra loro, essere riassorbita dal sistema che ha già imparato a metabolizzare il dissenso. Ma il rischio opposto è ancora più letale: cristallizzare in strutture che riproducono le gerarchie che vogliamo abbattere, irrigidirsi in un’avanguardia che pretende di sapere meglio degli altri quale sia la strada giusta, tradire nella forma organizzativa proprio ciò che si vorrebbe affermare nei contenuti.

Teniamo aperta questa tensione. Costruiamo connessioni senza centralizzare il potere. Diamoci strumenti di coordinamento senza soffocare l’autonomia. Manteniamo la capacità di agire insieme senza pretendere l’unanimità su tutto. Forse è l’unica rivoluzione possibile in un’epoca che ha visto tutte le certezze del Novecento crollare una dopo l’altra – non per tornare alla rassegnazione, ma per inventare qualcosa che quelle certezze non potevano nemmeno immaginare.

Non so dove tutto questo porterà, e forse è proprio questa incertezza a rendere tutto più vero, più necessario. La storia non segue traiettorie prevedibili, non si lascia ridurre a profezie o a leggi che garantiscano il successo. Il potere ha ancora molte risorse per contenere, reprimere, cooptare quello che cerca di sfuggirgli. Eppure, qualcosa è cambiato in modo irreversibile. Più generazioni insieme hanno fatto esperienza diretta del fatto che un altro mondo non è solo desiderabile ma indispensabile, che le istituzioni attuali non hanno alcuna intenzione di costruirlo e anzi faranno di tutto per impedire che emerga. Questa consapevolezza libera e terrorizza insieme, toglie il peso della speranza mal riposta e permette di guardare le cose per quello che sono, senza il filtro delle illusioni che ci hanno tenuti fermi per così tanto tempo. Ma apre anche un orizzonte di incertezza radicale, dove bisogna inventare tutto da capo senza sapere se quello che si sta costruendo reggerà o crollerà sotto il peso delle proprie contraddizioni, senza alcuna promessa che lo sforzo non sarà vano.

Mentre scrivo, la Global Sumud Flottilla viene intercettata nel Mediterraneo e ottobre continua a espandersi, riverbera negli echi di settembre, prende la rincorsa, qui e altrove. Amsterdam, Parigi, Madrid e poi Dublino, Jakarta, Melbourne, Bruxelles, Lione, Rabat. 
La tregua – parola che ha in sé la pausa, non la fine – arriva fragile, sospesa. Ritorniamo all’oscena riappropriazione narrativa, con il Governo che si affretta a spiegare che gli equilibri politici non si lasciano scalfire dal popolo, che niente di tutto questo importa, in un disperato e maldestro tentativo di negazione che rivela più di quanto voglia (o possa) ammettere. 

Eppure, forse siamo già diversi. Ci siamo scoperti conoscenza incarnata, conoscenza impossibile da cancellare con un comunicato stampa o un discorso ben congeniato da un palco. La frizione non scompare perché qualcuno dichiara che la macchina ha ripreso a funzionare. 


Chi attraversa la soglia lo fa senza necessariamente guardare indietro e io voglio pensare a una nuova architettura del possibile, dove si immagina, si gioisce, e ci si fa vicini, dove lo status quo ha perso la sua apparenza di inevitabilità.

Fino a un certo punto, diceva qualcuno.
Quel punto è qui, è ora ed è ovunque.

ARTICOLO n. 49 / 2025

MAGRE COME LAME, LISCE COME PORCELLANE

Storia di come ci hanno convinto a cancellarci da sole

Giugno. Estate come orizzonte vicinissimo, e con lei l’immancabile conto in sospeso della “prova costume” – quel delizioso momento dell’anno in cui la stessa industria che ci ha nutrito per mesi di ricette gourmet e comfort food scopre improvvisamente, e con finta sorpresa, che i nostri corpi sono fondamentalmente inadeguati. Chi l’avrebbe mai detto.

La pubblicità – questa forma evoluta di bullismo con licenza commerciale – si trasforma in un’apoteosi di prodotti miracolosi che promettono di “sgonfiare”, “drenare”, “snellire”: tutti eufemismi eleganti per comunicare che il vostro corpo, nella sua presuntuosa configurazione naturale, rappresenta un errore da correggere con urgenza prima di osare comparire in pubblico. Perché evidentemente donne con peli, rughe, grasso o cellulite costituiscono una sorta di glitch evolutivo che disturba l’armonia universale.

