Elisa Fuksas

ARTICOLO n. 97 / 2025

GRATA (O INGRATA) ATTESA

Come fosse un calendario dell’avvento, una serie di contributi su cosa attendiamo, su cosa dobbiamo o speriamo di attendere. E anche su cosa significa attendere e l’attesa in sé. Da oggi fino al nuovo anno, L’attesa accompagnerà i lettori di The Italian Review.

Aspettiamo, praticamente, sempre. Che passi un giorno, che ne arrivi un altro, che venga quel tempo, che sprofondi quel sogno, che torni lei che chiami lui, che sia per sempre (anche se spaventa) che sia ancora (anche se non basta), e che non faccia questo caldo o questo freddo, che tu capisca chi sono o viceversa… l’attesa è la cassaforma di un momento che sfugge in avanti, e che però, anche se tardi, arriva. Almeno questa è la promessa che fa muovere il gioco che ci fa male, ma ci fa stare, ci fa esistere.

Avvento avvenire attesa aspettare aspettativa sono parole che condividono un’aria, un’atmosfera, e che mi fanno necessariamente pensare a quell’Avvento, tutto cristiano, che per qualche anno mi ha parlato davvero e poi ha apparentemente smesso quando i dubbi – fondamentali per chi crede – hanno indebolito e impolverato anche quell’ipotesi di salvezza (da me mai richiesta, ma inclusa nel credere) tutta terrena seppur ultraterrena, che mi pareva risolutiva (e illusoria) per riuscire ad accettare, con la fortuna di non riuscire mai a sconfiggere del tutto, il concetto di tutti i concetti, la questione di ogni questione: la (nostra) fine.

Il tempo. La morte, insomma. Che ha a che fare con noi, certo, con la nostra vita quindi – ecco già che si offusca la chiarezza e le parole si contraddicono da sole – ma anche con tutto quello che c’è intorno e dentro noi. I sentimenti, le concessioni, i diritti, gli affetti, umani e animali, terreni e non, le idee, gli oggetti le case i nostri desideri. Tutto è soggetto alle stesse leggi, tutto tranne una cosa, che è un principio opposto alla morte, che non è la vita – come sembrerebbe – ma è l’amore.

Una volta in chiesa ero in ginocchio (da ultima arrivata, rivendicavo un certo esibizionismo), era Natale, fissavo la culla con il bambino, finché non ho messo a fuoco lo sfondo, c’era un crocefisso con un grande Gesù sofferente: una traiettoria casuale ma esatta che investiva la nascita e la fine di quella storia che però non finisce… La prospettiva ci ha salvato la vita, e ci ha anche fregato, ci permette di vedere le cose nel tempo, quindi non si capisce il Natale senza la Pasqua eccetera… E allora quest’Avvento cos’è? Una specie di quaresima che dura meno e che come termine ha la nascita di un Dio che si fa uomo, per farci tutti Dio.

Ricordo l’emozione di certe Messe in quella chiesa che non saprei ritrovare, ben oltre Montesacro, quando Roma si trasforma e senza avviso diventa periferia.

C’era un prete giovane e supplente di uno vecchio e malato, parli sempre di preti, non hai altri argomenti? Chissà, forse no… Il prete quella domenica era sommerso dalla sua stessa omelia, che lo abitava come fosse una lettera d’amore, e ogni parola era così appassionata, così sentita, che ho desiderato – vergognandomi, certo – di ricevere una lettera simile e che qualcuno me la recitasse con la stessa energia. Perché non mi hanno mai scritto niente del genere?

«L’Avvento irrompe nelle nostre vite come lo spezzarsi di una catena, come un invito alla libertà vera». 

Si riferiva al cambio quantico che ha significato l’entrata di Dio nella Storia, con il suo farsi uomo, e non solo uomo, ma uomo libero. Che è tutta un’altra storia rispetto a quello che c’era prima. D’altronde il cristianesimo è stato una rivoluzione sociale fondata su un principio totalmente inedito allora (e forse ancora) che è l’amore. Un Dio appassionato all’uomo, diceva il prete, pronto a tutto per lui, «solo per questo la storia vale la pena, solo questo introduce una possibilità veramente nuova nelle nostre vite, solo questo veramente libera dal giogo del tempo così come lo concepisce il mondo: limitato frangente in cui arraffare più che si può con meno sforzo possibile! Il tempo di Avvento ci restituisce una dignità e una libertà infinite, perché ci reintroduce a vivere ciò che ogni fibra di noi profondamente desidera».