Ma questo terrorismo estetico stagionale è solo la punta dell’iceberg di una patologia ben più radicata. La sacra trinità dell’accettabilità femminile – magre come lame, lisce come porcellane, eternamente bloccate in un range che va dai 17 ai 22 anni – non è una casualità del gusto. È un sistema di contenimento perfettamente ingegnerizzato, progettato per mantenere le donne in uno stato di perpetua inadeguatezza, perenne dipendenza dal mercato della correzione corporea e costante distrazione da questioni che potrebbero risultare davvero fastidiose per chi comanda. Perché mai perdere tempo a pensare al gender pay gap quando si può investire ogni energia mentale nel contare le calorie? Quale strategia di neutralizzazione potrebbe essere più elegante del convincere metà della popolazione che la sua missione principale dovrebbe essere l’eliminazione di quei tre centimetri di tessuto adiposo che osano manifestarsi intorno alla vita?

E allora ogni anno, puntuale, parte la grande pantomima. Prodotti detox e abbigliamento contenitivo spuntano come funghi nei feed, a ogni scroll, su ogni muro. “Sgonfia!” “Drena!” “Brucia!” “Pialla!” – un manifesto futurista applicato alla carne femminile, dove la velocità non è più conquista dello spazio ma eliminazione del volume corporeo. Marinetti sognava macchine che sfrecciassero verso il futuro; l’industria della bellezza ha realizzato corpi che obliterano il qui ed ora. Il messaggio però, mascherato a malapena, resta ben più brutale: il tuo corpo è sbagliato. Punto.

Le pubblicità che esplodono simultaneamente hanno ancora volti e corpi femminili impossibili.
Ci fissano, loro, con sorrisi identici, complici del più perfetto dei crimini: aver trasformato l’autocritica in ossessione quotidiana. Cosce con cellulite che passeggiano tranquille? Inaccettabili. Un volto che mostra rughe che indicano esattamente la sua età – senza che questo sia un errore di sistema? Scandaloso.

D’altra parte, vietare alle donne di pensare suonava un po’ troppo radicale come faccenda: meglio convincerle che monitorare il proprio aspetto sia ciò che di più importante esista. E non dimentichiamo di rendere il processo attraente, legale, socialmente accettato. Anzi, facciamo di più: incoraggiamolo. Per il nostro bene, si intende. 
La formula è semplice quanto disturbante: devi essere sexy ma infantile, provocante ma innocente, sessualmente disponibile ma fisicamente pre-puberale. Chiamiamolo pure “istinto naturale”, questo desiderio estetico maschile che con straordinaria coincidenza si allinea perfettamente agli interessi del patriarcato. Corpi femminili accuratamente privati di ogni segno di autonomia biologica. Pelle liscia, assenza di peli, magrezza estrema: tutte caratteristiche che, guarda caso, mimano i corpi bambini. Nelle culture patriarcali il desiderio maschile si struttura regolarmente attorno a fantasie di dominio e possesso assoluto. La donna matura, con la sua inquietante autonomia incarnata, è troppo minacciosa. Meglio una versione addomesticata, un pupazzetto con le curve nei punti giusti ma priva di quella scomoda agentività che potrebbe mettere in discussione l’idea del dominio, anche fisico.

Ne è stranamente piena la cultura incel, del dogma che le donne, per esempio, debbano pesare meno degli uomini. Ed è proprio qui che si concentra tutta la problematicità di questa forma di desiderio: voler possedere un soggetto desiderante mentre si teme la sua capacità di desiderare autonomamente. Contraddizione che la nostra cultura risolve con eleganza proponendo un ideale estetico femminile che combina disponibilità sessuale e innocenza fisica, competenza emotiva e docilità corporea. 
Non è casuale che la pornografia mainstream sia un catalogo interminabile di corpi femminili adulti con caratteristiche fisicamente infantili – vulve completamente depilate, corpi privi di peli e spesso eccessivamente magri – che performano atti sessuali in posizioni di sottomissione. Un messaggio che diventa manuale di istruzioni e che viene consumato da un pubblico maschile fin dall’adolescenza: il corpo femminile desiderabile è un corpo che si sottomette, che non mostra segni di potere autonomo, che non dice “NO.” 
O se lo dice è solo perché intende “sì”.

Naomi Wolf l’aveva capito trent’anni fa: la questione non è la bellezza, la questione è il controllo. L’infantilizzazione estetica è un meccanismo sofisticato che mantiene le donne insicure e dipendenti in un’epoca in cui la subordinazione esplicita è diventata socialmente inaccettabile. Non è un caso che questi standard diventino sempre più rigidi proprio quando le donne guadagnano potere in altri ambiti. È la compensazione simbolica perfetta: puoi avere il tuo posto nel consiglio di amministrazione, a patto che ti preoccupi costantemente di apparire come una ventenne anche a cinquant’anni. Puoi essere una madre fantastica, purché non ti lasci andare. Puoi avere una relazione di vent’anni, ma guai a sembrare di vent’anni più vecchia di quando è iniziata. Puoi essere intelligente, colta, divertente, ma se hai la cellulite sei comunque un fallimento. Puoi anche salvare il mondo, basta che ti ricordi di farlo con la taglia 40.
Tra tutti questi comandamenti, però, ce n’è uno che li tiene magicamente insieme: devi occupare il minor spazio possibile. La magrezza femminile non è solo un diktat, è una metafora vivente della riduzione sociale a cui il corpo femminile è sottoposto. Eppure, fino a un secolo fa le rotondità femminili erano celebrate come segno di prosperità e bellezza. Che coincidenza che siano diventate inaccettabili proprio quando le donne hanno iniziato a reclamare spazio sociale. Forse i corpi magri non sono quell’universale biologico che ci hanno spacciato per innato. 

Forse, ci stanno raccontando storie che abbiamo paura di consapevolizzare fino in fondo.

La conquista del voto per le donne degli anni ’20 porta con sé le flapper dai corpi androgini. Il femminismo degli anni ’60 coincide con l’ascesa di Twiggy e la sua estetica dell’inedia volontaria. Per le donne che negli anni ’80 entrano massicciamente nel mondo professionale avere il 10% di grasso corporeo diventa un imperativo morale. E quando negli anni ’90 raggiungono posizioni di potere reale, ecco Kate Moss e l’heroin chic – il corpo emaciato come ideale supremo a cui aspirare. Susan Bordo lo spiega con una chiarezza dolorosa in Unbearable Weight: un corpo affamato è un corpo che non ha energia per ribellarsi. L’ossessione per la dieta è il perfetto dispositivo di controllo per un’epoca in cui non puoi più dire apertamente alle donne di stare al loro posto. Le calorie diventano il nuovo rosario, contate ossessivamente mentre si potrebbe contare, che so, quante ore di lavoro di cura non pagate si svolgono a confronto degli uomini. 
Il potere politico viene barattato con il controllo fisico. Prenditi questa piccola libertà, costa solo un imperituro giudizio sul tuo aspetto. 

Le donne credono di vincere mentre negoziano la propria scomparsa materiale.


Ma il lavoro per sottrazione nell’estetica della magrezza è solo l’inizio di un processo più ampio di cancellazione corporea. In questo repertorio di ossessioni, la depilazione occupa un posto d’onore: l’unica pratica di mutilazione estetica che gode dell’alibi igienico. Come se i peli, questi misteriosi elementi che l’evoluzione ha selezionato per millenni come utili al corpo umano, diventassero improvvisamente “sporchi” e “antiestetici” solo quando spuntano su un corpo femminile. Gli stessi peli che su un uomo sono indice di virilità, su una donna diventano problema sanitario. 
Eppure fino a ieri – storicamente parlando – le donne mostravano tranquillamente ascelle e gambe pelose. Poi l’industria cosmetica ha avuto la sua geniale intuizione: perché vendere prodotti di depilazione solo per il viso maschile quando si può convincere metà della popolazione di dover rimuovere peli da tutto il corpo, raddoppiando – di fatto – il mercato?