Continuava, mi commuovevo, avevo un uomo accanto che amavo, facevo confusione tra tutto quell’amore, non sapevo più a chi fosse davvero destinato, e da dove provenisse. Un bel miracolo.

«Perché Cristo venga nelle nostre vite non come un ricordo, una figurina», il presepe insomma – rappresentazione di una famiglia sui generis dove Giuseppe è padre di Gesù che però è il figlio di Dio… e la madre è una vergine, immacolata – «ma come un’energia vitale disarmante che passa in rassegna i nostri desideri e li rende essenziali e lieti, nell’attesa del suo ritorno in carne e ossa, il ritorno di quel Dio che si fa uomo e viene sulla terra per salvarci». Ma in fondo non succede ogni volta che ci innamoriamo, che usciamo dalla banalità di questo numero uno, ossessivo e claustrofobico?

Quest’attesa che è tanto poetica e malinconica, che abbiamo idealizzato e poi demonizzato, è però la dimensione della nostra quotidianità. E meno sappiamo vivere, più aspettiamo: di imparare a farlo. O di non doverlo fare più.

Non è sempre così chiaro quello che cerchiamo, la traiettoria di un pensiero, ma succede sempre con le cose eterne, che proprio per questo cambiano posto e forma, assicurandosi (e assicurandoci) la contemporaneità rispetto alla nostra vita. E questo lo fa il Mistero che deve attualizzare in continuazione la lingua che inventa per poter parlare ad ognuno di noi. E questo facciamo noi quando ci innamoriamo e ci sintonizziamo sull’esistenza di un altro, e senti tutto doppio (se sei fortunato) e senti il tuo e il suo, e diventa complessa la canzone ma ti piace che sia così. Non capisci più le parole, diventa una lingua inventata, fatta di grrrrrrr e suoni ideali, però la capisci e potresti parlarla per ore.

Ma che c’entra la nostra vita, piccola, quotidiana, comune, con il calendario liturgico? La cosa bella che permette la liturgia è passare dall’infinito al minuscolo, dall’altissimo al sotterraneo, con lievità, con una certa normalità, perché si parla di metafisica, di questioni eterne ma che devono precipitare giù nell’abisso magnifico della nostra esistenza. E quindi quest’Avvento, quest’attesa che non so come chiamare, ha a che fare con tutti noi, con quanto amiamo e desideriamo, e con quanto l’abbiamo fatto prima, anche se ora sembra che ci sia tempo solo per una nuova grata (o ingrata) attesa. Di avere un corpo, di non averlo più. Che io, che tu, capisca.

ARTICOLO n. 47 / 2022

PREGARE A ROMA

Mi piace entrare nei portoni aperti. Delle case, dei palazzi importanti e di quelli qualunque. 
Delle chiese, tantissimo.

Quello che sto per fare è costruire una mappa che però somiglia più alle carte dell’agopuntura, insomma una guida per trovare portoni aperti. Qualcuno che dall’altra parte, misteriosamente, potrà ascoltarti.

Pontificio Seminario Lombardo dei Santi Ambrogio e Carlo in Urbe

È il primo posto in cui sono finita a pregare con l’idea di pregare, da adulta. Dove ho sondato la mia insondabile ignoranza religiosa e storica, e dove ho imparato gli assi fondamentali della fede. Sempre qui, in questo edificio anni ’60 non particolarmente bello ma con una bellissima terrazza su Santa Maria Maggiore, ho fatto amicizia con uno tra i miei più cari amici che è Elia, un giovane prete, che vive lì.

In effetti il seminario è anche collegio, con tanto di reception e receptionist. Una porta a vetri si apre ogni volta che passa qualcuno troppo vicino. Il sensore è troppo sensibile. Il receptionist ormai mi conosce, e ogni volta: Don Elia, vero? Annuisco, sorrido. Quindi telefona, o forse in realtà usa una specie di grosso interfono, e lo avvisa che sono arrivata. C’è Elisa qui sotto. Scende subito.

La cosa più bella che ho fatto qui dentro è partecipare a una messa delle ceneri, tra l’altro è successo proprio quest’anno. Era il due marzo. Non è un luogo pubblico, nel senso che se non ti invitano non ci capiti, ma partecipare a una messa dove ci sono solo preti è una cosa grandiosa e credo che tutti, credenti e non, una volta nella vita dovrebbero sperimentarla. L’aula è semplice, cemento e fiori, panche chiare e vetrate essenziali. Una sala piccola, niente di esagerato. I presenti, preti appunto, sono vestiti in bianco, in lungo, concentrati, tra un canto e una preghiera. 