Il pelo femminile minaccia qualcosa di fondamentale: segnala inconfutabilmente la maturità sessuale. Non a caso la depilazione pubica totale è diventata standard proprio con l’esplosione della pornografia online. La correlazione è documentata: la rimozione dei peli pubici femminili è direttamente legata alla normalizzazione del porno mainstream, dove le donne devono apparire come bambole sessualizzate piuttosto che come adulte con corpi che mostrano segni di maturità e autonomia. Questo desiderio distorto non è innato ma metodicamente costruito attraverso una socializzazione che insegna ai ragazzi ad associare la mascolinità con il dominio e a temere la femminilità e la sua agentività come minaccia al controllo. L’ansia profonda che questo genera viene convertita in preferenza estetica: il corpo femminile desiderabile è quello che non fa paura, che evoca vulnerabilità invece che potere.

I peli sono indicatori: raccontano la netta divisione tra interno ed esterno. Meglio un corpo femminile leggibile, prevedibile, docile. Un corpo depilato è un corpo disciplinato, un corpo che ha accettato di dedicare ore della propria vita, non senza dolore, e centinaia di euro all’eliminazione di qualcosa che continuerà ostinatamente a ricrescere, in una perfetta metafora di arrendevolezza. 
E l’uso che le donne fanno del tempo è anch’esso indicatore: ore spese a depilarsi, ore investite in beauty routine, ore davanti allo specchio a scrutarne lo scorrere. Una perversa lotta meta-temporale dove il tempo viene consumato per cancellare le tracce del tempo stesso. Si spreca presente per negare il passato, in un circolo malsano che trasforma l’esistenza femminile in una guerra contro la propria storia corporea.

Laura Hurd Clarke lo documenta senza pietà nei suoi studi: l’invecchiamento maschile viene celebrato come accumulo di valore – esperienza, saggezza, autorità – mentre quello femminile viene patologizzato come decadimento e perdita di valore sociale. Gli uomini sono individui che invecchiano, le donne sono corpi che deteriorano. Questo implica che il valore sociale femminile rimane ancorato primariamente all’aspetto fisico giovanile, rendendo qualsiasi conquista professionale o intellettuale vulnerabile all’erosione del tempo. Sarà una pura coincidenza anche il fatto che l’ossessione per i trattamenti “anti-age” sia esplosa negli anni ’80 e ’90, proprio mentre le donne conquistavano posizioni di potere precedentemente riservate agli uomini. L’imperativo di mantenersi giovani funziona così da meccanismo compensatorio: puoi avere potere, a patto che non sembri avere l’età per esercitarlo legittimamente, in un ambiente che avalla e incoraggia la privazione – per le donne – proprio di ciò che tradizionalmente conferisce autorità, la maturità visibile.

La pervasività di questi standard estetici si basa su un sofisticato sistema di controllo in cui le donne sono simultaneamente sorvegliate e spinte all’auto-sorveglianza: interiorizzando lo sguardo valutativo esterno diventiamo implacabili giudici di noi stesse. 
Ma come è possibile che le vittime si trasformino in carnefici? Per capirlo, dobbiamo familiarizzare con il concetto di violenza simbolica, quel fenomeno per cui chi è oppresso interiorizza i valori di chi opprime, fino a diventare i più zelanti guardiani della propria gabbia.
Guarda le donne che si affamano, si giudicano a vicenda, si flagellano pubblicamente per come cade un vestito, come se avessero commesso un crimine contro l’umanità. Guardale mentre spendono il loro denaro per piallare la pancia, per stramazzare in palestra, per cancellare quella ruga di espressione. Il patriarcato non può che ringraziare: non c’è bisogno di controllare le donne quando sono così brave a controllarsi da sole.

Chi scrive, naturalmente, non è immune da niente di tutto questo. 
Puoi decostruire il sistema quanto vuoi, ma prova a passare davanti a una vetrina senza controllare istintivamente il tuo riflesso. La teoria è una cosa, il corpo condizionato da decenni è un’altra. Riconoscere la gabbia non significa esserne fuori.
Siamo cresciute imparando che esistere significa prima di tutto essere guardate, che camminare per strada è sempre una piccola performance, che entrare in una stanza comporta una frazione di secondo in cui veniamo scansionate e giudicate. Questo sguardo interiorizzato ci accompagna ovunque: condiziona come ci sediamo, come gesticoliamo, come scegliamo i vestiti al mattino. Influenza persino il nostro modo di occupare lo spazio – quanto rumore facciamo quando ridiamo, quanto posto prendiamo sui mezzi, se osiamo mangiare con appetito in pubblico.
Siamo archeologie viventi di condizionamento estetico. Strati su strati di comportamenti appresi che si sedimentano fino a sembrare istintivi. 
Il modo in cui succhiamo in dentro la pancia quando incontriamo una superficie riflettente. Come sistemiamo automaticamente i capelli prima di entrare in una riunione. La modalità migliore di truccarci per sembrare naturali. E lo sguardo, sempre indagatore, dentro lo specchio. A qualunque età.

In questo sistema di disciplinamento, i media tradizionali e i social media fungono non solo da vetrine di ideali irraggiungibili, ma da strumenti di normalizzazione che definiscono i parametri dell’accettabilità corporea.  Esiste ormai da anni un insidioso slittamento discorsivo: dalla rappresentazione oggettificante del corpo femminile si è passati alla promozione di una “soggettività imprenditoriale” che invita le donne a percepire il proprio corpo come un progetto perpetuo di auto-ottimizzazione. Questa retorica dell’empowerment maschera efficacemente relazioni di potere sotto il linguaggio della scelta individuale e dell’auto-miglioramento.

Questo sistema, però, pur se perfettamente oliato è attraversato da crepe sempre più profonde. Diverse modalità di resistenza individuale e collettiva hanno preso forma; movimenti body positive e fat acceptance hanno sfidato la stigmatizzazione dei corpi non conformi, mentre le comunità femministe hanno sviluppato pratiche di “bellezza sovversiva” che contestano deliberatamente le norme estetiche dominanti. Tuttavia, anche queste forme di resistenza rischiano di essere riassorbite dal sistema che intendono contestare. L’industria della bellezza ha dimostrato una straordinaria capacità di appropriarsi dei linguaggi della liberazione corporea, trasformando slogan come “ama il tuo corpo” in nuovi imperativi di consumo e auto-ottimizzazione. Provate a cercare “body positivity” su Instagram: troverete migliaia di influencer che vi spiegano come amarvi mentre vi vendono integratori, skincare routine e leggings.

La resistenza, quindi, non può limitarsi a riformulare l’estetica: deve smantellarne le fondamenta. 
Il primo passo verso una reale liberazione consiste nel riconoscere la natura politica di ciò che viene presentato come personale. Le “scelte estetiche” individuali avvengono all’interno di strutture sociali che premiano pesantemente la conformità e puniscono altrettanto severamente la devianza. Riconoscere che tali scelte sono fortemente condizionate non significa negare l’agency femminile, ma situarla all’interno di rapporti di potere che la influenzano profondamente. Serve un’alfabetizzazione critica che permetta di decodificare i messaggi impliciti, riconoscendo questi canoni come prodotti culturali arbitrari anziché verità universali.
E soprattutto serve riscoprire il corpo non come progetto da perfezionare, ma come soggetto vivente la cui dignità risiede precisamente nel suo essere imperfetto, mutevole, gloriosamente umano. 
Cosicché l’estate possa ritornare a essere solo una stagione, anziché un tribunale.

ARTICOLO n. 23 / 2025

“ADOLESCENCE”: ANATOMIA DEL RISENTIMENTO

Prima che la luce bluastra degli schermi rimodellasse i confini dell’adolescenza, esisteva già un abisso: quello dell’incomunicabilità tra generazioni. Adolescence parte da questa frattura primordiale per mostrarci come, nell’era digitale, tale abisso si sia trasformato in un baratro frattalico da cui risalire pare non essere un’opzione.

La serie di Thorne e Graham non racconta semplicemente una storia di radicalizzazione online; racconta il non detto, i silenzi che separano i figli dai genitori, gli studenti dagli insegnanti, i ragazzi dal sistema che dovrebbe proteggerli. Al centro di questo vuoto comunicativo si staglia la maschilità contemporanea, alla ricerca di una bussola tra modelli di riferimento in evoluzione e una difficoltà nell’articolare emozioni complesse.

Gli adulti di Adolescence parlano una lingua obsoleta, basata sulla presunzione di conoscere i propri figli, mentre i ragazzi abitano un universo parallelo fatto di codici, meme e teorie che trasformano l’incapacità emotiva in ideologia. In questo deserto comunicativo, le emozioni maschili – frustrazione, desiderio, insicurezza, rabbia – non trovano canali legittimi di espressione, ma vengono redirette verso l’unico spazio che sembra accoglierle: la “manosphere”, con le sue rassicuranti formule matematiche e le sue promesse di controllo in un mondo percepito come ostile.