Al momento della comunione non hanno bisogno di nessuno, prendono l’ostia da soli, sono preti d’altronde. Io di solito mi siedo in fondo, per scelta. Anche quest’ultima volta ho preferito stare verso l’uscita. Ora che ci penso c’erano altre tre donne, suore, vestite in blu elettrico, indiane, che ho incontrato di fronte all’altare brutalista in attesa dell’ostia. Loro, come me, hanno bisogno di un uomo per prenderla.

Santa Maria Maggiore

È una grande basilica, misteriosa e insieme una specie di supermarket della fede. Tanto turismo, tanti confessionali con la luce accesa o spenta a seconda se il prete è occupato o libero, i militari alla porta, i controlli e i metal detector. 

Qui mi sono confessata per la prima volta e qui ho litigato con un prete troppo dogmatico e ideologico. Era vecchio e sudamericano e mi ha chiesto se mi pareva una cosa bella andare a messa il giovedì invece della domenica. Per me è stato un incontro brutale. Ero abituata a parlare con uomini di chiesa liberi e grandiosi, che ad ascoltarli mi facevano sentire prigioniera di pregiudizi e moralista.

Quel prete è stata la prima eccezione. D’altronde come dicono gli stessi religiosi: sono pur sempre solo uomini, la chiesa non è composta da un esercito di santi.

Ho interrotto la confessione bruscamente e sono andata fuori, alla luce.

Santa Maria in Campitelli

Nel 2020 in pieno lockdown è stata la chiesa dove andavo a cercare di pregare, e concentrarmi sul futuro, in un momento in cui mi pareva non ci fosse più.

La chiesa in realtà era chiusa, come quasi tutto, però tenevano aperto il portone che a sua volta si apre su un ingresso in vetro e legno – da sempre però, non per il periodo del Covid – da cui puoi guardare dentro. La prima volta ho provato ad aprire la porta ma era bloccata, poi quando è stato possibile tornare dentro non ne avevo più voglia. Mi piaceva la distanza. Mi piaceva stare fuori e guardare come fossi a una finestra inversa.

Le luci erano accese, le candele brillavano e l’immagine lontana della Madonna dietro l’altare che protegge la città durante le calamità. È una tavoletta, non so come definirla in modo più preciso, piccola, una trentina di centimetri di altezza, con la Vergine che tiene il bambino in braccio e segna la via (Oditrigia). D’oro su fondo blu, una quercia con rami sinuosi, insomma bellissima. Ti viene voglia di trovare riparo in lei.

Il Circo Massimo

Da un paio di mesi mi capita di portare il cane a correre – correre si fa per dire, è alto venti centimetri e va subito in affanno –. Tra coppie di altri proprietari di cani, donne alle prese con la camminata con le racchette, ragazzini eccetera eccetera, insomma, oltre agli abitanti normali e prevedibili di una domenica mattina romana ho incontrato un gruppo religioso.

Il gruppo è eterogeneo, cantano suonano e parlano. C’è un prete, vestito da cerimonia, con stola e tunica. Uno stendardo indecifrabile (per me). E una croce. 

Qualche settimana fa mi sono fermata nei paraggi del gruppo per provare ad ascoltare, abusivamente, quella strana liturgia. C’era una signora sui settanta che raccontava di quando lei era vittima del diavolo e metteva la minigonna. Per fortuna lo diceva ridendo.

San Carlo ai Catinari

San Carlo ai Catinari che poi si chiama Santi Biagio e Carlo ai Catinari. Non so più da quanti anni è chiusa al pubblico. L’ultima volta che ci sono entrata è stata con il mio ex-fidanzato, una vita fa, dopo che fuori la porta della chiesa avevo visto una ragazza morta stesa a terra. Molto giovane, sovrappeso, un infarto mentre correva. Una morta tra i vivi, tremendo, immorale, atroce. 

Quando la chiesa è stata chiusa perché è crollato o forse rischiava di crollare il tetto, certe celebrazioni essenziali sono finite nell’edificio accanto. Doveva essere una soluzione provvisoria ma vabbè si sa come vanno le cose. La mattina c’è un signore molto magro che butta l’acqua sugli scalini di questo palazzo severo attaccato alla chiesa che finalmente è da qualche mese in ristrutturazione.