Nel silenzio inquieto di una camera da letto, tra la carta da parati con gli astronauti e la Playstation, si consuma un moderno rituale iniziatico: l’introduzione alla manosphere. Adolescence cattura questo momento con la spietata continuità di un piano sequenza che non concede respiro. La narrazione, come l’obiettivo della telecamera, non distoglie mai lo sguardo da quello e dagli abissi collaterali che ne originano.

La storia di Jamie Miller, tredicenne al centro di un’indagine sulla morte della compagna Katie, si snoda come un nastro di Möbius nell’inferno domestico contemporaneo. Non sono tanto le circostanze del tragico evento a scuoterci, quanto la lucida quotidianità che lo avvolge: un ragazzo qualunque, una famiglia normale, e quell’80/20 che ossessivamente risuona nelle conversazioni online – il principio di Pareto, trasformato da legge economica a dogma relazionale nella liturgia della frustrazione online.

Quell’80% delle donne che, secondo il nuovo vangelo digitale, compete solo per il 20% degli uomini “alfa”, è più di una semplice distorsione statistica: è l’algoritmo del risentimento, la formula matematica del rancore. Jamie non l’ha inventata, l’ha semplicemente assorbita, goccia dopo goccia, scroll dopo scroll, fino a farne una lente attraverso cui decodificare l’universo femminile e le relazioni.

La seduzione di questa formula risiede nella sua apparente scientificità, nella sua capacità di trasformare l’indecifrabile complessità delle relazioni umane in un’equazione rassicurante. L’essere prevedibile fa stare al sicuro. Il principio di Pareto, nato per descrivere la distribuzione della ricchezza nell’Italia del XIX secolo, migra così dal territorio dell’economia a quello dell’identità, offrendo una narrazione seducente a chi cerca risposta all’antico enigma del rifiuto e dell’esclusione.

Ciò che la serie mappa con precisione clinica è il percorso di questa migrazione concettuale: come una teoria economica diventi antropologia, una statistica mutata in teologia. Nei forum che Jamie frequenta, l’80/20 non è oggetto di dibattito ma articolo di fede, non è mai ipotesi ma dogma. È la descrizione di una predestinazione.

La brillantezza della scrittura sta nel mostrare l’effetto cumulativo dell’esposizione a questo dogma. Jamie non è mai mostro, e non c’è volontà di dipingerlo così. È un convertito che manifesta la propria devozione. Le sue parole durante il colloquio con la psicologa non sono espressione di creatività malvagia, ma recitazione di un catechismo appreso, ripetuto, interiorizzato fino a diventare natura.

E come ogni algoritmo che si rispetti, anche quello del risentimento si autoalimenta. Ogni rifiuto, ogni sguardo distolto, ogni conversazione interrotta diventa non un’esperienza personale da elaborare, ma un dato che conferma la regola, un’ulteriore iterazione che rafforza il modello predittivo. L’80/20 diventa così una profezia che si autoavvera: chi lo interiorizza inizia a muoversi nel mondo con l’aspettativa del rifiuto, generando comportamenti che, paradossalmente, aumentano la probabilità di essere rifiutati.

La serie, nel suo implacabile piano sequenza, riflette l’inesorabilità di questa progressione: dalla curiosità all’ossessione, dall’ossessione alla rabbia, dalla rabbia al potenziale atto violento. Un movimento continuo, senza stacchi, senza pause, senza via d’uscita – e, in ultimo – senza redenzione.

Nel terzo episodio, l’incontro tra Jamie e la psicologa si trasforma in una devastante epifania: ciò che ascoltiamo non è la voce di un tredicenne, ma l’eco cacofonica di mille forum anonimi, l’incarnazione sanguigna di una comment section sotto a milioni di post sui social dai modi e toni che conosciamo fin troppo bene.

Ma è nel momento di vulnerabilità più acuta che il colloquio rivela una verità impossibile da ignorare. Quando Jamie, in un sussurro quasi inudibile, domanda alla psicologa: “Ma io ti piaccio?”, assistiamo alla perfetta cristallizzazione della paradossale dualità della manosphere: la coesistenza di impulsi distruttivi e un disperato bisogno di validazione. Questa domanda, apparentemente infantile, contiene l’intero dramma dell’adolescenza e della gioventù maschile: il desiderio di connessione autentica che, non trovando risposta, si trasforma in risentimento.