A volte ho visto un signore con baffi e barba e occhiali affacciarsi, chissà forse è un prete o forse un custode. Sono entrata più volte, soprattutto la sera. Un corridoio imponente e alto, una scala sulla sinistra e un altro corridoio sulla destra. Lì si apre una stanza che è diventata la chiesa provvisoria.

Non ho mai ascoltato una messa, ma ho visto dei ragazzi riunirsi la sera, all’ora dell’aperitivo, belli, giovani e beati come la giovinezza e la sua grazia a cantare con chitarre pezzi a me sconosciuti. Avevano l’aria felice, ho faticato a non invidiarli. 

San Pietro, certo, ma solo per i rave

Non c’è cuore più cuore del mondo cattolico, giusto? Ma qui vado solo per le grandi occasioni, ovvero i rave del cristianesimo come li chiamava un mio ex. Oppure per tradizione, alle 12, per l’Angelus della domenica. Mi piace vedere il papa minuscolo che si affaccia. Mi piacciono le persone accalcate come a un concerto, la tensione dell’attesa, e quando è la Domenica delle Palme e il papa si aggira in macchinetta nella piazza, è bellissimo osservare i presenti, il pubblico, assatanati di immagini, di video, che cercano di riprendere Bergoglio.

I cellulari diventano una specie di campo di girasoli che si orienta secondo il percorso del papa. È vitale. 

Poi ci sono i rami di ulivo e le palme intrecciate ed è bello tornare verso casa con queste piante benedette che ci ricordano quanto i destini del mondo e dell’uomo sono sempre pronti a essere capovolti. 

Pellegrinaggio del Divino Amore

Per caso, una notte, stavo all’altezza delle Terme di Caracalla tornando a casa e vedo una processione di persone con stendardo, croce luminosa rossa e megafono che si muoveva barcollante verso l’Appia Antica. 

Poco dopo, sempre per caso, una mia amica mi dice che la sua baby-sitter va tutti i sabato sera a fare il cammino del Divino Amore, e che dovrei andare con lei, mezzo sfottendo. Perché è più forte della volontà e dell’intelligenza dei miei amici prendere sul serio il fatto che io possa essere diversa da loro e pur non essendo andata in comunità abbia deciso di battezzarmi un paio di anni fa e quindi credere in Dio.

È un percorso assurdo e bellissimo, parte al Circo Massimo e arriva al Divino Amore. Il centro della città, poi l’Appia Antica, la bellezza delle ville del selciato romano delle mura e la porta San Sebastiano e giù per la strada verso le Fosse Ardeatine, stazione dopo stazione, preghiera dopo preghiera, finché la città arretra e scompare si riprende e diventa un’altra, tra camion e pini e nuvole basse e gonfie. Una periferia strana, compatta e sfilata, lavori in corso che eternamente si spostano, reti e griglie e buche sull’asfalto.

Canti in moldavo, italiano, e altre lingue. Chi oscilla, chi approfitta del prete che si perde nel corteo più o meno consistente, che è lì per confessare, per dare aiuto e ascolto; ma a volte anche lui cede e controlla il telefono. Una seconda torcia, oltre la croce al led.

Poi però quando arrivi al santuario del Divino Amore sembra di arrivare in un sogno d’infanzia: un’enorme lanterna gialla e blu, accesa, che ti aspetta. Quindici chilometri, mi pare, di cammino, di notte, fino all’alba.

C’è chi giunge stremato – i più devoti fanno il cammino scalzi – chi felice, soddisfatto, chi fa finalmente colazione prima ancora della comunione.

Cimitero del Verano

La casa di quello che c’è dopo la vita, ovvero la morte. A San Lorenzo, dove c’è di tutto: università e universitari, ospedali, catacombe e basilica, artisti fotografi e romani da sempre, dalla fondazione della città. È stato costruito, ampliato, bombardato, ricostruito, ri-ampliato e ora che è al completo, monumentale, ospita migliaia di ex-vivi.Trovare tutte queste porte aperte è difficile, come pure credere è difficile. E molto. Potrebbe apparire una soluzione conveniente ma la fede rende le cose ancora più complicate. È un’azione piena di dubbi e insidie, che cerca conforto e conferma e altri dubbi; a volte niente sembra bastare, a volte invece basta incontrare una madonnina incastrata nell’angolo di una strada, insomma basta incontrare una testimonianza di tracciati invisibili, privati, che diventano riferimenti collettivi, per ricordarmi gli assi cartesiani del segno della croce proiettati sul mio petto ogni volta che mi sento, di nuovo, parte di quel popolo. Di quel mondo. Di una storia e di una città.