La risposta della psicologa, che rimane misurata e professionale per tutto il colloquio, viene percepita come un altro rifiuto, un’ulteriore conferma della teoria dell’80/20. L’incapacità di Jamie di distinguere tra una relazione terapeutica e una personale diventa specchio della confusione tra intimità e dominio che la manosphere promuove. In quel breve scambio, vediamo l’algoritmo del risentimento eseguire in tempo reale la sua implacabile routine: trasformare la vulnerabilità in aggressività, il bisogno in pretesa, il rifiuto in giustificazione.

Le sue parole – frammenti di teorie incel, brandelli di “pillole rosse”, l’ossessiva menzione della “debolezza” femminile – sono i reperti archeologici di un’identità costruita sui fondali oscuri del web, amplificata tra i pari. La psicologa non incontra il vero Jamie; incontra un collage vivente di Reddit, 4chan e forum incel, un palinsesto di rabbia collettiva.

Ciò che Adolescence cattura, con la precisione di un entomologo, è la metamorfosi di un linguaggio: come la grammatica dell’odio digitale si traduca in sintassi carnale, come l’astrazione matematica di un principio teorico diventi potenziale catalizzatore di violenza reale.

Jack Thorne, tessendo la sua narrazione, non ci offre la facile catarsi della comprensione. Non c’è un perché ultimo, nessuna eziologia consolatoria del male. C’è solo il processo, mappato con la fredda lucidità di chi sa che non basta denunciare l’algoritmo se non si comprende la vulnerabilità che lo alimenta.

Quando Jamie parla di Katie, riferendosi a lei come “debole” e ripetendo che “tutti la chiamavano sgualdrina”, non sta semplicemente riportando; sta applicando il lessico appreso, sta categorizzando secondo i parametri che ha imparato a memoria, l’esecuzione di un codice comportamentale scaricato dalla rete. La violenza verbale aleggia nell’aria con l’inquietante potenzialità di un teorema in attesa di dimostrazione.

La vera tragedia che si consuma sullo schermo non è tanto l’omicidio, quanto l’incomprensione abissale tra generazioni. I genitori di Jamie, come gli adulti che li circondano, contemplano con orrore l’alieno che hanno cresciuto, incapaci di decifrare il codice che ne ha riscritto l’identità, con un dolore che pretende di essere visto e si prende di diritto tutto il racconto dell’ultima puntata.

“Lo abbiamo creato noi”, si dispera la madre, ignara che la vera genesi è avvenuta altrove, in quell’utero digitale dove il 69% dei ragazzi britannici tra gli 11 e i 14 anni viene esposto a contenuti problematici che plasmano la loro visione del mondo.

L’impotenza degli adulti – genitori, insegnanti, persino la giustizia – diventa così il vero orrore della serie: non ci sono mostruosità o devianze, solo istituzioni obsolete di fronte a una mutazione antropologica che avviene in tempo reale, sotto i nostri occhi, oltre la nostra comprensione.

Le statistiche recitate con freddezza burocratica dall’Office for National Statistics – il raddoppio delle ragazze sotto i 16 anni uccise con coltelli in un solo anno – proiettano, alla luce di Adolescence, l’ombra inquietante di fenomeni che trascendono i casi isolati: un’onda silenziosa che si propaga dalle camerette agli spazi pubblici, dalle community virtuali alle relazioni reali.

Non è una coincidenza che la serie sia girata senza stacchi, in un flusso ininterrotto che mima l’inesorabilità dei processi, anche algoritmici. Questa scelta formale incarna la vera natura del pericolo: non c’è montaggio, non c’è postproduzione, non c’è la consolazione del taglio che separa la causa dall’effetto. C’è solo il continuum spietato di una trasformazione che, una volta avviata, procede inesorabile verso un orizzonte di possibilità sempre più oscure.

Ciò che Jamie assorbe online non rimane confinato allo schermo, ma infiltra la sua percezione del mondo, la sua interpretazione delle relazioni e dei suoi stessi sentimenti. La radicalizzazione digitale opera come un lento avvelenamento: impercettibile nelle sue fasi iniziali, devastante nei suoi effetti cumulativi. In questo amalgama sociale, le insicurezze adolescenziali si trasformano in rabbia codificata, l’inadeguatezza in risentimento strutturato, la vulnerabilità in ideologia difensiva. Un ciclo che si autoalimenta nell’economia della frustrazione, lasciando chi guarda a confrontarsi con l’inquietante domanda: fino a che punto può spingersi questa spirale quando nessuno interviene per spezzarla?

Adolescence non ci offre redenzione, né facili soluzioni. Ci lascia, invece, con una domanda che brucia come un marchio: cosa accade quando non ci occupiamo di qualcosa? Quando l’incomunicabilità di chi sei e cosa desideri diventa una cosmologia, un sistema di valori, una lente per interpretare e interagire con l’altro?

Gli spazi online non sono mere piattaforme virtuali; sono laboratori sociali dove si forgiano nuove concezioni dell’identità in un’epoca di atomizzazione e frammentazione comunitaria. In questo senso, le ideologie che vi proliferano non sono semplici distorsioni di realtà, ma risposte – per quanto disfunzionali – a vuoti istituzionali reali, a crisi di senso concrete e a bisogni emotivi insoddisfatti.

La storia di Jamie è lo specchio del tempo: non necessariamente la narrazione di un colpevole, ma il ritratto di un adolescente qualunque la cui identità viene plasmata nell’intersezione tra vulnerabilità individuale e fallimento collettivo.E l’ambiguità che la serie magistralmente mantiene ci costringe a chiederci: quanto delle nostre narrative sul “mostro” servano principalmente a distanziarci dal problema? Ma anche: e se l’incomunicabilità tra generazioni fosse essa stessa una forma di abbandono strutturale?

Adolescence non è semplicemente un’altra serie sulla violenza giovanile: è un bisturi che disseziona con precisione chirurgica un fenomeno sociale. E in un’epoca in cui questa dinamica si traduce in statistiche sempre più allarmanti – dal raddoppio degli omicidi di ragazze adolescenti all’ascesa di contenuti problematici online – indagarne le radici diventa qualcosa che ci riguarda, senza distinzioni.

La serie di Thorne e Graham rifiuta di patologizzare questo fenomeno, di relegarlo al territorio rassicurante dell’anomalia psichiatrica. Jamie non è un mostro emerso dal nulla, ma il prodotto di un’alchimia sociale ben precisa: l’incontro tra vulnerabilità e ideologia tossica, tra isolamento emotivo e comunità digitali che trasformano il disorientamento in dottrina. Una cartografia complessa le cui radici germogliano nel terreno dell’incapacità emotiva, in quel vuoto comunicativo che trasforma sentimenti legittimi – insicurezza, paura del rifiuto, desiderio di connessione – in risentimento codificato. I dogmi della manosphere diventano così una stampella concettuale, un modo per dare forma matematica a un dolore che non trova altre formule per esprimersi.

Ciò che distingue profondamente questa serie è che sono gli uomini stessi a guidare la conversazione. Thorne e Graham, insieme all’intero apparato creativo dietro Adolescence, assumono coraggiosamente la responsabilità di guardare negli abissi di questa dinamica sociale. Per troppo tempo, la responsabilità di affrontare la violenza e i suoi effetti è ricaduta sulle donne, un fardello paradossale che ha trasformato le survivor in educatrici forzate. Ecco perché abbiamo bisogno di più narrazioni come questa: la società offre agli adolescenti strumenti limitati per elaborare emozioni complesse e poi si stupisce quando questi cercano di lenire il dolore con ciò che viene loro offerto. Adolescence inverte questa logica, mostrandoci come la radicalizzazione non sia un mistero incomprensibile ma un processo tracciabile, un percorso fatto di micro-decisioni, di piccole abdicazioni, di semplificazioni seduttive.

Se continuiamo a trattare ogni episodio di violenza maschile come un evento isolato, come atti incomprensibili di persone altre da noi, finché continueremo a delegare l’educazione emotiva dei ragazzi agli algoritmi e ai forum anonimi, continueremo a perpetuare il mito dell’incomprensibilità, quando in realtà la violenza ha una genealogia che possiamo comprendere, tracciare e interrompere.